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IL PRIORE DI DUMENZA PARLA DI BENEDETTO DA NORCIA: UN UOMO, UN MONACO, UN SANTO

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IL PRIORE DI DUMENZA PARLA DI BENEDETTO DA NORCIA: UN UOMO, UN MONACO, UN SANTO

2^ parte
12 luglio 2015 Cultura
di Fabio Cittadini

L’11 luglio si è ricordato un grande uomo che il beato papa Paolo VI ha voluto come patrono dell’Europa: san Benedetto. Completiamo il rittratto di questo santo ponendo ad uno dei suoi ‘figli’, fra’ Luca Antonio Fallica, priore del monastero benedettino di Dumenza, in provincia di Varese, delle domande su un santo che ancora oggi, a distanza di molti secoli, affascina molte persone. La Regola è il miglior testamento di San Benedetto. Quali sono gli elementi che la rendono ancora oggi così attuale?
“Una Regola nasce ovviamente in un contesto storico preciso, segnato oltre tutto da elementi culturali, sociali, religiosi, ma anche economici e politici, contingenti e circoscritti, che inevitabilmente il procedere della storia oltrepasserà e modificherà. Di conseguenza, anche nella regola di Benedetto, che nasce nel VI secolo, ci sono molti elementi che possono essere compresi soltanto se collocati nel contesto in cui sono maturati, e che non possono essere vissuti per così dire ‘alla lettera’, secondo una prospettiva che potremmo definire fondamentalista.
Nonostante questi aspetti, la Regola di Benedetto non ha perso attualità, neppure al giorno di oggi, così come è rimasta viva e attuale nelle epoche precedenti alla nostra, e comunque anch’esse successive e diverse rispetto al tempo originaria in cui nasce. Il motivo credo stia proprio nel fatto che la Regola stessa, al suo interno, offre un criterio di interpretazione che rende impossibile una lettura letterale e fondamentalista. Questo criterio che in latino san Benedetto chiamerebbe ‘discretio’, noi potremmo definirlo ‘principio o criterio di discernimento’.
San Benedetto stesso, in qualche modo, chiede di vivere la sua Regola non attenendosi scrupolosamente alla sua lettera, ma di interpretarla con discernimento, adattandola alle diverse situazioni di comunità differenti. Lui probabilmente pensava a comunità del suo tempo, ma questo principio ha consentito di mantenere viva e attuale la Regola anche per comunità di epoche successive e molto lontane tra loro. È interessante a questo proposito ricordare come san Benedetto, al capitolo primo della Regola, definisca i monaci cenobiti: sono coloro che ‘prestano servizio sotto una regola e un abate’.
Insieme a un principio ‘oggettivo’ – la regola – c’è un principio ‘soggettivo’ – l’abate – che interpreta e modella la regola sulla base delle esigenze e delle caratteristiche della sua comunità. Senza dimenticare che al capitolo terzo Benedetto chiede all’abate di decidere dopo aver sentito il consiglio di tutti i fratelli radunati in Capitolo, anche del più giovane e inesperto. Infine, proprio a conclusione della Regola, nell’ultimo capitolo, il settantatreesimo, definisce la sua una ‘regola minima scritta per principianti’, che deve essere letta e vissuta facendo riferimento agli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento, dei Padri della Chiesa e degli altri autori monastici che la precedono. Come dire: Benedetto non assolutizza la sua Regola ma la inserisce nella luce della Parola di Dio e di una tradizione vivente. Ed è questa tradizione, viva e non morta, non nostalgica ma aperta profeticamente al futuro, a renderla ancora attuale”.
San Benedetto è un patrono d’Europa. Cosa questa Europa dovrebbe apprendere dal suo patrono?
“San Benedetto, proprio perché innamorato di Dio, teso a cercare il suo volto, animato dall’unico desiderio di non anteporre nulla all’amore di Cristo, vivendo questo primato di Dio ha potuto scoprire, riconoscere e servire la verità della persona umana. Il suo è un vero umanesimo perché fondato sulla centralità dell’esperienza di Dio.
Ci sono tanti passi della sua Regola che si potrebbero citare e che mostrano come il suo cercare Dio sopra ogni cosa lo porti, in modo molto concreto e sollecito, a porre grande attenzione, a prendersi cura con misericordia e compassione, delle tante differenti situazioni personali che c’erano tra i suoi fratelli: giovani e anziani, sani e malati, forti e deboli, sapienti e analfabeti, romani e barbari…
E’ stato Paolo VI a proclamare san Benedetto patrono d’Europa, e in uno dei suoi discorsi rivolti ai monaci egli parafrasava in modo molto efficace un’espressione con cui san Gregorio Magno descrive nei Dialoghi il ritirarsi in solitudine di Benedetto, in uno dei periodi in cui egli conduce vita eremitica a Subiaco. Gregorio scrive che Benedetto ‘abitò con se stesso’ e questo habitare secum il beato Paolo VI lo traduceva con l’immagine dell’ ‘uomo recuperato a se stesso’.
San Benedetto ci propone in fondo una via concreta perché l’uomo sia recuperato a se stesso, ricordando che la persona umana è veramente se stessa quando riconosce e valorizza la sua insopprimibile apertura al trascendente, che appartiene costitutivamente al suo essere. Vorrei ricordare poi un secondo elemento dell’esperienza di Benedetto oggi molto attuale. Anche la sua vita si colloca in un momento di grande transizione: il mondo romano sta finendo sotto la spinta delle popolazioni barbariche che lo penetrano in modo diverso, e dall’incontro di questi due mondi culturali nascerà una nuova sintesi.
I monaci, che troveranno nella regola di Benedetto il fondamento della loro vita, daranno un contributo non indifferente alla elaborazione di questa nuova sintesi. Probabilmente la loro testimonianza può offrire dei criteri di discernimento ai popoli europei di oggi, che sono chiamati anch’essi, in questa epoca che torna a essere di grande e per alcuni aspetti drammatica transizione, a integrare i flussi migratori e a elaborare una nuova sintesi nell’incontro con altre tradizioni culturali e religiose”.
Lungo il corso dei secoli Benedetto ha affascinato moltissime generazioni di cristiani. Quale è la caratteristica, l’elemento che più di ogni altro ha spinto e spinge uomini e donne a percorrere la stessa avventura del patrono d’Europa?
“Quando, al capitolo 58 della Regola, Benedetto offre criteri di discernimento per saggiare l’autenticità di una vocazione monastica, in fondo propone un unico grande criterio: occorre verificare se il novizio ‘cerca veramente Dio’. Credo che questo sia l’elemento che più di altri continua ad affascinare della sua proposta: egli offre una via concreta per cercare Dio nella verità e nella concretezza della propria vita, illuminata dalla parola di Dio, sostenuta dalla preghiera, accompagnata dalla comunione fraterna.
Forse ci possono essere tanti elementi diversi che inizialmente possono attrarre, ma ultimamente ciò che deve rimanere al fondamento di tutto è questo desiderio di cercare Dio. Non è tanto la vita monastica a dover affascinare e attrarre, ma Dio stesso e il suo mistero. La vita monastica si propone umilmente come una vita tra le altre possibili per cercare e incontrare questo Dio che ci attrae a sé a alla comunione con la bellezza del suo mistero”.

Publié dans:SAN BENEDETTO DA NORCIA |on 10 juillet, 2018 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – SUBIACO 1980 (PER LA FESTA DI SAN BENEDETTO DA NORCIA)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1980/september/documents/hf_jp-ii_spe_19800928_speco-subiaco.html

GIOVANNI PAOLO II – SUBIACO 1980 (PER LA FESTA DI SAN BENEDETTO DA NORCIA)

VISITA PASTORALE A SUBIACO

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II DURANTE LA VISITA AL SACRO SPECO

28 settembre 1980

Venerabili e carissimi fratelli.

1. Oggi il grande giubileo di san Benedetto ci ha fatto venire a Subiaco. Vi ha già dato l’occasione di presiedere, nelle vostre patrie, nelle vostre diocesi, a importanti celebrazioni, non solo per i monaci e le monache, ma per tutto il Popolo di Dio affidato alle vostre cure, come ho fatto io stesso a Norcia e a Montecassino. Ma oggi, la scelta del luogo santificato da san Benedetto – il Sacro Speco – e la composizione della vostra assemblea dà un rilievo eccezionale a questa celebrazione.
Un millennio e mezzo è trascorso dalla nascita di questo grande uomo, che ha meritato nel passato il titolo di “patriarca dell’occidente”, e che e stato chiamato ai nostri giorni, da Papa Paolo VI, il “patrono dell’Europa”. Già questi titoli testimoniano che la luce della sua persona e della sua opera ha superato le frontiere del suo paese e non si è limitata solamente alla sua famiglia benedettina: questa ha del resto conosciuto una magnifica espansione ed è provenendo da numerosi paesi e continenti, che i suoi figli e le sue figlie si sono riuniti, una settimana fa, a Montecassino, per venerare la memoria del loro padre comune e fondatore del monachesimo occidentale.
Oggi, a Subiaco, ci sono i rappresentanti degli episcopati d’Europa che si ritrovano per testimoniare, in presenza dei Vescovi del mondo intero riuniti in Sinodo, a quale punto san Benedetto da Norcia sia inserito profondamente e organicamente nella storia d’Europa, e in particolare quanto gli sono debitori le società e le Chiese, del nostro continente, e come, nella nostra epoca critica, esse volgono i loro sguardi verso colui che è stato designato dalla Chiesa come loro patrono comune.
Consacrando l’abbazia di Montecassino risorta dalle rovine della guerra, il 2 ottobre 1964, Paolo VI segnalava le due ragioni che fanno sempre desiderare l’austera e dolce presenza di san Benedetto tra noi: “La fede cristiana che lui e il suo ordine hanno predicato, specialmente nella famiglia d’Europa…, e l’unità attraverso la quale il grande monaco solitario e sociale ci ha insegnato ad essere fratelli e attraverso la quale l’Europa divenne cristiana”. “È perché questo ideale spirituale dell’Europa fosse ormai sacro e intangibile” che il mio venerato predecessore proclamava quel giorno san Benedetto “patrono e protettore dell’Europa”. E il breve e solenne “pacis nuntius” che consacrava questa decisione, ricordando i meriti del grande abate, “messaggero di pace, artigiano dell’unità, maestro di civilizzazione, araldo della religione di Cristo e fondatore della vita monastica in occidente”, riaffermava che lui e i suoi figli, “con la croce, il libro e l’aratro”, portarono “il progresso cristiano alle popolazioni che si stendevano dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure di Polonia”.
2. San Benedetto fu prima di tutto un uomo di Dio. Egli lo è diventato seguendo, in modo costante, la via delle virtù indicate nel Vangelo. Fu un vero pellegrino del regno di Dio. Un vero “homo viator”. E questo pellegrinaggio è stato accompagnato da una lotta che è durata tutta la sua vita: una battaglia innanzitutto contro se stesso, per combattere “l’uomo vecchio” e fare sempre più posto in sé all’“uomo nuovo”. Il Signore ha permesso che, grazie al santo Spirito, questa trasformazione non rimanesse un avvenimento per lui solo, ma che divenisse una sorgente di luce, penetrando la storia degli uomini, penetrando soprattutto la storia d’Europa.
Subiaco fu e rimane una tappa importante di questo percorso. Da un parte, fu luogo di ritiro per san Benedetto da Norcia, egli vi si ritirò dall’età di quindici anni per essere più vicino a Dio. E nello stesso tempo un luogo che ben manifesta ciò che egli è. Tutta la sua storia resterà segnata da questa esperienza di Subiaco: la solitudine con Dio, l’austerità di vita, e la separazione di questa vita molto semplice con qualche discepolo, perché e là che è cominciata una prima organizzazione della vita cenobitica.
E per questo che vengo anch’io in questo alto luogo del Sacro Speco e del primo monastero.
3. Uomo di Dio, Benedetto lo fu realizzando continuamente il Vangelo, non solamente allo scopo di conoscerlo, ma anche di tradurlo interamente in tutta la sua vita. Si potrebbe dire che l’ha riletto in profondità – con la profondità della sua anima -, e che l’ha riletto nella sua ampiezza, secondo la dimensione dell’orizzonte che aveva sotto gli occhi. Questo orizzonte fu quello del mondo antico che era sul punto di morire e quello del mondo nuovo che era sul punto di nascere. Tanto nella profondità della sua anima che nell’orizzonte di questo mondo, egli ha affermato tutto il Vangelo: l’insieme di ciò che costituisce il Vangelo e nello stesso tempo ciascuna delle sue parti, ciascuno dei passi che la Chiesa rilegge nella sua liturgia, e anche ciascuna frase.
Sì, l’uomo di Dio – “benedictus”, il benedetto, Benedetto – si compenetra in tutta la semplicità della verità che vi è contenuta. Ed egli vive questo Vangelo. E vivendolo, egli evangelizza.
Paolo VI ci ha lasciato in eredità san Benedetto da Norcia come patrono d’Europa. Cosa voleva dirci con questo? Prima di tutto può essere che noi dobbiamo innalzarci senza posa alla traduzione del Vangelo, che deve essere tradotto interamente e in tutta la nostra vita. Che noi dobbiamo rileggerlo con tutta la profondità della nostra anima e in tutta la sua ampiezza, secondo la dimensione dell’orizzonte del mondo che noi abbiamo davanti al mondo. Il Concilio Vaticano II ha posto fermamente la realtà della Chiesa e della sua missione sull’orizzonte del mondo che giorno dopo giorno le diviene contemporaneo.
L’Europa costituisce una parte essenziale di questo orizzonte. In quanto continente nel quale si trovano le nostre patrie, essa è per noi un dono della provvidenza, che ce l’ha affidata allo stesso tempo come un’opera da realizzare. Noi, in quanto Chiesa, e in quanto pastori della Chiesa, dobbiamo rileggere il Vangelo e annunciarlo nella misura dei compiti che sono inerenti alla nostra epoca. Noi dobbiamo rileggerlo e predicarlo nella misura delle attese che non smettono di manifestarsi nella vita degli uomini e delle società, e nello stesso tempo nella misura delle contestazioni che noi incontriamo nella loro vita. Cristo non smette mai di essere “l’attesa dei popoli” e nello stesso tempo egli non smette di essere il “segno di contraddizione”.
Sì, sulle tracce di san Benedetto, il compito dei Vescovi d’Europa è d’intraprendere l’opera di evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Così facendo, essi si rifanno a ciò che è stato elaborato e costruito quindici secoli fa, allo spirito che l’ha ispirato, al dinamismo spirituale e alla speranza che ha segnato questa iniziativa; ma è un’opera da intraprendere in modo rinnovato, a prezzo di nuovi sforzi, in funzione dell’attuale contesto.
4. È in questa cornice dell’evangelizzazione che assume tutto il suo senso la dichiarazione dei Vescovi d’Europa che abbiamo appena letto: “Responsabilità dei cristiani di fronte all’Europa d’oggi e di domani”. Questo documento, elaborato in comune, è un apprezzabile frutto della responsabilità collegiale dei Vescovi di tutto il continente europeo. È senza dubbio la prima volta che l’iniziativa assume una tale ampiezza. Si tratta di un documento, in qualche modo, della Chiesa cattolica in Europa, che è rappresentata, in modo particolare, dai Vescovi come pastori e maestri di fede. Saluto con gioia questo incoraggiante segno di una responsabilità collegiale che progredisce in Europa, di una unità meglio consolidata tra gli episcopati. Questi episcopati si trovano infatti in paesi dalle situazioni molto diverse, che si tratti dei loro sistemi sociali o economici, dell’ideologia dei loro stati o della posizione della Chiesa cattolica, che forma a volte una maggioranza indiscutibile, altre volte una piccola minoranza al fianco di altre Chiese, o in rapporto a una società molto secolarizzata. Confidando nel carattere benefico, stimolante, degli scambi e della cooperazione, come ho già molte volte detto, io incoraggio con tutto il cuore il proseguimento di una tale collaborazione, che ben si iscrive nella linea del Concilio Vaticano II. Essa non è d’altra parte estranea alla pratica benedettina e cistercense di una interdipendenza e di una cooperazione tra i differenti monasteri dispersi attraverso l’Europa.
Nella dichiarazione resa pubblica oggi e in questo alto luogo, vi esprimo a giusto titolo la preoccupazione di una unità ecclesiale estesa. L’Europa è infatti il continente in cui le separazioni ecclesiali hanno avuto la loro origine e si sono manifestate con forza. Vale a dire che le Chiese in Europa – quelle sorte dalla Riforma, l’ortodossa e la Chiesa cattolica, che rimangono legate in modo speciale all’Europa – hanno una responsabilità particolare sul cammino dell’unità, sul piano della comprensione reciproca, dei lavori teologici e della preghiera.
Ugualmente, di fronte alle comunità cattoliche degli altri continenti, qui rappresentate, la Chiesa d’Europa deve caratterizzarsi per l’accoglienza, il servizio e lo scambio reciproco, per aiutare queste Chiese sorelle a trovare la loro propria identità, nell’unità della fede, dei sacramenti e della gerarchia.
Insomma è una testimonianza comune della vostra cura pastorale che voi date oggi, cari fratelli, che noi diamo oggi, in funzione dei bisogni e delle attese. Io non ho ripreso qui ciò che è stato abbondantemente esposto in questo documento comune. Si tratta di tracciare un cammino di evangelizzazione per l’Europa, e di seguirlo, con i nostri fedeli. È un’opera da continuare e da riprendere senza posa. Il prossimo “symposium” dei Vescovi d’Europa non ha per tema “l’autoevangelizzazione dell’Europa?” E questo ci riporta al grande progetto, all’iniziativa senza pari di san Benedetto, di cui certe caratteristiche specifiche hanno enormi conseguenze umane, sociali e spirituali.
5. San Benedetto da Norcia è divenuto patrono spirituale dell’Europa perché, come il profeta, egli ha fatto del Vangelo il suo nutrimento, e ne ha gustato in una volta la dolcezza e l’amarezza. Il Vangelo costituisce infatti la totalità della verità sull’uomo: è insieme la gioiosa novella e nello stesso tempo la parola della croce. Attraverso esso vediamo rivivere, in maniere diverse, il problema del ricco e del povero Lazzaro – con il quale la liturgia di questo giorno ci ha resi familiari – in quanto dramma della storia, in quanto problema umano e sociale. L’Europa ha inscritto questo problema nella sua storia; essa l’ha portato ben al di là delle frontiere del suo continente. Con esso ha seminato l’inquietudine nel mondo intero. Dalla metà del nostro secolo, questo problema è ritornato, in un certo senso, in Europa; esso si pone anche nella vita delle sue società. Non manca di essere l’origine delle tensioni. Non smette di essere l’origine delle minacce.
Di queste minacce, io ho già parlato il primo giorno dell’anno, facendo allusione a questo grande anniversario di san Benedetto; ricordavo, di fronte ai pericoli della guerra nucleare che minacciano l’esistenza stessa del mondo, che “lo spirito benedettino è uno spirito di salvataggio e di promozione, nato dalla coscienza del piano divino della salvezza ed educato nell’unione quotidiana della preghiera e del lavoro”. Esso “è agli antipodi di ogni programma di distruzione”.
Il pellegrinaggio che noi compiamo oggi è dunque ancora un grande grido e una nuova supplica per la pace in Europa e nel mondo intero. Noi preghiamo affinché le minacce di autodistruzione che le ultime generazioni hanno fatto sorgere all’orizzonte della loro vita si allontanino da tutti i popoli del nostro continente e di tutti gli altri continenti. Noi preghiamo affinché si allontanino le minacce d’oppressione degli uni da parte degli altri: la minaccia della distruzione degli uomini e dei popoli che, nel corso delle loro lotte storiche e a prezzo di tante vittime, hanno acquisito il diritto morale di essere se stessi e di decidere da se stessi.
6. Che si trattasse del mondo che ai tempi di san Benedetto si limitava all’antica Europa, o del mondo che, nello stesso tempo, stava per sorgere, il loro orizzonte passava attraverso la parabola del ricco e del povero Lazzaro. Al momento in cui il Vangelo, la buona novella del Cristo, entrava nell’antichità, sopportava i pesi dell’istituzione della schiavitù. Benedetto da Norcia trovò nell’orizzonte del suo tempo le tradizioni della schiavitù, e nello stesso tempo rileggeva nel Vangelo una verità sconcertante sulla riconciliazione definitiva della sorte del ricco e del povero Lazzaro.
Leggeva anche la gioiosa verità sulla fraternità di tutti gli uomini. Dagli inizi il Vangelo costituirà dunque un richiamo a superare la schiavitù nel nome dell’eguaglianza degli uomini agli occhi del Creatore e Padre. Nel nome della croce e della redenzione.
Questa verità, questa buona novella dell’eguaglianza e della fraternità, non è stato san Benedetto che l’ha tradotta in regola di vita? Egli l’ha tradotta non solamente in regola di vita per le sue comunità monastiche, ma più ancora, in sistema di vita per gli uomini e per i popoli. “Ora et labora”. Il lavoro, nell’antichità, era la sorte degli schiavi, il segno dell’avvilimento. Essere libero significava non lavorare, e dunque vivere del lavoro degli altri. La rivoluzione benedettina mette il lavoro al cuore stesso della dignità dell’uomo. L’uguaglianza degli uomini intorno al lavoro diviene, attraverso il lavoro stesso, come un fondamento della libertà dei figli di Dio, della libertà grazie al clima di preghiera in cui si vive il lavoro. Ecco qui una regola e un programma. Un programma che comporta degli elementi. La dignità del lavoro non può infatti essere tratta unicamente da criteri materiali, economici. Essa deve maturare nel cuore dell’uomo. E essa non può maturare nel profondo che mediante la preghiera. Perché è la preghiera che dice in definitiva all’umanità ciò che è l’uomo del lavoro, colui che lavora con il sudore della sua fronte e anche con la fatica del suo spirito e delle sue mani. Essa ci dice che egli non può essere schiavo, ma che egli è libero. Come afferma san Paolo: “lo schiavo che è stato chiamato dal Signore, è un libero affrancato dal Signore” (1Cor 7,22). E Paolo, che non ha creduto indegno di un apostolo di “affaticarsi lavorando con le proprie mani” (1Cor 4,12) non ha paura di mostrare agli anziani di Efeso le sue proprie mani che hanno provveduto ai propri bisogni e a quelli dei suoi compagni (cf. At 20,34). È nella fede di Cristo e nella preghiera che il lavoratore scopre la sua dignità. È ancora san Paolo che precisa: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio che grida: “Abbà, Padre!”. Dunque non sei più schiavo, ma figlio” (Gal 4,6-7).
Non abbiamo visto recentemente uomini che, di fronte a tutta l’Europa e al mondo intero, univano la proclamazione della dignità del loro lavoro alla preghiera?
7. Benedetto da Norcia, che per la sua azione profetica ha cercato di far uscire l’Europa dalle tristi tradizioni della schiavitù, sembra dunque parlare, dopo quindici secoli, a numerosi uomini e a molteplici società che bisogna liberare dalle diverse forme contemporanee di oppressione dell’uomo. La schiavitù pesa su colui che è oppresso, ma anche sull’oppressore. Non abbiamo conosciuto, nel corso della storia, delle potenze, degli imperi che hanno oppresso nazioni e popoli in nome della schiavitù ancora più forte della società degli oppressori? La parola d’ordine “ora et labora” è un messaggio di libertà.
Di più, questo messaggio benedettino non è oggi all’orizzonte del nostro mondo, un richiamo a liberarsi dalla schiavitù del consumismo d’un modo di pensare e di giudicare, di stabilire i nostri programmi e di condurre il nostro stile di vita unicamente in funzione dell’economia?
In questi programmi scompaiono i valori umani fondamentali. La dignità della vita è sistematicamente minacciata. La famiglia è minacciata, vale a dire questo legame essenziale reciproco fondato sulla confidenza delle generazioni, che trova la sua origine nel mistero della vita e della pienezza di tutta l’opera dell’educazione. È anche tutto il patrimonio spirituale delle nazioni e delle patrie che è minacciato.
Siamo in grado noi di frenare tutto questo? Di ricostruire? Siamo in grado di allontanare dagli oppressi il peso della costrizione? Siamo capaci di convincere il mondo che l’abuso della libertà è un’altra forma di costrizione?
8. San Benedetto ci è stato donato come patrono dell’Europa dei nostri tempi, del nostro secolo, per testimoniare che siamo capaci di fare tutto questo.
Noi dobbiamo solamente assimilare di nuovo il Vangelo nel più profondo della nostra anima, nella cornice della nostra attuale epoca. Dobbiamo accettarlo come un nutrimento. Si riscoprirà allora un po’ alla volta il cammino della salvezza e della pace come in quei tempi lontani in cui il Signore dei signori ha posto Benedetto da Norcia, quale lampada sul candelabro, quale faro sulla strada della storia.
È lui infatti che è il Signore di tutta la storia del mondo, Gesù Cristo, che, da ricco che era, si è fatto povero per noi, al fine di arricchirci con la sua povertà (cf. 2Cor 8,9).
A lui onore e gloria per i secoli!

L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO – SAN BENEDETTO E L’EUROPA

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L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO – SAN BENEDETTO E L’EUROPA

Dalla storia passata alla storia futura, per una nuova Europa

Estratto dal libro « SAN BENEDETTO dal passato al futuro dell’Europa » di Reginald Gregoire O.S.B.

- Edito dall’Abbazia San Benedetto – Seregno

Un progetto, un ideale, una attesa, una utopia, una profezia: l’Europa sarà nuova in quanto accetterà il cristianesimo, cioè il riferimento al Dio incarnato, all’Eterno assoluto. Il momento attuale è propizio per stimolare gli Europei (o per lo meno tanti europei) a respingere l’apostasia e la non-cristianità del continente. Come si presenterebbe un’Europa senza cristianesimo nella presente fase evolutiva? Certo, l’Europa non vive di immagini di un passato solo accettato, ma essa sarà o no capace di scoprire nella drammatica immanenza del presente un ruolo specifico nella liberazione dell’uomo e nell’evoluzione del creato? O si dovrà giudicare tutto e preparare il futuro, escludendo questa Europa stanca e invecchiata, conservandone tuttavia i valori universali di civiltà e di fede che l’hanno sempre aiutata a ritrovare pace e vigore?

La soluzione di tali problemi è ardua; san Benedetto non li avrà probabilmente mai sognati, perché nel suo tempo, che è il V-VI secolo, il cristianesimo non si era compromesso con la situazione storica. E’ fuorviante asserire che il monachesimo sia nato e si sia sviluppato come atteggiamento di contestazione e di rifiuto nei confronti di una Chiesa « costantiniana » e « teodosiana ». Altre erano allora le responsabilità, altre sono le nostre; altre saranno quelle dei nostri successori.
L’Europa non è un mito conclusivo, un fine ideale o reale; ciò che invece e definitivo è una civiltà elaborata sul Vangelo, in cui la presenza cristiana nel concreto storico insisterà sui diritti dell’uomo e sulla giustizia (ciò significa anche corresponsabilità nello sviluppo planetario). Il monastero era una « piccola società ideale », nel senso dell’indipendenza di quella struttura comunitaria, in cui ogni persona era perfettamente integrata In quel senso, san Benedetto ha meritato davvero di essere guida e patrono dell’Europa nuova, senza mai aver sollecitato quella responsabilità e quel destino…
Oggi è in discussione il ruolo storico del cristianesimo nella civiltà europea, e non solo quello del monachesimo. Non è data per scontata l’esistenza di punti di riferimento culturali ancora validi attualmente, come lo furono verso l’XI secolo. In quell’epoca, l’Europa si trovò (e si sentì) cristiana, e un Papato energico riusciva a stringere rapporti tra tutte le Chiese occidentali, delle quali rispettò le peculiarità: strutturali. Le grandi università poi – la prima università « statale » è creata da Federico II a Napoli, nel 1224 – organizzano il sapere. Il sistema comunale democratico e libero riprende anche il modello delle assemblee monastiche; nasce una economia cristiana che respinge l’usura. In tutti i settori esistenziali, il cristianesimo è entrato; il volto dell’Europa non è più « latino » o occidentale, bensì cristiano. E lo sarà più tardi ancora, per esempio, quando sarà avvertita l’urgenza della questione sociale, nel secolo XIX.
Non si tratta di scegliere semplicemente tra paganesimo e cristianesimo, o tra Vangelo e Corano; ma l’unico dilemma è rintracciato nel bivio: Cristo o l’indifferenza. Si sceglierà pertanto l’universalismo, come l’Europa non è europeistica, ma universale. San Benedetto è anteriore a tutte le fratture ecclesiali, ecclesiologiche e dommatiche, culturali e politiche. La Regola non accenna a situazioni politiche e religiose, culturali e filosofiche. Ma il suo pensiero presenta un’etica cristiana e sviluppa un progetto di uomo sociale », non di « uomo-isola »; allora anche l’Europa nuova respingerà il nichilismo collettivista, che degrada l’uomo a mezzo e non rispetta la sua identità di fine.
Secondo la Regola, la società significa comunione e corresponsabilità, simultaneità della crescita personale e dello sviluppo comunitario. Gli « strumenti delle buone opere » (cap. 4) insegnano un massimo di libertà nel rispetto di tutti e di tutto; e questa personalizzazione è diametralmente opposta allo sfruttamento e alle disuguaglianze, perché crea comunicazione e integrazione, senza distinzione di razze, di culture, di ruoli, di appartenenza sociale ed economica. Benedetto aveva ideato nella Regola un progetto che è stato vissuto e applicato laddove è arrivato il suo monachesimo. Il modello di società cristiana è la comunità, l’essere insieme. Questo cristianesimo, che è una fede, non si è mai identificato con un cristianesimo-umanesimo, perché il Vangelo non trasmette una cultura, bensì una fede. Questa fede è personale, ma questa morale non insegna l’individualismo.
***
L’Europa nuova sarà un’Europa libera; la libertà non è un regalo, è un dovere e un diritto che non ammette condizionamenti ideologici. Con il Vangelo, san Benedetto vuole uomini liberi e semplici, accoglienti e disponibili. I suoi riferimenti dottrinali e teologici sono i Padri della Chiesa (cap. 73), cioè quegli scrittori che hanno accolto tutto il pensiero filosofico e scientifico accumulato dal tardo Impero e dalla civiltà greco-romana, e l’hanno incorporato nella interpretazione della Verità rivelata e incarnata, cioè del Dio manifestato nella Parola e comunicato nei sacramenti. L’orizzonte della storia è una pienezza; il prologo della Regola benedettina insiste nel proclamare la conclusione – la Risurrezione, il Regno – attraverso la Croce, cioè l’umiltà e l’obbedienza o, se si preferisce, la disponibilità e la gratuità. E’ il pensiero di san Paolo che riconosceva l’evoluzione universale verso una totalità, cioè verso il « pleroma » (Ef. 1). Infine, questa Europa nuova dimostrerà la capacità del pluralismo, che ammette la pluralità: non nel senso della convivenza o connivenza tra verità e errore, tra giustizia e ingiustizia, e altri contrasti analoghi, ma nella proclamazione di una unità di morale e di speranza, nel servizio e nella sussidiarietà. La quarantunesima Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Roma dal 2 al 5 aprile 1991, ha realizzato un esame di una problematica importante nella presente fase storica: « I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa ». In particolare si chiede di porre attenzione agli aspetti religiosi del « problema Europa », all’esigenza di un ricentramento evangelico; e si conclude: « Il nostro sforzo comune è orientato all’elaborazione di una nuova pedagogia di trasmissione della visione evangelica della vita, affinché questa penetri e fermenti, liberi e potenzi ogni esperienza umana ».

LA SPIRITUALITÀ PAOLINA NELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO

http://dimensionesperanza.it/aree/spiritualita/spiritualita-della-vita-religiosa/item/6209-la-spiritualit%C3%A0-paolina-nella-regola-di-san-benedetto-sr-maria-cecilia-la-mela-osbap.html?tmpl=component&

LA SPIRITUALITÀ PAOLINA NELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO

di Sr. Maria Cecilia La Mela OSBap

Vivere quest’anno all’insegna del messaggio paolina è, per noi monaci e monache, occasione preziosa per riaccostarci al testo della nostra Regola, interrogando san Benedetto circa la sua sintonia con il grande san Paolo che è, per lui, l’Apostolo per antonomasia. Se è vero che tutta la Regola è impregnata di Sacra Scrittura, non può non balzare subito agli occhi la massiccia presenza di citazioni, implicite ed esplicite, tratte dalle lettere di Paolo di Tarso. San Benedetto chiama spesso in causa l’Apostolo delle genti lasciando spazio alla sua autorevolezza per avvalorare quei concetti che vorrebbe imprimere con forza nei suoi monaci; non è un caso che i riferimenti paolini sono più abbondanti proprio nel Prologo e in quei capitoli che più sembrano stare a cuore al nostro Legislatore. Molte delle citazioni tratte dalle lettere di san Paolo rimandano, a loro volta, ad altre citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, specie dei salmi e del Vangelo, ma circoscriviamo la nostra lectio divina limitandoci ai rapporti strettamente paolino-benedettini.
Diverse tematiche ricorrenti negli scritti paolini fanno da sottofondo a tutta la Regola, quasi attraversandola e strutturandola in un tutto organico e ben definito. Uno dei temi più sviluppati è quello della corsa e sul quale sono stati fatti autorevoli studi. Un altro è quello del combattimento, della milizia, dell’esercizio ginnico, della gara per cui il monaco, come il cristiano, si configura come lottatore, come soldato, come atleta, come agonista. Entrambi questi aspetti interpretativi dell’impegno del cristiano nel mondo e nella Chiesa sono pervasi da quella tensione escatologica che è tipica di san Paolo e di san Benedetto e che pone il cristiano, il monaco, il consacrato, quale segno vivente del destino ultimo per cui siamo stati creati. C’è poi tutta la cura pastorale che san Benedetto mutua dalle due lettere a Timoteo e da quella a Tito, attribuendo all’abate le prerogative e le responsabilità che san Paolo richiede al vescovo. E l’elenco potrebbe continuare ancora.
Tra i tanti sviluppi che si potrebbero approfondire in questo anno paolino, ad esempio quello dell’umiltà come « annientamento » (Fil 2,8), dell’obbedienza pronta e generosa « perché Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7), del lavoro come processo di umanizzazione (1 Cor 4,12) e tanti altri; mi soffermo sul tema della carità lasciandomi orientare dall’invito di san Paolo rivolto a tutti noi: « Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole » (Rm 13,8). Per questo parto da quel meraviglioso capitoletto che è la sintesi e il cuore della Regola benedettina, il 72°, dello zelo buono che devono avere i monaci. Leggiamolo insieme: «Come vi è un maligno zelo di amarezza che allontana da Dio e conduce all’inferno, così vi è uno zelo buono, che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna». E, di seguito, san Benedetto, con chiari riferimenti all’insegnamento del Vangelo e alla teologia di San Paolo, esplicita i sentimenti e le azioni che devono animare il monaco in questa ascesa della carità. È necessario prima di tutto esercitarsi con « ardentissimo amore ». Attenzione ai superlativi: san Benedetto non è cristiano di mezze misure! Un amore, dunque, non fiacco, non tiepido, non part time, ma un amore ardente, che brucia, che non dà tregua, che ci sollecita, ci vuole tutti coinvolti in questa difficile, ma meravigliosa avventura della nostra vita cristiana e della nostra vocazione benedettina. E chi più « focoso » del belligerante Paolo di Tarso? Dalla sua magnifica penna è uscito quell’inno alla carità che ha sottolineato con forza la grandezza del cristianesimo! Tra l’altro, va detto che le lettere paoline più gettonate sono le due ai Corinzi e nella prima (1 Cor 13,1-13) vi è propriamente l’inno alla carità. Ed un inno alla carità può essere considerato, appunto, il capitoletto dello zelo buono.
Alcuni verbi vorrei trarre da questo crescendo « benedettino » dell’amore e consegnarli a me stessa, e a chi legge, come particolare impegno per questo anno di comunione e condivisione che il Signore ci dona di vivere all’insegna del fare memoria dell’Apostolo Paolo e della sua eredità spirituale: prevenire, sopportare, prestare, cercare, volere bene, temere, non anteporre.
« Si prevengano cioè l’un l’altro nel rendersi onore », ovvero la stima sia alla base dei nostri rapporti fraterni che si concretizzano anche in quelle basilari norme di buona educazione che sottolineano la preziosità dell’altro, il rispetto per la dignità umana: un onore, un rispetto, un’attenzione che sia reciproca, condivisa, che unisca sempre più i cuori e le menti. Così scrive san Paolo ai Romani (12,10): «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». La carità è ardentissima, non ammette cioè tiepidezze… spinge a correre, a gareggiare pur di arrivare primi, ma mai da soli … i primi, non il primo, cioè non io ma noi…
Con l’invito «sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali», che fa eco a quello paolino «sopportandovi a vicenda con amore» (Ef 4,2), il nostro Santo Padre Benedetto ci esorta a non scandalizzarci della fragilità degli altri, a non giudicarla, a non condannarla, ma a farci carico della debolezza altrui, ricordando che è una eredità comune, che nessuno è esente dal poter sbagliare, … coprire amorevolmente, scusare la fragilità degli altri, valorizzare le loro qualità, le potenzialità umane, così come vorremmo sia fatto a noi. Anzi, secondo l’esortazione del capitolo 7° Dell’umiltà, bisogna salire il settimo gradino che «è quello del monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è convinto anche nell’intimo del cuore»; infatti così ci esorta Paolo: «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). E ancora san Benedetto nel cap. 63 Dell’ordine della comunità: «Dovunque i fratelli s’incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; quando passa un anziano, il più giovane si alzi e gli offra da sedere; né ardisca sedersi con lui se l’anziano non glielo permetta perchè si avveri ciò che è scritto: « Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore » (Rm 12,10». Non cerchiamo di imporre sempre il nostro parere ma ascoltiamo tutti, sempre pronti a far felici i fratelli accontentandoli se, quello che ci chiedono, è un bene per loro e per noi. Sempre, comunque, non lasciamo mai nessuno nell’amarezza per causa nostra. E quest’urgenza inderogabile di non rattristare nessuno non è proprio una delicatezza meravigliosa di carità? (Cfr RB capp. 27 e 31). Infatti, l’indicazione di san Paolo, fatta propria da san Benedetto, pone come orientamento pedagogico (la sollecitudine dell’abate verso gli scomunicati) e relazionale (il lavoro del cellerario e, in un certo senso, la cura dei propri uffici da parte di tutti i monaci) quello di «far prevalere la carità» (2 Cor 2,8).
Ma torniamo al nostro zelo buono: «Si prestino a gara obbedienza reciproca»: dialoghiamo con serenità confrontandoci per crescere, gareggiamo per fare del monastero veramente la casa di Dio e «nessuno cerchi l’utilità propria, ma piuttosto l’altrui»; ecco le citazioni paoline implicite nel testo della Regola: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10,24) «Senza cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2,4).
«Si voglia bene a tutti i fratelli con casta dilezione», ossia il nostro voler bene agli altri sia limpido, rifletta la carità evangelica, sia capace di cedere pur di costruire sempre il dialogo, la condivisione, la pace. E cerchiamo di volere bene a tutti, senza distinzioni. Così San Paolo ai Tessalonicesi (4,9): «Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri». E di rimando San Benedetto: «Temano Dio nell’amore}», un timore che non è paura, ma riverente confidenza, un timore che ci aiuta a vivere costantemente alla presenza di Dio mediata dall’abate: «Amino il loro abate con sincera ed umile carità». E, infine, «nulla assolutamente antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna». Tutti insieme: è il « pallino » di San Benedetto, il suo chiodo fisso … è l’ansia, l’urgenza di Cristo che, come nella sua ultima cena terrena, continua a raccomandare l’amore vicendevole, l’inderogabile e suprema priorità dell’amore. Non per nulla la vita e l’opera di San Paolo, così come di San Benedetto, sono eminentemente cristologici.
Velocemente mi soffermo su alcuni inviti alla carità con i quali San Benedetto costella diversi capitoli della Regola in sinossi con le relative citazioni paoline. Per prima cosa l’elenco degli strumenti delle buone opere (cap. 4°) che esordisce proprio con i due precetti evangelici della carità: «Anzitutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; quindi il prossimo come se stesso». I 74 strumenti delle buone opere sono quasi tutti avvalorati da citazioni bibliche, tuttavia, quelli inerenti all’amore verso il prossimo sono per lo più presi da San Paolo che così scrive ai Romani (13,9): «Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso». E con voce unanime, Paolo e Benedetto, ci invitano a consolare gli afflitti così come siamo consolati noi stessi da Dio (2 Cor 1,3-4), a non lasciarci trascinare dall’ira e ritornare in pace prima del tramonto (Ef 4,26), a non rendere male per male ma cercare sempre il bene con tutti (l Tess 5,15), a subire l’ingiustizia piuttosto che infliggerla agli altri (l Cor 6,7-8) … perché, come è detto nel 4° gradino dell’umiltà, «per dimostrare che il servo fedele deve per il Signore tollerare anche qualche contrarietà, dice ancora la Scrittura nella persona di quelli che soffrono: « Per te siamo ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello »(Rm 8,36) e sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono con gioia e dicono: « Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che ci ha amati »» (8,37) « [ ... ] e con l’Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli (2 Cor 11,26) e benedicono chi li maledice (1 Cor 4,12».
Questo amore lo troviamo « incarnato » nell’Eucaristia: alimentati dal « pane dei forti », avremo energie e coraggio per esercitarci in questo zelo buono, ossia la carità; questo amore lo dobbiamo incarnare nei fratelli «poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6, 10), cioè «a tutti si renda il conveniente onore» (RB 53) certi che tutto passa, tutto delude, solo Dio e il bene che ci vogliamo rimangono in eterno. E dopo due mila anni dalla sua opera di evangelizzazione ce lo continua a dire « ardentissimamente » San Paolo e, perché non lo dimentichiamo, c’è San Benedetto a ricordarcelo continuamente nella nostra Regola.

(da Il Sacro Speco di San Benedetto, n. 2, 2009)

Le condizioni che san Benedetto esige perché un monaco possa essere suo discepolo, il fine al quale il monaco deve aspirare, le linee maestre del metodo pedagogico che caratterizza la scuola benedettina, sono fatti non soggetti ai mutamenti dei tempi e, per ciò stesso, validi attuali anche a distanza di quattordici secoli. Per riuscire nel suo proposito, san Benedetto organizzò il monastero nella maniera che credette più adatta per gli uomini del suo tempo. Se ancora oggi i monasteri sparsi nei cinque continenti devono essere scuola di formazione, perché i monaci possano raggiungere quel fine, è del tutto comprensibile che si vedano obbligati ad adattare il metodo pedagogico della Regola e l’organizzazione del monastero alle esigenze di tempi, luoghi e culture tanto diverse da quelli nei quali visse san Benedetto; a condizione, naturalmente, che le nuove forme non distruggano, ma anzi favoriscano la coerenza interna della Regola (Gabiele M. Brasò, Lettere ai monaci, Praglia 1980).

L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO

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L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO

Vivere oggi la Regola di San Benedetto

Estratto dal libro « Fermati e ascolta il tuo cuore – Vivere oggi la Regola di San Benedetto » di Joan Chittister, OSB, Effatà editrice

La Regola: un libro di saggezza
« Chiunque tu sia, che ti affretti verso la patria celeste, attua, con l’aiuto di Cristo, questa piccola regola che abbiamo scritto per i principianti, e soltanto allora giungerai, con la protezione di Dio, alle vette più elevate della dottrina e della saggezza di cui abbiamo parlato più sopra. Amen. » (Regola di S. Benedetto cap.73, 8-9)
I Padri del Deserto narrano un racconto sulla vita spirituale che può spiegare nel modo migliore questo libro:
« Un giovane monaco incontrò per caso un monaco più anziano seduto tra gente che pregava, lavorava e meditava.
« Sono in grado di camminare sull’acqua », disse il giovane discepolo. « Quindi, andiamo sul quel laghetto laggiù, ci sediamo e intavoliamo una discussione spirituale ».
Ma il maestro rispose: « Se ciò che stai cercando di fare è fuggire da questa gente, perché non vieni con me a volare nell’aria, a muoverti spensierato nel quieto cielo aperto e lì parlare? »
E il giovane novizio replicò: « Non posso perché io non possiedo il potere di cui parli ».
E il maestro spiegò: « Esattamente. Il tuo potere di rimanere immobile sul pelo dell’acqua è lo stesso che possiedono i pesci. E la mia capacità di fluttuare nell’aria è propria di qualsiasi mosca. Queste capacità non hanno niente a che vedere con la verità vera e, in effetti, possono facilmente diventare la base dell’arroganza della competizione, non della spiritualità. Se dobbiamo parlare di argomenti spirituali, dobbiamo parlarne proprio qui in questo posto »".
Quasi tutte le persone che ho incontrato e che prendono sinceramente in considerazione le cose dello spirito, pensano che il nocciolo del racconto sia vero: la vita quotidiana è la vera sostanza di cui è fatta la grande santità. Ma quasi nessuna delle persone che ho incontrato ritiene che ciò sia facilmente realizzabile. Abbiamo tutti in qualche modo imparato che, per poter trovare la spiritualità, si deve lasciare il luogo dove viviamo. Ognuno di noi spera di ottenerne abbastanza in un determinato momento della sua vita affinché essa l’accompagni in tutti gli altri momenti. L’idea che la santità sia un aspetto della vita matrimoniale o della vita celibataria, tanto quanto lo è della vita religiosa o di quella sacerdotale, è un’idea molto amata ma in cui di rado si crede profondamente.
Al giorno d’oggi, così come ai tempi del racconto, le mode riempiono la vita spirituale. Un anno ci viene detto che la panacea sono le novene, un altro anno i ritiri e un altro ancora i luoghi di meditazione. Alcuni credenti convinti ci assicurano che il culto da loro scelto è la sola risposta alle battaglie della vita. Gli amanti dell’occulto promettono una salvezza che viene dalle stelle o da un’antica tradizione orientale. Le comunità terapeutiche offrono maratone di incontri o laboratori per liberare la nostra anima dall’ira. Più e più volte, cure, culti ed esercizi psicologici vengono regolarmente provati e regolarmente abbandonati, mentre le gente cerca qualcosa che la faccia sentire bene, che rafforzi la sua visione della realtà e che dia un senso e un orientamento alla sua vita. Tuttavia, come dimostra l’antico racconto, se non ci comportiamo in modo spirituale là dove ci troviamo e così come siamo, a nulla valgono i nostri sforzi. Stiamo semplicemente consumando l’ultima moda spirituale che intorpidisce la nostra confusione ma non riempie mai i nostri spiriti né libera i nostri cuori.
Dopo anni di vita monastica ho scoperto che, diversamente dalle mode spirituali che vanno e vengono con i loro maestri o le culture che le hanno generate, la Regola di San Benedetto guarda il mondo con occhi interiori e dura nel tempo. In essa, senza considerare chi siamo o cosa siamo, la vita e il suo scopo si incontrano.
La Regola di San Benedetto è stata una guida per la vita spirituale della gente comune a partire dal VI secolo. Qualcosa che è durato così a lungo e che ha avuto un tale impatto sulla società dell’usa e getta, è certamente degno di considerazione. E il libro che hai tra mano cerca di rispondere alle seguenti domande: come rendere conto di un modo di vivere che è durato per più di millecinquecento anni e che cosa ha da dire – se qualcosa ce l’ha- alla vita spirituale nel mondo d’oggi?
La spiritualità benedettina offre proprio ciò che manca ai nostri tempi. Essa cerca di riempire il vuoto e di comporre la frammentarietà nelle quali molti di noi vivono e lo fa in modo sensato, umano, completo e accessibile in un mondo che è oppresso dal lavoro, eccessivamente stimolato e programmato.
La Regola di San Benedetto chiamò alla comunione il mondo romano, che era basato sulle classi sociali, e chiama noi, che viviamo in un mondo frammentato, a fare lo stesso. La Regola spinse verso l’ospitalità in un’epoca di invasioni barbariche e spinge noi alla sollecitudine in un mondo di vicini tra loro estranei. Essa spinse all’uguaglianza in una società piena di classi e di caste e spinge noi all’uguaglianza in un mondo dove ognuno è dichiarato uguale ma viene giudicato in modo diverso. San Benedetto, che sfidò la società patrizia di Roma a essere umile, provoca allo stesso modo il nostro mondo, i cui eroi sono Rambo, James Bond, il potere militare e le stelle dello sport, l’uomo »macho » e quello violento.
La spiritualità benedettina invita alla profondità in un mondo quasi sempre contraddistinto da superficialità e fragilità. Essa propone un insieme di atteggiamenti ad una società che è stata sedotta da iniziative promozionali e soluzioni temporanee. La spiritualità benedettina offre profondità e saggezza dove la devozione ha perso significato e l’ascetismo valore.
Soprattutto, la spiritualità benedettina è una buona novella in tempi difficili. Insegna alla gente a considerare il mondo come qualcosa di buono, le sue necessità come legittime e il sostegno umano come necessario. La spiritualità benedettina non chiama a compiere grandi imprese o a esprimere grandi rifiuti. Semplicemente essa ci invita a stabilire delle relazioni, mostrando come metterci in contatto con Dio, con gli altri e con la parte più profonda di noi.
Prima di tutto, la Regola di San Benedetto è destinata alla gente comune che vive una vita qualunque. Non è scritta per preti o mistici o eremiti o asceti; essa venne scritta da un laico per laici. Venne scritta per fornire un modello di crescita spirituale all’uomo medio intenzionato a vivere un’esistenza che andasse oltre la superficialità o l’indifferenza. Essa è scritta per quanti hanno una profonda sensibilità e un serio interesse spirituale e non cercano di mettersi in cammino per fuggire dal proprio mondo, ma per infondere la visione di Dio nelle loro scelte etiche.
La Regola di San Benedetto è saggezza distillata dalla vita quotidiana. E questo libro è semplicemente il resoconto di come io – che ho vissuto questa Regola in una comunità monastica per più di trent’anni – sia arrivata a capire quanto la spiritualità benedettina abbia da dire all’uomo di oggi.
Spiritualità è più che andare in chiesa. Anzi, si può andare in chiesa e non crescere affatto nella spiritualità. La spiritualità è il modo in cui noi esprimiamo la fede vissuta in un mondo reale, è la somma degli atteggiamenti e delle azioni che definiscono la nostra vita di fede.
Per l’apostolo Paolo, la spiritualità consisteva nel vivere « in Cristo » e nel considerare i doni dello Spirito come volti a « formare il corpo di Cristo » qui e adesso. Ma la comprensione di ciò che costituisce la perfetta vita cristiana è cambiata da un’epoca all’altra attraverso i tempi. Un tempo essa veniva assimilata, in diversi modi, al martirio, al ritiro dal mondo, all’evangelizzazione e al rinnegamento di se stessi. Nel periodo della storia della Chiesa più vicino al nostro, ad esempio, spiritualità era sinonimo di obbedienza a « superiori debitamente costituiti » e in grado di suscitare una forte reazione emotiva nella preghiera individuale. Molti misuravano la spiritualità, o « la vita secondo lo Spirito », dal numero dei rosari recitati o da quello degli ordini accettati con docilità o dal numero di cose che venivano « abbandonate » in modo da poter condurre una vita più alta o più « perfetta ». Il risultato di questi criteri fu che solo alle suore, ai frati e ai preti veniva riconosciuta la capacità di vivere una vita veramente spirituale. Questa interpretazione resistette fino al Concilio Vaticano II, che riconobbe la chiamata universale alla santità e l’autenticità della vocazione laica nella Chiesa.
Come le persone vissute in epoche più lontane, oggi stiamo ricominciando a guardare la vita spirituale attraverso lenti angolari più ampie. La spiritualità che sviluppiamo influenza il nostro modo di immaginare Dio, il nostro metodo di preghiera, il tipo di ascetismo che pratichiamo, lo spazio che diamo al nostro ministero e alla comunità nel definire la « vita spirituale ». E’ la spiritualità che ci porta oltre noi stessi per trovare il senso e l’importanza della nostra vita. E’ la spiritualità che definisce i valori della nostra vita: abnegazione o valorizzazione di se stessi; vita di comunità o solitudine; contemplazione o evangelizzazione; trasformazione personale o giustizia sociale; gerarchia o uguaglianza. In altre parole, la spiritualità che facciamo crescere in noi è il filtro attraverso il quale noi vediamo il mondo e i limiti entro cui agiamo.
La spiritualità che emerge dalla Regola di San Benedetto è ricolma della quotidianità vissuta straordinariamente bene. Qui, trasformare la vita conta più che trascenderla. Ecco perché la Regola di San Benedetto è destinata alle persone che, nel mondo di oggi, lavorano faticosamente, sempre indaffarate, consumate dalla vita familiare, dai conti, dai doveri civili e dal duro lavoro, così come è destinata a chi ha dedicato se stesso a vivere una vita religiosa in mezzo agli uomini.
La questione è: quali sono i valori spirituali custoditi da circa millecinquecento anni nella Regola di San Benedetto e che cosa dicono – se qualcosa hanno da dire – alla nostra epoca e a noi che cerchiamo di vivere con serenità nel caos che ci circonda, con produttività nell’arena dello spreco, con amore in un vortice di individualismo e con gentilezza in un mondo pieno di violenza? Che cosa insegnano a noi che siamo alla ricerca di risposte alle grandi domande della vita, mentre il nostro lavoro ci sommerge e i nostri debiti crescono, mentre le nostre famiglie contendono la nostra attenzione e i nostri amici minimizzano le nostre preoccupazioni, mentre i nostri uomini politici ci dicono che la vita sta migliorando quando sappiamo che, almeno per molti, la vita sta in gran parte peggiorando?
La maggior parte di noi non può precipitarsi verso il mare per allontanarsi o volare via verso altri luoghi per fuggire, come i personaggi del racconto. Semplicemente, la maggior parte di noi vive lì dove si trova, in mezzo alla folla e nell’intrico delle domande. La maggior parte di noi non ha altro modo di arrivare a Dio e a una vita giusta se non il « qui » e l’ »ora ».Il problema è allora di scoprire come rendere il « qui » e l’ »ora » qualcosa di giusto e santo per noi. Il « qui » e l’ »ora » sono tutto ciò che ognuno di noi ha per rendere la vita degna di essere vissuta, Dio presente e la santità un modo di vivere normale anziché innaturale.
Per le persone come noi, la spiritualità benedettina è come una casa perché riguarda proprio il « qui » e « l’ora ». La spiritualità benedettina è impastata della materia grezza che è la vita di tutti i giorni e non presuppone un grande ascetismo, né promette esperienze straordinarie dello spirito. Non richiede grandi mortificazioni della carne e non offre eccezionali garanzie di misticismo. Essa non descrive un particolare tipo di vita e non si affida a un grande piano organizzativo. La Regola di San Benedetto prende semplicemente la polvere e l’argilla di ogni giorno e la trasforma in bellezza.
La Regola di San Benedetto non è un insieme di esercizi spirituali, né un elenco di proibizioni o devozioni o discipline. Non è affatto una regola nel senso moderno della parola.
Se con questo termine si intendono restrizioni, leggi o richieste, la Regola di San Benedetto non rientra in questa categoria. Anzi, essa è semplicemente un progetto di vita, un insieme di principi chiaramente più vicino al significato originario della parola latina regula, o guida, piuttosto che al termine lex, o legge. La legge è ciò che noi siamo arrivati ad aspettarci dalla religione; ciò di cui abbiamo veramente bisogno è la direzione.
Regula, la parola che adesso viene tradotta con « regola », nell’accezione originaria significava « indicatore stradale » oppure « ringhiera », qualcosa a cui aggrapparsi nel buio, qualcosa che indica la strada e conduce in una determinata direzione, che fornisce un sostegno per arrampicarsi. In altre parole, la Regola di San Benedetto è più saggezza che legge. Non è una serie di istruzioni, ma uno stile di vita.
Ecco la chiave per capire la Regola: comprendere che essa non è tale.
Per questo essa vale tanto per i laici quanto per i monaci. « Ascolta… chiunque tu sia », dice Benedetto nel Prologo alla sua Regola. Chiunque tu sia.
La Regola di San Benedetto è semplicemente un pezzo di letteratura sapienziale sulle grandi questioni della vita al fine di renderle comprensibili e attuali, chiare e raggiungibili.
Ma non è facile arrivare a rendersene conto in una Chiesa e in un mondo che vogliono o tutto legge o nessuna legge. Le formule e la licenza sono molto più semplici di un’attenzione, un’attenzione continua, alla qualità della vita che stiamo creando e allo stesso tempo cercando. In altre parole, è molto difficile quando siamo giovani renderci conto che, per arrivare dove si vuole nella vita, dobbiamo fare spesso cose che non avremmo scelto di fare. Alzarsi presto al mattino per pregare e per leggere è un modo di pensare estraneo ad un arrampicatore aziendale, convinto che ciò di cui ha veramente bisogno sia accumulare sonno e conservare le forze per il duro giorno che lo aspetta. Per la mentalità monastica, tuttavia, non vi può essere niente di più sensato. Senza la preghiera e la lettura spirituale – ecco la convinzione dei monaci – chi sarà mai in grado di capire verso che cosa tenda il desiderio umano di far carriera o in che cosa consista la sua realizzazione? Interrompere il lavoro per pregare, nel bel mezzo di una giornata caotica, appare una pura irrealtà a molti giovani monaci per i quali il lavoro o lo studio sono molto attraenti e proficui. Ma dopo qualche anno diventa chiaro che la consuetudine giornaliera di fermarsi, per ricordare in che cosa consista veramente la vita nelle sue vette più vertiginose, rappresenti la sola genuina realtà di quel periodo dell’esistenza.
La Regola di San Benedetto, in altre parole, porta nella spiritualità l’attenzione e la consapevolezza. L’essenza della vocazione monastica benedettina non è un insieme di prescrizioni congelate nel tempo, ma è il tempo esaminato minuziosamente alla luce dei valori del Vangelo. Il benedettino non si mette in cammino per evitare la vita; si mette in cammino per vivere straordinariamente bene la vita quotidiana. Così, il vero monaco diventa sensibile al mondo.
I monasteri difficilmente appaiono luoghi da cui analizzare il mondo. Entrare in monastero, secondo la mitologia popolare, significa lasciare il mondo e non già esserne coinvolti ancora più profondamente. Ma solo da lontano possiamo vedere meglio. Forse solo chi non ha denaro può sapere meglio degli altri che il denaro non è essenziale per vivere bene. Forse chi dispone solo di un letto, di libri e di un armadietto in una piccola stanza, può rendersi chiaramente conto di quanta confusione possano portare nella vita tante cose che ingombrano. Forse solo quelli che fanno voto di obbedienza a qualcun altro riescono ad intuire quanto l’egocentrismo corroda il cuore. Forse solo chi vive nella solitudine capisce veramente che cosa sia la comunità. Forse solo quelli che per scelta non hanno alcun potere possono dimostrare meglio il potere che deriva dal non averne. Forse solo quelli che hanno deciso di opporsi all’accumulo di beni personali. possono rendersi conto che il fallimento economico, l’assistenza dei servizi sociali e il minimo indispensabile per vivere non sono le cose peggiori che possano accadere nella vita di una persona. Forse solo quelli che per scelta non si sono sposati riescono ad ascoltare con maggiore sensibilità chi è stato abbandonato, chi è vedovo o chi è solo. Forse solo quelli che non hanno una scala aziendale o ecclesiale da salire, possono parlare meglio di uguaglianza. Davvero il monastero offre una prospettiva privilegiata da cui parlare al mondo.
Una volta che ci si è resi conto che il testo della Regola di San Benedetto è solo un elemento della vita monastica, diventa evidente che le altre tre dimensioni di questa scelta esistenziale – il Vangelo di Cristo, le interpretazioni dei capi della comunità, l’esperienza e l’intuito di ogni singola comunità – sono destinate a mantenere una persona fortemente radicata nel mondo reale e sono regola tanto quanto la Regola stessa. Sono quelle dimensioni che danno vita, larghezza di vedute, profondità e portata, antichità e rilevanza, carattere locale e possibilità universale. Questi quattro elementi – le Scritture, il testo della Regola, guide sagge, l’intuito e le esperienze di vita, le condizioni della comunità o della famiglia in cui viviamo – sono ciò che rendono la Regola qualcosa di vivo e non un testo morto di norme passate, non un documento storico, non il passatempo di eccentrici antiquari.
La Regola di San Benedetto vive e respira di età in età. Essa esamina e si adatta da un secolo all’altro e da una cultura all’altra. La Regola di San Benedetto guida la gente verso un atteggiamento mentale, ma non la soffoca con una serie di prescrizioni particolari. E’ scritta per il nostro tipo di vita e le nostre condizioni, così come lo è stata per ogni epoca del passato. Cresce con i diversi periodi storici e ci offre un appiglio, un parapetto, una guida che non ci permetterà di arenarci nella nullità spirituale e nel torpore dei nostri tempi.
Il monaco cerca la santità « qui » e « ora » senza il peso di una particolare alimentazione o di una devozione esoterica o di un nocivo rinnegamento di se stesso. Il vero monaco attraversa la vita con un’anima spoglia, attenta, cosciente, piena di riconoscenza e che solo parzialmente si sente a casa.
Che cosa significa, dunque, seguire la Regola di San Benedetto, pensare con un’attitudine mentale monastica, vivere la vita più come un dono che come una lotta?
Prima di tutto, la spiritualità benedettina è un impegno più verso i princípi che verso le pratiche. Il monaco benedettino non segue tanto un orario o un rigido programma quotidiano, quanto predispone un equilibrio fra le varie attività della vita. Il benedettino non segue tanto un insieme di comportamenti quanto piuttosto sviluppa un’attitudine in armonia al suo posto nell’universo ed essa guida ogni sua conversazione e ogni suo gesto comune. Per la spiritualità benedettina conta di più vivere bene la vita che seguire perfettamente la legge.
In secondo luogo, la spiritualità benedettina è semplicemente una guida per i Vangeli, non un fine in se stesso. Benedetto definisce la sua Regola una « piccola regola per principianti » (RB 73, 8) nella vita spirituale, non un manuale per un’élite o per persone colte o per chi è già arrivato. Casalinghe e padri di famiglia, uomini e donne in carriera, monaci e laici « voi tutti che cercate la casa del Cielo » (RB 73, 8), la Regola vi sprona non verso una ginnastica spirituale ma verso la coscienza contemplativa secondo cui il Vangelo, e questo solo, è il criterio adatto per qualunque azione umana.
In terzo luogo, la Regola dimostra chiaramente che vivere la vita secondo il Vangelo non è un’avventura in balia del capriccio privato e dei voli di fantasie personali, ma è trarre coscientemente profitto dalla saggezza di altri che possono incoraggiarci e aiutarci ad esaminare minuziosamente il valore e il coraggio delle nostre scelte.
Infine, la spiritualità benedettina si fonda direttamente sull’idea che non siamo noi l’unica misura dei nostri bisogni spirituali, ma che l’intera umanità e l’universo hanno dei diritti sul valore delle nostre azioni quotidiane.
In un mondo dove l’intero pianeta è diventato il nostro prossimo e le nostre vite private sono caratterizzate da un’interminabile fiumana di gente, la Regola di San Benedetto, con il rilievo che dà alla qualità spirituale della vita di comunione, non è forse mai stata così attuale. Io stessa ho iniziato a vedere, sotto le apparenze di quest’antica regola monastica, una sembianza di ragionevolezza nell’irragionevolezza del mondo che mi circonda.
Quando iniziai la vita monastica, mi venne consegnata una copia della Regola. Per me non aveva alcun senso. Volevo delle indicazioni. Volevo una formula. Volevo la santità a rate: compra adesso, paghi più tardi. Mi ci sono voluti anni per capire che, se avessi pagato adesso, avrei ottenuto ciò che stavo cercando solo se e quando fossi diventata ciò di cui andavo in cerca. Mi ci sono voluti anni per rendermi conto che la Regola distillava anni di esperienza, era una sorta di saggio su ciò che Benedetto considerava la vita spirituale e una testimonianza di ciò che nella sua epoca erano stati i modi più efficaci per raggiungerla. Ma non si trattava affatto di un progetto dettagliato.
Nel 72° capitolo della Regola, Benedetto ci mette in guardia dal « cattivo zelo », dal fanatismo e dall’assolutismo che fanno della religione uno strumento di oppressione verso noi stessi e gli altri. Nel 73° capitolo, egli promette che se
« metti in pratica… questa piccola Regola… allora raggiungerai finalmente le più grandi vette della conoscenza e della virtù ».
Io iniziai a capire che questa vita richiedeva costanza, pazienza ed equilibrio. Qui si compiva una crescita, non delle norme. Questa vita sarebbe stata una santificazione della normalità, non una ginnastica spirituale. Per noi si trattava di un modo di vivere, non di vivere la vita in un certo modo.
Come risultato, adesso scopro di fare riferimento alla Regola quando mi chiedo quale dovrebbe essere la risposta cristiana ai problemi ecologici. Mi rivolgo ad essa per trovare la mia strada attraverso l’intrico dei rapporti umani. Mi affido ai suoi valori e ai suoi principi perché mi mostrino come gestire le stravaganze della vita. Guardo la Regola per spiegare la mia depressione, la mia frustrazione e la mia noia spirituale. Dipendo da essa per smettere di pensare solo a me stessa. La considero come un insieme di valori che trascendono il tempo ma che hanno un significato particolare per il mio tempo.
Ho scritto questo libro per condividere anni di riflessioni trascorsi con persone che ho trovato sinceramente interessate alle domande che mi pongo e preoccupate del cammino da seguire proprio come me. Di fronte a una continua confusione, dobbiamo tornare alla Chiesa di prima? Questo risolverebbe i nostri dilemmi? O una chiesa qualsiasi è la risposta in un’epoca in cui le chiese stesse si confrontano sulla questione nucleare, la questione della donna, quella che concerne il modo di vivere o la pastorale o la famiglia o l’alienazione o l’inquietudine personale? Quale significato ha la spiritualità rispetto a tutto questo: un rosario al giorno, l’astinenza dalle carni, dei ritiri regolari, il coinvolgimento nei gruppi della parrocchia, l’attività pubblica? E’ un crescendo di domande. Credo che le risposte si trovino in ciò che non va e viene con il passare degli anni e le diverse epoche. Le risposte consistono nell’offrire la saggezza e non un insieme di ricette.
Queste pagine sono le mie riflessioni sulla saggezza che emerge da un testo antico a proposito delle nostre antichissime e nuovissime preoccupazioni. Per vivere la Regola di San Benedetto non abbiamo bisogno di una serie di meccanismi, ma di un cambiamento del cuore e di una nuova disposizione della mente.
C’era una volta, narra un antico racconto monastico, un anziano monaco che disse ad un mercante:
«  »Come il pesce muore sulla terraferma, così tu morirai quando rimarrai impigliato nel mondo. Il pesce deve tornare nell’acqua e tu devi tornare allo Spirito ».
Il mercante rimase stupefatto: « Stai dicendo che devo abbandonare i miei affari ed entrare in un monastero? », chiese.
E l’anziano monaco disse: « Assolutamente no. Ti sto dicendo di rimanere aggrappato al tuo lavoro ed entrare nel tuo cuore »"
Questo libro vuole aiutare le persone normali a vedere il mondo di oggi attraverso il filtro della Regola di San Benedetto e i più forti desideri del loro cuore.

SAN BENEDETTO DA NORCIA PATRONO D’EUROPA – 11 LUGLIO

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SAN BENEDETTO DA NORCIA PATRONO D’EUROPA – 11 LUGLIO

Benedetto credette che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una scuola per imparare a servire il Signore. La Regola è tutta organizzata attorno a un duplice «lavoro»: il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti «operai del Signore».

San Benedetto da Norcia

(ca. 480 – 21 marzo 543/560)

Nel secolo V dopo Cristo, l’Impero romano era in decomposizione. Avevano cominciato i Vandali ad oltrepassare la frontiera del Re­no con vere e proprie migrazioni d’intere tribù, con donne, bambini, carri, greggi. Nel 410 Roma era caduta, ed era stata saccheggiata per la prima volta dalle truppe d’Alarico, sotto gli occhi stupefatti del mondo. Poi, nei primi tre quarti di secolo, si era compiuta la rovina.
A metà secolo c’era stata la terribile minaccia di Attila e dei suoi Unni, provenienti dal Nord, e, subito dopo, un altro saccheggio di Roma da parte dei Vandali di Genserico che, avevano devastato la Spagna, le province d’Africa, ed erano risaliti dal mare, dopo aver conquistato la Sicilia e la Sardegna. Le città imperiali restarono, di conseguenza, prive di grano. Nel 476 fu ucciso a Ravenna l’ultimo imperatore d’Occidente e il barbaro Odoacre prese il potere; il figlio minorenne dell’ucciso lo chiamavano per spregio Romolo l’imperatoruccio (Augustolo). Nel 490 Teodorico il Grande prende il potere e fonda a Ravenna il regno dei Goti d’Oriente, tentando una sintesi, anche culturale, di romanità e germanesimo. Ma l’impresa fallirà in una trentina d’anni, per l’incompatibilità tra la fede ariana dei Goti e quella cattolica dei Romani.
Benedetto nasce dalle parti di Norcia, verso il 480; è dunque bambino quando l’Impero romano si dissolve – Roma, dove si reca adolescente per iniziare gli studi, è sopraffatta dalle sventure: ripetu­te carestie e inondazioni del Tevere, epidemie, lotte intestine, disfaci­mento del tessuto sociale amministrativo e religioso [...]
Sembrava davvero una città agonizzante, anche se – dice un testi­mone del tempo – «Roma moriva ridendo», senza voler rinunciare ai piaceri e alle dissolutezze che spesso accompagnano la disgregazione.
«Ci fu un uomo Benedetto, di nome e per grazia…», così comin­cia il racconto di san Gregorio, presentandoci subito un adolescente che ha già – come piaceva a quei tempi – la saggezza di un uomo ma­turo.
Benedetto è un ragazzo di famiglia agiata che, dal territorio di Norcia, viene a Roma per dedicarsi agli Studi letterari. Ma la «città eterna» gli appare piuttosto come abisso di perdi­zione in cui è facile perdersi, ed egli intuisce che deve anzitutto «cercare se stesso», realizzando quell’ideale di «abitare con se stesso» che è condizione primaria di salvezza, quando tutto sembra crollare.
Fugge dunque da Roma: quel mondo desolato che si abbevera agli ultimi piaceri gli sembra un deserto; preferisce perciò un deserto vero, secondo le più antiche e pure tradizioni monastiche.
Fugge, soli Deo placere desiderans («desiderando piacere soltanto a Dio»), inaugurando, con i fatti, una di quelle plendide massime spirituali di cui diventerà maestro. E, riflettendo sugli studi di letteratura che Benedetto ha abban­donati, il Santo Pontefice crea un’altra massima di splendido sapore antico: «Se ne andò, sapendo di non sapere e sapientemente ignoran­te» (scienter nescius et sapienter indocitis) (D 2°, prol.).
Per tre anni Benedetto visse in un paesino a settanta chilometri da Roma, accompagnato e accudito dalla sua governante, abitando in una chiesa; e già lì diede inizio alla sua attività taumaturgica per ri­sparmiare qualche dispiacere casalingo a colei che lo accudiva con tanto affetto.
Ma è difficile vivere in solitudine, quando si fanno miracoli, e Be­nedetto fuggì di nuovo – questa volta completamente solo – rifugian­dosi in un inaccessibile speco a Subiaco. Vi restò tre anni, assistito da un monaco del posto che gli portava periodicamente un po’ di pane.
Fu Dio a decidere che quella solitudine dovesse cessare dopo tre anni: il giorno di Pasqua suggerì a un prete delle vicinanze, che si sta­va preparando il pranzetto festivo, di andare a condividerlo con l’e­remita della montagna. Poi furono dei pastori che cominciarono a scambiare con lui del cibo: essi gli portavano il necessario, dai prodotti del loro gregge, e il giovane solitario ricambiava, offrendo il nutrimento della sua predi­cazione.
Stava per cominciare la missione pubblica di Benedetto, ma prima egli doveva essere provato dalla tentazione e definitivamente pu­rificato.
Secondo i canoni antichi delle «tentazioni nel deserto», l’eremita si vide assalito dal ricordo bruciante di una bella ragazza che aveva intravisto nel breve soggiorno romano, e tanto bastò per incendiargli il cuore, la mente e le membra. Benedetto spense quel fuoco accendendone un altro più materia­le, ma più tormentoso: si ravvoltolò nudo tra spine e ortiche, finché il corpo bruciò davvero: «Di fuori bruciò per lo strazio, e dentro si estinse il fuoco del peccato» – commenta il saggio pontefice.
Molti secoli dopo, in altra stagione, Francesco d’Assisi, per lo stesso problema, sceglierà di immergersi nella neve gelata.
Ambedue comunque dimostrarono d’avere una notevole intelli­genza, dato che compresero che non si può mai curare l’ardore dei sensi affidandosi solo ad elevazioni spirituali. La vittoria fu comunque definitiva. Nel racconto essa ha lo scopo esplicito di garantirci che Benedetto non diventò maestro di altri cri­stiani, senza prima aver imparato ad avere un completo dominio di sé.
Non trascorse molto tempo, che i monaci di Vicovaro (tra Subiaco e Tivoli) vennero a offrirgli la nomina a superiore. Benedetto accettò, dopo molte resistenze, ma i monaci se ne pentirono subito, non appe­na si accorsero che egli esigeva una vera osservanza regolare. Cercarono un mezzo spiccio per liberarsene e decisero di avvele­nargli, a pranzo, il bicchiere di vino.
Avevano però dimenticato che la consuetudine prescriveva di be­nedire il bicchiere di vino prima di bere, e così – quando Benedetto tracciò il segno di croce – la coppa logicamente si spezzò, perché «la bevanda di morte non aveva potuto sopportare il segno della vita». Forse il miracolo spaventò i monaci, ma Benedetto si convinse che era meglio per lui abbandonarli, perché non voleva «stremare le sue forze» nel tentativo di correggere «chi non voleva essere corretto». Da allora furono monaci e postulanti ad accorrere da lui, ma ac­correvano soltanto coloro che desideravano davvero d’essere spiri­tualmente guidati.
In breve, i discepoli furono tanti che Benedetto si trovò, quasi senza accorgersene, ad essere fondatore di dodici monasteri dissemi­nati nella zona: ognuno abitato da dodici monaci.
Il numero perfettamente e sapientemente biblico (dodici per do­dici) rappresenta anticipatamente «il disegno» della armoniosa archi­tettura benedettina. Ed erano già monasteri in cui – secondo un uso rimasto a lungo – si accoglievano anche bambini, figli di nobili, da educare.
[...] La storia di Montecassino inizia in seguito a un opportuno stacco voluto da Dio, anche se allora sembrò che fosse il demonio ad avere la meglio.
In breve, ci fu un prete «astioso di invidia» che fece di tutto per distruggere l’opera del Santo: prima gli mandò del «pane avvelenato» e Benedetto sventò la minaccia, poi organizzò nell’orto del monaste­ro, con alcune ragazze, uno spettacolo lascivo per avvelenare i frati. In conclusione Benedetto, comprendendo che l’astio era rivolto a lui, diede un definitivo ordinamento a quei monasteri, assegnò loro dei bravi superiori e poi li lasciò alla loro sorte, conducendo con sé solo pochi fratelli.
Inutile dire che, appena Benedetto si mise in viaggio, quel prete astioso e malvagio morì vittima di una disgrazia, ma il santo Patriarca rimproverò Mauro e gli impose una penitenza perché gli aveva porta­to la notizia con una certa soddisfazione. Lui provava invece un im­menso dolore.
Non tornò indietro tuttavia, ma si incamminò verso Cassino, una rocca situata sul fianco di un alto monte, sulla cui vetta c’era ancora un tempio dedicato ad Apollo.
Quando Benedetto si diede a distruggere tempio e altare pagani e a predicare ai nativi la Buona Novella, la lotta con Satana esplose con violenza. I monaci dicevano di sentire un grido lamentoso: «Maledet­to, non Benedetto, che cos’hai contro di me? Perché mi perseguiti?». Era l’annuncio che la nuova fondazione avrebbe contribuito alla di­struzione del regno di Satana, ma dovevano attendersi prove su prove.
Durante la costruzione dell’abbazia, i monaci, come vedevano in ogni aiuto la mano provvidente di Dio, così vedevano nelle difficoltà più insormontabili la mano oppressiva di Satana. Era infatti una terra seminata di idoli.
In questi casi Benedetto interveniva con la sua preghiera, sia che si trattasse di spostare un macigno che sembrava radicato nel terreno, sia che si trattasse di placare qualche allucinazione dei monaci, sia che un muro in costruzione crollasse improvvisamente su uno dei ra­gazzini affidati alla comunità. Il potere del santo si estendeva allora fino a richiamare in vita il fanciullo morto per la cattiveria del demonio. Altri miracoli gli occorrevano, poi, per aiutare i monaci ad osservare la Regola. Così Benedetto sapeva, per divina ispirazione, se dei monaci in viaggio l’avevano trasgredita mangiando fuori dal Monastero o accettando regali.
Allo stesso modo egli metteva a nudo le intenzioni e le traine di chi cercava di ingannarlo o le interne mormorazioni di chi disobbedi­va nel cuore.
L’episodio rimasto celebre nella storia fu quello di Totila, il re go­to, che scorrazzava impunemente per l’Italia e che si avvicinò a Montecassino incuriosito della fama di Benedetto.
Per mettere alla prova il santo, il re gli mandò il suo scudiero ab­bigliato da re, con tutte le insegne e la scorta dei nobili. Benedetto non lo lasciò nemmeno avvicinare. Da lontano gli gridò: «Figlio mio, levati quelle vesti che non ti appartengono!». Caddero tutti a terra, impressionati non perché l’inganno fosse stato scoperto, ma per la «velocità» con cui erano stati smascherati.
Quando Totila giunse in persona, non osava nemmeno avvicinar­si e se ne stava genuflesso lontano. Gli si accostò Benedetto, lo fece alzare e gli disse senza mezzi termini: «Il male che fai è molto, e mol­to ne hai già fatto. Metti fine, una buona volta, alle tue malvagità. En­trerai a Roma, passerai il mare, regnerai nove anni e nel decimo morrai». Dicono che, da allora, Totila fu un po’ meno crudele.
«Al suo orecchio risuonavano perfino le parole solamente pensa­te», spiega l’agiografo, che narra anche «miracoli» più spirituali: in­tuizione dell’animo e delle debolezze altrui, premonizioni, sogni, au­torevolezza sulle anime estesa fin quasi all’aldilà, forza di intercessione in terra e in cielo.
La formula usata per spiegare tutto è questa: ad agire è «la grazia di Benedetto». Il santo è talmente ricolmo di doni spirituali che può dispensarli con larghezza, in ogni direzione.
Poi ancora quei miracoli di guarigione e di «abbondanza», carat­teristici di ogni «epoca messianica»: liberazione di indemoniati, gua­rigione dei lebbrosi, sollievo di prigionieri e sofferenti, remissione di debiti, e abbondanza prodigiosa di provviste (pane, olio) in tempo di carestia.
Viene anche sottolineata la soccorrevole carità verso i più poveri, al quali Benedetto si prefigge «di dare tutto in terra per non perdere nulla in ciclo», tanto da innervosirsi quando il monaco dispensiere conserva gelosamente l’ultima ampolla d’olio.
Solo una volta Gregorio descrive Benedetto, nella sua dolente umanità: non mentre compie miracoli, ma mentre si abbandona a un dirotto pianto: così lo vede infatti un nobile ospite del monastero che entra improvvisamente nella camera dell’abate.
A lui Benedetto confida: «Tutto questo monastero che io ho co­struito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente sono destinate a finire preda dei barbari. A grande fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, sia­no risparmiate almeno le persone». E così accadde alcuni decenni dopo la morte del Patriarca, al tem­po dell’invasione longobarda. A nessun amico di Dio può infatti essere risparmiata la passione e la sua notte.
Ultimo miracolo raccontato vede per la prima volta Benedetto quasi tremare di impotenza. Ha davanti un papà disperato che porta in braccio il corpicino del figlio morto. «Restituiscimi mio figlio, re­stituiscimi mio figlio!», grida insistentemente l’uomo, con la persua­sione che, rivolgendosi a Benedetto, il grido raggiunga Dio.
«Te l’ho forse tolto io tuo figlio?», chiede confuso Benedetto, ma quando si accorge che gli viene chiesto un miracolo di resurrezione, subito manda via gli altri monaci: «Allontanatevi, fratelli, allontana­tevi! Non sono miracoli per me questi! Solo i Santi Apostoli possono farli! Perché volete addossarmi un peso che non sono capace di por­tare?». Poi il miracolo accade, ma Benedetto lo chiede a Dio «per la fede di quest’uomo che chiede di resuscitargli il figlio».
Ora che l’agiografo ha toccato il vertice della sua narrazione, rac­conta anche, per la prima e unica volta, una sconfitta di Benedetto: «Ci fu qualcosa che, pur da lui desiderata, non riuscì ad ottenere». Improvvisamente Benedetto esce dal suo alone misterioso e subli­me, e veniamo a sapere qualcosa dei suoi affetti.
Scopriamo così che egli ha una sorella gemella alla quale è molto affezionato e che, come lui, si è consacrata a Dio fin dall’infanzia. Scopriamo che il venerabile Patriarca le dedica un giorno all’an­no: un’intera giornata in visita al monastero di lei, «a parlare assieme di argomenti santi», fino alla cena compresa.
Ed ecco che ci viene narrata l’ultima visita. Quando, a sera, giun­ge l’ora in cui Benedetto deve tornare in monastero (la Regola proibisce severamente di pernottare fuori), Scolastica chiede al fratello un’eccezione: «Questa notte non lasciarmi, te ne prego, così potremo fino a domani mattina parlare della gioia della vita celeste». Ma rice­ve un rifiuto quasi scandalizzato: «Che cosa dici mai, sorella!».
Il cielo non ha una nuvola. Scolastica pone le mani intrecciate sul tavolo e china la testa. In brevissimo tempo il cielo si annuvola e scoppia una tale tempesta con lampi e tuoni e rovesci di pioggia, che Benedetto, per tutta la notte, non può nemmeno metter piede fuori della soglia.
«Dio Onnipotente ti perdoni, sorella mia», disse Benedetto, «che hai fatto?». E Scolastica, con logica tutta femminile, rispose: «Vedi, ho pregato te, e tu non mi hai voluto ascoltare. Allora ho pregato il mio Signore e mi ha ascoltata. Ora esci pure, se ci riesci, torna in mo­nastero!».
Così Benedetto si trovò a subire un miracolo. Il motivo era duplice, spiega papa san Gregorio.
Il primo: nel cristianesimo tutto è questione d’amore. Dio stesso è amore, quindi fu cosa logica «che potesse di più colei che amò di più». Ed è con questo conclusivo giudizio che Gregorio relativizza in un colpo solo tutti i miracoli che ha raccontati e ne fa – anche a favore di Benedetto, si intende – una questione d’amore.
Il secondo: Dio sapeva che quell’incontro tra i due fratelli era l’ul­timo. Scolastica morì dopo tre giorni. Benedetto mandò i suoi frati a prenderne il corpo, per deporlo nel sepolcro che egli aveva fatto pre­parare per sé. «Si ebbe perciò che, come in vita la loro anima era sta­ta sempre una cosa sola in Dio, così in morte anche i loro corpi non furono separati neppure dalla tomba» (D n. 34).
Siamo così giunti quasi al vertice della narrazione, e sentiamo per­ciò il bisogno di andare all’altra fonte della biografia di Benedetto, a cui san Gregorio rinvia il suo lettore scrivendo: «Tra i tanti miracoli che resero famoso nel mondo quest’uomo di Dio c’è da porre anche il luminoso splendore della sua dottrina. Scrisse infatti per i monaci una Regola, davvero notevole per la sua discrezione, e chiara e bella (luculenta) nell’espressione. E se qual­cuno vuole conoscere più a fondo i suoi costumi e la sua vita, nell’in­segnamento della Regola può trovare gli atti con cui egli stesso visse il proprio magistero, perché egli non poté insegnare in maniera di­versa da come visse» (D 11,36).
Che la Regola debba in qualche maniera rispecchiare la vita del nostro santo è evidente soprattutto la dove descrive le qualità e i compiti dell’abate che – dice Benedetto – «sono già tutti indicati dal nome con cui lo si chiama: Padre!».
Il cuore dell’avvenimento evangelico – la venuta sulla terra del Fi­glio di Dio e il dono del suo Spirito che ci rende capaci di invocare Dio col nome di Abbà («Padre!») – diventa così il cuore stesso del monastero, tutto abitato da figli che si rivolgono con questo nome al loro Superiore.
Costui sa di dover trasmettere la volontà di Dio, con le parole e con la vita, ricordandosi sempre «del nome che porta»: sa di dover essere un padre «puro, sobrio, misericordioso» che lascia sempre «prevalere la misericordia sulla giustizia».
A lui Benedetto chiede il difficile equilibrio di un amore capace, a un tempo, di estendersi a tutti e di privilegiare ciascuno secondo le sue necessità. Un padre riservato e indulgente, forte e saggio; non inquieto né ansioso, non oppressivo né geloso; capace di tenerezza e di infinita pazienza, ma anche di severità e di decisione. Un padre che «preferisce sempre la misericordia alla giustizia», ma non trascura mai la correzione.
Un padre che osserva attentamente i suoi figli e la loro diversa in­dole in modo che «i forti abbiano sempre un ideale a cui tendere e i deboli la possibilità di non scoraggiarsi».
Gli aggettivi, le immagini, i proverbi si susseguono sotto la penna di Benedetto, a volte con u certo umorismo, come quando esorta l’abate a non essere come quel pastore che «a forza di far correre il gregge fa morire tutte le pecore in un solo giorno», o quando gli con­siglia «di stare attento a non spezzare il recipiente a forza di grattare via la ruggine».
Altri consigli hanno la bellezza di motti programinatici: «L’abate curi più di essere amato che termuto»; «sappia di dover giovare più che comandare».
Dietro molte espressioni si intravedono le esperienze personali di Benedetto: le sue scoperte pedagogiche, i propositi di buon gover­no che deve aver elaborato nel corso degli anni, le delusioni che deve aver subito e i successi riportati con l’aiuto di Dio.
Ma la Regola è soprattutto descrizione dell’edificio che Benedetto va man mano costruendo. Si può dire che egli progetti una costruzio­ne grandiosa, ma a suo modo incredibilmente semplice.
In un’epoca in cui tutto sembra sfaldarsi – sia la società ecclesiale che quella civile, sia la vita monastica che quella laicale – e Benedetto pensa in termini di «famiglia»: il monastero è un’intera «società» ge­stita come una «famiglia». Nella sua compiutezza, il monastero deve contenere tutto ciò che serve alla vita: «l’acqua, il mulino, l’orto e i locali dove si esercitano i vari mestieri … ».
Da un lato è il monaco che non ha più bisogno di girovagare per il mondo né di cercarvi il necessario per vivere, dall’altro – nei seco­li bui che si avvicinano – sarà piuttosto il mondo che verrà a vivere all’ombra e sotto la protezione del monastero, cercandovi quella pa­ce, quell’ordine, quella progettualità che sarà impossibile trovare al­trove.
Nel monastero benedettino vengono a vivere, come fratelli sotto l’autorità di un unico Padre, tutti coloro che lo desiderano, purché promettano obbedienza e stabilità. Non si fa distinzione tra liberi e schiavi, né tra uomini d’arme e contadini, né tra ignoranti e dotti. Non si fa distinzione di età: perfino i fanciulli sono ammessi; l’ab­bazia ha sempre una scuola in cui dei bambini – amati come figli – già si preparano alla vita monastica; la Regola vale anche per loro, anche se tocca all’abate adattarla alla loro età e temperarla. Non si fa nemmeno quella distinzione che più ci si attenderebbe: la previa valutazione delle disposizioni spirituali e l’attuazione di un discernimento vocazionale.
La Regola sembra dare per scontato, quasi in ogni pagina, che in monastero abitino, con lo stesso diritto, monaci obbedienti, capaci, pazienti, docili, virtuosi, intelligenti e altri caparbi, cattivi, orgogliosi, ribelli, turbolenti, arroganti, indisciplinati, inutili…
Tutti assieme essi formano «il gregge dell’abate», ed egli deve pascerli dando ad ognuno il giusto nutrimento e la giusta medicina. Alla fine del cammino (… alla fine della Regola) Cristo li prenderá tutti assieme li condurrà alla vita eterna».
Nel prologo, Benedetto definisce il suo monastero «una scuola per imparare a servire il Signore»; poco dopo dirà che è un’«officina» dove tutti lavorano, avendo a disposizione gli «strumenti delle buone opere». Se si legge la lunga lista di questi «strumenti consigliati» (quasi 74) non ci si deve meravigliare di trovare elencati assieme: i principali comandamenti (compreso quello di «non ammazzare» e «non commettere adulterio»), le opere di misericordia (compresa quella di «seppellire i morti»), le tentazioni contro le quali bisogna resistere (tra cui «non dare sfogo all’ira», «non covare rancore», «non almanaccare l’inganno»), i vizi che bisogna eliminare (tra cui la raccomandazione di non essere «pigri», «beoni», «mangioni», «dormiglioni», brontoloni»), e le virtù che bisogna coltivare (tra cui «venerare i più anziani» e «amare i più giovani»).
Il fatto che Benedetto si attardi a enumerare raccomandazioni spesso gravi, ci dice che si ritiene normale anche la vocazione di molti robusti e inveterati peccatori: i tempi sono tali che il monastero non può essere immaginato come rifugio di anime elette e spiritualmente affinate, ma come rifacimento e salvezza di tutto un mondo, solo in parte cristiano, che sembra inabissarsi.
Ma tra i tanti pesanti richiami risplendono indicazioni di altissima vita mistica, offerte come lampi di ideale a chi «può comprendere»: dal bellissimo «Affidare a Dio la propria speranza», al suggestivo «Desiderare la vita eterna con ogni concupiscenza spirituale», al conclusivo e pacificante «Non disperare mai della misericordia di Dio» .
E non si può certo dimenticare quello splendido aforisma: «Non anteporre nulla all’amore di Cristo» che Benedetto mette all’inizio della Regola e che riprende alla fine con un’assolutezza ancora maggiore.
Su tutto dovrà poi dominare l’obbedienza all’abate, soprattutto quella prestata «senza indugio», che è propria di coloro «che ritengono di non avere per sé nulla di più caro di Cristo» e che porterà i fratelli a un desiderio umile di obbedirsi reciprocamente»,
L’esistenza che la Regola descrive e prescrive è tutta organizzata attorno a un duplice «lavoro» (opus): il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti «operai del Signore».
Opus Dei (la preghiera comune di tutti i monaci) è un lavoro che dev’essere compiuto «al cospetto degli angeli» e scandisce le ore del giorno e della notte. Esso dà un orientamento verticale e purificatore a tutte le tensioni dell’esistenza. Anche in questo caso deve valere una radicale decisione del cuore: «non si deve anteporre nulla all’Opera di Dio», così come non si deve anteporre nulla all’amore di Cristo. Opus magnum è il lavoro a cui tutti devono applicarsi negli altri tempi della giornata. In un’epoca in cui il lavoro è affare di schiavi, Benedetto lo fa diventare questione di umana dignità, di fraterna solidarietà e di spirituale offerta.
Perfino gli strumenti di lavoro vanno trattati «come i vasi sacri dell’altare». Perfino l’economo della casa dve curare l’amministrazione e deve tutto sorvegliare in base a un criterio di profonda umanità innervata dalla fede: anch’egli è tenuto a comportarsi «come padre della comunità» e il suo compito deve tendere a che «nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio»,
Ora et Labora: il motto sintetico, che diverrà poi tradizionale, descrive il monaco che sa di lavorare con Dio e per Dio, ma sa che anche Dio lavora con lui e in lui.
Fu così che i monaci – guidati da questa Regola (che Benedetto, alla fine, definisce «piccolissima Regola da principianti») – impararono a rendere «eroica la vita quotidiana e quotidiana la vita eroica» con lo stesso ritmo con cui apprendevano «a dissodare terre e a darle alla civiltà», dopo aver dissodato e offerto a Dio il loro cuore.
Col passare (dei secoli «l’Europa sarà rinserrata in una rete di fattorie modello, (i centri di allevamento, di focolai di alta cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola: di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza alcun dubbio il Padre d’Europa. I bene­dettini, suoi figli, sono i padri della civiltà europea»: così ha scritto Léo Moulin. Egli amava ricordare che perfino le leggi del galateo che oggi rispettiamo a tavola (tovaglie, tovaglioli, fiori, silenzio, pulizia, sequenza dei cibi, cortesia reciproca, modo di comportarsi) furono inventate dai monaci che resero il cibo «una pietanza», qualcosa che è legata alla pietas: un cibo ricevuto e consumato con gratitudine e ri­spetto.
Ai tempi della prima abbazia di Montecassino il lavoro riguarda­va la stretta amministrazione della casa e dei suoi più vicini possedimenti.
Col tempo i monaci impareranno a dissodare terre, bonificare, ir­rigare, fino a gestire vere e proprie aziende agricole, allevamenti, vi­vai, serre sperimentali. Impareranno e insegneranno la viticoltura, lo sfruttamento delle foreste, l’uso delle piante medicinali. Si preoccuperanno di ricopiare nei loro freddi scriptoria tutte le opere dell’antichità classica che oggi noi conosciamo soltanto per lo­ro merito. I monasteri diverranno perfino centri finanziari, e adempiranno per secoli anche alla funzione di banche di depositi e prestiti.
Dicono che in Europa non c’è luogo in cui non si trovino tracce dell’azione dei monaci, e molte città ebbero il loro primo nucleo in un’abbazia.
La Regola è all’origine di tutto questo: ha salvato e costruito l’Europa non perché offrisse un progetto dettagliato e credibile di ricostruzione, ma perché trasmetteva un modello di vita in cui «la dignità umana aveva un riconoscimento quotidiano» (Bernard Dejòuvenel) e – aggiungiamo noi – tale dignità era riconosciuta in ogni azione del giorno, dalla più sacra alla più umile.
Lo scopo di Benedetto – e poi quello dei suoi monaci – non fu quello di supplire alle deficienze di una società in sfacelo, ma quello di poter semplicemente realizzare la vocazione che Dio dona all’uomo.
Benedetto credette, insomma, che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una schola dominici servitii: «una scuola per imparare a servire il Signore»; ma comprese che, in quegli anni e in quei secoli, una simile «scuola» doveva semplicemente farsi carico di insegnare tutto, anche tutto l’umano»: dalla cortesia al senso del­la misura, dalla tenerezza alla serietà, dall’onorare Dio all’onorare i propri fratelli e le proprie responsabilità.
Aveva poco più di sessant’anni, quando Dio gli fece l’ultimo rega­lo. Una notte in cui Benedetto pregava silenziosamente, stando alla finestra, una luce si diffuse lentamente fino a che tutto sembrò ri­splendere come in pieno giorno. Ed ecco che «durante questa visione si verificò un fatto prodigioso, come ebbe a dire in seguito lui stesso: davanti ai suoi occhi si presentò addirittura il mondo intero come raccolto sotto un unico raggio di sole».
Anche san Gregorio Magno, che racconta quest’episodio conclu­sivo, fa fatica a spiegare il significato e la possibilità stessa di una si­mile visione. Spiega tuttavia così: «Non furono la terra e il cielo a rimpicciolirsi, fu l’anima del veggente che si dilatò».
E questa una nota ricorrente nell’esperienza di molti santi, che merita di essere sottolineata: l’ultima preghiera, l’ultima visione ri­guardano Dio Creatore e la bellezza di tutte le creature. Il primo articolo del Credo è anche l’ultima verità pienamente creduta e gustata.
Ormai il Santo Patriarca sapeva d’essere giunto al termine del suo cammino. Si fece portare nell’oratorio del monastero, ricevette l’Eu­caristia, e poi «con l’aiuto dei discepoli che sostenevano le sue debo­li membra, rimase in piedi con le mani alzate verso il cielo, finché spirò mormorando un’ultima preghiera».
Moriva com’era vissuto, nella posizione dell’Orante, mentre alcu­ni monaci di lontani monasteri ricevevano la visione di una strada, tutta coperta di tappeti, che si innalzava dritta fino al cielo, verso Oriente, e una voce spiegava loro: «Questa è la via per la quale Bene­detto, caro a Dio, è asceso al cielo».
Così finisce il racconto della vita di colui che fu «Benedetto di no­me e per grazia». Più avanti, in un altro libro dei suoi Dialoghi, san Gregorio ag­giungerà ancora un episodio sul Santo Patriarca che può servirci come conclusione del racconto e ammonimento.
Il Pontefice narra la vicenda di un eremita del monte Morsicano che, in quegli stessi anni, viveva chiuso in una caverna e che, per restare fedele al suo proposito, aveva addirittura legato il suo piede alla roccia con una catena di ferro. Benedetto, quando lo seppe, gli mandò a dire: «Se sei servo di Roma a tenerti legato non deve essere una catena di ferro, ma la catena di Cristo». Voleva dire – a lui e a noi – che l’unico legame indissolubile è l’a­more di Gesù.

(Testimoni della Fede) Sacerdoti – autore: Antonio Sicari

Publié dans:SAN BENEDETTO DA NORCIA |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO – LA REGOLA: UN LIBRO DI SAGGEZZA

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ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO

LA REGOLA: UN LIBRO DI SAGGEZZA

« Chiunque tu sia, che ti affretti verso la patria celeste, attua, con l’aiuto di Cristo, questa piccola regola che abbiamo scritto per i principianti, e soltanto allora giungerai, con la protezione di Dio, alle vette più elevate della dottrina e della saggezza di cui abbiamo parlato più sopra. Amen. » (Regola di S. Benedetto cap.73, 8-9)
I Padri del Deserto narrano un racconto sulla vita spirituale che può spiegare nel modo migliore questo libro:
« Un giovane monaco incontrò per caso un monaco più anziano seduto tra gente che pregava, lavorava e meditava.
« Sono in grado di camminare sull’acqua », disse il giovane discepolo. « Quindi, andiamo sul quel laghetto laggiù, ci sediamo e intavoliamo una discussione spirituale ».
Ma il maestro rispose: « Se ciò che stai cercando di fare è fuggire da questa gente, perché non vieni con me a volare nell’aria, a muoverti spensierato nel quieto cielo aperto e lì parlare? »
E il giovane novizio replicò: « Non posso perché io non possiedo il potere di cui parli ».
E il maestro spiegò: « Esattamente. Il tuo potere di rimanere immobile sul pelo dell’acqua è lo stesso che possiedono i pesci. E la mia capacità di fluttuare nell’aria è propria di qualsiasi mosca. Queste capacità non hanno niente a che vedere con la verità vera e, in effetti, possono facilmente diventare la base dell’arroganza della competizione, non della spiritualità. Se dobbiamo parlare di argomenti spirituali, dobbiamo parlarne proprio qui in questo posto »".
Quasi tutte le persone che ho incontrato e che prendono sinceramente in considerazione le cose dello spirito, pensano che il nocciolo del racconto sia vero: la vita quotidiana è la vera sostanza di cui è fatta la grande santità. Ma quasi nessuna delle persone che ho incontrato ritiene che ciò sia facilmente realizzabile. Abbiamo tutti in qualche modo imparato che, per poter trovare la spiritualità, si deve lasciare il luogo dove viviamo. Ognuno di noi spera di ottenerne abbastanza in un determinato momento della sua vita affinché essa l’accompagni in tutti gli altri momenti. L’idea che la santità sia un aspetto della vita matrimoniale o della vita celibataria, tanto quanto lo è della vita religiosa o di quella sacerdotale, è un’idea molto amata ma in cui di rado si crede profondamente.
Al giorno d’oggi, così come ai tempi del racconto, le mode riempiono la vita spirituale. Un anno ci viene detto che la panacea sono le novene, un altro anno i ritiri e un altro ancora i luoghi di meditazione. Alcuni credenti convinti ci assicurano che il culto da loro scelto è la sola risposta alle battaglie della vita. Gli amanti dell’occulto promettono una salvezza che viene dalle stelle o da un’antica tradizione orientale. Le comunità terapeutiche offrono maratone di incontri o laboratori per liberare la nostra anima dall’ira. Più e più volte, cure, culti ed esercizi psicologici vengono regolarmente provati e regolarmente abbandonati, mentre le gente cerca qualcosa che la faccia sentire bene, che rafforzi la sua visione della realtà e che dia un senso e un orientamento alla sua vita. Tuttavia, come dimostra l’antico racconto, se non ci comportiamo in modo spirituale là dove ci troviamo e così come siamo, a nulla valgono i nostri sforzi. Stiamo semplicemente consumando l’ultima moda spirituale che intorpidisce la nostra confusione ma non riempie mai i nostri spiriti né libera i nostri cuori.
Dopo anni di vita monastica ho scoperto che, diversamente dalle mode spirituali che vanno e vengono con i loro maestri o le culture che le hanno generate, la Regola di San Benedetto guarda il mondo con occhi interiori e dura nel tempo. In essa, senza considerare chi siamo o cosa siamo, la vita e il suo scopo si incontrano.
La Regola di San Benedetto è stata una guida per la vita spirituale della gente comune a partire dal VI secolo. Qualcosa che è durato così a lungo e che ha avuto un tale impatto sulla società dell’usa e getta, è certamente degno di considerazione. E il libro che hai tra mano cerca di rispondere alle seguenti domande: come rendere conto di un modo di vivere che è durato per più di millecinquecento anni e che cosa ha da dire – se qualcosa ce l’ha- alla vita spirituale nel mondo d’oggi?
La spiritualità benedettina offre proprio ciò che manca ai nostri tempi. Essa cerca di riempire il vuoto e di comporre la frammentarietà nelle quali molti di noi vivono e lo fa in modo sensato, umano, completo e accessibile in un mondo che è oppresso dal lavoro, eccessivamente stimolato e programmato.
La Regola di San Benedetto chiamò alla comunione il mondo romano, che era basato sulle classi sociali, e chiama noi, che viviamo in un mondo frammentato, a fare lo stesso. La Regola spinse verso l’ospitalità in un’epoca di invasioni barbariche e spinge noi alla sollecitudine in un mondo di vicini tra loro estranei. Essa spinse all’uguaglianza in una società piena di classi e di caste e spinge noi all’uguaglianza in un mondo dove ognuno è dichiarato uguale ma viene giudicato in modo diverso. San Benedetto, che sfidò la società patrizia di Roma a essere umile, provoca allo stesso modo il nostro mondo, i cui eroi sono Rambo, James Bond, il potere militare e le stelle dello sport, l’uomo »macho » e quello violento.
La spiritualità benedettina invita alla profondità in un mondo quasi sempre contraddistinto da superficialità e fragilità. Essa propone un insieme di atteggiamenti ad una società che è stata sedotta da iniziative promozionali e soluzioni temporanee. La spiritualità benedettina offre profondità e saggezza dove la devozione ha perso significato e l’ascetismo valore.
Soprattutto, la spiritualità benedettina è una buona novella in tempi difficili. Insegna alla gente a considerare il mondo come qualcosa di buono, le sue necessità come legittime e il sostegno umano come necessario. La spiritualità benedettina non chiama a compiere grandi imprese o a esprimere grandi rifiuti. Semplicemente essa ci invita a stabilire delle relazioni, mostrando come metterci in contatto con Dio, con gli altri e con la parte più profonda di noi.
Prima di tutto, la Regola di San Benedetto è destinata alla gente comune che vive una vita qualunque. Non è scritta per preti o mistici o eremiti o asceti; essa venne scritta da un laico per laici. Venne scritta per fornire un modello di crescita spirituale all’uomo medio intenzionato a vivere un’esistenza che andasse oltre la superficialità o l’indifferenza. Essa è scritta per quanti hanno una profonda sensibilità e un serio interesse spirituale e non cercano di mettersi in cammino per fuggire dal proprio mondo, ma per infondere la visione di Dio nelle loro scelte etiche.

La Regola di San Benedetto è saggezza distillata dalla vita quotidiana. E questo libro è semplicemente il resoconto di come io – che ho vissuto questa Regola in una comunità monastica per più di trent’anni – sia arrivata a capire quanto la spiritualità benedettina abbia da dire all’uomo di oggi.

Spiritualità è più che andare in chiesa. Anzi, si può andare in chiesa e non crescere affatto nella spiritualità. La spiritualità è il modo in cui noi esprimiamo la fede vissuta in un mondo reale, è la somma degli atteggiamenti e delle azioni che definiscono la nostra vita di fede.

Per l’apostolo Paolo, la spiritualità consisteva nel vivere « in Cristo » e nel considerare i doni dello Spirito come volti a « formare il corpo di Cristo » qui e adesso. Ma la comprensione di ciò che costituisce la perfetta vita cristiana è cambiata da un’epoca all’altra attraverso i tempi. Un tempo essa veniva assimilata, in diversi modi, al martirio, al ritiro dal mondo, all’evangelizzazione e al rinnegamento di se stessi. Nel periodo della storia della Chiesa più vicino al nostro, ad esempio, spiritualità era sinonimo di obbedienza a « superiori debitamente costituiti » e in grado di suscitare una forte reazione emotiva nella preghiera individuale. Molti misuravano la spiritualità, o « la vita secondo lo Spirito », dal numero dei rosari recitati o da quello degli ordini accettati con docilità o dal numero di cose che venivano « abbandonate » in modo da poter condurre una vita più alta o più « perfetta ». Il risultato di questi criteri fu che solo alle suore, ai frati e ai preti veniva riconosciuta la capacità di vivere una vita veramente spirituale. Questa interpretazione resistette fino al Concilio Vaticano II, che riconobbe la chiamata universale alla santità e l’autenticità della vocazione laica nella Chiesa.
Come le persone vissute in epoche più lontane, oggi stiamo ricominciando a guardare la vita spirituale attraverso lenti angolari più ampie. La spiritualità che sviluppiamo influenza il nostro modo di immaginare Dio, il nostro metodo di preghiera, il tipo di ascetismo che pratichiamo, lo spazio che diamo al nostro ministero e alla comunità nel definire la « vita spirituale ». E’ la spiritualità che ci porta oltre noi stessi per trovare il senso e l’importanza della nostra vita. E’ la spiritualità che definisce i valori della nostra vita: abnegazione o valorizzazione di se stessi; vita di comunità o solitudine; contemplazione o evangelizzazione; trasformazione personale o giustizia sociale; gerarchia o uguaglianza. In altre parole, la spiritualità che facciamo crescere in noi è il filtro attraverso il quale noi vediamo il mondo e i limiti entro cui agiamo.
La spiritualità che emerge dalla Regola di San Benedetto è ricolma della quotidianità vissuta straordinariamente bene. Qui, trasformare la vita conta più che trascenderla. Ecco perché la Regola di San Benedetto è destinata alle persone che, nel mondo di oggi, lavorano faticosamente, sempre indaffarate, consumate dalla vita familiare, dai conti, dai doveri civili e dal duro lavoro, così come è destinata a chi ha dedicato se stesso a vivere una vita religiosa in mezzo agli uomini.
La questione è: quali sono i valori spirituali custoditi da circa millecinquecento anni nella Regola di San Benedetto e che cosa dicono – se qualcosa hanno da dire – alla nostra epoca e a noi che cerchiamo di vivere con serenità nel caos che ci circonda, con produttività nell’arena dello spreco, con amore in un vortice di individualismo e con gentilezza in un mondo pieno di violenza? Che cosa insegnano a noi che siamo alla ricerca di risposte alle grandi domande della vita, mentre il nostro lavoro ci sommerge e i nostri debiti crescono, mentre le nostre famiglie contendono la nostra attenzione e i nostri amici minimizzano le nostre preoccupazioni, mentre i nostri uomini politici ci dicono che la vita sta migliorando quando sappiamo che, almeno per molti, la vita sta in gran parte peggiorando?
La maggior parte di noi non può precipitarsi verso il mare per allontanarsi o volare via verso altri luoghi per fuggire, come i personaggi del racconto. Semplicemente, la maggior parte di noi vive lì dove si trova, in mezzo alla folla e nell’intrico delle domande. La maggior parte di noi non ha altro modo di arrivare a Dio e a una vita giusta se non il « qui » e l’ »ora ».Il problema è allora di scoprire come rendere il « qui » e l’ »ora » qualcosa di giusto e santo per noi. Il « qui » e l’ »ora » sono tutto ciò che ognuno di noi ha per rendere la vita degna di essere vissuta, Dio presente e la santità un modo di vivere normale anziché innaturale.
Per le persone come noi, la spiritualità benedettina è come una casa perché riguarda proprio il « qui » e « l’ora ». La spiritualità benedettina è impastata della materia grezza che è la vita di tutti i giorni e non presuppone un grande ascetismo, né promette esperienze straordinarie dello spirito. Non richiede grandi mortificazioni della carne e non offre eccezionali garanzie di misticismo. Essa non descrive un particolare tipo di vita e non si affida a un grande piano organizzativo. La Regola di San Benedetto prende semplicemente la polvere e l’argilla di ogni giorno e la trasforma in bellezza.
La Regola di San Benedetto non è un insieme di esercizi spirituali, né un elenco di proibizioni o devozioni o discipline. Non è affatto una regola nel senso moderno della parola.
Se con questo termine si intendono restrizioni, leggi o richieste, la Regola di San Benedetto non rientra in questa categoria. Anzi, essa è semplicemente un progetto di vita, un insieme di principi chiaramente più vicino al significato originario della parola latina regula, o guida, piuttosto che al termine lex, o legge. La legge è ciò che noi siamo arrivati ad aspettarci dalla religione; ciò di cui abbiamo veramente bisogno è la direzione.
Regula, la parola che adesso viene tradotta con « regola », nell’accezione originaria significava « indicatore stradale » oppure « ringhiera », qualcosa a cui aggrapparsi nel buio, qualcosa che indica la strada e conduce in una determinata direzione, che fornisce un sostegno per arrampicarsi. In altre parole, la Regola di San Benedetto è più saggezza che legge. Non è una serie di istruzioni, ma uno stile di vita.
Ecco la chiave per capire la Regola: comprendere che essa non è tale.
Per questo essa vale tanto per i laici quanto per i monaci. « Ascolta… chiunque tu sia », dice Benedetto nel Prologo alla sua Regola. Chiunque tu sia.
La Regola di San Benedetto è semplicemente un pezzo di letteratura sapienziale sulle grandi questioni della vita al fine di renderle comprensibili e attuali, chiare e raggiungibili.
Ma non è facile arrivare a rendersene conto in una Chiesa e in un mondo che vogliono o tutto legge o nessuna legge. Le formule e la licenza sono molto più semplici di un’attenzione, un’attenzione continua, alla qualità della vita che stiamo creando e allo stesso tempo cercando. In altre parole, è molto difficile quando siamo giovani renderci conto che, per arrivare dove si vuole nella vita, dobbiamo fare spesso cose che non avremmo scelto di fare. Alzarsi presto al mattino per pregare e per leggere è un modo di pensare estraneo ad un arrampicatore aziendale, convinto che ciò di cui ha veramente bisogno sia accumulare sonno e conservare le forze per il duro giorno che lo aspetta. Per la mentalità monastica, tuttavia, non vi può essere niente di più sensato. Senza la preghiera e la lettura spirituale – ecco la convinzione dei monaci – chi sarà mai in grado di capire verso che cosa tenda il desiderio umano di far carriera o in che cosa consista la sua realizzazione? Interrompere il lavoro per pregare, nel bel mezzo di una giornata caotica, appare una pura irrealtà a molti giovani monaci per i quali il lavoro o lo studio sono molto attraenti e proficui. Ma dopo qualche anno diventa chiaro che la consuetudine giornaliera di fermarsi, per ricordare in che cosa consista veramente la vita nelle sue vette più vertiginose, rappresenti la sola genuina realtà di quel periodo dell’esistenza.
La Regola di San Benedetto, in altre parole, porta nella spiritualità l’attenzione e la consapevolezza. L’essenza della vocazione monastica benedettina non è un insieme di prescrizioni congelate nel tempo, ma è il tempo esaminato minuziosamente alla luce dei valori del Vangelo. Il benedettino non si mette in cammino per evitare la vita; si mette in cammino per vivere straordinariamente bene la vita quotidiana. Così, il vero monaco diventa sensibile al mondo.
I monasteri difficilmente appaiono luoghi da cui analizzare il mondo. Entrare in monastero, secondo la mitologia popolare, significa lasciare il mondo e non già esserne coinvolti ancora più profondamente. Ma solo da lontano possiamo vedere meglio. Forse solo chi non ha denaro può sapere meglio degli altri che il denaro non è essenziale per vivere bene. Forse chi dispone solo di un letto, di libri e di un armadietto in una piccola stanza, può rendersi chiaramente conto di quanta confusione possano portare nella vita tante cose che ingombrano. Forse solo quelli che fanno voto di obbedienza a qualcun altro riescono ad intuire quanto l’egocentrismo corroda il cuore. Forse solo chi vive nella solitudine capisce veramente che cosa sia la comunità. Forse solo quelli che per scelta non hanno alcun potere possono dimostrare meglio il potere che deriva dal non averne. Forse solo quelli che hanno deciso di opporsi all’accumulo di beni personali. possono rendersi conto che il fallimento economico, l’assistenza dei servizi sociali e il minimo indispensabile per vivere non sono le cose peggiori che possano accadere nella vita di una persona. Forse solo quelli che per scelta non si sono sposati riescono ad ascoltare con maggiore sensibilità chi è stato abbandonato, chi è vedovo o chi è solo. Forse solo quelli che non hanno una scala aziendale o ecclesiale da salire, possono parlare meglio di uguaglianza. Davvero il monastero offre una prospettiva privilegiata da cui parlare al mondo.
Una volta che ci si è resi conto che il testo della Regola di San Benedetto è solo un elemento della vita monastica, diventa evidente che le altre tre dimensioni di questa scelta esistenziale – il Vangelo di Cristo, le interpretazioni dei capi della comunità, l’esperienza e l’intuito di ogni singola comunità – sono destinate a mantenere una persona fortemente radicata nel mondo reale e sono regola tanto quanto la Regola stessa. Sono quelle dimensioni che danno vita, larghezza di vedute, profondità e portata, antichità e rilevanza, carattere locale e possibilità universale. Questi quattro elementi – le Scritture, il testo della Regola, guide sagge, l’intuito e le esperienze di vita, le condizioni della comunità o della famiglia in cui viviamo – sono ciò che rendono la Regola qualcosa di vivo e non un testo morto di norme passate, non un documento storico, non il passatempo di eccentrici antiquari.
La Regola di San Benedetto vive e respira di età in età. Essa esamina e si adatta da un secolo all’altro e da una cultura all’altra. La Regola di San Benedetto guida la gente verso un atteggiamento mentale, ma non la soffoca con una serie di prescrizioni particolari. E’ scritta per il nostro tipo di vita e le nostre condizioni, così come lo è stata per ogni epoca del passato. Cresce con i diversi periodi storici e ci offre un appiglio, un parapetto, una guida che non ci permetterà di arenarci nella nullità spirituale e nel torpore dei nostri tempi.
Il monaco cerca la santità « qui » e « ora » senza il peso di una particolare alimentazione o di una devozione esoterica o di un nocivo rinnegamento di se stesso. Il vero monaco attraversa la vita con un’anima spoglia, attenta, cosciente, piena di riconoscenza e che solo parzialmente si sente a casa.
Che cosa significa, dunque, seguire la Regola di San Benedetto, pensare con un’attitudine mentale monastica, vivere la vita più come un dono che come una lotta?
Prima di tutto, la spiritualità benedettina è un impegno più verso i princípi che verso le pratiche. Il monaco benedettino non segue tanto un orario o un rigido programma quotidiano, quanto predispone un equilibrio fra le varie attività della vita. Il benedettino non segue tanto un insieme di comportamenti quanto piuttosto sviluppa un’attitudine in armonia al suo posto nell’universo ed essa guida ogni sua conversazione e ogni suo gesto comune. Per la spiritualità benedettina conta di più vivere bene la vita che seguire perfettamente la legge.
In secondo luogo, la spiritualità benedettina è semplicemente una guida per i Vangeli, non un fine in se stesso. Benedetto definisce la sua Regola una « piccola regola per principianti » (RB 73, 8) nella vita spirituale, non un manuale per un’élite o per persone colte o per chi è già arrivato. Casalinghe e padri di famiglia, uomini e donne in carriera, monaci e laici « voi tutti che cercate la casa del Cielo » (RB 73, 8), la Regola vi sprona non verso una ginnastica spirituale ma verso la coscienza contemplativa secondo cui il Vangelo, e questo solo, è il criterio adatto per qualunque azione umana.
In terzo luogo, la Regola dimostra chiaramente che vivere la vita secondo il Vangelo non è un’avventura in balia del capriccio privato e dei voli di fantasie personali, ma è trarre coscientemente profitto dalla saggezza di altri che possono incoraggiarci e aiutarci ad esaminare minuziosamente il valore e il coraggio delle nostre scelte.
Infine, la spiritualità benedettina si fonda direttamente sull’idea che non siamo noi l’unica misura dei nostri bisogni spirituali, ma che l’intera umanità e l’universo hanno dei diritti sul valore delle nostre azioni quotidiane.
In un mondo dove l’intero pianeta è diventato il nostro prossimo e le nostre vite private sono caratterizzate da un’interminabile fiumana di gente, la Regola di San Benedetto, con il rilievo che dà alla qualità spirituale della vita di comunione, non è forse mai stata così attuale. Io stessa ho iniziato a vedere, sotto le apparenze di quest’antica regola monastica, una sembianza di ragionevolezza nell’irragionevolezza del mondo che mi circonda.
Quando iniziai la vita monastica, mi venne consegnata una copia della Regola. Per me non aveva alcun senso. Volevo delle indicazioni. Volevo una formula. Volevo la santità a rate: compra adesso, paghi più tardi. Mi ci sono voluti anni per capire che, se avessi pagato adesso, avrei ottenuto ciò che stavo cercando solo se e quando fossi diventata ciò di cui andavo in cerca. Mi ci sono voluti anni per rendermi conto che la Regola distillava anni di esperienza, era una sorta di saggio su ciò che Benedetto considerava la vita spirituale e una testimonianza di ciò che nella sua epoca erano stati i modi più efficaci per raggiungerla. Ma non si trattava affatto di un progetto dettagliato.
Nel 72° capitolo della Regola, Benedetto ci mette in guardia dal « cattivo zelo », dal fanatismo e dall’assolutismo che fanno della religione uno strumento di oppressione verso noi stessi e gli altri. Nel 73° capitolo, egli promette che se
« metti in pratica… questa piccola Regola… allora raggiungerai finalmente le più grandi vette della conoscenza e della virtù ».
Io iniziai a capire che questa vita richiedeva costanza, pazienza ed equilibrio. Qui si compiva una crescita, non delle norme. Questa vita sarebbe stata una santificazione della normalità, non una ginnastica spirituale. Per noi si trattava di un modo di vivere, non di vivere la vita in un certo modo.
Come risultato, adesso scopro di fare riferimento alla Regola quando mi chiedo quale dovrebbe essere la risposta cristiana ai problemi ecologici. Mi rivolgo ad essa per trovare la mia strada attraverso l’intrico dei rapporti umani. Mi affido ai suoi valori e ai suoi principi perché mi mostrino come gestire le stravaganze della vita. Guardo la Regola per spiegare la mia depressione, la mia frustrazione e la mia noia spirituale. Dipendo da essa per smettere di pensare solo a me stessa. La considero come un insieme di valori che trascendono il tempo ma che hanno un significato particolare per il mio tempo.
Ho scritto questo libro per condividere anni di riflessioni trascorsi con persone che ho trovato sinceramente interessate alle domande che mi pongo e preoccupate del cammino da seguire proprio come me. Di fronte a una continua confusione, dobbiamo tornare alla Chiesa di prima? Questo risolverebbe i nostri dilemmi? O una chiesa qualsiasi è la risposta in un’epoca in cui le chiese stesse si confrontano sulla questione nucleare, la questione della donna, quella che concerne il modo di vivere o la pastorale o la famiglia o l’alienazione o l’inquietudine personale? Quale significato ha la spiritualità rispetto a tutto questo: un rosario al giorno, l’astinenza dalle carni, dei ritiri regolari, il coinvolgimento nei gruppi della parrocchia, l’attività pubblica? E’ un crescendo di domande. Credo che le risposte si trovino in ciò che non va e viene con il passare degli anni e le diverse epoche. Le risposte consistono nell’offrire la saggezza e non un insieme di ricette.
Queste pagine sono le mie riflessioni sulla saggezza che emerge da un testo antico a proposito delle nostre antichissime e nuovissime preoccupazioni. Per vivere la Regola di San Benedetto non abbiamo bisogno di una serie di meccanismi, ma di un cambiamento del cuore e di una nuova disposizione della mente.
C’era una volta, narra un antico racconto monastico, un anziano monaco che disse ad un mercante:
«  »Come il pesce muore sulla terraferma, così tu morirai quando rimarrai impigliato nel mondo. Il pesce deve tornare nell’acqua e tu devi tornare allo Spirito ».
Il mercante rimase stupefatto: « Stai dicendo che devo abbandonare i miei affari ed entrare in un monastero? », chiese.
E l’anziano monaco disse: « Assolutamente no. Ti sto dicendo di rimanere aggrappato al tuo lavoro ed entrare nel tuo cuore »"
Questo libro vuole aiutare le persone normali a vedere il mondo di oggi attraverso il filtro della Regola di San Benedetto e i più forti desideri del loro cuore.

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