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La Scala di Giacobbe

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Publié dans:immagini sacre |on 31 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE NELLA TRADIZIONE ORIENTALE

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LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE NELLA TRADIZIONE ORIENTALE

La Chiesa d’Oriente si è legata in modo del tutto particolare a questo tema mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore – vita illuminativa – dell’esperienza mistica.

Tradizione liturgica
La seconda settimana della Grande Quaresima porta il titolo, appunto, di settimana della Luce e, in consonanza con questo nome, la Chiesa prega il Signore di “far risplendere la santificazione”. Così il tempo di quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all’iniziazione:
E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1Pt 1,12).
Ma, come recita un’antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli “colti dal più profondo stupore si velano il volto”.
Nel corso della liturgia si ascolta l’invocazione del celebrante: “fa’ risplendere il tuo volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito”. Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: “sacramento dell’illuminazione” e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di “illuminati”.
Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore (Ef 5, 8).
Nel Battesimo l’uomo si fa adottare dal Padre, il Figlio prende il posto dell’uomo affinché l’uomo prenda il posto del Figlio e così venga illuminato, introdotto cioè nella Luce della comunione del Padre e del Figlio, veramente “figlio della luce”. Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al “trionfo dell’ortodossia”, la seconda – detta della Luce – non fa che esplicitare l’essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas[1]. Il Sinassario lo indica come “il luminoso dottore della Grande Luce”.

La dottrina di san Gregorio Palamas
Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1, 4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di “partecipi della Luce divina”. È uno dei testi più paradossali contenuti nelle Scritture che , quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piomba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gregorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare:
La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà.
Il criterio non è logico ma il frutto dell’evidenza che sgorga dal testo biblico colto nel contesto dell’esperienza ecclesiale:
Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l’altra; quanto al fatto che le affermazioni si contraddicano questo è il sentire di uomini completamente privi di intelligenza.
Difatti tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l’essenza divina è radicalmente inaccessibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l’Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi ad una potenza creata da Dio (anche quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso.
La questione non è per nulla astratta e sta invece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l’uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L’Ortodossia afferma la semplicità assoluta di Dio – all’interno della vita stessa di Dio non c’è alcuna separazione o divisione – ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e “la differenza dei modi d’esistenza” in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell’essenza divina ma, al contempo, non sono separate da essa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all’uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapienza, Gloria, Vita… Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell’Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma “energetica”. Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23) non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo ma si tratta delle Tre Persone che attraverso le energie si fanno presenti nell’uomo.
Queste precisazioni offerte dal “dottore luminoso” chiariscono il frutto infinitamente prezioso dell’Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l’uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costituisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l’Ortodossia, al punto più alto della sua teologia, definisce come “théosis/divinizzazione” e, in termini mistici, indica come “illuminazione”: Dio discende apparendo nell’interiorità dell’uomo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce.

L’insegnamento patristico
L’insegnamento liturgico e patristico sin dagli inizi mette in rilievo il fatto che la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice contemplazione ma alla vita. Qui “la ragione non trova né parole né pensieri” (san Gregorio) e resta racchiusa nell’indicibile. In merito san Gregorio, commentando il testo di Platone secondo cui “lo stupore è l’inizio della sapienza”, indica il solo atteggiamento corretto: “sperimentando la luce dentro di sé, l’intelligenza rimane stupita”.
Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l’uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. Questo stato non è per nulla un’esaltazione repentina e passeggera e, pur essendo inesprimibile in quanto esperienza, rimane comunque uno stato di partecipazione abituale: “la semplicità primitiva della conoscenza cristiana” (san Serafino[2]) al di sopra di ogni forma e di ogni concetto. La luce si erge come principio stesso dell’esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l’organo della comunione e la sostanza della comunione.
Per opera della luce l’uno comincia ad esistere per l’altro, o ancora come dice san Simeone, essa è “il pane, la camera nuziale, lo sposo, l’amico, il fratello, il padre”. Apparentata alle operazioni dello Spirito Santo, la luce è la venuta della parusia nell’anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le “seconde luci” (phosphoros-Lucifer) poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, “gli apostoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti” (san Gregorio). La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è “seconda luce” perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è “simili” e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non della trasfigurazione del Signore ma degli apostoli: “Attraverso la trasmutazione dei loro sensi, gli apostoli passano dal regime della carne a quello dello Spirito” (san Gregorio) e, per questo, contemplano la luce eterna della divinità senza il velo della kenosis. L’illuminato è colui che “è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia” (san Gregorio).
Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a coprire con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola – Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5, 16) – non è per nulla allegorico:
Dio è luce e quanti sono resi da lui degni di vederlo, lo vedono come Luce; coloro che lo hanno ricevuto, lo hanno ricevuto come Luce… che illumina… e trasforma in luce coloro che illumina (san Simeone).
La preghiera di Prima dice così:
O Cristo, Luce vera, che illumina e santifica ogni uomo che viene nel mondo: la luce del Tuo volto risplenda su di noi perché nella sua luce possiamo vedere la Luce inaccessibile.
La Théotokos liturgicamente porta il nome di “Madre della Luce”, e l’Apocalisse ci fa contemplare l’immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3, 7).
Se l’ateismo non è altro che sordità spirituale esso allora è anche oscurantismo ostinato per cui si comprende come non è solo una metafora il modo di dire: “l’immagine di Dio si è oscurata nell’uomo”. L’immagine velata, l’icona annerita rappresenta l’eclisse della presenza di Dio e l’allentamento dei legami della comunione con lui. Questo è l’aspetto più toccante nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. Queste vergini sono in attesa della Storia e tengono in mano le lampade “ardenti di luce”. Il commento liturgico della parabola sottolinea che non si tratta della verginità: infatti alle stolte la verginità non serve a nulla. San Giovanni Crisostomo fa notare il gioco significativo della parola greca eleos: olio, ma anche carità. Un’antica icona segue questa tradizione raffigurando le vergini che portano tra le mani il loro cuore: la luce è quindi quella della comunione. Solo la luminosità dell’essere umano, la sua apertura alla comunione è capace di forzare la porta del Banchetto e spiega il senso evangelico della violenza che esige la ricerca del Regno di Dio. Solo la luce conquista la Luce e ciò avviene in modo reciproco come dice il grande asceta San Diadoco: “il fuoco della grazia penetra nel cuore e lo trasforma in luce”.
Da parte sua, san Giovanni Crisostomo, commentando le parole del Cantico dei cantici:
Forte come la morte è l’amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8, 6),
afferma questa verità assai sconvolgente secondo cui Dio è presente nella stessa sostanza delle cose. Si tratta dello stesso gioco reciproco delle luci. In effetti, ogni amore umano sembra essere una risposta sempre inadeguata alla chiamata di Dio. Una capacità di presenza permette comunque di rimanere nel raggio della chiamata: essere attento, infatti, dipende dall’uomo. Pur essendo un essere senza più risorse, povero e nudo, nondimeno ha sempre qualcosa da dare. Questo perché l’Altro divino è implicato nella situazione dell’uomo. Cosicché, se l’atto emana dall’uomo, la sua fonte è ben più profonda. Il dono della vita che viene da Dio diventa dono di sé attraverso un’esistenza donata agli altri. La presenza di Dio in quanto “terzo” presente in ogni comunione fa scattare il movimento verso questo dono e, alla fine, vi è lo scoccare della luce, con la venuta dell’amato.

L’ascensione dei santi
Presso i mistici l’elevazione dell’anima è indicata dall’acquietarsi di ogni movimento, persino la preghiera cessa e l’anima si ritrova a pregare “al di fuori della preghiera”. Si tratta del grande silenzio che si crea nel momento in cui la luce scende nel cuore facendone la sua dimora: è 1’illuminazione interiore che è il frutto dell’approfondimento ultimo della grazia battesimale nella sua forma di grande luce apparsa presso il Giordano. L’antica tradizione della preghiera continua fa parte della stessa esperienza. Il nome di Gesù risuona incessantemente nell’anima e l’energia della presenza che, attraverso l’invocazione del nome si radica e si trasfonde nella persona che prega, tutto l’essere umano non fa che essere trasformato in questa presenza. L’“esicasmo”[3] viene definito quale metodo di silenzio e di interiorizzazione e si presenta come arte e scienza della luce. I “perfetti” attingono da questo insegnamento e “vengono istruiti nelle realtà divine non solo attraverso la parola ma – misteriosamente – attraverso la luce della parola”. Si tratta dello stato carismatico vissuto sotto il segno delle Spirito Santo che viene chiamato “portatore della Luce” e ancora “donatore della Luce”. San Macario precisa: “La luce è illuminazione attraverso la potenza dello Spirito Santo”. L’azione pneumatica si esprime sempre in termini di luce. San Gregorio Palamas aggiunge che tra le diverse forme di manifestazione dell’energia divina – che è una sola e raccoglie l’azione delle Tre Persone – indubbiamente quella della luce è centrale.
Ma la regola ascetica combatte fortissimamente contro ogni tentazione di visione ottica. La luce può materializzarsi, ma l’essenziale non è in questo, ma altrove e la sua visibilità non è che una fenomenologia possibile. Essere nella luce, infatti, significa essere in comunione e vedere dal di dentro le icone degli esseri e delle cose. L’ascetica pone una costante attenzione alla purezza di cui parla il Vangelo di san Matteo:
La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Mt 6, 22).
Svuotarsi della propria oscurità per farsi inondare dalla luce è la grandiosa lotta che si persegue per tutta la durata della vita e che prepara l’inabitazione di Dio. In questo cammino il pane amaro di ogni istante è la morte dell’uomo vecchio che è in noi. Vista dal basso della vita quotidiana si tratta di una tensione mai allentata, mentre, dal punto di vista dell’alto, è proprio la luce della Presenza.
L’occhio, quale lucerna del corpo, scopre la Comunione dei santi nel peccato; l’anima attraversa il Calvario e si eleva a quest’altra visione che la rende nuda di ogni giudizio: “Stendi sul peccato del tuo fratello il manto del tuo amore”; “la purezza del cuore consiste nell’amore verso i fratelli che cadono”. La comunione si amplifica! È come se l’uomo “cadesse in alto” per raggiungere così il livello del cuore divino. L’anima è sempre più avvolta dalla Presenza. Nella cella segreta dell’uomo interiore risuona la voce: “Sei diventata bella avvicinandoti alla mia Luce”. Nel cammino di santità si tratta di ben altra cosa che raccogliere informazioni su Dio: “La scienza diventa Luce”. Ecco un testo sublime di san Simeone:
Spesso vedevo la Luce. Talvolta mi appariva nella mia stessa interiorità… o meglio non mi appariva che da lontano… Così Tu, Invisibile… presente in ogni cosa, Tu scomparivi e Tu mi apparivi di giorno e di notte. Lentamente tu dissipavi la tenebra che era dentro di me… Infine, avendomi fatto quello che Tu volevi, Tu ti rivelasti alla mia anima ormai lustra, venendo a me, ancora invisibile. E improvvisamente Tu apparisti come un Sole. Oh, ineffabile condiscendenza divina.
L’anima trasformata in colomba di luce sale continuamente e ogni acquisizione non è che un punto di partenza, grazia su grazia. Il tempo sprofonda nell’eternità quando Dio viene nell’anima e l’anima emigra in Dio. Nel celebre dialogo di san Serafino di Sarov con Motovilov, abbiamo l’esatta descrizione di questa esperienza. Interrogato su quello che è lo stato di coloro che vivono nello Spirito, san Serafino così risponde al suo interlocutore:
– Amico di Dio, siamo entrambi nella pienezza, dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?
– Non posso, Padre. Dei lampi brillano nei suoi occhi, il suo volto è diventato più luminoso del sole. Mi fanno male gli occhi.
– Non avere paura, amico di Dio; anche tu sei diventato luminoso come me. Anche tu adesso sei nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avresti potuto vedermi.
– A queste parole alzai gli occhi sul suo volto ed una paura ancora più forte si impadronì di me. Provate ad immaginarvi un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno. Riuscite a vedere le labbra che si muovono e l’espressione del volto che cambia: riuscite a sentire il suono della sua voce, avvertire le sue mani che vi stringono le spalle, ma nello stesso tempo non potete scorgere né le sue mani né il suo corpo né il vostro: nient’altro che luce sfolgorante che si diffonde all’intorno, a diversi metri di distanza, rischiarando la neve che copriva il prato e che continuava a cadere su di me e sullo staretz…[4]
In questi termini una persona santa ci mostra in una maniera che si potrebbe definire empirica il Sole, inaccessibile ma così prossimo, dell’Amore Dio e ce lo fa contemplare in mezzo ai suoi raggi che lo circondano e che sono i giusti e i santi.

Di questo amore Dante, nel suo Paradiso, racconta:

Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto lume parermi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza;
e l’uno dall’altro come iri da iri
parea reflesso,
Non era altri che

L’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Tratto da: P. EVDOKIMOV, Il roveto che arde, Milano 2007, 56-69.

[1] Per approfondire vedi: J. Meyendorff, San Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Milano 1997.
[2] Per approfondire vedi: I. Gorainoff (edd), Serafino di Sarov, Vita, colloquio con Motovilov, insegnamenti spirituali, Milano 2002.
[3] Per approfondire vedi: J.Y. Leloup, L’esicasmo, Che cos’è, come lo si vive, Milano 1992; e A. e R. Goettmann, Preghiera di Gesù, preghiera del cuore, di Milano 1998.
[4] I. Gorainoff, Serafino di Sarov, op. cit., p. 177.

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IL SOGNO DI GIACOBBE (GEN 28,10-22)

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IL SOGNO DI GIACOBBE (GEN 28,10-22)

Gli aspetti peculiari della pericope: un’esposizione sintetica di alcuni elementi che la caratterizzano.

A partire dalla struttura, si pone in evidenza la traccia di riscritture all’interno del testo: diversità di nomi divini, passaggio da una visione di angeli a un’apparizione del Signore, (vv. 12-13), contraddizione tra il voto di Giacobbe (vv. 20-22) e la promessa di Dio (vv. 13-15), che egli sembra ignorare o rimettere in discussione. Queste riletture sono una testimonianza di quanto la tradizione di Giacobbe a Betel sia stata importante nella memoria d’Israele. Il racconto utilizza una figura retorica, il chiasmo, che consiste nel collocare, in parallelismo simmetrico attorno a un centro, dei termini (o dei motivi) che si corrispondono dall’inizio alla fine: essi sono il luogo, la pietra, il sogno. La struttura del brano, che ha, dunque, una sua logica interna, rilevabile da una chiara costruzione stilistica e metodologica, potrebbe essere ben definita all’interno di un triplice quadro: una cornice narrativa esterna (vv. 11a + 19a) che contiene la totalità di un racconto che appare come un’unità letteraria autonoma e accuratamente organizzata; inoltre, contiene l’indicazione di un «luogo», ma tutta l’attenzione è orientata precisamente «sopra questo luogo» che, interamente indeterminato all’inizio, trova il suo senso e la sua identità man mano che avanza la narrazione; un secondo quadro (vv. 11b + 18), comprende i dati cronologici del racconto e le azioni proprie di ciascuno dei due momenti in cui è suddivisa la scena: al tramonto del sole, le disposizioni precise per passare la notte; al mattino, il risveglio e i gesti rituali richiesti dall’esperienza onirica. È da notare il parallelismo delle espressioni distribuite nelle tre frasi che descrivono l’attività di Giacobbe: le tre azioni profane della sera (wayyiqqah?, “prese” – wayyasem, “mise” – wayyiškab, “distese”; sono tre forme verbali di coniugazione qal, modo wci, persona 3ms) sono parallele ai tre gesti rituali del mattino (wayyiqqah?, “prese”- wayyasem, “mise” – wayyis?oq, “versò”). Questa ripresa degli stessi termini, per descrivere delle attività differenti, è un’inversione significativa intervenuta secondo una chiara finalità, quella di segnare il passaggio dal mondo profano al mondo sacro; terzo quadro di riferimento (vv. 12-13a + 16-17) è quello dell’avvenimento centrale del racconto: il sogno e la presa di coscienza. Il sogno è descritto nella forma classica delle visioni oniriche in cui, dopo la formula di introduzione (wayyah?alom), ogni immagine della visione è introdotta da «wehinneh» ed esposta in una frase nominale. Abbiamo qui (secondo Fokkelman) una forma semplice costituita da tre quadri successivi e autonomi, il cui procedimento stilistico presenta il narratore che si mette al posto del sognatore; in questo modo si sopprime la distanza, tra l’avvenimento e la sua narrazione, rendendo l’ascoltatore partecipe all’esperienza descritta in questa forma letteraria. È da sottolineare il carattere atipico del racconto del sogno che comincia come sogno allegorico, senza poi esserlo fino in fondo perché manca l’interpretazione che ne segue obbligatoriamente, e prosegue come sogno a messaggio. Un altro aspetto rilevante (dell’avvenimento centrale del racconto è quello messo in evidenza da Manuel Oliva) riguarda la successione dei tre quadri della visione onirica, cioè la scalinata, i messaggeri, Dio stesso: le proposizioni sono sempre più corte e concentrate, mentre cresce l’importanza dei soggetti che dalla visione iniziale della scalinata raggiunge il suo culmine nella visione di Jhwh. Successivamente, le parole di Giacobbe riprendono, in senso inverso, lo stesso climax in un ordine decrescente di importanza, attraverso delle proposizioni la cui lunghezza, anch’essa decrescente, sembra seguire la gradazione delle emozioni provocate per ogni immagine: in primo luogo, la visione di Jhwh che lascia nel sognatore l’impressione più forte, poi la “casa di Dio” e, infine, la “porta dei cieli”. Questo triplice quadro è organizzato attorno ad un asse che separa l’insieme di due parti simmetriche. L’articolazione del testo interviene, precisamente, al passaggio tra il sogno e lo stato vigile, equilibrando così il racconto tra un «prima» e un «dopo» di questo asse.
Per quanto riguarda l’analisi semantica si rilevano alcuni tratti caratteristici degli elementi presenti nella struttura letteraria del testo: la parola maqôm è quella che pesa di più nel bilancio statistico dell’insieme del brano (6 volte). Il primo punto di rilievo si riferisce al fatto che quel posto (dove Giacobbe passa la notte) viene nominato “il Luogo”, senza alcuna introduzione, come se si trattasse di un luogo di culto ben noto (“ereditato” dai cananei; anche Abramo era accampato a est di Betel, dove aveva costruito un altare per Jhwh: Gen 12,8; 13,3-4). Tra l’altro si può tracciare un parallelismo con meqômôt dei quali la tradizione si interessa, perché legati a un particolare incontro con Dio: in particolare, Gs 5,15 (hammaqôm ’ašer ’attâ ‘omed ‘alajw qodeš hû’; «questo luogo dove stai è santo») ed Es 3,5 (con un predicato ampliato: ’admat qodeš hû’; «… è suolo santo»; cf. Zc 2,16) stanno alla vigilia dell’uscita dall’Egitto e dell’ingresso in Canaan e si pongono quindi nell’orizzonte della terra promessa e di Gerico come sfondo (cf. Es 3,8; Gs 6,1ss): in quello spicchio di terra sono dichiarate e comunicate, tipologicamente e pareneticamente, la santità di Dio e la santità del paese. La consapevolezza che Giacobbe acquisisce nell’esperienza notturna è strettamente correlata a «questo maqôm» e in esso concentrata (cf. v. 16 trad. J e v. 17 trad. E); egli esprime in parole le stesse sensazioni e la medesima confessione che Mosè e Giosuè esprimono con il loro comportamento (cf. Es 3,5.6b; Gs 5,15): rincresciuta ammissione d’ignoranza, timore, riconoscimento della presenza di Jhwh. Gli atti successivi inscrivono durevolmente nel maqôm evento, conoscenza e riconoscimento, dedicandolo (anche) a Jhwh. Anche la tradizione successiva si interessa principalmente del luogo: per esempio, in Gen 35,1.3.7 il maqôm viene fornito di un altare edificato per adeguarsi ad altre scene della storia dei patriarchi; in Gen 35,13, dopo aver parlato, Jhwh lascia il maqôm (cf. Gen 17,22). I nomi sacri (eziologici) che vengono dati, con una formula tipica, ai luoghi scena di teofanie, che questi luoghi fossero o no già centri di culto nella tradizione precedente, segnano la storia di Israele nel paese in quanto, con questo strumento onomastico, Israele si impossessa concretamente e teologicamente del paese stesso. Siffatti «luoghi» sono «memoriali», monumenta, come mostrano soprattutto le più tarde imitazioni letterarie della prassi (cf. Gen 22,14; Gdc 18,12; 2Sam 6,8; 1Cr 13,11). In merito alla collocazione geografica di Betel-Luz, riportata dal redattore in Gen 28,19b, essa è ripetuta anche in altri passi biblici (cf. Gen 35,6; 48,31); sembra che Luz (= Mandorlo) indicasse una località distinta da Bêt-’El (cf. Gs 16,2; 18,13), forse la città fortificata, mentre Bêt-’El ne era il santuario che si trovava su una collina isolata, distante circa 700 metri da Luz che, proprio a causa della sua vicinanza con il santuario, cambiò il suo nome con quello. Betel non è sempre e soltanto un toponimo ma, talvolta, è il nome di una divinità con un suo culto, conosciuto anche all’epoca pre-israelitica. Il nome si riferisce al Dio cananeo Bêt’ili (chiamato da Filone di Biblos ßa?t???? e dai classici latini Baetulus), un Dio venerato da tutti i Semiti e dal popolino ebraico fino al periodo di Elefantina; Betel, come elemento teoforico, è supportato da alcuni nomi divini, bit-ili-sezib e bit-ili-sar-usur, provenienti dall’ambiente babilonese, e da altri attestati a Elefantina, come Betel-natan, Betel-nuri, Anat-betel. Un papiro completo, con quindici righe scritte in aramaico, ritrovato nel 1945 a Tuna el-Gebel (Hermopili occidentale) insieme ad altre sette lettere aramaiche, presenta una testimonianza che fa luce sull’ambiente religioso egizio, in cui i Giudei vivevano durante il dominio persiano sopra l’Egitto. Il papiro IV nomina, fra l’altro, la «regina del cielo», che era già venerata dagli Ebrei nel VII sec. a.C. a Gerusalemme e, successivamente, nel delta del Nilo a Menfi e nell’Alto Egitto; cf. Ger 7,18; 44,17-19.25. Il testo del papiro esordisce con la frase: «Salute al tempio di Bethel e al tempio della regina del cielo!». Poiché la lettera è stata spedita ad Assuan, il tempio doveva trovarsi in tale città. Il dio Bethel è testimoniato in un trattato (del 676 a.C. circa) di Asarhaddon con il re Baal di Tiro. Originariamente si trattava di una meteorite deificata, che forse veniva venerata a Sidone. I coloni giudei di Elefantina e Assuan erano legati al dio Bethel perché abitavano nella zona di un suo santuario.
Un altro aspetto interessante riguarda la pietra che da capezzale viene innalzata in stele sacra. In Gen 28,18, appare evidente l’intenzione del racconto di voler spiegare la natura di questa pietra di Betel: il fatto che la pietra stessa venga chiamata «casa di Dio» (bêt-’el) indica l’antico stadio del culto di una pietra, per il quale essa era la sede di un essere divino, di una potenza divina. È, però, necessario fare una distinzione fra le due cose: il brano di Gen 28,10-22 non appartiene al contesto del culto di una pietra, ma vi si può trovare solo un vago ricordo di esso, in quanto la mas?s?ebah “rappresenta” la divinità con la sua potenza, qui significata dall’olio versato sulla sua sommità (rito unico nella Bibbia). Inoltre, l’annotazione conclusiva (cf. v. 18) che Giacobbe versò olio (simbolo di fecondità del suolo che, versato, fa partecipare la terra alla fecondità di Dio) sulla pietra è un ampliamento che presuppone il rito stabile dell’unzione di una stele sacra, in quanto l’olio, prodotto di un paese agricolo, indica l’epoca sedentaria.
Un’interpretazione del significato della stele, forma ed espressione dell’offerta cultuale di Giacobbe, risiede nella triplice ricorrenza della radice ns?b, in quanto nella visione onirica la scalinata «è fissata» (mus?s?ab; coniugazione hofal, participio, ms) e tocca i cieli, Jhwh «si innalza» (nis?s?ab = stante; coniugazione nifal, participio, ms) su di essa e, infine, «è drizzata» la pietra in stele (mas?s?ebah; coniugazione hifil, participio, ms). Dato l’uso che questo testo fa delle parole-chiave e delle corrispondenze che si traggono da un versetto all’altro, si può considerare il rapporto tra questi tre derivati di ns?b alquanto significativo; inoltre, nella visione, la cima (r’šh) della scalinata tocca i cieli, ed è alla cima (‘l-r’šhh) della pietra (rappresentando il punto dove stava il Signore sulla cima della scalinata) che Giacobbe versa la sua libagione. In questo senso, allora, la pietra eretta evoca la scalinata vista in sogno, vero passaggio tra la terra e il cielo; la stele è dunque, a questo stadio del racconto, la rappresentazione simbolica del sogno stesso che fonda il santuario di Betel.
L’elemento centrale del brano è l’esperienza onirica di Giacobbe. La sequenza narrativa, in cui il patriarca addormentatosi sogna, presenta, in una successione di immagini, “una visione di grande solennità”. Anche senza parole esplicative, almeno due elementi, nella visione, permettono di proporre delle interpretazioni: da una parte, il significato cultuale della scala con il movimento degli angeli, dall’altra, il fatto che Giacobbe, al suo risveglio, riferisca la sua esperienza notturna unicamente alla visione di Dio . Con un inaspettato cambiamento di stile, che porta la visione a un’esperienza presente, la narrativa introduce il sogno. Fino a questo punto, la sequenza narrativa ha impiegato verbi al passato (v.10: wayyes?e’ = uscì; wayyelek = andò; v.11: wayyi¯pega? = capitò; wayyalen = pernottò; wayyasem = mise; wayyišekab = distese; v.12: wayyah?alom = sognò; sono tutti verbi di coniug. qal, wci, 3ms), ma adesso viene interrotta, repentinamente, per mezzo della ripetizione di «weinneh», seguita da participi (v. 12: maggîa? = toccante, hifil part. ms; ?olîm = salenti, qal part. mpl; weyoredîm = scendenti, qal part. mpl; v.13: nis?s?a_b = stante, nifal part. ms).
La prima cosa che Giacobbe nota è la scalinata. Sullam, tradotta scala o scalinata, è un hapax legomenon, una parola o forma occorrente una sola volta nella Bibbia: essa è stata tradizionalmente connessa alla radice salal, con il significato di ammassare (pietrisco per fare una strada); preparare, costruire (una strada, un sentiero da intraprendere). Parole correlate sono: selulah (cf. Ger 18,15) e mesillah (cf. Is 62,10) nel senso di spianare, pavimentare una strada; solelah (cf. Ez 4,2 e 2Sam 20,15), cioè costruire un terrapieno, una rampa (contro le mura, per assediare la città); questi termini suggeriscono delle connessioni etimologiche, sebbene, non chiariscono il significato.
La LXX ha tradotto sullam con clímax, cioè una scala a pioli o scalinata; così è anche il caso della Vulgata con scalæ. Come si evince, prevale un’incertezza di significato, anche nelle varie versioni. Parecchie specifiche interpretazioni sono state offerte per sullam, ma una che ha il maggior consenso si fonda sulla considerazione che il termine sullam sia connesso con le torri dei templi mesopotamici: si pensa alla ziqqurat che aveva la pretesa di collegare il cielo e la terra . Secondo Speiser, la fraseologia, dei versetti 12-13a, è tipica dell’ambiente cultuale babilonese, riferendosi alla torre del tempio, per essere una mera coincidenza, e la descrizione visiva di fondo non può sbagliarsi. L’enorme ziqqurat, elevata accanto al principale tempio situato a terra (il cosiddetto Tieftempel) e fornita nella sua sommità di un posto per la visita della divinità (Hochtempel), la quale può comunicare lì con i mortali, è un simbolo spirituale dello sforzo dell’uomo di avvicinarsi al mondo divino. Tratta da questo ambito, la parola accadica simmiltu potrebbe avere una connessione semantica con sullam, in quanto è usata per descrivere la “scala del paradiso”, che si estende tra il cielo e il mondo terreno con i messaggeri che vanno su e giù. L’allusione, dunque, è alquanto suggestiva, proprio se vista in connessione con il viaggio di Giacobbe in Mesopotamia.

(c’è scritto « continua, ma non trovo il seguito)

God Appears to Moses in Burning Bush. Painting from Saint Isaac’s Cathedral, Saint Petersburg

God Appears to Moses in Burning Bush. Painting from Saint Isaac's Cathedral, Saint Petersburg dans immagini sacre Moses_Pluchart

http://en.wikipedia.org/wiki/Burning_bush

Publié dans:immagini sacre |on 30 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

SANT’ IGNAZIO DI LOYOLA SACERDOTE – 31 LUGLIO

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23800

SANT’ IGNAZIO DI LOYOLA SACERDOTE

31 LUGLIO

AZPEITIA, SPAGNA, C. 1491 – ROMA, 31 LUGLIO 1556

Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All’abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri Esercizi Spirituali. L’attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po’in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesù. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morì. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. (Avvenire)

Etimologia: Ignazio = di fuoco, igneo, dal latino
Emblema: IHS (monogramma di Cristo)

Martirologio Romano: Memoria di sant’Ignazio di Loyola, sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio.
Il primo scritto che racconta la vita, la vocazione e la missione di s. Ignazio, è stato redatto proprio da lui, in Italia è conosciuto come “Autobiografia”, ed egli racconta la sua chiamata e la sua missione, presentandosi in terza persona, per lo più designato con il nome di “pellegrino”; apparentemente è la descrizione di lunghi viaggi o di esperienze curiose e aneddotiche, ma in realtà è la descrizione di un pellegrinaggio spirituale ed interiore.
Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia un paese basco, nell’estate del 1491, il suo nome era Iñigo Lopez de Loyola, settimo ed ultimo figlio maschio di Beltran Ibañez de Oñaz e di Marina Sanchez de Licona, genitori appartenenti al casato dei Loyola, uno dei più potenti della provincia di Guipúzcoa, che possedevano una fortezza padronale con vasti campi, prati e ferriere.
Iñigo perse la madre subito dopo la nascita, ed era destinato alla carriera sacerdotale secondo il modo di pensare dell’epoca, nell’infanzia ricevé per questo anche la tonsura.
Ma egli ben presto dimostrò di preferire la vita del cavaliere come già per due suoi fratelli; il padre prima di morire, nel 1506 lo mandò ad Arévalo in Castiglia, da don Juan Velázquez de Cuellar, ministro dei Beni del re Ferdinando il Cattolico, affinché ricevesse un’educazione adeguata; accompagnò don Juan come paggio, nelle cittadine dove si trasferiva la corte allora itinerante, acquisendo buone maniere che tanto influiranno sulla sua futura opera.
Nel 1515 Iñigo venne accusato di eccessi d’esuberanza e di misfatti accaduti durante il carnevale ad Azpeitia e insieme al fratello don Piero, subì un processo che non sfociò in sentenza, forse per l’intervento di alti personaggi; questo per comprendere che era di temperamento focoso, corteggiava le dame, si divertiva come i cavalieri dell’epoca.
Morto nel 1517 don Velázquez, il giovane Iñigo si trasferì presso don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, al cui servizio si trovò a combattere varie volte, fra cui nell’assedio del castello di Pamplona ad opera dei francesi; era il 20 maggio 1521, quando una palla di cannone degli assedianti lo ferì ad una gamba.
Trasportato nella sua casa di Loyola, subì due dolorose operazioni alla gamba, che comunque rimase più corta dell’altra, costringendolo a zoppicare per tutta la vita.
Ma il Signore stava operando nel plasmare l’anima di quell’irrequieto giovane; durante la lunga convalescenza, non trovando in casa libri cavallereschi e poemi a lui graditi, prese a leggere, prima svogliatamente e poi con attenzione, due libri ingialliti fornitagli dalla cognata.
Si trattava della “Vita di Cristo” di Lodolfo Cartusiano e la “Leggenda Aurea” (vita di santi) di Jacopo da Varagine (1230-1298), dalla meditazione di queste letture, si convinse che l’unico vero Signore al quale si poteva dedicare la fedeltà di cavaliere era Gesù stesso.
Per iniziare questa sua conversione di vita, decise appena ristabilito, di andare pellegrino a Gerusalemme dove era certo, sarebbe stato illuminato sul suo futuro; partì nel febbraio 1522 da Loyola diretto a Barcellona, fermandosi all’abbazia benedettina di Monserrat dove fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi vestendo quelli di un povero e fece il primo passo verso una vita religiosa con il voto di castità perpetua.
Un’epidemia di peste, cosa ricorrente in quei tempi, gl’impedì di raggiungere Barcellona che ne era colpita, per cui si fermò nella cittadina di Manresa e per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo poveramente presso il fiume Cardoner “ricevé una grande illuminazione”, sulla possibilità di fondare una Compagnia di consacrati e che lo trasformò completamente.
In una grotta dei dintorni, in piena solitudine prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri “Esercizi Spirituali”, i quali costituiscono ancora oggi, la vera fonte di energia dei Gesuiti e dei loro allievi.
Arrivato nel 1523 a Barcellona, Iñigo di Loyola, invece di imbarcarsi per Gerusalemme s’imbarcò per Gaeta e da qui arrivò a Roma la Domenica delle Palme, fu ricevuto e benedetto dall’olandese Adriano VI, ultimo papa non italiano fino a Giovanni Paolo II.
Imbarcatosi a Venezia arrivò in Terrasanta visitando tutti i luoghi santificati dalla presenza di Gesù; avrebbe voluto rimanere lì ma il Superiore dei Francescani, responsabile apostolico dei Luoghi Santi, glielo proibì e quindi ritornò nel 1524 in Spagna.
Intuì che per svolgere adeguatamente l’apostolato, occorreva approfondire le sue scarse conoscenze teologiche, cominciando dalla base e a 33 anni prese a studiare grammatica latina a Barcellona e poi gli studi universitari ad Alcalà e a Salamanca.
Per delle incomprensioni ed equivoci, non poté completare gli studi in Spagna, per cui nel 1528 si trasferì a Parigi rimanendovi fino al 1535, ottenendo il dottorato in filosofia.
Ma già nel 1534 con i primi compagni, i giovani maestri Pietro Favre, Francesco Xavier, Lainez, Salmerón, Rodrigues, Bobadilla, fecero voto nella Cappella di Montmartre di vivere in povertà e castità, era il 15 agosto, inoltre promisero di recarsi a Gerusalemme e se ciò non fosse stato possibile, si sarebbero messi a disposizione del papa, che avrebbe deciso il loro genere di vita apostolica e il luogo dove esercitarla; nel contempo Iñigo latinizzò il suo nome in Ignazio, ricordando il santo vescovo martire s. Ignazio d’Antiochia.
A causa della guerra fra Venezia e i Turchi, il viaggio in Terrasanta sfumò, per cui si presentarono dal papa Paolo III (1534-1549), il quale disse: “Perché desiderate tanto andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa di Dio l’Italia è una buona Gerusalemme”; e tre anni dopo si cominciò ad inviare in tutta Europa e poi in Asia e altri Continenti, quelli che inizialmente furono chiamati “Preti Pellegrini” o “Preti Riformati” in seguito chiamati Gesuiti.
Ignazio di Loyola nel 1537 si trasferì in Italia prima a Bologna e poi a Venezia, dove fu ordinato sacerdote; insieme a due compagni si avvicinò a Roma e a 14 km a nord della città, in località ‘La Storta’ ebbe una visione che lo confermò nell’idea di fondare una “Compagnia” che portasse il nome di Gesù.
Il 27 settembre 1540 papa Polo III approvò la Compagnia di Gesù con la bolla “Regimini militantis Ecclesiae”.
L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto all’unanimità Preposito Generale e il 22 aprile fece con i suoi sei compagni, la professione nella Basilica di S. Paolo; nel 1544 padre Ignazio, divenuto l’apostolo di Roma, prese a redigere le “Costituzioni” del suo Ordine, completate nel 1550, mentre i suoi figli si sparpagliavano per il mondo.
Rimasto a Roma per volere del papa, coordinava l’attività dell’Ordine, nonostante soffrisse dolori lancinanti allo stomaco, dovuti ad una calcolosi biliare e a una cirrosi epatica mal curate, limitava a quattro ore il sonno per adempiere a tutti i suoi impegni e per dedicarsi alla preghiera e alla celebrazione della Messa.
Il male fu progressivo limitandolo man mano nelle attività, finché il 31 luglio 1556, il soldato di Cristo, morì in una modestissima camera della Casa situata vicina alla Cappella di Santa Maria della Strada a Roma.
Fu proclamato beato il 27 luglio 1609 da papa Paolo V e proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV.
Si completa la scheda sul Santo Fondatore, colonna della Chiesa e iniziatore di quella riforma coronata dal Concilio di Trento, con una panoramica di notizie sul suo Ordine, la “Compagnia di Gesù”.
Le “Costituzioni” redatte da s. Ignazio fissano lo spirito della Compagnia, essa è un Ordine di “chierici regolari” analogo a quelli sorti nello stesso periodo, ma accentuante anche nella denominazione scelta dal suo Fondatore, l’aspetto dell’azione militante al servizio della Chiesa.
La Compagnia adattò lo spirito del monachesimo, al necessario dinamismo di un apostolato da svolgersi in un mondo in rapida trasformazione spirituale e sociale, com’era quello del XVI secolo; alla stabilità della vita monastica sostituì una grande mobilità dei suoi membri, legati però a particolari obblighi di obbedienza ai superiori e al papa; alle preghiere del coro sostituì l’orazione mentale.
Considerò inoltre essenziale la preparazione e l’aggiornamento culturale dei suoi membri. È governata da un “Preposito generale”.
I gradi della formazione dei sacerdoti gesuiti, comprendono due anni di noviziato, gli aspiranti sono detti ‘scolastici’, gli studi approfonditi sono inframezzati dall’ordinazione sacerdotale (solitamente dopo il terzo anno di filosofia), il giovane gesuita verso i 30 anni diventa professo ed emette i tre voti solenni di povertà, castità e obbedienza, più in quarto voto di obbedienza speciale al papa; accanto ai ‘professi’ vi sono i “coadiutori spirituali” che emettono soltanto i tre voti semplici.
Non c’è un ramo femminile né un Terz’Ordine. La spiritualità della Compagnia si basa sugli ‘Esercizi Spirituali’ di s. Ignazio e si contraddistingue per l’abbandono alla volontà di Dio espresso nell’assoluta obbedienza ai superiori; in una profonda vita interiore alimentata da costanti pratiche spirituali, nella mortificazione dell’egoismo e dell’orgoglio; nello zelo apostolico; nella totale fedeltà alla Santa Sede.
I Gesuiti non possono possedere personalmente rendite fisse, consentite solo ai Collegi e alle Case di formazione; i professi fanno anche il voto speciale di non aspirare a cariche e dignità ecclesiastiche.
Come attività, in origine la Compagnia si presentava come un gruppo missionario a disposizione del pontefice e pronto a svolgere qualsiasi compito questi volesse affidargli per la “maggior gloria di Dio”.
Quindi svolsero attività prevalentemente itinerante, facendo fronte alle più urgenti necessità di predicazione, di catechesi, di cura di anime, di missioni speciali, di riforma del clero, operante nella Controriforma e nell’evangelizzazione dei nuovi Paesi (Oriente, Africa, America).
Nel 1547, s. Ignazio affidò alla sua Compagnia, un ministero inizialmente non previsto, quello dell’insegnamento, che diventò una delle attività principali dell’Ordine e uno dei principali strumenti della sua diffusione e della sua forza, lo testimoniano i prestigiosi Collegi sparsi per il mondo.
Alla morte di s. Ignazio, avvenuta come già detto nel 1556, la Compagnia contava già mille membri e nel 1615, con la guida dei vari Generali succedutisi era a 13.000 membri, diffondendosi in tutta Europa, subendo anche i primi martiri (Campion, Ogilvie, in Inghilterra).
Ma soprattutto ebbe un’attività missionaria di rilievo iniziata nel 1541 con s. Francesco Xavier, inviato in India e nel Giappone, dove i successivi gesuiti subirono come gli altri missionari, sanguinose persecuzioni.
Più duratura fu la loro opera in Cina con padre Matteo Ricci (1552-1610) e in America Meridionale, specie in Brasile, con le famose ‘riduzioni’. Più sfortunata fu l’opera dei Gesuiti in America Settentrionale, in cui furono martiri i santi Giovanni de Brebeuf, Isacco Jogues, Carlo Garnier e altri cinque missionari.
Col passare del tempo, nei secoli XVII e XVIII i Gesuiti con la loro accresciuta potenza furono al centro di dispute dottrinarie e di violenti conflitti politico-ecclesiatici, troppo lunghi e numerosi da descrivere in questa sede; che alimentarono l’odio di tanti movimenti antireligiosi e l’astio dei Domenicani, dei sovrani dell’epoca e dei parlamentari e governi di vari Stati.
Si arrivò così allo scioglimento prima negli Stati di Portogallo, Spagna, Napoli, Parma e Piacenza e infine sotto la pressione dei sovrani europei, anche allo scioglimento totale della Compagnia di Gesù nel 1773, da parte di papa Clemente XIV.
I Gesuiti però sopravvissero in Russia sotto la protezione dell’imperatrice Caterina II; nel 1814 papa Pio VII diede il via alla restaurazione della Compagnia.
Da allora i suoi membri sono stati sempre presenti nelle dispute morali, dottrinarie, filosofiche, teologiche e ideologiche, che hanno interessato la vita morale e istituzionale della società non solo cattolica.
Nel 1850 sorse la prestigiosa e diffusa rivista “La Civiltà Cattolica”, voce autorevole del pensiero della Compagnia; altre espulsioni si ebbero nel 1880 e 1901 interessanti molti Stati europei e sud americani.
Nell’annuario del 1966 i Gesuiti erano 36.000, divisi in 79 province nel mondo e 77 territori di missione. In una statistica aggiornata al 2002, la Compagnia di Gesù annovera tra i suoi figli 49 Santi di cui 34 martiri e 147 Beati di cui 139 martiri; a loro si aggiungono centinaia di Servi di Dio e Venerabili, avviati sulla strada di un riconoscimento ufficiale della loro santità o del loro martirio.
L’alto numero di martiri, testimonia la vocazione missionaria dei Gesuiti, votati all’affermazione della ‘maggior gloria di Dio’, nonostante i pericoli e le persecuzioni a cui sono andati incontro, sin dalla loro fondazione.

Autore: Antonio Borrelli

CONVEGNO SULLO SPIRITO SANTO – (anche Paolo) Albert Card. Vanhoye S.J.

http://www.rns-italia.it/news/ConvegnoSpiritoSanto2012/Testi/3.Lingue_come_di_fuoco_Card_Albert_Vanhoye.pdf

CONVEGNO SULLO SPIRITO SANTO – (ANCHE PAOLO)

Albert Card. Vanhoye S.J.

P.U.G. 25.10.2012 –

“LINGUE COME DI FUOCO…”

Cari amici
Mi è stato gentilmente richiesto di trattare un tema formulato in questo modo: «Lingue come di fuoco si posarono su di loro» (At 1,3). “Roveto ardente”, amore che arde e non si consuma. Lo Spirito Santo e la vita nuova in Cristo.»Come potete vedere, questo tema parte da un punto molto preciso, un frammento di una frase degli Atti degli Apostoli, presa dal racconto della Pentecoste, poi il tema si allarga con un accenno al racconto del “Roveto ardente”, che si trova nel Libro dell’Esodo, all’inizio del terzo capitolo. Viene allora introdotto nel tema l’amore, di cui il racconto dell’Esodo non parla. Infine, il tema viene allargato immensamente al rapporto tra lo Spirito e la vita nuova in Cristo. Mi pare che questa presentazione del tema manifesti splendidamente la libertà dello Spirito, il quale soffia dove vuole,” come disse Gesù a Nicodemo (Gv 3,8). Non mi sarà facile spiegare in pochi minuti tutta questa abbondante materia. Come sapete, nel racconto della Pentecoste, la presenza e l’azione dello Spirito Santo si manifestano all’inizio in due modi, uno per le orecchie e l’altro per gli occhi. Per le orecchie c’è stato “un fragore, come di un vento che si abbatteva impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano”. Che lo Spirito si manifesti come un vento è molto naturale, perché il primo senso della parola greca usata per designarlo è “soffio”. Lo Spirito soffia. Questo esprime bene il dinamismo dello Spirito, che mette tutto in moto, non ci lascia tranquilli! La parola italiana “spirito” è meno espressiva, non esprime un dinamismo. Per gli occhi lo Spirito manifestò la sua presenza e la sua azione in modo diverso, cioè con un’apparizione. San Luca scrive: “e apparvero loro, dividendosi,
lingue come di fuoco e se ne posò una su ciascuno di loro e furono tutti riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi.” (At 2,3-4).2 L’espressione “lingue come di fuoco” si trova soltanto qui nella Bibbia. Senza la parola “come” e al singolare, “lingua di fuoco” si legge una volta nell’A.T. in un passo di Isaia, che contiene una minaccia contro i peccatori, dicendo: “Perciò, come una
lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume…” (Is 5,24). È chiaro che questo testo non illumina per niente l’espressione di At 2,3, nella quale la parola “come” ha un’importanza capitale, perché indica che “fuoco” non definisce bene una realtà che non è del nostro mondo.
Queste lingue non erano realmente “di fuoco”. Erano “come di fuoco”. Rappresentavano un fuoco spirituale.
Questa apparizione è molto diversa da quella del roveto ardente, la quale è un’apparizione di persona. Il testo dell’Esodo dice, infatti, parlando di Mosè: “L’Angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava” (Es 3,2). Più
avanti il testo dice che “Dio gridò a lui”, cioè a Mosè, “dal roveto” (Es 3,4), e si presentò come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6).L’apparizione del giorno della Pentecoste non è stata, invece, un’apparizione di persona, ma un’apparizione di “lingue”, che manifestò l’intervento dello Spirito, il quale non parlava, ma riempì le persone e le fece parlare. La prima cosa che dice san Luca di queste lingue, anche prima di nominarle, è che si dividevano; Luca, infatti, scrive: “e apparvero loro, dividendosi, lingue come di fuoco” (At 2,3). La traduzione della CEI
non rispetta l’ordine del testo greco, ma mette: “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, …”. L’ordine del testo, però, è significativo; fa capire che non sono state le lingue singole che si dividevano, ma le lingue singole sono state il risultato della divisione. Questa divisione non manca d’importanza; manifesta, infatti, che lo Spirito
Santo non agì in modo globale, ma in modo diversificato. Non produsse uniformità, ma unità nella diversità. Lo spiega bene san Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi scrivendo: “A uno, infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato un linguaggio di sapienza, a un altro, invece, dallo stesso Spirito, un linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, un atteggiamento di fede; a un altro, nell’unico Spirito, doni di guarigioni”; san Paolo continua l’elenco dei carismi, poi conclude: “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Cor 12,8-
11).3 Il racconto di Luca insiste poi sull’aspetto di lingua, perché dice che l’effetto prodotto dallo Spirito Santo fu che “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi” (At 2,4). Che cosa sono queste “altre lingue”? Il seguito del racconto suggerisce che si tratta delle lingue di altri popoli; perché nella
folla cosmopolitica radunata a causa del fragore che si era sentito, la gente diceva: “ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa” (At 2,8), “li sentiamo parlare, nelle nostre lingue, delle grandi opere di Dio” (At 2,11). Però se cerchiamo di rappresentarci l’evento, ci rendiamo conto che questa interpretazione suppone una cacofonia tremenda, cioè che nello stesso momento ciascun apostolo si esprimeva ad alta voce in una lingua diversa dagli altri. Perciò, già
nell’antichità, si è pensato che il miracolo non fosse stato nel parlare degli apostoli ma nel sentire degli uditori, cioè lo Spirito Santo dava agli uditori l’impressione di sentire un discorso ciascuno nella propria lingua. Nel secolo scorso, Padre Lyonnet ha precisato l’interpretazione, dicendo che gli apostoli ebbero allora il carisma di glossolalia e gli
uditori il carisma di interpretazione. Nella Prima ai Corinzi, san Paolo parla di questi due carismi, il “parlare in lingue” e “l’interpretare questo parlare in lingue”. Il “parlare in lingue” consiste nel lodare Dio con una serie di parole piene di entusiasmo, ma che non formano un discorso comprensibile. Sapete meglio di me che questo carisma era scomparso nella Chiesa, ma è apparso di nuovo a partire dall’inizio del secolo scorso in gruppi di protestanti pentecostali e si è diffuso nella Chiesa cattolica dopo il Concilio, il quale secondo il desiderio del Papa Giovanni XXIII doveva suscitare una nuova Pentecoste. Torniamo all’espressione “lingue come di fuoco” per parlare del rapporto del fuoco con Dio, secondo la Bibbia. Abbiamo già citato il testo dell’Esodo in cui Dio si rivela nel roveto ardente (Es 3,2-6) a Mosè che era allora “nel territorio di Madian” (Es 2,25). Mosè tornò in Egitto per riempire la sua missione e guidare il popolo fuori dell’Egitto. Dopo la partenza, il racconto riferisce che “il Signore marciava alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte, in una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte” (Es 13,21). La colonna di nube non ha niente di straordinario; invece la colonna di fuoco è
straordinaria e manifesta la potenza di Dio. Tuttavia, il fatto che Dio si serve dell’una e 4 dell’altra indica che non c’era un’unione permanente di Dio con il fuoco. La prospettiva era utilitaria, non era di rivelazione. Si trattava di “far loro luce”. Invece nella teofania del Sinai, si tratta di rivelazione. In Es 19,18 leggiamo: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace.” C’era un’unione tra il Signore e il fuoco. Il testo di Es 24,17 dice di più; dichiara: “La gloria del Signore, appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna”. Altri testi sono ancora più espliciti, dicono: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore” (Dt 4,24). L’idea espressa non è di amore, ma di minaccia, di pericolo. “Chi di noi, dice Isaia, può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni?” (Is 33,14). La minaccia può avere un aspetto positivo, perché può rivolgersi contro i nemici di Israele. È il caso in Dt 9,3: “Ascolta, Israele, tu stai per andare a conquistare popoli più grandi e più potenti di te […] Sappi dunque che il Signore, tuo Dio, passerà davanti a te come
fuoco divoratore, li distruggerà e li abbatterà davanti a te.” Ma più spesso la minaccia prende di mira gli Israeliti e viene attuata. Nel suo capitolo 11, il Libro dei Numeri riferisce che “il popolo cominciò a lamentarsi aspramente agli orecchi del Signore. Li udì il Signore e la sua ira si accese: il fuoco del Signore divampò in mezzo a loro e divorò un’estremità dell’accampamento” (Nm 11,1). Nondimeno, è possibile scoprire nei testi di minaccia qualche traccia di amore, perché parlano di gelosia divina. I testi vietano l’idolatria, perché essa è una violazione del legame di amore esclusivo che unisce Israele a Dio. Per appoggiare il primo comandamento del Decalogo, che vieta l’idolatria, Dio stesso dice: “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa […] per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Es 20,5-6; Dt 5,9-10). La bontà di Dio è immensa. La reazione di Dio contro gli Israeliti peccatori è una reazione di amore deluso. Similmente nel Deuteronomio, dopo aver ricordato il primo comandamento, Mosè dice al popolo: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore, un Dio geloso” (Dt 4,24). In modo analogo, è possibile mettere la rivelazione del roveto ardente in
rapporto con il tema dell’amore. Di per sé, questa rivelazione di un roveto che arde e non si consuma esprime soltanto l’eternità di Dio, al quale un salmo dice: “Si logorano tutti come un vestito, […] ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non hanno fine” (Sal 5 101/102,27-28). Nel contesto, però, Dio si rivela anche pieno di amore per il suo popolo. Egli dichiara: “Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido, […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…” (Es 3,7.8). Tuttavia, non si può dire che il racconto operi la fusione tra questi due aspetti, eternità divina e
atteggiamento di amore. Sono nettamente distinti. Soltanto nel Nuovo Testamento, Dio viene definito “amore”. S. Giovanni proclama che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16); diventa allora possibile dire che Dio è “amore che arde e non si consuma”.L’espressione “lingue come di fuoco” non esprime direttamente questo concetto, ma il contesto successivo, il quale rivela gli effetti prodotti dalle “lingue come di fuoco”, parla implicitamente in questo senso, perché dichiara che le persone sulle quali si erano posate queste “lingue come di fuoco” si sono messe a “parlare delle grandi opere di Dio” (At 2,11); manifestavano così, con amore riconoscente, l’amore generoso di Dio. D’altra parte, il discorso di Pietro è stato una manifestazione di grande zelo apostolico. Ispirato dallo Spirito Santo, lo zelo apostolico ha la sua origine nell’amore di Dio per gli uomini ed è una manifestazione dell’amore dell’apostolo per gli uomini. L’apostolo, cioè, accoglie nel proprio cuore e nella propria attività la corrente di amore che viene da Dio in vista della salvezza degli uomini. In fin dei conti, vediamo che l’espressione “lingue come di fuoco” sta in rapporto abbastanza stretto con il tema dell’amore. L’aspetto di minaccia che il fuoco ha in altri testi è qui completamente assente. Tra lo Spirito Santo e l’amore la relazione è affermata fortemente dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani. San Paolo dichiara che “l’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Nella
Lettera ai Galati, il primo aspetto del “frutto dello Spirito” secondo san Paolo è “l’amore” (Gal 5,22). Questo passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito Santo e la vita in Cristo. Quando san Paolo parla della vita nuova dei cristiani nella Lettera ai Romani, egli non accenna al ruolo dello Spirito Santo, ma parla unicamente di unione al mistero pasquale di Cristo. Egli scrive: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una novità di vita” (Rm 6,4). Come vedete, san 6 Paolo parla di unione alla morte di Cristo e alla sua risurrezione, ma non parla del dono dello Spirito Santo, benché questo dono sia indispensabile perché i cristiani siano in grado di “camminare in una novità di vita”. Il rapporto con lo Spirito, san Paolo lo suggerisce più avanti quando parla di “una novità di spirito”. Per poter camminare “in una novità di vita”, è necessario accogliere la “novità dello spirito”, la quale libera dalla
“vecchiaia della lettera”, libera cioè dal sistema della Legge (Rm 7,6). Il rapporto con lo Spirito viene poi espresso molto chiaramente nella Lettera a Tito, che dice: Dio “ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, che ha effuso su di noi
in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (Tt 3,4-6). Questo testo è molto bello; comincia con un accenno alla dottrina paolina della giustificazione “non per opere giuste da noi compiute, ma per la misericordia” di Dio, la sua grazia. Poi viene un accenno al battesimo, chiamato “lavacro di rigenerazione di rinnovamento nello Spirito Santo”, il che significa che, per mezzo del battesimo, lo Spirito Santo introduce le persone in una vita nuova; esse sono generate una seconda volta, “da acqua e Spirito”, come Gesù diceva a Nicodemo (Gv 3,5), e sono radicalmente rinnovate. San Paolo sottolinea poi, in modo molto bello, l’abbondanza dell’effusione dello Spirito. Come ho detto, un passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito e la vita in Cristo. Questo passo non parla di novità, ma è parallelo ai passi della Lettera agli Efesini e di quella ai Colossesi, che mettono in contrasto l’uomo nuovo e
l’uomo vecchio. La Lettera agli Efesini invita i cristiani “ad abbandonare…l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli… e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,22.24). Poi c’è tutto un elenco di difetti da evitare e alcuni consigli positivi molto importanti. Nel passo di Ef 4,22-24 lo
Spirito non è nominato; però, nel capitolo precedente, san Paolo dice che prega perché Dio conceda ai cristiani “di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito” (Ef 3,16). Il passo di Ef 4,22-24 va quindi completato con questo passo precedente. Nella Lettera ai Colossesi, san Paolo parla similmente dell’uomo vecchio e
dell’uomo nuovo; scrive: “vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo 7 ha creato” (Col 3,9-10). San Paolo fa un elenco di difetti da evitare e dà molti consigli positivi, ma non parla dello Spirito Santo in proposito. Quanto alla Lettera ai Galati, invece di parlare del contrasto tra l’uomo nuovo e l’uomo vecchio, essa parla di contrasto tra la carne e lo Spirito. Ai Galati san Paolo dice: “Camminate con lo Spirito e non ci sarà pericolo che portiate a compimento un desiderio della carne” (Gal 5,16). Poi san Paolo spiega: “La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne, queste cose si oppongono a vicenda, affinché non facciate tutto ciò che vorreste” (Gal 3,17). Chi segue la carne,
non può nel contempo seguire lo Spirito, e viceversa. San Paolo elenca poi, per la carne, una serie di “opere” cattive, cioè peccati in materia di sessualità, di culto, di relazioni tra le persone, di alimentazione. Per lo Spirito invece, san Paolo non parla di “opere”, ma di “frutto”, non al plurale di dispersione, ma al singolare di unità. La parole “frutto” esprime una fecondità profonda e non, come la parola “opere”, un’attività esterna. La fecondità implica un’unione vitale nell’amore. L’elenco che spiega il frutto dello Spirito non è semplicemente un elenco di virtù, opposte ai vizi della carne, ma, dopo “l’amore”, comprende anche la gioia e la pace, doni meravigliosi di Dio e segni della sua benedizione. San Paolo conclude dicendo: “Se viviamo dello Spirito, con lo Spirito anche camminiamo” (Gal 5,25). Questa frase è molto significativa. Dimostra anzitutto che noi cristiani abbiamo ricevuto lo Spirito, il quale ci comunica una nuova vita, “viviamo dello Spirito”. Questo dono ci rende poi capaci di una condotta corrispondente, una
condotta “con lo Spirito”. San Paolo ci invita a sfruttare attivamente questa capacità, camminando effettivamente con lo Spirito e accogliendo sempre nella nostra vita “il frutto dello Spirito.”Con questa conclusione di san Paolo, concludo anch’io la mia modesta

Conferenza! Vi ringrazio per la vostra attenzione.

Albert Card. Vanhoye S.J.

Santa Marta

Santa Marta dans immagini sacre 7943_stmartha

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Publié dans:immagini sacre |on 29 juillet, 2014 |Pas de commentaires »
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