Archive pour la catégorie 'Papa Benedetto XVI/Joseph Ratzinger – San Paolo'

Lasciare operare Dio – Card. Joseph Ratzinger su Josemaria Escrivà

http://www.it.josemariaescriva.info/articolo/lasciare-operare-dio

Lasciare operare Dio

(Josemaria Escrivà)

Card. Joseph Ratzinger

Mi ha colpito sempre l’interpretazione che Josemaría Escrivá dava del nome Opus Dei; un’interpretazione che potremmo chiamare biografica e che ci consente di capire il fondatore nella sua fisionomia spirituale. Escrivá sapeva di dover fondare qualcosa, ma era pur sempre consapevole che quel qualcosa non era opera sua, che lui non aveva inventato niente, che semplicemente il Signore si era servito di lui. Quello non era quindi la sua opera, ma l’Opus Dei. Lui era soltanto uno strumento con cui Dio avrebbe agito.
Nel considerare questo fatto mi sono venute in mente le parole del Signore riportate nel Vangelo di Giovanni (5, 17): «Il Padre mio opera sempre». Sono parole dette da Gesù nel corso di una discussione con alcuni specialisti della religione che non volevano riconoscere che Dio può agire anche il sabato. Ecco un dibattito tuttora aperto, in qualche modo, tra gli uomini — anche cristiani — del nostro tempo. C’è chi pensa che, dopo la creazione, Dio si sia « ritirato » e ormai non abbia più alcun interesse per le nostre cose di tutti i giorni. Secondo questo modello di pensiero, Dio non potrebbe più entrare nel tessuto della nostra vita quotidiana. Ma nelle parole di Gesù abbiamo la smentita. Un uomo aperto alla presenza di Dio si accorge che Dio opera sempre e opera anche oggi: dobbiamo quindi lasciarlo entrare e lasciarlo operare. Ed è così che nascono le cose che danno un avvenire e rinnovano l’umanità.
Tutto ciò ci aiuta a capire perché Josemaría Escrivá non si riteneva « fondatore » di nulla, ma solo uno che vuole compiere la volontà di Dio, assecondare l’azione, l’opera — appunto — di Dio. In questo senso, il teocentrismo di Escrivá de Balaguer, coerente con le parole di Gesù, vale a dire questa fiducia nel fatto che Dio non si è ritirato dal mondo, che Dio opera adesso e noi dobbiamo soltanto metterci a sua disposizione, essere disponibili, capaci di reagire alla sua chiamata, è per me un messaggio di grandissima importanza. È un messaggio che conduce al superamento di quella che si può considerare la grande tentazione dei nostri tempi: la pretesa cioè che dopo il big bang Dio si sia ritirato dalla storia. L’azione di Dio non si è « fermata » al momento del big bang, ma continua nel corso del tempo sia nel mondo della natura che nel mondo umano.
Diceva dunque il fondatore dell’Opera: non sono io che ho inventato qualcosa; è un Altro che fa ed io sono soltanto disponibile a servire come strumento. Così questo titolo, e tutta la realtà che chiamiamo Opus Dei, è profondamente collegato con la vita interiore del fondatore, il quale, pur rimanendo molto discreto su questo punto, ci fa capire che era in dialogo permanente, in contatto reale con Colui che ci ha creato e opera per noi e con noi. Di Mosè dice il libro dell’Esodo (33, 11) che Dio parlava con lui «faccia a faccia, come un amico parla con un amico». Mi sembra che, anche se il velo della discrezione ci nasconde tanti dettagli, tuttavia da quei piccoli accenni risulta che si può applicare benissimo a Josemaría Escrivá questo « parlare come un amico parla con un amico », che apre le porte del mondo perché Dio possa farsi presente, operare e trasformare tutto.
In questa luce si capisce anche meglio che cosa significa santità e vocazione universale alla santità. Conoscendo un po’ la storia dei santi, sapendo che nei processi di canonizzazione si cerca la virtù « eroica », abbiamo quasi inevitabilmente un concetto sbagliato della santità: « Non fa per me », siamo portati a pensare, « perché io non mi sento in grado di realizzare virtù eroiche: è un ideale troppo alto per me ». La santità allora diventa una cosa riservata ad alcuni « grandi » di cui vediamo le immagini sugli altari, e che sono tutt’altro rispetto a noi normali peccatori. Ma questo è un concetto sbagliato di santità, una percezione errata che è stata corretta — e questo mi sembra il punto centrale — proprio da Josemaría Escrivá.
Virtù eroica non vuol dire che il santo fa una sorta di « ginnastica » di santità, qualcosa che le persone normali non riescono a fare. Vuol dire, invece, che nella vita di un uomo si rivela la presenza di Dio, cioè si rivela quanto l’uomo da sé e per sé non poteva fare. Forse in fondo si tratta piuttosto di una questione terminologica, perché l’aggettivo « eroica » è stato interpretato male. Virtù eroica propriamente non significa che uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché lui è stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio. O, con altre parole, essere santo è nient’altro che parlare con Dio come un amico parla con l’amico. Questa è la santità.
Essere santo non comporta essere superiore agli altri; anzi il santo può essere molto debole, con tanti sbagli nella sua vita. La santità è questo contatto profondo con Dio, il farsi amico di Dio: è lasciare operare l’Altro, l’Unico che può realmente far sì che il mondo sia buono e felice. E se, quindi, Josemaría Escrivá parla della chiamata di tutti ad essere santi, mi sembra che nel fondo sta attingendo a questa sua personale esperienza di non aver fatto da sé cose incredibili, ma di aver lasciato operare Dio. E perciò è nato un rinnovamento, una forza di bene nel mondo, anche se tutte le debolezze umane resteranno sempre presenti. Veramente tutti siamo capaci, tutti siamo chiamati ad aprirci a questa amicizia con Dio, a non lasciare le mani di Dio, a non smettere di tornare e ritornare al Signore, parlando con lui come si parla con un amico, sapendo bene che il Signore realmente è il vero amico di tutti, anche di quanti non possono fare da sé cose grandi.
Da tutto questo ho capito meglio la fisionomia dell’Opus Dei, questo collegamento sorprendente tra un’assoluta fedeltà alla grande tradizione della Chiesa, alla sua fede, con disarmante semplicità, e l’apertura incondizionata a tutte le sfide di questo mondo, sia nell’ambito accademico, sia nell’ambito del lavoro, sia nell’ambito dell’economia, ecc. Chi ha questo legame con Dio, chi ha questo colloquio ininterrotto può osare rispondere a queste sfide, e non ha più paura; perché chi sta nelle mani di Dio cade sempre nelle mani di Dio. È così che scompare la paura e nasce, invece, il coraggio di rispondere al mondo di oggi.

L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002

Cardinale Joseph Ratzinger: « Vedendoli tutti affaticati nel remare…, già verso l’ultima parte della notte, andò verso di loro »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100109

Sabato dopo l’Epifania : Mc 6,45-52
Meditazione del giorno
Cardinale Joseph Ratzinger [Papa Benedetto XVI]
Der Gott Jesu Christi

« Vedendoli tutti affaticati nel remare…, già verso l’ultima parte della notte, andò verso di loro »

      Gli apostoli attraversano il lago. Gesù è solo a terra, mentre si spossano a remare senza poter avanzare, poiché hanno il vento contrario. Gesù prega e nella sua preghiera li vede nello sforzo di avanzare. Va dunque loro incontro. È evidente che questo testo è pieno di simboli ecclesiologici: gli apostoli sul mare e con il vento contrario, e il Signore presso il Padre. È determinente il fatto che nella sua preghiera, quando è «presso il Padre», non è assente; proprio al contrario, pregando li vede. Quando Gesù è presso il Padre, è presente alla Chiesa. Il problema della venuta finale di Cristo è qui approfondito e trasformato in una prospettiva trinitaria; Gesù vede la Chiesa nel Padre e, per la potenza del Padre e per la forza del suo dialogo con lui, egli le sta accanto. Proprio questo dialogo con il Padre, mentre è «sul monte», lo rende presente, e viceversa. La Chiesa è per così dire l’oggetto del colloquio tra il Padre e il Figlio. Essa stessa è dunque ancorata nella vita trinitaria.

Cardinale Joseph Ratzinger [Papa Benedetto XVI] : « Da Nàzaret può mai venire qualcosa di buono? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100105

5 gennaio prima dell’Epifania : Jn 1,43-51
Meditazione del giorno
Cardinale Joseph Ratzinger [Papa Benedetto XVI]
Der Gott Jesu Christi

« Da Nàzaret può mai venire qualcosa di buono? »

      Nàzaret ci è tenuta nascosta dai pittori… Questo nome infatti evoca troppo il modo sentimentale con cui vi si trasforma la vita di Gesù in un idillio piccolo borghese, ingannevole per il fatto che attenua il mistero. Occorre cercare altrove l’origine della venerazione per la Santa Famiglia… A partire da Nàzaret si scopre che la casa e la famiglia sono una Chiesa e si assume la responsabilità sacerdotale del capo di famiglia. Nella «Galilea delle genti» (Mt 4,15) Gesù riceve un’educazione ebrea; pur senza andare a scuola, impara a conoscere la Scrittura a casa… Le magre allusioni di Luca bastano per darci un’idea dello spirito di responsabilità e d’apertura, di fervore e di rettitudine che caratterizzavano quella comunità e fecero di essa una realizzazione dell’Israele vero. Ma innanzi tutto noi riconosciamo nell’azione di Gesù, che conosce le Scritture e le tradizioni rabbiniche con la sicurezza di un maestro, quanto la vita comune condotta a Nàzaret sia stata fruttuosa per la sua esperienza. E forse questo non ci riguarda, noi, che viviamo in un’epoca in cui la maggior parte dei cristiani è costretta a vivere in mezzo a una «Galilea delle genti»?
      La grande Chiesa non può crescere né prosperare se è lasciata nell’ignoranza delle sue radici nascoste nell’ambiente di Nàzaret… Nàzaret è un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non ha avuto inizio nel Tempio, né sul Monte Santo, bensì nella piccola dimora della Vergine, nella casa del lavoratore, in un luogo dimenticato della «Galilea delle genti», dal quale nessuno si aspettava nulla di buono. Solo a partire da lì la Chiesa potrà ripartire e guarire. Non potrà mai dare una vera risposta alla rivolta del nostro secolo contro il potere della ricchezza se, nel suo stesso seno, Nàzaret non sarà una realtà vissuta.

di Sandro Magister: Il segreto della popolarità di Benedetto XVI. Nonostante tutto (omelia del Papa in Africa, San Paolo)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1337717

Il segreto della popolarità di Benedetto XVI. Nonostante tutto

Pur tempestato dalle critiche, questo papa continua a riscuotere la fiducia delle grandi masse. Il viaggio in Africa e un’inchiesta in Italia lo provano. Il motivo è che parla di Dio a un’umanità in cerca d’orientamento

di Sandro Magister
 

ROMA, 27 marzo 2009 – Sull’aereo di ritorno dal Camerun e dall’Angola, Benedetto XVI ha detto ai giornalisti che, del viaggio, gli sono rimaste impresse nella memoria queste due cose:

« Da una parte la cordialità quasi esuberante, la gioia, di un’Africa in festa. Nel papa hanno visto la personificazione del fatto che siamo tutti figli e famiglia di Dio. Esiste questa famiglia e noi, con tutti i nostri limiti, siamo in questa famiglia e Dio è con noi.

« Dall’altra parte lo spirito di raccoglimento nelle liturgie, il forte senso del sacro: nelle liturgie non c’era autopresentazione dei gruppi, autoanimazione, ma la presenza del sacro, di Dio stesso. Anche i movimenti, le danze, erano sempre di rispetto e di consapevolezza della presenza divina ».

Popolarità e presenza di Dio. L’intreccio tra questi due elementi è il segreto del pontificato di Joseph Ratzinger.

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Che Benedetto XVI sia un papa popolare sembrerebbe contraddetto dalla tempesta di critiche ostili che si abbattono quotidianamente su di lui, dai media di tutto il mondo. Nell’ultimo mese queste critiche hanno registrato un crescendo senza precedenti. Anche rappresentanti ufficiali di governi, ormai, non hanno remore a mettere sotto accusa il papa.

Ma se si guarda ai grandi numeri l’impressione che si ricava è diversa. Nei suoi viaggi, Benedetto XVI ha sempre registrato indici di popolarità superiori alle attese. Non solo in Africa ma anche su piazze difficili come gli Stati Uniti o la Francia. A Roma, all’Angelus della domenica mezzogiorno, piazza San Pietro è ogni volta gremita più che negli anni di Giovanni Paolo II.

Ciò non significa che queste medesime folle accettino e pratichino all’unisono gli insegnamenti del papa e della Chiesa. Innumerevoli indagini mettono in luce che sul matrimonio, la sessualità, l’aborto, l’eutanasia, la contraccezione i giudizi di un largo numero di persone sono più o meno distanti dal magistero cattolico.

Nello stesso tempo, tuttavia, molte di queste stesse persone manifestano un profondo rispetto per la figura del papa e per l’autorità della Chiesa.

Il caso dell’Italia è esemplare. Il 25 marzo su « la Repubblica » – cioè sul quotidiano progressista leader, molto caustico nel criticare Benedetto XVI – il sociologo Ilvo Diamanti ha fornito un’ennesima conferma dell’alto tasso di fiducia che gli italiani continuano a riporre nella Chiesa e nel papa, nonostante il diffuso dissenso su vari punti del suo insegnamento.

Ad esempio, richiesti di dire se fossero pro o contro l’affermazione del papa sul preservativo « che non risolve il problema dell’AIDS ma lo aggrava », ben tre su quattro si sono detti contrari.

Ma i medesimi intervistati, alla domanda se riponessero fiducia nella Chiesa, hanno risposto « molto » o « moltissimo » nella misura del 58,1 per cento. Ed è risultata ampia anche la fiducia riposta in Benedetto XVI, col 54,9 per cento.

Non solo. Dalla stessa indagine si ricava che la fiducia nella Chiesa e in Benedetto XVI non è in calo ma è in aumento rispetto a un anno fa.

Il professor Diamanti spiega così questo apparente contrasto:

« La Chiesa e il papa intervengono sui temi sensibili dell’etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offrono risposte discutibili e spesso discusse, contestate da sinistra o da destra. Tuttavia, offrono certezze a una società insicura, alla ricerca di riferimenti e valori. Per questo 8 italiani su 10, tra i non praticanti, considerano importante dare ai figli una educazione cattolica e li iscrivono all’ora di religione. Per questo una larghissima maggioranza delle famiglie, vicina al 90 per cento, destina l’8 per mille della propria imposta sul reddito alla Chiesa cattolica ».

E per questo stesso motivo – si può aggiungere – il capo del governo italiano Silvio Berlusconi non si è unito nei giorni scorsi al coro di critiche al papa dei rappresentanti di Francia, Germania, Belgio, Spagna, eccetera. Anzi, si è espresso in direzione opposta.

Il 21 marzo ha detto che è doveroso rispettare la Chiesa e difendere la sua libertà di parola e di azione « anche quando si trova a proclamare principi e concetti difficili e impopolari, lontani da quelle che sono le opinioni di moda ». Con ciò Berlusconi ha semplicemente espresso quello che è il sentire comune di tantissimi italiani.

***

I dati sopra richiamati fanno quindi già intravvedere la sostanza della questione: che cioè la popolarità di Benedetto XVI ha la sua sorgente proprio nel modo in cui egli svolge la sua missione di successore di Pietro.

Questo papa è rispettato e ammirato per una ragione fondamentale. Perché ha posto in cima a tutto questa priorità, da lui formulata così nella lettera ai vescovi dello scorso 10 marzo, documento capitale del suo pontificato:

« Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Giovanni 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più ».

Domenica 15 marzo, due giorni prima di partire per l’Africa, Benedetto XVI non disse niente di diverso nello spiegare la finalità del suo viaggio, alla folla convenuta per l’Angelus in piazza San Pietro:

« Parto per l’Africa con la consapevolezza di non avere altro da proporre e donare a quanti incontrerò se non Cristo e la buona novella della sua Croce, mistero di amore supremo, di amore divino che vince ogni umana resistenza e rende possibile persino il perdono e l’amore per i nemici. Questa è la grazia del Vangelo capace di trasformare il mondo; questa è la grazia che può rinnovare anche l’Africa, perché genera una irresistibile forza di pace e di riconciliazione profonda e radicale. La Chiesa non persegue obiettivi economici, sociali e politici; la Chiesa annuncia Cristo, certa che il Vangelo può toccare i cuori di tutti e trasformarli, rinnovando in tal modo dal di dentro le persona e le società ».

In Camerun e in Angola, il cuore del messaggio del papa fu effettivamente questo. Non le denunce – pur da lui fatte con parole forti – dei mali del continente e delle responsabilità di chi li genera. Ma per prima cosa quello che fu l’annuncio di Pietro allo storpio, nel capitolo 3 degli Atti degli Apostoli: « Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina! ».

Tra i diciannove discorsi, messaggi, interviste, omelie pronunciati da Benedetto XVI nei sette giorni del suo viaggio in Camerun e in Angola sarebbe interessante ricavare un’antologia dei passi più significativi.

Ma per capire il senso profondo della sua missione basta riportare qui un solo testo emblematico: l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella messa di sabato 21 marzo, a Luanda, nella chiesa di San Paolo.

Lo spirito di raccoglimento, il forte senso della presenza di Dio, rimasti impressi nella memoria del papa alla vista delle folle che seguivano la liturgia, come pure l’esuberante festosità con cui lo hanno accolto ed avvolto, hanno una loro spiegazione anche in questa omelia di papa Ratzinger in una remota chiesa dell’Africa:

« Affrettiamoci a conoscere il Signore »

di Benedetto XVI

Carissimi fratelli e sorelle, amati lavoratori della vigna del Signore, come abbiamo sentito, i figli d’Israele si dicevano l’un l’altro: « Affrettiamoci a conoscere il Signore » (Osea 6, 3). Essi si rincuoravano con queste parole, mentre si vedevano sommersi dalle tribolazioni. Queste erano cadute su di loro – spiega il profeta – perché vivevano nell’ignoranza di Dio; il loro cuore era povero d’amore. E il solo medico in grado di guarirlo era il Signore. Anzi, è stato proprio Lui, come buon medico, ad aprire la ferita, affinché la piaga guarisse. E il popolo si decide: « Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà » (Osea 6, 1). In questo modo hanno potuto incrociarsi la miseria umana e la misericordia divina, la quale null’altro desidera se non accogliere i miseri.

Lo vediamo nella pagina del Vangelo proclamata: « Due uomini salirono al tempio a pregare »; di là, uno « tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro » (Luca 18, 10.14). Quest’ultimo aveva esposto tutti i suoi meriti davanti a Dio, quasi facendo di Lui un suo debitore. In fondo, egli non sentiva il bisogno di Dio, anche se Lo ringraziava per avergli concesso di essere così perfetto e « non come questo pubblicano ». Eppure sarà proprio il pubblicano a scendere a casa sua giustificato. Consapevole dei suoi peccati, che lo fanno rimanere a testa bassa – in realtà però egli è tutto proteso verso il Cielo –, egli aspetta ogni cosa dal Signore: « O Dio, abbi pietà di me peccatore » (Luca 18, 13). Egli bussa alla porta della Misericordia, la quale si apre e lo giustifica, « perché – conclude Gesù – chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Luca 18, 14).

Di questo Dio, ricco di misericordia, ci parla per esperienza personale san Paolo, patrono della città di Luanda e di questa stupenda chiesa, edificata quasi cinquant’anni fa. Ho voluto sottolineare il bimillenario della nascita di san Paolo con il giubileo paolino in corso, allo scopo di imparare da lui a conoscere meglio Gesù Cristo. Ecco la testimonianza che egli ci ha lasciato: « Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo io ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, affinché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in Lui per avere la vita eterna » (1 Timoteo 1, 15-16). E, con il passare dei secoli, il numero dei raggiunti dalla grazia non ha cessato di aumentare. Tu ed io siamo di loro. Rendiamo grazie a Dio perché ci ha chiamati ad entrare in questa processione dei tempi per farci avanzare verso il futuro. Seguendo coloro che hanno seguito Gesù, con loro seguiamo lo stesso Cristo e così entriamo nella Luce. [...]

Fondamentale nella vita di Paolo è stato il suo incontro con Gesù, quando camminava per la strada verso Damasco: Cristo gli appare come luce abbagliante, gli parla, lo conquista. L’apostolo ha visto Gesù risorto, ossia l’uomo nella sua statura perfetta. Quindi si verifica in lui un’inversione di prospettiva, ed egli giunge a vedere ogni cosa a partire da questa statura finale dell’uomo in Gesù: ciò che prima gli sembrava essenziale e fondamentale, adesso per lui non vale più della « spazzatura »; non è più « guadagno » ma perdita, perché ora conta soltanto la vita in Cristo (cfr. Filippesi 3, 7-8). Non si tratta di semplice maturazione dell’io di Paolo, ma di morte a se stesso e di risurrezione in Cristo: è morta in lui una forma di esistenza; una forma nuova è nata in lui con Gesù risorto.

Miei fratelli e amici, « affrettiamoci a conoscere il Signore » risorto! Come sapete, Gesù, uomo perfetto, è anche il nostro vero Dio. In Lui, Dio è diventato visibile ai nostri occhi, per farci partecipi della sua vita divina. In questo modo, viene inaugurata con Lui una nuova dimensione dell’essere, della vita, nella quale viene integrata anche la materia e mediante la quale sorge un mondo nuovo. Ma questo salto di qualità della storia universale che Gesù ha compiuto al nostro posto e per noi, in concreto come raggiunge l’essere umano, permeando la sua vita e trascinandola verso l’alto? Raggiunge ciascuno di noi attraverso la fede e il Battesimo. Infatti, questo sacramento è morte e risurrezione, trasformazione in una vita nuova, a tal punto che la persona battezzata può affermare con Paolo: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Galati 2, 20). Vivo io, ma già non più io. In certo modo, mi viene tolto il mio io, e viene integrato in un Io più grande; ho ancora il mio io, ma trasformato e aperto agli altri mediante il mio inserimento nell’Altro: in Cristo, acquisto il mio nuovo spazio di vita. Che cosa è dunque avvenuto di noi? Risponde Paolo: Voi siete diventati uno in Cristo Gesù (cfr Galati 3, 28).

E, mediante questo nostro essere cristificato per opera e grazia dello Spirito di Dio, pian piano si va completando la gestazione del Corpo di Cristo lungo la storia. In questo momento, mi piace andare col pensiero indietro di cinquecento anni, ossia agli anni 1506 e seguenti, quando in queste terre, allora visitate dai portoghesi, venne costituito il primo regno cristiano sub-sahariano, grazie alla fede e alla determinazione del re Dom Afonso I Mbemba-a-Nzinga, che regnò dal menzionato anno 1506 fino al 1543, anno in cui morì; il regno rimase ufficialmente cattolico dal secolo XVI fino al XVIII, con un proprio ambasciatore in Roma. Vedete come due etnie tanto diverse – quella banta e quella lusiade – hanno potuto trovare nella religione cristiana una piattaforma d’intesa, e si sono impegnate poi perché quest’intesa durasse a lungo e le divergenze – ce ne sono state, e di gravi – non separassero i due regni! Di fatto, il Battesimo fa sì che tutti i credenti siano uno in Cristo.

Oggi spetta a voi, fratelli e sorelle, sulla scia di quegli eroici e santi messaggeri di Dio, offrire Cristo risorto ai vostri concittadini. Tanti di loro vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati; disorientati, arrivano al punto di condannare bambini della strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni. Chi può recarsi da loro ad annunziare che Cristo ha vinto la morte e tutti quegli oscuri poteri (cfr. Efesini 1, 19-23; 6, 10-12)? Qualcuno obietta: « Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi nel modo migliore la propria autenticità ». Ma, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna.

Venerati e amati fratelli e sorelle, diciamo loro come il popolo israelita: « Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà ». Aiutiamo la miseria umana ad incontrarsi con la misericordia divina. Il Signore fa di noi i suoi amici, Egli si affida a noi, ci consegna il suo corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere un solo sentire con Lui, volere ciò che Egli vuole e non volere ciò che Egli non vuole. Gesù stesso ha detto: « Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando » (Giovanni 15, 14). Sia questo il nostro impegno comune: fare, tutti insieme, la sua santa volontà: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura » (Marco 16, 15). Abbracciamo la sua volontà, come ha fatto san Paolo: « Predicare il Vangelo è un dovere per me: guai a me se non annuncio il Vangelo! » (1 Corinzi 9, 16).

Cardinale Joseph Ratzinger: « Un uomo aveva due figli »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090314

Meditazione del giorno
Cardinale Joseph Ratzinger [Papa Benedetto XVI]
Ritiro predicato al Vaticano, 1983

« Un uomo aveva due figli »

Meditando questa parabola, non dobbiamo dimenticare la figura del figlio maggiore. In un certo senso non è meno importante di quella del più giovane, sicché si potrebbe anche, e forse a maggior ragione, parlare della parabola dei due fratelli. Con la figura dei due fratelli, il testo si colloca nel cuore di una lunga vicenda biblica, iniziata con la storia di Caino e Abele, ripresa con i fratelli Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù, e interpretata in varie parabole di Gesù. Nella predicazione di Gesù, le figure dei due fratelli riflettono soprattutto il problema Israele – pagani… Scoprendo che i pagani sono chiamati senza essere sottomessi agli obblighi della Legge, Israele esprime la sua amarezza: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comandamento». Con queste parole: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo», la misericordia di Dio invita Israele ad entrare.

Ma il significato  del  figlio maggiore  in questo contesto è ancora più ampio. In un certo senso, rappresenta l’uomo devoto, cioè tutti coloro che sono rimasti con il Padre senza disobbedire ai suoi comandamenti. Nel momento in cui torna il peccatore, si risveglia la gelosia, quel veleno fino ad allora nascosto nel fondo del loro animo. Perché questa gelosia? Mostra come molti «devoti» nascondono anche loro, nel cuore, il desiderio del paese lontano e dei suoi miraggi. La gelosia rivela che queste persone non hanno veramente capito la bellezza della patria, la felicità del «tutto ciò che è mio è tuo», la libertà di essere figli e proprietari. Appare così che anche loro desiderano segretamente la felicità del paese lontano. E alla fine, non entrano alla festa; e infine rimangono fuori.

La figura del fratello maggiore ci obbliga ad un esame di coscienza; questa figura ci permette di capire la reinterpretazione dei dieci comandamenti che viene fatta nel Discorso dalla Montagna (Mt 5,28). Non soltanto l’adulterio esteriore, ma anche quello interiore ci allontana da Dio; è possibile stare in casa e, allo stesso tempo, partire. In questo modo, dobbiamo anche capire l’ «abbondanza», la struttura cioè della giustizia cristiana: si traduce con un «no» alla gelosia e un «sì» alla misericordia di Dio.

LA DOTTRINA PAOLINA DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO (1 – IL SEGUITO SUBITO SOTTO)

LA DOTTRINA PAOLINA DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO (1 – IL SEGUITO SUBITO SOTTO)

stralcio dal libro: Ratzinger J., La Chiesa, una comunità sempre in cammino, titolo originale “Zur Gemienschaft gerufen”, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991

(non metto le citazioni, sono poche e in lingua tedesca, mi sembra un sovrappiù per un Blog)

CAPITOLO I: Origine e natura della Chiesa

Le sezioni di questo capitolo:

1. Considerazioni metodologiche preliminari

2. La testimonianza neotestamentaria sull’origine e la natura della Chiesa

a) Gesù e la Chiesa

b) La auto designazione della Chiesa come ekklesia

c) La dottrina paolina della Chiesa come corpo di Cristo

3. La visione della Chiesa negli Atti degli Apostoli

pagg. 23-28

La nozione neotestamentaria di popoli di Dio non va dunque in alcun modo pensata separatamente dalla cristologia. Questa, d’altra parte, non è una teoria astratta, bensì un evento che si concreta nei sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. In essi la cristologia si apre alla dimensione trinitaria. Difatti questa infinita ampiezza e apertura può essere solo del Cristo Risorto, del quale san Paolo dice: “Il Signore è lo Spirito” (2Cor 3,17). E nello Spirito noi diciamo con Cristo: “Abbà”, perché siamo diventati figli (cfr. Rm 8,15; Gal 4,5). Paolo dunque non ha introdotto in concreto nulla di nuovo chiamando la Chiesa “corpo di Cristo”; egli ci offre solo una formula concisa a indicare ciò che sin dal principio era caratteristico della Crescita della Chiesa. È totalmente falsa l’affermazione, pur ripetuta in continuazione, che Paolo non avrebbe fatto altro che applicare alla Chiesa un’allegoria diffusa nella filosofia stoica del suo tempo. L’allegoria stoica paragona lo Stato a un organismo in cui tute le membra devono cooperare. L’idea dello Stato come organismo è una metafora per indicare la dipendenza di tutti da tutti e quindi l’importanza delle diverse funzioni che sono all’origine della vita di una collettività. Questo paragone veniva utilizzato per calmare le masse in agitazione e richiamarle alle loro funzioni che sono all’origine della vita di una collettività. Questo paragone veniva utilizzato per calmare le masse in agitazione e richiamarle alle loro funzioni: ogni organo ha una sua particolare importanza; è insensato che tutti vogliano essere una stessa cosa, perché allora, anziché divenire qualcosa di più elevato, si abbassano tutti e si distruggono a vicenda.

È incontestabile che Paolo abbia ripreso anche questi pensieri, per esempio quando dice ai Corinti in lite fra loro che sarebbe insensato se d’improvviso il piede volesse essere mano, ho l’orecchio occhio: “Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ma Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come ha voluto…Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo” (1Cor 12, 16ss). L’idea del corpo di Cristo in sa Paolo non si esaurisce tuttavia in simili riflessioni sociologiche e filosofico-morali; in tal caso sarebbe solo una glossa marginale all’originario concetto della Chiesa. Già nel mondo pre-cristiano greco e latino la metafora del corpo andava oltre. L’idea platonica secondo cui tutti il mondo costituisce un unico corpo, un essere vivente, fu sviluppata dalla filosofia stoica e ricollegata al concetto della divinità del mondo. Ma questo esula da quello che stiamo trattando. Perché le vere radici del’idea paolina del corpo di Cristo sono sen’altro intrabibliche. Tre sono le origini accertabili di quest’idea nella tradizione biblica.

C’è anzitutto sullo sfondo la nozione semitica di “personalità corporativa”, che si esprime ad esempio nel pensiero: noi tutti siamo Adamo, un unico uomo in grande. Nell’epoca moderna con la sua esaltazione del soggetto quest’idea è diventata del tutto incomprensibile.’io è ora una roccaforte, dalla quale non si esce più. È tipico il fatto che Cartesio cerchi di dedurre tuta la filosofia dall’”io penso”, perché soltanto l’io appariva ancora disponibile. Oggi la nozione di soggetto a poco a poco si dissolve nuovamente; diviene evidente che non esiste un io rigidamente chiuso in se stesso, dato che molteplici forze penetrano in noi e da noi promanano. Nel contempo si torna di nuovo a comprendere che l’io si forma a partire da tu e che i due si compenetrano reciprocamente. Così potrebbe essere di nuovo accettabile quella visione semitica della personalità corporativa, senza la quale difficilmente si può entrare nell’idea del corpo di Cristo.

LA DOTTRINA PAOLINA DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO – (2)

LA DOTTRINA PAOLINA DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO

(2 – PRIMA PARTE SUBITO SOPRA)

Esistono, inoltre, due radici più concrete della formula paolina. L’una è presente nell’eucarestia, con la quale il Signore stesso ha formalmente determinato il sorgere di questa idea. “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo”, dice Paolo ai Corinti, nella stessa lettera, dune, in cui sviluppa per la prima volta la dottrina del corpo Cristo (1Cor 10, 16s). Qui noi troviamo il suo vero fondamento; il Signore diviene il nostro pane, il nostro nutrimento. Egli ci dà il suo corpo; una parola che però va pensata a partire dalla risurrezione e dallo sfondo linguistico semitico da cui muove San Paolo. Il corpo è il sé di un uomo, che non si risolve nel corporeo, Cristo ci dà se stesso, lui che, in quanto risorto, è rimasto corpo. Sebbene in modo nuovo, il fatto esteriore del mangiare diviene l’espressione di quel compenetrarsi di due soggetti che già poch’anzi abbiamo preso brevemente in considerazione. Comunione significa che la barriera apparentemente invalicabile del mio io viene infranta e può essere infranta poiché Gesù per primo ha voluto aprire tutto se stesso, ci ha tutti accolti dentro di sé e si è dato totalmente a noi. Comunione significa dunque fusione delle esistenze; come nell’alimentazione il corpo può assimilare una sostanza estranea, e così vivere, così il mio io viene “assimilato” a Gesù steso, fatto simile a lui in uno scambio che spezza sempre di più le linee di separazione. È quanto avviene a quelli che si comunicano; tutti vengono assimilati a questo “pane” e divengono così tra loro una solo cosa: un solo corpo. In questo modo l’eucarestia edifica la Chiesa, aprendo le mura della soggettività e radunandoci in una profonda comunione esistenziale. Per essa ha luogo l’ “adunanza” tramite la quale il Signore ci riunisce. La formula: “la Chiesa è il corpo di Cristo” afferma dunque che l’eucarestia, in cui il Signore ci dà il suo corpo e fa di noi un solo corpo, è il luogo dell’ininterrotta nascita della Chiesa, nel quale egli la fonda sempre di nuovo; nell’eucarestia la Chiesa è se stessa nel modo più intenso; in tutti i luoghi e nondimeno una sola, così come lui è uno solo.

Con queste riflessioni siamo giunti alla terza radice del “corpo di Cristo” nella concezione paolina; l’idea del rapporto sponsale o – se vogliamo esprimerci in termini neutrali – la filosofia biblica dell’amore, che è inseparabile dalla teologia eucaristica. Questa filosofia dell’amore si presenta subito al principio della Sacra Scrittura, a conclusione del racconto della creazione, allorché ad Adamo viene attribuita la parola profetica: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e due saranno una sola carne” (Gn 2,24). Una sola carne, vale a dire: un’unica nuova esistenza. Anche questa idea del divenire una sola carne nell’unione di anima e corpo dell’uomo e della donna viene ripresa nella prima lettera ai Corinzi da Paolo, il quale precisa che essa si avvera nella comunione: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6,17). Anche qui la parola “spirito” non deve essere intesa seconda la sensibilità linguistica moderna, ma dobbiamo leggerla nell’accezione paolina; in tal caso non è così lontana dal “corpo” nel significato. Essa vuole indicare una sola esistenza spirituale con colui che nella risurrezione è divenuto “Spirito” dallo Spirito Santo ed è rimasto corpo nell’apertura dello Spirito Santo. Ciò che poco fa è stato sviluppato a partire dall’immagine del nutrimento, diviene ora più trasparente e comprensibile a partire da quella dell’amore; nel sacramento come atto dell’amore avviene questa fusione di due soggetti che superano la loro divisione e divengono una cosa sola. Il mistero eucaristico, proprio nell’applicazione metaforica dell’idea sponsale, rimane il nucleo del concetto di Chiesa e della sua definizione mediante la formula “corpo di Cristo”.

Ma ora appare in primo piano un nuovo e più importante aspetto, che potrebbe essere dimenticato in una teologia sacramentaria di corto respiro, ed è che la Chiesa è corpo di Cristo nel modo in cui la moglie insieme al marito diviene un solo corpo e una sola carne. In altre parole: essa è corpo non secondo una identità indifferenziata, ma in virtù dell’atto pneumatico-reale dell’amore che unisce gli sposi. Detto ancora con altri termini: Cristo e la Chiesa sono un corpo nel senso in cui marito e moglie sono una sola carne, così che pur nella loro inscindibile unione fisico-spirituale restano tuttavia non mescolati e non confusi. La Chiesa non diventa semplicemente Cristo, essa rimane la serva che nel suo amore egli innalza a sua sposa che cerca il suo volto in questa fine dei tempi. Ma in questo modo sul fondamento dell’indicativo che si annuncia nelle parole “sposa” e “carne”, appare anche l’imperativo dell’esistenza cristiana. Diviene perciò evidente il carattere dinamico del sacramento, che non è una realtà fisica predeterminata, ma qualcosa che si realizza a livello personale. Proprio il mistero dell’amore come mistero sponsale manifesta l’immensità del nostro compito e la possibilità di caduta nella Chiesa. Sempre di nuovo, attraverso l’amore unificante, essa deve divenire ciò che essa è, e sottrarsi alla tentazione di rifiutare la propria vocazione per cadere nell’infedeltà di un’arbitraria autonomia. Diviene evidente il carattere redazionale e pneumatologico dell’idea di corpo di Cristo e della concezione sponsale, e la ragione per cui la Chiesa non è mai giunta a perfezione ma ha sempre bisogno di rinnovamento. Essa è sempre in cammino verso l’unione con Cristo: ciò che comporta anche la sua propria, interiore unità che diviene, viceversa, tanto più fragile, quanto più si allontana da questo rapporto fondamentale.

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