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L’ATTUALITÀ DI DIETRICH BONHOEFFER (1906-1945) — 11 APRILE

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L’ATTUALITÀ DI DIETRICH BONHOEFFER (1906-1945) — 11 APRILE

Dietrich Bonhoeffer, giovane pastore simbolo della resistenza tedesca contro il nazismo, conta tra coloro che possono sostenerci sul nostro cammino di fede. Lui che, nelle ore più oscure del XX secolo, ha dato la sua vita fino al martirio, scriveva in prigione queste parole che ormai cantiamo a Taizé: «Dio, raccogli i miei pensieri verso di te. Presso di te la luce, tu non mi dimentichi. Presso di te l’aiuto, presso di te la pazienza. Non capisco le tue vie, ma tu conosci il cammino per me». Ciò che colpisce in Bonhoeffer è la sua somiglianza con i Padri della Chiesa, i pensatori cristiani dei primi secoli. I Padri della Chiesa hanno svolto tutto il loro lavoro partendo dalla ricerca di un’unità di vita. Erano capaci di riflessioni intellettuali estremamente profonde, ma allo stesso tempo pregavano molto ed erano pienamente integrati nella vita della Chiesa del loro tempo. Troviamo questo in Bonhoeffer. Intellettualmente era quasi superdotato. Ma allo stesso tempo quest’uomo ha tanto pregato, ha meditato la Scrittura tutti i giorni, fino agli ultimi momenti della sua vita. La comprendeva, come una volta ha detto Gregorio Magno, come una lettera di Dio che gli era indirizzata. Anche se veniva da una famiglia dove gli uomini – suo padre, i suoi fratelli – erano praticamente agnostici, anche se la sua Chiesa, la Chiesa protestante di Germania, l’avesse molto deluso al momento del nazismo e ne avesse molto sofferto, è vissuto pienamente nella Chiesa.

Rilevo tre scritti: La sua tesi di laurea, Sanctorum Communio, ha qualcosa d’eccezionale per l’epoca: un giovane studente di 21 anni scrive una riflessione dogmatica sulla sociologia della Chiesa partendo da Cristo. Riflettere a partire da Cristo su ciò che la Chiesa dovrebbe essere sembra incongruente. Molto più di una istituzione, la Chiesa è per lui il Cristo esistente sottoforma di Chiesa. Cristo non è un po’ presente attraverso la Chiesa, no: Egli esiste oggi per noi sottoforma di Chiesa. È completamente fedele a san Paolo. Questo Cristo ha preso su di sé la nostra sorte, ha preso il nostro posto. Questo modo di fare di Cristo rimane la legge fondamentale della Chiesa: prendere il posto di coloro che sono stati esclusi, di quelli che si trovano fuori, come Gesù ha fatto durante il suo ministero e già nel momento del suo battesimo. Colpisce come questo libro parli dell’intercessione: essa è come il sangue che circola nel Corpo di Cristo. Per esprimere questo, Bonhoeffer si appoggia sui teologi ortodossi. Egli parla anche della confessione, che non era praticamente più in uso nelle Chiese protestanti. Immaginate: un giovane uomo di 21 anni afferma che è possibile che un ministro della Chiesa ci dica: «I tuoi peccati sono perdonati» e che affermi che ciò fa parte dell’essenza della Chiesa: quale novità nel suo contesto! Il secondo scritto è un libro che ha redatto quando è stato chiamato a diventare direttore di un seminario per studenti in teologia che progettavano un ministero nella Chiesa confessante, uomini che dovevano prepararsi a una vita molto dura. Quasi tutti hanno avuto a che fare con la Gestapo, certuni sono stati gettati in prigione. In tedesco il titolo è estremamente breve: Nachfolge, in italiano Sequela. Ciò dice tutto sul libro. Come prendere seriamente ciò che Gesù ha espresso, come non metterlo in disparte come se le sue parole fossero d’altri tempi? Il libro lo dice: seguire non ha contenuto. Ci sarebbe piaciuto che Gesù avesse un programma. E tuttavia no! Alla sua sequela, tutto dipende dalla relazione con lui: lui è davanti e noi seguiamo. Seguire, vuol dire, per Bonhoeffer, riconoscere che, se Gesù è veramente ciò che ha detto di sé, ha nella nostra vita diritto su tutto. È il «mediatore». Nessuna relazione umana può prevalere contro di lui. Bonhoeffer cita le parole di Cristo che chiamano a lasciare i genitori, la famiglia, tutti i propri beni. Ciò fa un po’ paura oggi, e si è potuto rimproverarlo a questo libro: Bonhoeffer non dà un’immagine troppo autoritaria di Cristo? Però si legge nel Vangelo quanto le persone siano rimaste stupite dall’autorità con cui Gesù insegna e con la quale caccia gli spiriti maligni. C’è un’autorità in Gesù. Eppure, egli si dice tutt’altro rispetto ai Farisei, mite e umile di cuore, cioè egli stesso provato e al di sotto di noi. È così che si è sempre presentato ed è dietro questa umiltà che sta la vera autorità. Tutto questo libro è costruito così: ascoltare con fede e mettere in pratica. Se si ascolta con fede, se ci si rende conto che è lui, Cristo, che parla, non si può non mettere in pratica quel che ha detto. Se la fede si fermasse davanti alla messa in pratica, non sarebbe più fede. Porrebbe un limite al Cristo che abbiamo ascoltato. Certo, sotto la penna di Bonhoeffer, ciò può sembrare un po’ troppo forte, ma la Chiesa non ha sempre nuovamente bisogno di quell’ascolto? Un ascolto semplice. Un ascolto diretto, immediato, che crede sia possibile vivere ciò che Cristo chiede. Il terzo scritto, sono le famose lettere di prigionia, Resistenza e resa. In un mondo in cui egli percepisce che Dio non è più riconosciuto, in un mondo senza Dio, Bonhoeffer si pone la domanda: come parleremo di Lui? Cercheremo di creare dei domini di cultura cristiana, immergendo nel passato, con una certa nostalgia? Cercheremo di provocare bisogni religiosi nelle persone che apparentemente non ne hanno più? Oggi si può dire che c’è un rifiorire d’interesse religioso, ma spesso solo per dare una vernice religiosa alla vita. Sarebbe falso da parte nostra creare esplicitamente una situazione nella quale le persone avrebbero bisogno di Dio. Come parleremo allora di Cristo oggi? Bonhoeffer risponde: con la nostra vita. È impressionante vedere come descrive il futuro al suo figlioccio: «Viene il giorno in cui sarà forse impossibile parlare apertamente, ma noi pregheremo, faremo ciò che è giusto, il tempo di Dio verrà». Bonhoeffer crede che il linguaggio necessario ci sarà dato con la vita. Possiamo tutti risentire oggi, anche nei confronti di coloro che sono a noi più vicino, una grande difficoltà a parlare di redenzione per mezzo di Cristo, della vita dopo la morte o, più ancora, della Trinità. Tutto questo è così lontano a delle persone che, in un certo senso, non hanno più bisogno di Dio. Come avere questa fiducia che se viviamo di questo, il linguaggio ci sarà donato? Non ci sarà dato se rendiamo il Vangelo accettabile sminuendolo. No, il linguaggio ci sarà donato se viviamo veramente di esso. Nelle sue lettere, come nel suo libro su seguire il Cristo, tutto termina in una maniera quasi mistica. Egli non avrebbe voluto che si dicesse questo, ma quando si tratta d’essere con Dio senza Dio, si pensa a san Giovanni della Croce, o a santa Teresa di Lisieux in quella fase così dura che ha attraversato alla fine della sua vita. È questo che voleva Bonhoeffer: rimanere con Dio senza Dio. Osare stare accanto a Lui quando è rifiutato, rigettato. Ciò dona una certa gravità a tutto quanto ha scritto. Bisogna tuttavia sapere che egli era ottimista. La sua visione dell’avvenire ha qualcosa di liberante per i cristiani. Egli aveva fiducia; la parola fiducia ritorna molto spesso nelle sue lettera di prigionia. In prigione, Bonhoeffer avrebbe voluto scrivere un commento al salmo 119, ma è arrivato solo alla terza strofa. In quel salmo un versetto riassume bene ciò che Bonhoeffer ha vissuto: Tu, Signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri. Dietrich Bonhoeffer ha vissuto questa certezza che Cristo è realmente vicino, in tutte le situazioni, anche quelle estreme. Tu, Signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri. Possiamo credere che ciò che tu ordini non solo è vero, ma degno della nostra intera fiducia.

Di frère François di Taizé

Publié dans:BONHOEFFER, Bonhoeffer D. |on 11 avril, 2016 |Pas de commentaires »

LA GIORNATA VISSUTA IN SOLITUDINE – Dietrich Bonhoeffer

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LA GIORNATA VISSUTA IN SOLITUDINE

Dietrich Bonhoeffer, Vita comune – autore: Dietrich Bonhoeffer

Il momento della meditazione personale non è un momento di naufragio nel vuoto e nell’abisso della solitudine, ma è un momento in cui siamo soli con la Parola. In tal modo essa ci offre una solida base su cui poggiare, e chiare indicazioni sui passi da compiere…

«A Te conviene la lode nel silenzio in Sion, o Dio» (Sal 65,2)[1]. Molti cercano la comunione per paura della solitudine. Non essendo più capaci di stare da soli, cercano di vivere tra gli altri. Ci sono anche dei cristiani, che non riuscendo da soli a risolvere i propri problemi, o essendosi trovati male soli con se stessi, sperano di trovare aiuto nella comunione con altri uomini. Per lo più ne restano delusi, e di conseguenza imputano alla comunità quella che è la loro vera colpa. La comunità cristiana non è un sanatorio dello spirito. Chi vi entra per fuggire da se stesso, la utilizza abusivamente per distrarsi con vani discorsi, per quanto camuffati da intenti religiosi. In effetti la sua ricerca non ha come oggetto la comunione, ma quell’effetto di stordimento che gli fa dimenticare per breve tempo la sua condizione di solitudine, e proprio per questo procura l’isolamento mortale dell’uomo. Il risultato di simili tentativi di guarigione è il dissolversi della parola e di ogni esperienza autentica, e in ultimo la rassegnazione e la morte spirituale.
Chi non sa stare da solo, si guardi dal cercare la comunione. Non farà altro che male a se stesso e alla comunione. Eri solo davanti a Dio, quando ti ha chiamato, eri solo quando hai dovuto seguire il suo appello, eri solo quando hai dovuto prendere la tua croce, quando hai dovuto pregare e combattere, da solo morirai e rende­rai conto a Dio. Non puoi sfuggire a te stesso, poiché Dio stesso ti ha messo da parte, scegliendoti. Se non vuoi stare da solo, respingi la chiamata di Cristo e non puoi partecipare alla comunione dei chiamati. «Tutti siamo posti di fronte alla morte e nessuno può mo­rire per l’altro, ma spetta ad ognuno da solo l’affrontare il combatti­mento con la morte … Allora io non potrò aiutare te, né tu me» (Lu­tero)[2].
Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione, si guardi dallo star da solo. Nella comunità sei uno dei chiamati, e non il solo; tu porti la tua croce, combatti e preghi nella comunità dei chiamati. Non sei solo, e anche nella morte e nel giorno del giudizio sarai solo un membro della grande comunità di Gesù Cri­sto. Se disprezzi la comunione con i fratelli, rifiuti la chiamata di Gesù Cristo, e il tuo star da solo può essere per te solo perdizione. «Se anche devo morire, nella morte non sono però solo; nella soffe­renza, essa (la comunità) soffre con me» (Lutero)[3].
Sappiamo dunque che esclusivamente nella comunione riuscia­mo ad essere soli, ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere nella comunione. Sono due cose interdipendenti. Esclusivamente nella comunione impariamo ad essere soli nel modo giusto, ed esclusivamente nella solitudine impariamo ad essere nella comu­nione in modo giusto. Non si ha la precedenza di una condizione sull’altra, ma esse si determinano contemporaneamente, con la chiamata di Gesù Cristo.
Ognuna delle due isolatamente presa presenta pericoli di cadute vertiginose. Chi vuole la comunione senza la solitudine, è risucchia­to nel vuoto delle parole e dei sentimenti, chi cerca la solitudine senza la comunione, sprofonda nella vanità, nell’autoinfatuazione, nella disperazione.
Chi non sa stare da solo, si guardi dalla comunione. Chi non si trova in comunione, si guardi dallo star da solo.
La giornata vissuta nella comunità dei cristiani che vivono insie­me si accompagna alla giornata che ogni individuo vive da solo. Deve essere così. È sterile per la comunione e per il singolo la giornata vissuta in comune senza la giornata da soli.
Il carattere distintivo della solitudine è il tacere, mentre quello della comunione è la parola. Silenzio e parola sono intimamente legati e distinti, come la solitudine e la comunione. Non c’è l’uno senza l’altro. La parola giusta viene dal silenzio, e il giusto silenzio dalla parola.
Tacere non è lo stesso che esser muti, così come la parola non equivale alla loquacità, il mutismo non procura la solitudine, né l’es­ser loquaci la comunione. «Il silenzio è l’eccesso, l’ebbrezza, il sacri­ficio della parola. E il mutismo è insano, come se si mutilasse qualco­sa senza sacrificarlo… Zaccaria era muto, anziché silenzioso. Se avesse accettato la rivelazione, forse all’uscita dal tempio non sareb­be stato muto, ma silenzioso» (Ernest Hello)[4]. La parola in grado di ricostituire e di rafforzare la comunione si accompagna al silenzio. «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7). Come nella giornata del cristiano ci sono ore determinate per la parola, in particolare quelle della meditazione e della preghiera in comune, così è bene che ci siano anche tempi stabiliti per il silenzio, che vanno trascorsi sotto il segno della Parola, e che sono richiesti da essa. Si tratterà soprattutto dei momenti che precedono e seguono l’ascolto della Parola. Essa non giunge alle persone chiassose, ma a chi è raccolto in silenzio. Il silenzio del tempio è il segno della pre­senza santa di Dio nella sua Parola.
Solo da un atteggiamento di indifferenza, o addirittura di rifiuto, il silenzio può venir giudicato come disprezzo della rivelazione di Dio nella Parola. Qui il silenzio è frainteso, come se fosse un conte­gno ieratico, un misticismo che pretenda di trascendere la Parola. Nel tacere non si riconosce più il rapporto essenziale alla Parola, semplicemente l’ammutolire in presenza della Parola di Dio. Stiamo in silenzio prima dell’ascolto della Parola, perché i nostri pensieri sono già rivolti alla Parola, ci mettiamo in silenzio come il bambino, quando entra nella stanza del padre[5]. Stiamo in silenzio dopo aver udito la Parola, perché la Parola ci parla ancora, vive e si sta inse­diando in noi. Stiamo in silenzio di primo mattino, perché è Dio che deve avere la prima parola; stiamo in silenzio prima di addor­mentarci, perché anche l’ultima parola spetta a Dio. Stiamo in silen­zio solo per amore della Parola, non dunque perché la disprezziamo, ma perché vogliamo rendere ad essa il giusto onore ed accoglierla. Infine tacere non significa altro che aspettare la Parola di Dio e raccoglierne la benedizione, quando sia venuta. Ma è necessario im­parare a farlo, in un tempo in cui, come ognuno sa per esperienza, la loquacità prende la mano a tutti; in ultima analisi solo come con­seguenza rigorosa del silenzio spirituale si giungerà veramente al si­lenzio, al raccoglimento, a frenare la lingua.
E il silenzio in presenza della Parola avrà un effetto su tutta la giornata. Se abbiamo imparato a tacere in presenza della Parola, impareremo anche a dosare giustamente silenzio e parole durante la giornata. C’è un silenzio inopportuno, presuntuoso, un silenzio superbo, offensivo. Si vede dunque subito che non sarà mai questio­ne del silenzio genericamente inteso. Il silenzio del cristiano è un silenzio in ascolto, un silenzio umile, che per umiltà è anche disponi­bile a lasciarsi interrompere in ogni momento. È il silenzio che si mantiene legato alla Parola. È questo il pensiero di Tomaso da Kem­pis, quando dice: «Nessuno si esprime con maggior sicurezza di co­lui che preferisce tacere»[6]. Nel raccoglimento silenzioso c’è una straordinaria forza di chiarificazione, di purificazione, di concentra­zione sull’essenziale. Questo è vero già in campo profano. E il tacere prima della Parola porta, giunto il momento, ad ascoltare nel modo giusto la Parola di Dio e permette, quindi, che anch’essa ci parli nel modo giusto. Si tacciono molte cose inutili, in poche parole si è capaci di dire ciò che è utile ed essenziale.
Se una comunità di persone che vivono insieme ha a disposizione solo spazi ristretti, e non può dare ad ognuno le condizioni esteriori necessarie per il raccoglimento, è assolutamente necessario stabilire dei momenti precisi di silenzio. Dopo un periodo di silenzio, l’incon­tro con l’altro si presenta diverso e rinnovato. Parecchie comunità riescono a garantire ad ognuno dei momenti di solitudine solo con un ordinamento rigido dei tempi, e in tal modo riescono a salvare la comunione stessa.
Non parleremo qui dei frutti veramente straordinari che un cri­stiano può raccogliere dalla solitudine e dal silenzio. Sarebbe troppo facile lasciarsi andare a pericolose divagazioni, e d’altra parte si po­trebbero enumerare parecchie esperienze negative che possono na­scere dal silenzio. Il silenzio può essere un deserto spaventoso, una terribile solitudine. Può anche essere un paradiso dell’autoinganno, ed è difficile dire quale delle due cose sia preferibile. Comunque sia, ne consegue che non ci si deve aspettare dal silenzio qualcosa al di fuori del semplice incontro con la Parola di Dio, che è lo scopo per cui si è cercato il silenzio stesso. Ma questo incontro non potrà che essere un dono. Il cristiano non deve porre condizioni su come attendere e sperare questo incontro, ma deve esser pronto ad accet­tarlo come viene, e il suo silenzio sarà ampiamente compensato.
Tre sono le cose per cui il cristiano ha bisogno di precisi spazi di tempo da riservare a se stesso nella solitudine durante la giornata: la meditazione personale della Scrittura, la preghiera, l’intercessione. Questi tre momenti devono essere trovati all’interno del tempo della meditazione personale quotidiana[7]. Il termine ‘meditazione’ in sé non ha implicazioni particolari: è un antico termine della chiesa e della Riforma, che qui utilizziamo.
Si potrebbe chiedere perché sia necessario un momento specifico a questo scopo, visto che già tutte queste cose si fanno nella medita­zione comune. Risponderemo come segue.
Il momento della meditazione personale serve a riflettere perso­nalmente sulla Scrittura, alla preghiera e all’intercessione personale, e a nessun altro scopo. Qui non c’è posto per esperimenti spirituali. Ma ci deve essere un tempo per queste tre cose, poiché Dio stesso ce le richiede. Anche se questo tempo della meditazione personale non significasse altro che rendere a Dio un servizio dovuto, sarebbe già abbastanza.
Il momento della meditazione personale non è un momento di naufragio nel vuoto e nell’abisso della solitudine, ma è un momento in cui siamo soli con la Parola. In tal modo essa ci offre una solida base su cui poggiare, e chiare indicazioni sui passi da compiere.
Mentre nella meditazione in comune leggiamo di seguito un testo ampio, nella meditazione personale ci atteniamo ad un breve testo scelto dalla Scrittura, che possibilmente deve essere mantenuto per tutta una settimana. Mentre la lettura biblica in comune ci guida attraverso l’ampiezza e l’organicità della sacra Scrittura, ora invece siamo alle prese con la profondità insondabile di ogni singola frase e parola. I due aspetti sono ugualmente necessari «affinché possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» (Ef 3,18).
Nella meditazione personale leggiamo il testo assegnatoci, contan­do sulla promessa che esso abbia da dire a noi personalmente qual­cosa che si riferisca alla nostra giornata e alla nostra condizione di cristiani, che non contenga la Parola di Dio soltanto per la comunità, ma anche la Parola di Dio a me personalmente indirizzata. Ci con­frontiamo con ogni singola frase e parola, fino a capire in che senso ci riguardi personalmente. In tal modo non facciamo niente di diver­so dal cristiano più semplice e più incolto, nel suo agire quotidiano, leggiamo cioè la Parola di Dio come la Parola di Dio per noi. Non chiediamo dunque che cosa abbia da dire un tal testo ad altri uomi­ni, il che, per chi ha il compito di predicare, significa non chiedersi in che modo si possa predicare o insegnare sulla base di un certo testo, ma chiedersi che cosa esso abbia da dire a noi, nel senso più personale del termine. Naturalmente è necessario prima di tutto aver compreso il contenuto del testo, ma non si tratta di un lavoro esege­tico, di una preparazione a predicare, di uno studio biblico di qual­siasi tipo, si tratta invece di attendere che ci sia rivolta la Parola di Dio. Non un’attesa vuota, ma un’attesa che si fonda su una chiara promessa. Spesso siamo a tal punto oppressi e sopraffatti da pensie­ri, immagini e preoccupazioni di tutt’altro genere, che occorre molto tempo prima che la Parola di Dio, messo da parte tutto ciò che la ostacola, giunga infine a noi. Ma questo si verifica certamente, come è certo che Dio stesso è giunto fino agli uomini e di nuovo tornerà da loro. Questo appunto è il motivo per cui la nostra meditazione personale deve iniziare con la preghiera che invoca lo Spirito di Dio su di noi per mezzo della sua Parola, per rivelarci questa Parola e il­luminarci.
Non è necessario nella meditazione personale giungere alla comprensione piena dell’intero testo. Spesso saremo costretti a fermarci a lungo su una sola frase o addirittura su una sola paro­la, perché questa ci blocca, ci costringe a star li, e non possiamo più eluderla. Non basta forse, molte volte, una parola come ‘pa­dre’, ‘amore’, ‘misericordia’, ‘croce’, ‘santificazione’, ‘risurrezio­ne’, per esaurire completamente il breve tempo destinato alla me­ditazione?
Non è necessario che nella meditazione personale ci preoccupia­mo di esprimere verbalmente pensieri o preghiere. Il pensare e pre­gare in silenzio, che viene solo dall’ascolto, molto spesso è più rac­comandabile.
Non occorre che troviamo pensieri originali nella meditazione personale. È una preoccupazione che spesso non fa che distrarci, e che soddisfa sola la nostra vanità. Basta e avanza, se la Parola entra profondamente e prende dimora in noi, così come l’abbiamo letta e capìta. Maria «rifletteva in cuor suo»[8] sulle parole dei pastori; anche a noi spesso capita di riflettere a lungo sulla parola di una persona, che ci rimane dentro, che viene elaborata, tenendoci occu­pati, suscitando in noi inquietudine o felicità, senza che possiamo farci niente; allo stesso modo nella meditazione personale la Parola di Dio vuol entrare in noi e restarvi, vuol muoverci, lavorare, operare in noi, fare in modo che non ce ne liberiamo più per tutto il giorno, ed essa porterà a termine poi la sua opera in noi, spesso senza che ce ne rendiamo conto.
Soprattutto non è necessario che la meditazione personale ci porti esperienze inattese e fuori del comune. Questo può anche capitare, ma se non succede, non è segno di tempo speso a vuoto. Non solo all’inizio, ma ripetutamente nel corso del tempo, possiamo sentire in noi una grande aridità interiore e indifferenza, una certa svoglia­tezza, addirittura una inettitudine per questa meditazione personale. Non dobbiamo lasciarci condizionare da simili esperienze, e soprat­tutto non dobbiamo lasciarci distogliere dall’affrontare la meditazio­ne personale, proprio in momenti come questi, con grande pazienza e fedeltà. Non è bene quindi prendere troppo sul serio le molte cattive prove che diamo di noi stessi nella meditazione. Potrebbe trattarsi di un camuffamento devoto della nostra vecchia vanità e delle nostre indebite pretese nei confronti di Dio, come se avessimo il diritto di attenderci esperienze che siano per noi solo fonte di edificazione e di soddisfazione, come se l’esperienza della povertà interiore non fosse degna di noi. Ma un atteggiamento del genere non ci porta lontano. L’impazienza e l’autoaccusa non fanno che alimentare la nostra presunzione e contribuiscono a imprigionarci sempre più nella rete dell’introspezione. Ma nella meditazione personale, così come nella vita cristiana in genere, non c’è alcun tempo riservato alla introspezione. Solo la Parola è l’oggetto che deve atti­rare la nostra attenzione, e tutto deve essere rimesso alla sua effica­cia. Non potrebbe darsi che Dio stesso ci faccia sentire i momenti di aridità e di vuoto, in modo che torniamo a rimetterci totalmente alla sua Parola? «Cercate Dio, non la vostra gioia»[9]: questa è la regola fondamentale della meditazione. Se cerchi solo Dio, riceverai anche gioia: questa è la promessa di ogni meditazione.
La riflessione sulla Scrittura porta a pregare. Già si è detto che il cammino più sicuro per giungere a pregare è quello che si percorre facendosi guidare dalla Scrittura a pregare in base ad essa. In tal modo si evita il vuoto che domina in noi stessi. Allora pregare non significa altro che essere disponibili ad applicare a se stessi la Parola, sia per quanto riguarda la nostra personale condizione, sia per i no­stri specifici compiti, sia in rapporto alle nostre decisioni, ai peccati e alle tentazioni in cui incorriamo. Ciò che non può mai entrare nella preghiera in comune, qui può esser manifestato a Dio nel silen­zio. Sulla base della Parola della Scrittura, preghiamo per avere chia­rezza nella nostra giornata, per esser salvaguardati dal peccato, per crescere nella santificazione, per ottenere fedeltà e forza nel nostro lavoro, e possiamo esser certi che la nostra preghiera sarà esaudita, perché nasce dalla Parola e dalla promessa di Dio. La Parola di Dio ha trovato adempimento in Gesù Cristo, e questo è il motivo per cui tutte le preghiere che rivolgiamo in base a questa Parola trove­ranno compimento ed esaudimento in Gesù Cristo.
Un elemento negativo che minaccia specificamente la meditazione personale è la facilità con cui ci si distrae, e con cui i nostri pensieri divagano, in direzione di altre persone o fatti della nostra vita. No­nostante la frequenza di questa distrazione umiliante, anche in que­sto caso non dobbiamo scoraggiarci e preoccuparci, né tantomeno concludere che la meditazione non abbia alcun senso per noi. Tal­volta può esser di aiuto in tale situazione il rinunciare a reprimere con tutte le forze i nostri pensieri, e l’inserire con la massima calma nella nostra preghiera le persone o gli eventi a cui siamo riportati insistentemente, ritornando così, senza perdere la pazienza, al punto di partenza della meditazione.
La nostra preghiera personale viene collegata alla parola della Scrittura, e lo stesso avviene per l’intercessione. Nella meditazione in comune non è possibile intercedere per tutti coloro che ci sono affidati, o almeno, non è possibile farlo nel modo dovuto. Ogni cri­stiano ha delle persone che gli hanno chiesto di pregare per loro, o che egli si sente per buoni motivi di includere nella sua intercessio­ne. Anzitutto si tratterà di coloro che vivono insieme a lui quotidia­namente. Qui siamo giunti al cuore stesso di ogni forma di conviven­za cristiana. Una comunità cristiana vive della reciproca inter­cessione dei suoi membri, altrimenti è destinata al fallimento. Se prego per un fratello, non posso più odiarlo o condannano, qualsiasi problema possa procurarmi. Il suo volto, forse dapprima estraneo e insopportabile, nell’intercessione si trasforma nel volto del fratello, per amore del quale Cristo è morto, il volto del peccatore che ha ricevuto misericordia. È una scoperta molto felice per il cristiano che affronta per la prima volta la preghiera di intercessione. Non c’è antipatia, tensione o dissidio personale, che non si possa superare da parte nostra nell’intercessione. L’intercessione è il lavacro purifi­cante, nel quale devono immergersi ogni giorno i singoli individui e la comunità. Nell’intercessione può esserci una dura lotta con il fratello, ma c’è la promessa che il suo obiettivo sarà raggiunto.
In che modo? Intercedere non significa altro che presentare il fratello davanti a Dio, vederlo nella prospettiva della croce di Gesù, come un uomo povero e peccatore, che ha bisogno di grazia. A que­sto punto viene a cadere ogni motivo che mi allontana da lui, e lo vedo in tutta la sua povertà e miseria, anzi la sua miseria e il suo peccato assumono per me lo stesso peso e la stessa dimensione che se fossero i miei; a questo punto non posso fare altro che chiedere: Signore, sei Tu che devi intervenire, Tu solo, secondo il tuo rigore e la tua bontà[10]. Intercedere significa ascrivere al fratello lo stesso diritto che abbiamo ricevuto, cioè la possibilità di presentarsi a Cri­sto e di aver parte alla sua misericordia.
In questo modo risulta evidente che anche l’intercessione è un servizio dovuto a Dio e al nostro fratello, da compiersi quotidiana­mente[11]. Chi nega l’intercessione al prossimo, gli nega il suo servizio di cristiano. Inoltre è ormai chiaro che l’intercessione non si svolge su un piano generico, indistinto, ma è un fatto quanto mai concreto. Si tratta di persone ben precise, di determinate difficoltà e quindi di richieste determinate. Quanto più chiara la mia intercessione, tan­to maggiore la speranza che sia esaudita.
E infine non ci può sfuggire che il servizio di intercessione esige un suo momento, che ogni cristiano deve riservare ad essa, e tanto più un pastore che ha la responsabilità di un’intera comunità. Baste­rebbe la sola intercessione, ben fatta, a riempire il tempo della medi­tazione personale quotidiana. Da tutto questo risulta che l’interces­sione è un dono della grazia di Dio per ogni comunione cristiana e per ogni cristiano. Qui ci viene fatta un’offerta di valore incommen­surabile, che va accolta con gioia. Proprio il tempo dedicato all’in­tercessione diventerà per noi ogni giorno fonte di nuova gioia al cospetto di Dio e all’interno della comunità cristiana.
La riflessione sulla Scrittura, la preghiera e l’intercessione sono un servizio dovuto, nel quale la grazia di Dio si lascia trovare da noi; per questo dobbiamo abituarci a dedicarvi un momento fisso della giornata, come per ogni altro servizio da compiere. Questo non è ‘legalismo’, ma giusto ordine e fedeltà. Per lo più è il primo mattino il tempo opportuno, e noi abbiamo diritto, anche nei con­fronti degli altri, di utilizzare così questo tempo, facendo in modo che sia completamente indisturbato e silenzioso, nonostante tutte le difficoltà esterne. Per il pastore è un dovere imprescindibile, da cui dipende tutto il suo ministero. Chi sarà davvero fedele nelle grandi cose, se non sa esserlo nel quotidiano?
Ogni giorno porta al cristiano molte ore di solitudine in mezzo ad un mondo non cristiano. Questo è il tempo della verifica. Esso è la prova della bontà della meditazione personale e della comunio­ne cristiana. La comunità ha reso gli individui liberi, forti, adulti, o li ha resi viceversa dipendenti, non autonomi? Li ha condotti un po’ per mano, per far loro imparare di nuovo a camminare da soli, o li ha resi paurosi e insicuri? È una delle domande più serie e difficili che si pone a tutti i cristiani che hanno tra di loro comunità di vita. Inoltre qui si tratta di decidere se la meditazione personale ha porta­to il cristiano in un mondo irreale, da cui si risveglia con spavento, nel ritornare al mondo terreno del suo lavoro, o se viceversa lo ha fatto entrare nel vero mondo di Dio, che permette di affrontare la giornata dopo aver attinto nuova forza e purezza. Si è trattato di un’estasi spirituale per brevi attimi, cui poi subentra la quotidianità, o di un radicarsi essenziale e profondo della Parola di Dio nel cuore, tale da costituire per l’intero giorno un punto di riferimento e un sostegno, uno stimolo all’amore attivo, all’ubbidienza, alla buona opera? Solo la giornata potrà deciderlo. La presenza invisibile della comunione cristiana è per ogni individuo una realtà e un aiuto? L’in­tercessione degli altri è per me fonte di sostegno durante il giorno? La Parola di Dio mi è vicina come fonte di consolazione e di forza? O forse faccio cattivo uso del tempo in cui mi trovo da solo, facen­done un ostacolo alla comunione, alla Parola e alla preghiera? Ognuno deve sapere che anche il momento in cui è isolato ha una retroazione sulla comunione. Nella sua solitudine egli può dilacerare e macchiare la comunione, o viceversa rafforzarla e santificarla. Ogni forma di autodisciplina è anche un servizio alla comunione. Vicever­sa non c’è peccato in pensieri, parole e opere, che sia così personale e segreto, da non danneggiare tutta la comunione. C’è un agente patogeno che circola per il corpo, forse non si sa ancora donde pro­venga, in quale parte abbia allignato, ma il corpo è contaminato. Questa è l’immagine della comunione cristiana. Infatti, noi siamo membra di un corpo, non solo quando vogliamo, ma in tutto il no­stro essere, e quindi ogni membro serve all’intero corpo, contribui­sce alla sua salute o alla sua rovina. Non si tratta di teoria, ma di una realtà spirituale che viene sperimentata spesso con sconvolgente chiarezza nella comunione cristiana, in senso negativo o positivo.
Chi dopo la sua giornata di lavoro rientra nella comunità dei cri­stiani con cui vive, porta con sé la benedizione della solitudine, ma a sua volta riceve di nuovo la benedizione della comunione. Bene­detto chi è solo nella forza della comunione, benedetto chi mantiene la comunione nella forza della solitudine. Ma la forza della solitudi­ne e della comunione è costituita soltanto dalla Parola di Dio, che si applica all’individuo nella comunione.

Publié dans:Bonhoeffer D., MEDITAZIONI |on 4 août, 2014 |Pas de commentaires »

PROFEZIA E SAPIENZA. LA TESTIMONIANZA DI DIETRICH BONHOEFFER

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PROFEZIA E SAPIENZA. LA TESTIMONIANZA DI DIETRICH BONHOEFFER

ALBERTO GALLAS

Il primo grande volume dedicato a Bonhoeffer in Italia, firmato da Italo Mancini, apparve nella collana ‘I nuovi padri’ dell’editrice Vallecchi nel 1969, lo stesso anno in cui uscirono – presso un editore ‘laico’ come Bompiani – le traduzioni italiane di Resistenza e resa e dell’Etica. Parlare, a quel tempo, di Bonhoeffer come di un ‘nuovo padre’, poteva essere azzardato. Con questa locuzione si veniva infatti a dire che la sua opera era talmente importante da costituire una ricchezza per la cristianità nel suo complesso, al di là delle divisioni confessionali, e talmente profonda da preparare l’avvenire della chiesa, oltre che delle chiese: un’opera dunque al di sopra delle mode, capace di diventare un ‘classico’.
Oggi quella definizione appare meno azzardata. La fortuna di Bonhoeffer ha conosciuto varie fasi, periodi di una certa popolarità (se di popolarità in questo contesto si può parlare) e altri di una certa dimenticanza. Anche se la sua opera più famosa, Resistenza e resa (dove sono raccolte le lettere scritte dal carcere berlinese di Tegel), è stata pubblicata postuma solo meno di cinquant’anni fa, si possono già contare almeno tre stagioni nella recezione del suo pensiero: la stagione della secolarizzazione e della morte di Dio (con al centro le lettere dal carcere), la stagione della spiritualità (con al centro Sequela e Vita comune); la stagione dell’etica politica (con al centro l’azione e la riflessione sulla pace, la questione ebraica, la resistenza al nazismo). Ma il susseguirsi di stagioni diverse nella fortuna di un’opera e l’emergere di sempre nuovi approcci di lettura – ancorché, talvolta, parziali e selettivi – sono appunto il segno distintivo di un classico. Se Bonhoeffer può esser considerato tale, molto più dunque che un autore semplicemente ‘ancora’ attuale, è perché il suo pensiero non si adegua a schemi, ambiti e definizioni consolidatesi nel tempo, ma li mette in questione e li supera. Non annullandoli, ma semplicemente ponendo i problemi con un nuovo rigore, scavando fino ad arrivare a quella profondità dove si impongono nuovi parametri di giudizio, dove gli spiriti si dividono ma anche emergono radici comuni e punti di convergenza fra tradizioni diverse.
Tutto questo in Bonhoeffer non avviene solo sul piano della teoria e della riflessione teologica. Ogni lettore che si avvicini a lui resta colpito dal legame che collega la sua teologia alla sua biografia e dall’integrazione tra pensiero e vicende personali. Ma, di più, la teologia di Bonhoeffer è legata alla storia, al contesto culturale in cui egli è vissuto, perché è una teologia responsabile e concreta, e non una dottrina astratta costruita su princìpi atemporali. D’altra parte, non si tratta affatto di una teologia estemporanea legata a mode o fenomeni di breve periodo. Bonhoeffer si misura con le emergenze del suo tempo scavando nella tradizione e nel passato, alla ricerca delle radici del credo cristiano da un parte e della cultura occidentale dall’altra. In questo modo la storia stessa acquisisce una rilevanza teologica. Dio è entrato nel mondo con l’incarnazione; ha conferito alla realtà delle strutture profonde con la creazione. Non la superficie dei fenomeni, ma la loro logica profonda rappresenta un dato che il teologo non può ignorare. Bonhoeffer chiama questa logica profonda ‘l’esser reale della realtà’: essa può essere individuata solo dallo sguardo penetrante del sapiente che contempla le opere di Dio in tutta la loro estensione, anziché limitarsi alla relazione individualistica tra Dio e l’anima, cioè a quella che nelle lettere dal carcere viene criticamente definita come dimensione ‘religiosa’ dell’esistenza.
A questa logica l’uomo di fede ubbidisce. Nella sequela, secondo Bonhoeffer, il credente segue Gesù fin sul calvario, e proprio in questo modo conforma la propria vita alla struttura profonda della realtà, per quanto ciò possa apparire paradossale. Di conseguenza, se è possibile usare questa espressione, la profezia di Bonhoeffer è una profezia sapienziale.
Prima di sviluppare più ampiamente questo argomento, conviene però soffermarsi su alcuni temi dove il lascito di Bonhoeffer è particolarmente fecondo.

1. Pace e guerra
Proprio perché così strettamente legato alla storia il pensiero di Bonhoeffer conosce varie tappe. Esso evolve con l’evolvere delle situazioni, e questo è visibile soprattutto nella sua riflessione su pace e guerra, dove vanno distinte tre fasi principali.
Nella prima – risalente alla fine degli anni Venti – Bonhoeffer affronta la guerra come eventualità teorica e accoglie la soluzione classica: il comandamento di non uccidere e il Discorso della montagna insegnano sì che non si deve resistere al male inflitto alla nostra persona, ma non che non si possa e non si debba resistere al male che viene inflitto al nostro prossimo. La stessa guerra d’aggressione può essere giustificata, se risponde ai bisogni primari di un popolo (teoria dello ‘spazio vitale’).
Nella seconda – intorno alla metà degli anni Trenta – egli affronta il problema quando la minaccia di una guerra europea si profila già all’orizzonte ma appare ancora evitabile: in questa fase formula la soluzione più radicalmente nonviolenta, contrapponendo pace e sicurezza (‘Non c’è modo di giungere alla pace per via della sicurezza… per la pace si deve rischiare, è una grande temerarietà… Pace è il contrario di sicurezza’), e invocando un concilio ecumenico della pace (allocuzione di Fanø, 28 agosto 1934). A questa allocuzione si è richiamato Carl Friedrich von Weizsäcker nel famoso appello per un ‘concilio della pace’ lanciato al ‘Deutscher Evangelischer Kirchentag’ del 1985, che ha contribuito ad accelerare il movimento conciliare sfociato nelle assemblee di Basilea e di Graz.
Nella terza fase – anni Quaranta – Bonhoeffer affronta la guerra come fatto ormai inevitabile, ed ammette la legittimità, a determinate condizioni, di una partecipazione del cristiano alla guerra, nonché del ricorso alla resistenza attiva per abbattere il tiranno. La posizione della seconda fase viene così superata, ma senza per questo tornare alle posizioni iniziali. Allora, infatti, Bonhoeffer aveva giustificato l’uso della forza quando esso avviene in ‘difesa dei miei’ e del ‘mio popolo’. Ciò significa che la parte lesa in soccorso della quale è lecito intervenire è identificabile a priori in base ai vincoli di sangue, alla storia, alla nascita di ciascuno. La situazione concreta in cui secondo Bonhoeffer si deve valutare la legittimità del ricorso alla violenza, per non dare del quinto comandamento un’interpretazione astratta, è dunque solo apparentemente una situazione aperta. Nella terza fase invece il mio prossimo non è identificabile a priori, ma va individuato di volta in volta in base alle condizioni storiche. La giusta causa, per la quale è lecito intervenire con le armi, può essere allora anche quella di coloro che lottano contro il mio popolo; anzi, davanti alla Germania di Hitler, la resistenza armata può essere addirittura doverosa per un cristiano, come Barth aveva scritto al teologo cèco Hromádka, in una lettera aperta (il 18 settembre 1938, alla vigilia della minacciata invasione della Cecoslovacchia) che suscitò grande scandalo nella Chiesa confessante, ma che Bonhoeffer condivise. Bonhoeffer non ha elaborato una teoria della guerra giusta; egli resta persuaso che anche partecipare alla guerra sul fronte della parte offesa comporti una colpa oggettiva. Le sue riflessioni e le sue scelte indicano però una precondizione fondamentale perché il problema della guerra giusta (o meglio: di una guerra cui un cristiano sia tenuto a partecipare) si possa anche semplicemente porre, e cioè la reale apertura a riconoscere che la causa giusta può essere quella del ‘nemico’ anziché quella del mio popolo. Questo significa prendere sul serio l’interrogativo di Gesù: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’ (Mt 12,48), che nella fase di Barcellona poteva avere solo un significato retorico. Da queste premesse Bonhoeffer trasse la convinzione che la partecipazione alla resistenza implicava la disponibilità ad eseguire anche personalmente un attentato contro Hitler, e definì ‘lusso morale’ la tesi opposta sostenuta da un altro membro della resistenza, Helmut James von Moltke (anch’egli giustiziato poi dai nazisti).

2. Stile ecumenico
Bonhoeffer ha avuto una straordinaria fortuna sul piano ecumenico. La sua è anzi una figura che viene spesso letta come se fosse sovraconfessionale (con il rischio magari di separare il suo pensiero dalla tradizione in cui è radicato). Il motivo di fondo che spiega questa fortuna è la sua capacità di aprirsi ad influenze, a scambi, a rapporti a vasto raggio. Egli difficilmente appare, a chi gli si avvicina dall’esterno, come un estraneo. Le critiche che egli rivolge ad extra, alle altre confessioni e tradizioni, sono sempre accompagnate da critiche ad intra, alla sua confessione; non ripetono passivamente le accuse tradizionali divenute luoghi comuni, ma nascono da un serio impegno, esistenziale e teorico, di comprensione. Non sono dettate da risentimento, ma da senso di fratellanza e da amore.
Questa fortuna è particolarmente appariscente nel mondo cattolico. Non è un fenomeno del tutto nuovo: già Barth aveva dichiarato di essersi sentito compreso ‘senza paragone più a fondo’ nel volume dedicatogli dal cattolico von Balthasar, che non ‘nella stragrande maggioranza’ delle altre opere sul suo pensiero. Christian Gremmels, che sta attualmente lavorando alla nuova edizione di Resistenza e resa, ha cercato di spiegare la cosa richiamandosi ai contenuti del pensiero bonhoefferiano che sono particolarmente vicini – quanto al tema e quanto allo svolgimento – alla tradizione cattolica, in particolare su tre punti: chiesa, confessione dei peccati, preghiera (cui mi pare si dovrebbe aggiungere almeno sacramento e sacramentalità). Ma anche Gremmels vede giustamente che più dei contenuti determinati contano la Denkform, lo stile di pensiero, l’atteggiamento interiore di Bonhoeffer nel confronto interconfessionale. Questo modo di pensare si manifesta nella convinzione che le contrapposizioni confessionali, pur non essendo superate, abbiano fatto però il loro tempo. In Resistenza e resa si legge che ‘le contrapposizioni tra i luterani e i riformati (e in parte anche con i cattolici) non sono più autenticamente tali. Naturalmente è sempre possibile ripristinarle e conferire loro del pathos, ma non fanno più presa. Non c’è nessuna prova di questo, si deve semplicemente osare di venirne fuori’ (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo 1988, p. 463). A questo passo si può affiancarne un altro, dove Bonhoeffer indica precisamente nella ricerca delle radici comuni, cui abbiamo già accennato, la piattaforma per superare le contrapposizioni: ‘Sto leggendo con molto interesse Tertulliano, Cipriano e altri padri della chiesa. In parte sono molto più attuali dei riformatori e forniscono nello stesso tempo una base per il dialogo evangelico-cattolico’ (ivi, p. 201).
Giacché non si tratta di affermazioni isolate, ma di un atteggiamento di fondo, è facile capire perché un cattolico non senta nel ‘diverso’ Bonhoeffer un estraneo. Anzi, a un lettore cattolico può capitare di imparare, proprio leggendo Bonhoeffer, ad amare di più la propria tradizione e di imparare contemporaneamente a criticarla in modo più pertinente; e, viceversa, di imparare ad amare e a criticare in modo più pertinente la tradizione di Bonhoeffer, il protestantesimo. Non sembri un’esagerazione l’uso di un termine tanto impegnativo come ‘amare’. Non c’è dubbio che Bonhoeffer ha saputo amare il cattolicesimo (‘…ho veduto ancora una volta che cos’è il cattolicesimo, ed ho ripreso ad averlo molto caro’), così come ha saputo criticarlo con rigore (per il prevalere dell’istituzione sulla Parola, per la concezione gerarchica dei ministeri, per l’idea di diritto naturale, per la concezione della messa come sacrificio…).
Di questa correlazione critica-amore abbiamo una testimonianza chiara e sintetica nella lettera del 23 novembre 1940 scritta durante un soggiorno presso l’abbazia benedettina di Ettal in Baviera: ‘Torno appena adesso da una messa meravigliosa… anche se il percorso che parte dal nostro sacrificio per Dio ed arriva al sacrificio di Dio per noi… mi sembra un percorso a rovescio. Ma devo ancora capire meglio la cosa’ (GS VI, 489). Qui la capacità di cogliere il positivo nel diverso (fino addirittura ad entusiasmarsene: ‘una messa meravigliosa’) va mano nella mano con la franca indicazione degli aspetti negativi in esso presenti (‘un percorso a rovescio’) e, infine, con la consapevolezza che il processo di comprensione deve faticosamente superare le reazioni immediate e non arrestarsi all’applicazione di giudizi codificati (‘devo capire meglio’).
Il suo lascito maggiore all’ecumenismo consiste proprio in questo: nella correlazione tra critica ed amore verso le altre tradizioni (il cattolicesimo in primo luogo, ma anche l’ortodossia, l’India e Gandhi, la ‘religione’ dell’antica Grecia…). Alla scuola di Bonhoeffer si impara che un ecumenismo che sia meno di questo non è ecumenismo; e che la prima condizione per arrivare a questo alto traguardo è ammettere – l’ammissione (tilstaaelse) kierkegaardiana! – che, se non ne siamo capaci, non siamo capaci di ecumenismo.

3. La questione ebraica. Lo sguardo verso oriente
Bonhoeffer ha vissuto in prima persona, come molti suoi coetanei, la crisi della cultura europea del primo dopoguerra. Questa crisi aveva coinvolto profondamente il cristianesimo, e particolarmente quel mondo ‘cristiano-borghese’, come lo ha chiamato Löwith, di cui già gli spiriti più acuti dell’Ottocento – da Kierkegaard, a Nietzsche, a Dostoevskij – avevano percepito l’imminente dissoluzione. La diagnosi di Bonhoeffer ha talvolta la radicalità e la perentorietà della profezia: in una lettera del febbraio 1932 egli parla della ‘fine’ della cristianità occidentale come di un evento inevitabile. La chiesa e il cristianesimo appaiono a Bonhoeffer coinvolti fino all’intimo nella crisi dell’Occidente perché hanno perso, per il simbiotico legame con questa civiltà, la dimensione innovativa, ‘rivoluzionaria’, che originariamente portavano con sé. Per questo egli ritiene che per cercare una via d’uscita bisogna guardare lontano, verso Oriente. ‘In realtà, il cristianesimo ha origine in Oriente, ma noi lo abbiamo occidentalizzato provocando quella distruzione di cui oggi facciamo esperienza’, scrive alla nonna Julie nel 1934. Resterà solo un progetto quello accarezzato per molti anni di conoscere personalmente Gandhi e di condividere l’esistenza comunitaria dello Ashram (la comunità dove Gandhi conduceva vita comune con i discepoli), ma la consapevolezza delle deformazioni che il cristianesimo subisce identificandosi in modo esclusivo con una civiltà è una delle ragioni che pongono la questione ebraica al centro della sua opera.
La sua prima presa di posizione in proposito risale all’aprile del 1933, cioè a circa due mesi di distanza dall’ascesa di Hitler al potere. In essa egli critica non solo la discriminazione all’interno della chiesa degli ebrei battezzati, ma anche quella del cittadino ebreo da parte dello stato. Bonhoeffer è probabilmente il primo teologo a impostare il problema con questa chiarezza e con tanta ampiezza, e ciò gli procurerà incomprensione ed isolamento anche da parte della stessa Chiesa Confessante (di cui faceva parte), cioè dell’area del protestantesimo tedesco che non aveva aderito alla politica ecclesiastica del regime.
Oltre ad affrontare la dimensione politica della questione ebraica, Bonhoeffer imposta alcune linee di una teologia cristiana dell’ebraismo che anticipano temi affrontati oggi dal dialogo ebraico-cristiano, come ad es. l’idea della irrevocabilità dell’elezione di Israele e il riconoscimento del significato rivelativo dell’esistenza del popolo eletto nella storia (mentre negativa è la sua posizione circa l’idea di uno Stato ebraico). Si ha un crescendo su questa linea, fino a quando nelle lettere dal carcere viene formulata la tesi per cui è necessario imparare a leggere la Bibbia a partire dall’Antico Testamento anziché dal Nuovo. Poiché, d’altra pare, egli non mette in discussione l’impostazione cristocentrica, che condivide con la ‘teologia dialettica’ e anzitutto con Barth – pur con notevoli punti di differenziazione –, viene posto sul tappeto il problema oggi più scottante nel dialogo ebraico-cristiano. L’abbozzo di soluzione che si può trovare nei suoi ultimi scritti consiste nel conferire alla stessa cristologia tratti ‘ebraistici’: un punto su cui finora gli studi su Bonhoeffer non hanno prestato forse la dovuta attenzione. È a questo punto che dobbiamo riprendere il discorso sulla dimensione sapienziale del pensiero di Bonhoeffer cui abbiamo fatto cenno all’inizio.

4. Una prospettiva sapienziale
Per prospettiva sapienziale intendiamo qui quella prospettiva – testimoniata dalla letteratura sapienziale ebraica e in altre tradizioni antiche – che consiste nel considerare il mondo come un complesso di cose, relazioni ed eventi sorretto da un ordine immanente (riconducibile più o meno direttamente a Dio). Il sapiente si interroga sulle regole che presiedono alla vicenda umana (dal contesto più immediato, quello familiare, a quello più ampio della sorte dei popoli e delle nazioni), cerca di individuare le costanti e le varianti, e fissandole in massime, in proverbi, in racconti, in consigli concorre alla formazione di un sapere che si accresce sulla base dell’esperienza delle generazioni, e nel quale le linee di condotta vengono determinate a partire dalla validità ed efficacia verificate dall’esistenza stessa.
La sapienza è dunque una conoscenza esperienziale che non appartiene al singolo, ma è patrimonio di una entità collettiva o comunitaria. Poiché essa tramanda indicazioni che la ‘lunga osservazione dei processi’ ha dimostrato efficaci per il buon vivere comunitario, le indicazioni sapienziali appaiono come legate alla natura stessa delle cose, alla legge inerente che presiede al loro sviluppo, alla struttura interna che le articola. Il sapiente è colui che possiede uno sguardo capace di percepire questa struttura profonda della realtà; il sapere che egli acquisisce attraverso questa percezione e attraverso la memoria delle esperienze passate lo aiuterà, assieme a coloro che seguono il suo insegnamento, a riuscire bene nella vita. Per questo il sapiente appare contemporaneamente come l’uomo giusto e come il benedetto da Dio.
L’interesse di Bonhoeffer per questa prospettiva dipende dal fatto che egli vede nel concetto di legge intrinseca una categoria che supera da una parte l’estrinsecismo dell’etica astratta delle norme e dei princìpi, e dall’altra l’immanentismo dell’etica secolarizzata, quell’e-tica che – come aveva già osservato nell’inverno 1931/32 – consiste nel semplice servile adattamento dell’agire alle leggi immanenti delle cose. Ma il concetto di legge gli serve anche per collegare la prospettiva sapienziale a quella cristologica.

5. Cristo, ‘la legge del reale’
Il concetto sapienziale di legge non si limita ad indicare il decalogo inteso come codice di norme. La legge – o, più propriamente: la Torà – in molti contesti dell’Antico Testamento non ha un significato nomistico, ma indica l’ordine universale voluto da Dio, fondato sulla creazione. Per questo il comandamento viene presentato come qualcosa che non raggiunge l’uomo proveniendo da lontano, ma che gli è da sempre vicino, vicino al cuore e alla bocca. Questa linea, le cui premesse si ritrovano già nella tradizione deuteronomistica, si sviluppa al punto che in Sir 24 (ma, secondo altri, anche nel salmo 19) la Torà viene identificata con la sapienza creata prima dei secoli, che ha preso dominio su ogni popolo e nazione. Implicitamente in Prov 8, Giobbe 28 e poi esplicitamente nella tradizione extratestamentaria, essa viene identificata con il piano di Dio secondo cui è costruito il mondo. Nel Midrash Rabbah la Torà è paragonata ad un architetto e al progetto di cui questi si serve per erigere un palazzo.
Nel vocabolario di Bonhoeffer il termine ‘legge’, tra i vari significati che riveste, ne ha spesso uno che si avvicina alla concezione sapienziale della Torà. Questo significato acquista un rilievo sempre maggiore nel corso dell’evoluzione del suo pensiero.
In questa accezione, il termine legge serve a render conto in termini teologico-cristologici della struttura della realtà. Come abbiamo visto, Bonhoeffer parla di ‘leggi’ del reale; se ci si ferma però al riconoscimento di queste leggi non si va oltre una fenomenologia sapienziale, che non si occupa del perché la realtà sia così costituita. La cristologia cosmologica giovannea e deuteropaolina da una parte (cf. le citazioni di Gv 1 e Col 1, che Bonhoeffer non considera una ‘speculazione’ come fa Bultmann, citazioni che costituiscono il nucleo di citazioni bibliche in assoluto più frequenti nell’Etica), e l’incarnazione (intesa come ‘entrare di Dio all’interno della realtà’) dall’altra, convergono nell’individuare in Cristo questo perché. Bonhoeffer può affermare così non soltanto che ‘le leggi dell’agire storico derivano dal centro della storia’, cioè da Cristo, ma addirittura che Cristo è la legge del reale, ‘das Gesetz des Wirklichen’. Questa definizione si avvicina fortemente alla concezione sapienziale della Torà, pur con tutte le differenze che derivano dal fatto che Bonhoeffer opera a partire da una prospettiva cristologica. L’idea che Cristo è la legge del reale non è comprensibile se non si assume che Bonhoeffer integra l’identificazione tra Cristo e sapienza, presente nel Nuovo Testamento, con l’identificazione tra sapienza e legge, propria, come abbiamo visto, della tradizione sapienziale veterotestamentaria.
Ma qui si presenta un ostacolo: com’è possibile collegare la prospettiva sapienziale, fondamentalmente ottimistica, che prevede la benedizione di Dio come garanzia di una vita felice per il giusto, con una cristologia che pone al proprio centro la theologia crucis, com’è per molti aspetti quella di Bonhoeffer?
Le sentenze sapienziali, specialmente quelle che prevedono un rapporto adeguato tra azione e risultato, cioè una sorte fausta per il giusto e infausta per gli stolti e gli empi, sono realistiche ‘perché parlano sulla base di esperienze che in una società ben compaginata si sono effettivamente dimostrate valide’. Ma queste sentenze ‘non funzionano più’ in un contesto di ‘instabilità sociale’. Questo fatto delimita il loro ambito di validità. Per questo motivo si è parlato di ‘crisi’ nella fase più tarda della tradizione sapienziale in Israele, in particolare in Giobbe e Qoèlet.
I tempi in cui Bonhoeffer ha vissuto sono stati tutt’altro che tempi di ordinata vita sociale. Egli li ha considerati tempi di totale sovvertimento dei valori, in cui il male non ha semplicemente sopraffatto il bene, ma ne ha usurpato la figura, presentandosi sotto l’apparenza della giustizia. Davanti ad un tale scompaginamento dei concetti etici di riferimento, la disponibilità a rischiare una scelta non sostenuta dalla tradizione diventava una premessa indispensabile dell’agire giusto. Per questo motivo la difesa delle leggi essenziali delle cose, secondo la linea sapienziale, viene integrata nell’Etica con la trattazione del ‘caso limite’, ossia di quella situazione che nasce quando gli ordinamenti della vita sociale vengono ‘sistematicamente’ manipolati e alla quale si può far fronte solo con la ‘libera responsabilità’, cioè con la capacità di individuare linee di comportamento al di fuori di quelle indicate dall’etica valida nei tempi ordinari: una assunzione di responsabilità che Bonhoeffer chiama ‘ultima ratio’.
Nelle lettere dal carcere il problema diventa più radicale perché qui Bonhoeffer non si misura più con un tempo di crisi tragico, ma di breve periodo; proprio perché il suo destino personale è ormai deciso, egli è spinto ad orientare lo sguardo più lontano e a misurarsi con una deriva epocale: quale fondazione teologica è ancora possibile dare alla struttura della realtà, alle leggi ad essa inerenti, quando – nel contesto della disumanità dilagante, del male che sembra non conoscere ostacoli – a Dio non si può più pensare, almeno non in primo luogo, come al creatore, né come all’incarnato, bensì come a ‘colui che si lascia scacciare dal mondo’? Come a colui che, nel mondo, manifesta la propria debolezza e impotenza? Ci può ancora salvare questo Dio?

6. Il Dio che si lascia scacciare dal mondo
A questa domanda Bonhoeffer non è riuscito a dare se non frammenti di risposta, che però possiamo cercare di ricomporre, perché indicano con relativa chiarezza come sarebbe stato compaginato il ‘tutto’, qualora il lavoro avesse potuto trovare compimento e la morte per impiccagione non avesse troncato l’esistenza di Bonhoeffer.
La risposta tuttavia non è difficile da individuare, se ripensiamo a quanto abbiamo detto: lo stesso ‘lasciarsi scacciare di Dio dal mondo’ fornisce alla realtà quella struttura che il sapiente riconosce come ad essa inerente, e la cui origine, nei tempi di stabilità dei valori, è ricondotta dalla riflessione teologica al Dio creatore o all’incarnato. In altre parole, lo spazio evacuato da Dio non è uno spazio amorfo, ma uno spazio in cui restano impressi i segni della storia da cui esso nasce. Nelle lettere da Tegel Cristo è la legge del reale non più in base alla sua partecipazione alla creazione, bensì in quanto è il Dio che si lascia scacciare. Quando, ricercando l’origine della struttura della realtà, l’attenzione è condotta a spostarsi dal creatore e dall’incarnato al Dio che ci abbandona, ha luogo anche una reinterpretazione della struttura stessa del reale. La legge della realtà ha adesso il suo momento saliente nel lasciarsi scacciare e nell’esistere-per-altri di Dio in Cristo. Di conseguenza, la libertà da se stessi fino alla morte non è distacco (stoico, religioso, ascetico) dal mondo, ma è la modalità d’esistenza che aderisce più profondamente alla realtà, è vita conforme alla realtà, cioè è vita sapiente.
Questa esistenza adeguata, conforme, commisurata alla realtà è chiamata da Bonhoeffer ‘partecipazione alla sofferenza – o anche: all’impotenza – di Dio nella vita del mondo’. È questo il modo di esistere attraverso il quale ‘si diventa uomini, si diventa cristiani’. Cristiani, perché questa esistenza è partecipazione alla passione di Dio in Cristo; uomini, perché essa corrisponde alle leggi essenziali della realtà. Perciò questa partecipazione alla sofferenza di Dio, che costituisce il rovesciamento di tutto ciò che ‘l’uomo religioso si attende da Dio’, è ‘qualcosa di integrale, un atto che coinvolge la vita’, al contrario della religione, che è sempre qualcosa di parziale. L’’esistere-per-altri’ è l’opposto della rinuncia alla propria identità; è la via attraverso la quale l’uomo diventa ánthropos téleios, uomo pienamente tale. L’essere pienamente uomini e l’essere pienamente cristiani vengono in questo modo a coincidere. Benedizione e croce non si escludono, ma si implicano a vicenda.

7. Benedizione e croce
Nel Nuovo Testamento il giusto per eccellenza non gode nella sua vita terrena dei beni che il sapiente predice a colui che segue il retto cammino indicato dalla legge delle cose, ma va incontro alla maledizione sulla croce e alla espulsione dal mondo. Una soluzione per ristabilire l’armonia tra Nuovo e Antico Testamento potrebbe essere quella di ricercare e sottolineare nell’Antico Testamento le anticipazioni della sofferenza del giusto, come Bonhoeffer aveva già fatto indicando nel cap. 53 di Isaia il luogo dove l’Antico Testamento giunge al suo ‘limite’ e ‘rinvia’ al Nuovo, e come fa anche nella lettera del 28 luglio, sulla scia di alcune riflessioni svolte sul salmo 34 circa un mese prima, ricordando come nell’Antico Testamento il ‘benedetto’ debba molto patire. Ma questa soluzione, da sola, rappresenterebbe ancora una lettura dell’Antico Testamento a partire dal Nuovo. Perciò Bonhoeffer si muove contemporaneamente nella direzione opposta, e oltre a cercare la croce nell’Antico Testamento, cerca anche la benedizione nel Nuovo Testamento; e, a rincaro, non nelle pagine più distese e a prima vista più promettenti per una simile ricerca, come potrebbero essere le lettere pastorali, o Giacomo, testi per altro verso da lui largamente utilizzati, bensì nel cuore stesso dello scandalo del Nuovo Testamento, cioè proprio nella croce: ‘la differenza fra Antico e Nuovo Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione’. Il senso di questa frase va individuato proprio sulla base del significato assegnato alla croce nelle lettere immediatamente precedenti, appunto quelle dove la croce è presentata come il luogo in cui Dio si lascia scacciare dal mondo. Ma, se è così, Bonhoeffer sostiene in effetti che proprio questo lasciarsi scacciare contiene in sé la benedizione. La croce è quell’evento in cui viene ‘rovesciato ogni essere umano’, in cui il cor curvum viene ‘convertito’ nell’essere-per-altri. Questo evento conferisce senso all’esistere, è la benedizione di Dio al mondo, in quanto è l’evento che conferisce al mondo quella struttura, quelle leggi che ‘conservano’ e ‘rinnovano’ il mondo. Si tratta di leggi che portano inevitabilmente alla croce coloro che imboccano il lungo itinerario verso la libertà (‘Cristo, l’uomo-per-altri, perciò il crocifisso’); ma esse sono quelle leggi che permettono la vita piena, ‘perfetta’, nel contesto della natura corrupta. Nel mondo decaduto, cioè nel mondo concreto della storia, l’uomo autenticamente mondano è colui che non reprime le proprie passioni e sa trarre godimento dalla vita, ma che a tempo debito dovrà però anche affrontare le sofferenze che nascono dall’esistere-per-altri; è l’uomo la cui ‘profonda’ mondanità è ‘piena di disciplina’ ed è segnata (nel caso del cristiano) dalla ‘conoscenza della morte e della resurrezione’: costui è il benedetto, l’ánthropos téleios al quale Dio riserva i beni del mondo e la pienezza dell’esistenza.
Le due linee (la linea sapienziale e la linea della croce, la centralità e l’impotenza di Dio nel mondo) trovano a questo punto il loro momento di convergenza, e la morte, intesa come negazione della vita, viene ‘inghiottita’ dalla morte intesa come compimento di un’esistenza nella libertà ‘da se stessi’ per gli altri.

8. L’ultima tappa verso la libertà
Bonhoeffer è morto come un martire. Nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della guerra egli si trovava negli Stati Uniti, e avrebbe potuto evitare di ritornare in patria, essendo già chiara la sorte che lo attendeva. La decisione di ritornare fu la scelta consapevole di mettere a repentaglio la propria vita, a motivo, ultimamente, della causa di Cristo. Ma questa disponibilità a morire non è legata al disprezzo e nemmeno al distacco dalla vita. Nel 1942 egli scrive: ‘In questi anni (gli anni della guerra) ci siamo abituati all’idea della morte, ma non per questo moriamo volentieri; al contrario, gradiremmo poter vedere ancora qualcosa del senso di questa nostra esistenza martoriata’. Di conseguenza, gli sembrava inadeguato l’atteggiamento di chi affronta la morte in modo eroico. Era animato dal desiderio di essere colto dalla morte ‘nel pieno della vita e nella pienezza dell’impegno, non casualmente… o lontano dall’essenziale’. Questo desiderio è stato esaudito. C’è anche qui da mettere in evidenza il rapporto con la cristologia: la morte è sequela di Cristo, e il regno di Cristo non è ‘un regno del cuore, ma un regno sopra la terra e su tutto l’universo’. È il regno di colui che è il ‘centro della vita’. Precisamente per questo è un regno ‘per il quale vale la pena di rischiare la vita’, e per questo la morte è ‘l’ultima stazione’ sulla via della libertà:

Libertà, ti cercammo a lungo nella disciplina,
nell’azione, nel dolore.
Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio.

Alberto Gallas
docente di Storia della teologia all’Università Cattolica di Milano

Sommario
Il pensiero e l’opera di Bonhoeffer hanno goduto di una fortuna alterna. Il fatto però che l’interesse nei suoi confronti resista al mutare delle mode ne fanno ormai un classico del Novecento. Alla fine degli anni Sessanta il dibattito si è concentrato sulla sua critica alla religione, spesso peraltro intepretata in modo improprio. Ma sono numerosi i temi in cui egli ha lasciato un’eredità ancora viva: la questione della pace, l’ecumenismo, la questione ebraica, il recupero della tradizione sapienziale da parte del cristianesimo.

Publié dans:Bonhoeffer D. |on 29 mai, 2013 |Pas de commentaires »

DIETRICH BONHOEFFER – IL LIBRO DI PREGHIERA DELLA BIBBIA

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer3.htm

DIETRICH BONHOEFFER

IL LIBRO DI PREGHIERA DELLA BIBBIA

INTRODUZIONE AI SALMI

QUERINIANA, 2001

«Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1). Così i discepoli dicevano a Gesù, riconoscendo in tal modo di non saper pregare con le proprie forze. Essi avevano necessità di imparare.
Imparare a pregare: l’espressione ci suona contraddittoria. Infatti ci sembra che il cuore o sarà così traboccante da iniziare da solo a pregare, o non imparerà mai. Ma è un pericoloso errore, oggi in effetti molto diffuso nella cristianità, quello di ritenere che il cuore sia naturalmente portato a pregare. Scambiamo la preghiera con i desideri, le speranze, i sospiri, i lamenti, la gioia; tutte cose queste che il cuore sa esprimere per suo conto. Ma così scambiamo la terra con il cielo, l’uomo con Dio. Pregare non significa semplicemente dare sfogo al proprio cuore, ma significa procedere nel cammino verso Dio e parlare con lui, sia che il nostro cuore sia traboccante oppure vuoto. Ma per trovare questa strada non bastano le risorse umane ed è necessario Gesù Cristo.
I discepoli vogliono pregare, ma non sanno farlo. Può diventare un grande tormento il voler parlare con Dio senza sapere come, 1′esser costretti al mutismo davanti a lui, il rendersi conto che l’eco di ogni nostra invocazione resta confinata all’interno del nostro io, che il cuore e la bocca parlano una lingua stravolta, cui Dio non vuole prestar ascolto. In questa penosa situazione ricorriamo ad uomini che possono aiutarci, che sappiano qualcosa della preghiera. Se uno che sa pregare ci coinvolgesse, ci consentisse di partecipare alla sua preghiera, ne avremmo un aiuto! Certamente qui possono aiutarci molto quei cristiani che hanno già percorso molta strada, ma solo per mezzo di colui che deve aiutare anche loro e al quale essi ci indirizzeranno, se sono autentici maestri di preghiera, cioè per mezzo di Gesù Cristo. Se egli ci coinvolge nella sua preghiera, se ci consente di pregare con lui, se ci fa percorrere in sua compagnia il cammino verso Dio e ci insegna a pregare, allora saremo liberati dal tormento dell’impossibilità di pregare. Ed è questo che Gesù Cristo vuole. Vuol pregare con noi, noi partecipiamo alla sua preghiera e perciò possiamo avere la certezza e la gioia che Dio ci presterà ascolto. È corretta la nostra preghiera se tutta la nostra volontà, tutto il nostro cuore fa tutt’uno con la preghiera di Cristo. Solo in Gesù Cristo possiamo pregare, e con lui saremo esauditi anche noi.
Dunque è necessario che impariamo a pregare. Il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla. Impara la lingua del padre. Allo stesso modo impariamo a parlare a Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla. Sulla base del linguaggio del Padre celeste i figli imparano a parlare con lui. Nel ripetere le parole stesse di Dio, noi iniziamo a pregarlo. Non dobbiamo parlare a Dio, né egli vuol ascoltare da noi il linguaggio alterato e corrotto del nostro cuore, ma il linguaggio chiaro e puro che Dio ha rivolto a noi in Gesù Cristo.
Il linguaggio di Dio in Gesù Cristo lo incontriamo nella sacra Scrittura. Se vogliamo pregare nella certezza e nella gioia, dobbiamo porre la parola della Scrittura come solida base della nostra preghiera. Da qui sappiamo che Gesù Cristo, Parola di Dio, ci insegna a pregare. Le parole che vengono da Dio saranno i gradini della scala per giungere a Dio.
Ora nella sacra Scrittura c’è un libro che si distingue da tutti gli altri per il fatto di contenere solo preghiere. È il libro dei salmi. A un primo sguardo è molto sorprendente trovar nella Bibbia un libro di preghiera. Infatti la sacra Scrittura è la Parola di Dio a noi, mentre le preghiere sono parole umane. Come mai entrano nella Bibbia? Non lasciamoci trarre in inganno: la Bibbia è Parola di Dio anche nei salmi. Ma allora le preghiere a Dio sono Parola di Dio? È qualcosa che ci sembra difficilmente comprensibile. Se ci pensiamo, l’unica cosa che possiamo capire è che solo da Gesù Cristo si può imparare a pregare nel modo giusto, che in lui siamo in presenza della Parola del Figlio di Dio, vivente in mezzo agli uomini, che si rivolge al Padre, che vive nell’ eternità. Gesù Cristo ha portato al cospetto di Dio ogni miseria, ogni gioia, ogni gratitudine e ogni speranza degli uomini. Sulle sue labbra la parola umana diventa Parola di Dio, e nel nostro partecipare alla sua preghiera la Parola di Dio si fa a sua volta parola umana. Così tutte le preghiere della Bibbia sono preghiere in cui noi partecipiamo alla preghiera di Gesù Cristo, in cui egli ci coinvolge, portandoci al cospetto di Dio; altrimenti non sono le preghiere giuste, perché possiamo pregare solo in e con Gesù Cristo.
Se partiamo da questo presupposto, se vogliamo leggere e pregare le preghiere della Bibbia, e in particolare i salmi, non dobbiamo cominciare col chiederci che riferimento essi abbiano a noi, ma che riferimento abbiano a Gesù Cristo. Dobbiamo chiederci come comprendere i salmi in quanto Parola di Dio; solo a quel punto possiamo partecipare alla preghiera che in essi è pronunciata. Non ha nessuna importanza che i salmi esprimano proprio il sentimento presente nel nostro cuore. Forse è addirittura necessario pregare opponendoci al nostro cuore, se vogliamo pregare bene. L’importante non è ciò che risponde al nostro volere, ma ciò che Dio vuole sia detto nella nostra invocazione. Se dovessimo contare solo su noi stessi, la nostra preghiera sarebbe spesso soltanto la quarta invocazione del Padre nostro. Ma Dio stabilisce diversamente: non la povertà del nostro cuore, ma la ricchezza della Parola di Dio deve caratterizzare la nostra preghiera.
Se dunque la Bibbia contiene anche un libro di preghiera, questo ci insegna che la Parola di Dio non è solo quella che Dio ci dice, ma anche quella che egli vuol udire da noi, in quanto Parola del Figlio che egli ama. È grazia di grande rilievo il fatto che Dio ci dica come poter parlare e comunicare con lui. Questo ci è consentito in quanto preghiamo nel nome di Gesù Cristo. I salmi ci sono dati perché impariamo a pregare nel nome suo.
Alla richiesta dei discepoli Gesù ha corrisposto insegnando il Padre nostro (Mt 6,9-13; Lc 11,2-43). In esso è contenuta ogni preghiera. Ciò che rientra nelle richieste del Padre nostro è corretto, ciò che non vi rientra non è preghiera. Ogni preghiera della sacra Scrittura è ricapitolata nel Padre nostro, nella sua infinita capacità di comprenderle tutte. Le altre preghiere dunque non vengono rese superflue dal Padre nostro, ma ne esplicitano l’inesauribile ricchezza, così come il Padre nostro ne costituisce il culmine e l’unità. Dice Lutero circa il salterio: «Il salterio si richiama al Padre nostro e il Padre nostro al salterio, in modo tale che si può benissimo interpretare l’uno in base all’ altro e stabilire felicemente la reciproca concordanza». Per cui il Padre nostro è la pietra di paragone che ci permette di riconoscere se preghiamo in nome di Gesù Cristo o a nostro nome. È perciò ben motivato il frequente inserimento del salterio nelle nostre edizioni del Nuovo Testamento. È la preghiera della comunità di Gesù Cristo, rientra nel Padre nostro.

Chi prega nei salmi?
Dei 150 salmi, 73 vengono attribuiti al re David, 12 ad Asaf, il maestro del coro di cui si serviva David, 12 alla famiglia dei figli di Core, cantori leviti al servizio di David, 2 al re Salomone, uno per ciascuno Eman ed Etan, probabilmente maestri di musica all’ epoca di David e di Salomone. Si capisce quindi perché sia soprattutto il nome di David ad esser collegato con il salterio.
Si racconta che David, dopo esser stato consacrato re in segreto, sia stato chiamato dal re Saul, riprovato da Dio e tormentato da uno spirito malvagio, perché gli suonasse l’arpa. «Or quando lo spirito di Dio assaliva Saul, David prendeva l’arpa e si metteva a suonare, e Saul ne aveva sollievo e stava meglio, e lo spirito cattivo si partiva da lui» (1 Sam 16,23). Probabilmente è da qui che ha preso avvio la composizione dei salmi di David. Con la forza dello spirito di Dio, sceso su di lui con la consacrazione regale, egli scaccia con il canto lo spirito del male. Non ci è giunto nessun salmo di epoca precedente alla consacrazione. Soltanto colui che ha ricevuto la vocazione di re messianico, e da cui sarebbe disceso il re promesso, Gesù Cristo, ha pregato nella forma dei salmi, poi inclusi nel canone della sacra Scrittura.
Secondo la testimonianza biblica, David come re consacrato del popolo eletto da Dio è prefigurazione di Gesù Cristo. Ciò che gli accade, è in vista di colui che già in David è presente e che ne discenderà, vale a dire Gesù Cristo; e questo, non a sua insaputa; infatti, «siccome era profeta e sapeva che Dio, con giuramento, gli aveva promesso che uno della sua stirpe doveva sedere sopra il suo trono, egli previde e annunciò la risurrezione di Gesù Cristo» (At 2,30s.). David fu un testimone di Gesù nel suo ministero, nella vita e nelle parole. Il Nuovo Testamento in effetti dice anche di più. Nei salmi di David è il Cristo promesso in persona a parlare (Eb 2,12; 10,5) o, come anche ci viene detto, lo Spirito santo (Eb 3,7). Dunque le medesime parole di David sono pronunciate in lui dal Messia futuro. Le preghiere di David sono dette anche da Cristo, o meglio è Cristo stesso a pregare nel suo precurse David.
Questa breve osservazione sul Nuovo Testamento getta una luce significativa su tutto il salterio. Lo riferisce a Cristo. Dovremo poi soffermarci ancora su come sia da intendere questo nei singoli casi. Per noi è importante il fatto che anche David preghi richiamandosi a Cristo che abita in lui, e non soltanto alle risorse del proprio cuore traboccante. Certamente è lui che prega nei salmi, ma in lui e con lui c’è Cristo. Le stesse ultime parole pronunciate da David ormai vecchio esprimono questo fatto, in forma misteriosa: «Dice David, figlio di lesse, dice l’uomo che è stato innalzato, l’Unto del Dio di Giacobbe, il soave cantore dei salmi d’Israele: lo spirito del Signore ha parlato in me, e la sua parola è sulla mia lingua», a cui poi segue l’ultima profezia sul futuro re della giustizia, Gesù Cristo (2 Sam 23,2ss.).
Torniamo così a quanto abbiamo visto sopra. Certamente, non tutti i salmi sono di David, e non c’è alcun passo del Nuovo Testamento che attribuisca a Cristo la citazione dell’intero salterio. Comunque gli accenni che si sono raccolti bastano per tutto il salterio, che è senz’altro collegato indissolubilmente al nome di David, mentre Gesù in persona riferisce al complesso dei salmi l’annuncio della sua morte e risurrezione, nonché la predicazione dell’ evangelo (Le 24,44ss.).
Come è possibile che la preghiera dei salmi sia pronunciata contemporaneamente da un uomo qualsiasi e da Gesù Cristo? È il Figlio di Dio incarnato, che ha portato nella sua propria carne ogni debolezza umana, a sfogare davanti a Dio il cuore di tutta l’umanità, a prendere il nostro posto e a pregare per noi. Egli ha conosciuto più profondamente di noi il tormento e il dolore, la colpa e la morte. Per questo è la preghiera della natura umana da lui assunta a presentarsi davanti a Dio. È veramente la nostra preghiera, ma egli ci conosce meglio di quanto noi non conosciamo noi stessi, è stato vero uomo a nostro favore, e per questo anche la preghiera è veramente sua preghiera, anzi possiamo farla nostra solo perché è stata la sua.
Chi prega nei salmi? David (Salomone, Asaf ecc.), Cristo, anche noi. Nel dire ‘noi’ si deve intendere anzitutto l’intera comunità, la sola che può applicare nella preghiera l’intera ricchezza del salterio, ma infine anche ciascuno di noi, preso singolarmente, in quanto partecipa al Cristo e alla sua comunità, di cui condivide la preghiera. David, Cristo, la comunità, io stesso: se consideriamo tutto questo insieme, riconosciamo il cammino meraviglioso percorso da Dio per insegnarci a pregare.

Nomi, musica, forma dei versetti
Il titolo ebraico del salterio equivale a ‘Inni’. Nel Sal 72,20 si parla di tutti i salmi precedenti come di «preghiere di David». Le due cose sono sorprendenti, anche se comprensibili. In effetti il salterio non contiene a prima vista né solo inni, né solo preghiere. Nonostante ciò, anche i salmi didattici e i canti di lamentazione in fondo sono inni, perché servono a celebrare la gloria di Dio; gli stessi salmi che non contengono alcuna invocazione a Dio (per es. 1,2, 78) possono esser considerati preghiere, in quanto servono ad immergersi nel pensiero di Dio e nella sua volontà. Il ‘salterio’ è originariamente uno strumento musicale e sta ad indicare solo metaforicamente la raccolta delle preghiere rivolte a Dio nel canto.
I salmi, nella tradizione giunta fino a noi, sono in gran parte musicati per l’uso liturgico. Vi possono entrare voci umane e strumenti di ogni tipo. Di nuovo si deve risalire a David per la prima musica propriamente liturgica. Come un tempo il suono della sua arpa scacciava lo spirito malvagio, così la musica liturgica ha un’efficacia tale, che può esser indicata con lo stesso termine usato per la predicazione profetica (1 Cr 25,2). Molti dei titoli dei salmi, di difficile comprensione, sono istruzioni per il maestro di musica. Lo stesso vale per il termine ‘sela’, che spesso ricorre nel salmo, ed indica presumibilmente una pausa. «Il ‘sela’ indica che bisogna fare silenzio e meditare diligentemente la parola del salmo; essa infatti richiede un’anima quieta e raccolta, che possa comprendere e assimilare ciò che lo Spirito santo le presenta e le ispira» (Lutero).
I salmi erano cantati per lo più a cori alterni. Vi si adattava in modo specifico anche la forma del versetto, per cui le due parti che lo compongono sono così strettamente collegate tra di loro, che esprimono in parole diverse più o meno lo stesso pensiero. È il cosiddetto parallelismo degli emistichi, forma non casuale, ma avente lo scopo di non far interrompere la preghiera e inoltre di favorire la dimensione collettiva di questa. Noi che siamo abituati a pregare in fretta, troviamo che si tratta di ripetizioni inutili, ma in realtà si tratta di una giusta concentrazione e raccoglimento nella preghiera, e al tempo stesso è il segno dell’unità e della coincidenza nella preghiera di molti, anzi di tutti i credenti, pur nella diversità delle parole in cui si esprimono. Per cui la stessa forma del versetto ci esorta a pregare i salmi in comune.

La liturgia e i salmi
In molte chiese, la domenica o addirittura ogni giorno, si leggono o si cantano i salmi a cori alternati. Queste chiese hanno conservato un’immensa ricchezza, poiché solo l’uso quotidiano permette di maturare nella comprensione di quel libro di preghiera che ci viene da Dio. Se lo leggiamo solo occasionalmente, queste preghiere ci risultano di una densità e di una forza insostenibili, per cui subito torniamo a qualcosa di più accessibile. Ma chi ha iniziato a pregare il salterio con serietà e regolarità, ben presto «darà il benservito» alle altre più facili e familiari «preghierine devozionali», dicendo: «qui non c’è il vigore, la forza, l’impeto e il fuoco che trovo nel salterio, tutto sembra freddo ed arido» (Lutero).
Se dunque nelle nostre chiese non si pregano più i salmi, tanto più dobbiamo includere il salterio nelle nostre meditazioni del mattino e della sera, ogni giorno per quanto è possibile dobbiamo leggere e pregare in comune più salmi, in modo da ripassare questo libro più volte nel corso dell’ anno e da entrarvi sempre più in profondità. Non ci è nemmeno lecito farne una scelta secondo i nostri gusti; sarebbe un modo per non rendere onore al libro di preghiera della Bibbia, nella presunzione di sapere meglio di Dio stesso come dobbiamo pregare. Nella chiesa antica non era inconsueto sapere a memoria «tutto David». In una chiesa orientale questa era la condizione indispensabile per il ministero ecclesiastico. Un padre della chiesa, Girolamo, racconta che ai suoi tempi si sentivano cantare i salmi nei campi e nei giardini. Il salterio riempiva la vita della giovane cristianità. Ma più importante ancora di tutto ciò è il fatto che Gesù è morto sulla croce con le parole dei salmi sulle labbra [Mt 27,46 e Mc 15,34 (Sal 22, 2: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»); Lc 23,46 (Sal 31,6: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito»)].
Una comunità cristiana perde un tesoro incomparabile se non ricorre al salterio, mentre scopre in sé una forza insospettata, quando lo ritrova.

I diversi gruppi di salmi
Suddividiamo la materia dei salmi nel modo seguente: la creazione, la legge, la storia della salvezza, il messia, la chiesa, la vita, la sofferenza, la colpa, i nemici, la fine. Non sarebbe difficile stabilire un rapporto fra tutte queste sezioni e il Padre nostro, per dimostrare quanto profondamente tutto il salterio sia incluso nella preghiera di Gesù. Ma per non anticipare questo risultato delle nostre riflessioni, ci atteniamo alla classificazione che risulta dai salmi stessi.

La creazione
La Scrittura proclama Dio creatore del cielo e della terra. Molti salmi ci esortano a rendergli onore, lode e grazie. Ma non c’è nessun salmo che parli solo della creazione. È sempre quel Dio che già si è rivelato al suo popolo nella Parola, ad essere riconosciuto come creatore del mondo. Possiamo credere in Dio creatore perché egli ci ha parlato, perché il Nome di Dio ci è stato rivelato. Altrimenti non potremmo conoscerlo. La creazione è un’immagine del potere e della fedeltà di Dio, che ci è stata dimostrata nella rivelazione che Dio ha fatto di sé in Gesù Cristo. Noi invochiamo il creatore che ci si è rivelato come redentore.
Il Salmo 8 celebra il nome di Dio e la sua azione di grazia nei confronti dell’uomo, in quanto coronamento della sua opera, il che non potrebbe essere compreso in base alla sola creazione. Il Salmo 19 non può parlare della meraviglia del corso degli astri senza contemporaneamente passare alla gloria molto maggiore della rivelazione della legge divina, ed è un passaggio brusco, senza mediazione, una tematica nuova, da cui proviene poi l’appello al pentimento. Il Salmo 29 presenta alla nostra ammirazione la tremenda forza di Dio nella tempesta, ma lo scopo del salmo sta nel richiamare la forza, la benedizione e la pace che Dio dona al suo popolo. Il Salmo 104 abbraccia con lo sguardo tutte le opere di Dio e al tempo stesso le giudica un nulla al suo cospetto; solo la sua gloria rimane eterna ed egli annienterà i peccatori.
I salmi della creazione non sono poetiche effusioni liriche, ma un’introduzione alla scoperta e all’adorazione del creatore del mondo, che il popolo di Dio può trovare nella salvezza che sperimenta come grazia. La creazione serve al fedele, e ogni creatura di Dio è buona, se noi l’accogliamo con gratitudine (1 Tm 4,3s.). E noi possiamo ringraziare solo per ciò che è consono alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. È per amore di Gesù Cristo che la creazione, con tutti i suoi doni, esiste. Così noi rendiamo grazie a Dio con, in e per mezzo di Gesù Cristo, a cui apparteniamo, per lo splendore della sua creazione.

La legge
I tre Salmi (1. 19. 119) che hanno come specifico oggetto di ringraziamento, di lode e di richiesta la legge di Dio, vogliono anzitutto presentarci i benefici della legge. Per ‘legge’ si deve intendere per lo più tutta l’azione redentiva di Dio e la prescrizione di una nuova vita nell’ubbidienza. La gioia per la legge, per i comandamenti di Dio, riempie il nostro animo, se Dio per mezzo di Gesù Cristo ha impresso la grande svolta alla nostra vita. La nuova vita teme più di ogni altra cosa la possibilità che Dio nasconda il suo comandamento (Sal 119,19), che un giorno non faccia più riconoscere la sua volontà.

È grazia conoscere i comandi di Dio. Essi ci liberano dai progetti e dai conflitti che vengono dalla nostra iniziativa. Danno sicurezza ai nostri passi e gioia al nostro cammino. Dio dà i comandamenti perché noi li adempiamo e «i suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Gv 5,3) per chi ha trovato pienamente in Gesù Cristo la salvezza. Lo stesso Gesù si è sottoposto alla legge e l’ha adempiuta in completa ubbidienza al Padre. La volontà di Dio è la sua gioia, il suo nutrimento. Così egli rende grazie in noi per la grazia della legge e ci dà la gioia nell’adempierla. Nel professare il nostro amore per la legge, confermiamo che essa ci è cara e chiediamo di essere mantenuti irreprensibili in essa. Non lo facciamo contando su noi stessi, ma preghiamo nel nome di Gesù Cristo, che è per noi e in noi.
Forse ci risulterà particolarmente difficile il Salmo 119 per la sua lunghezza e monotonia. Qui può esserci di aiuto il procedere con molta lentezza, tranquillità, pazienza, parola per parola, frase per frase. Allora ci rendiamo conto che le ripetizioni sono solo apparenti, ma che in realtà sono aspetti sempre nuovi di un unico tema, l’amore per la Parola di Dio. Un amore che non può aver fine, così come non possono aver fine le parole che lo confessano. Esse hanno l’intento di accompagnarci per l’intera vita, e nella loro semplicità si adattano alla preghiera del bambino, dell’uomo maturo e del vecchio.

La storia della salvezza
I Salmi 78, 105, 106 ci raccontano la storia del popolo di Dio in terra, la grazia dell’elezione e la fedeltà di Dio, l’infedeltà e l’ingratitudine del suo popolo. Il Salmo 78 non presenta alcuna invocazione di preghiera. Come possiamo pregarlo? Il Salmo 106 ci esortar al ringraziamento, all’ adorazione, alla promessa, alla richiesta, alla confessione dei peccati e all’invocazione di aiuto, di fronte alla storia della salvezza realizzatasi nel passato. Gratitudine per la bontà di Dio, che è valida in eterno per il suo popolo, che noi sperimentiamo alla stessa maniera dei nostri padri; adorazione al cospetto dei miracoli che Dio ha compiuto a nostro beneficio, dalla redenzione del suo popolo dall’Egitto fino al Golgota; promessa di essere fedeli al comandamento di Dio più di quanto lo siamo stati finora; preghiera perché la grazia di Dio ci sostenga, secondo la sua promessa; confessione dei nostri peccati, dell’infedeltà e dell’indegnità nei confronti di così grande misericordia; invocazione perché il popolo di Dio sia definitivamente radunato e si compia la sua redenzione.
Noi preghiamo questi salmi, nel considerare come rivolto a noi tutto ciò che Dio a suo tempo ha compiuto per il suo popolo, nel riconoscere la nostra colpa e la grazia di Dio, nel richiamare le promesse di Dio, in base ai benefici già ricevuti, nel chiedere l’adempimento di queste promesse, nel riconoscere infine in Gesù Cristo, da cui abbiamo ricevuto e riceviamo aiuto, l’adempimento di tutta la storia di Dio con la sua comunità. Per amore di Gesù Cristo rendiamo grazie a Dio, lo preghiamo e lo confessiamo.

Il messia
La storia divina della salvezza si compie con l’invio del messia. Secondo la stessa interpretazione di Gesù, il salterio ha profetizzato questo messia (Le 24,44). I Salmi 22 e 69 sono conosciuti dalla comunità come i salmi della passione di Cristo.
L’inizio del Salmo 22 è stato pregato da Gesù stesso in croce, che in tal modo ne ha fatto con ogni evidenza una sua preghiera. Il versetto 23 è stato posto in bocca a Cristo da Eb 2,12. I versetti 9 e 19 sono dirette profezie della crocifissione di Gesù. Per quanto sia stato David in persona ad aver pregato nella propria sofferenza questo salmo, in quella situazione egli rappresentava il re consacrato da Dio e per tal motivo perseguitato dagli uomini, da cui sarebbe disceso Cristo. In quella circostanza egli era colui che portava in sé Cristo. Cristo ha fatto propria questa preghiera, e solo così essa ha acquistato il suo pieno valore. Da parte nostra, possiamo pregare secondo questo salmo solo nella comunione con Gesù Cristo, nella partecipazione alla sua sofferenza. La nostra preghiera secondo questo salmo non si fonda sulla nostra sofferenza occasionale, personale, ma su quella di Cristo, alla quale anche noi partecipiamo. E noi sentiamo che Gesù prega sempre con noi, e attraverso Gesù anche il re dell’Antico Testamento; nel ripetere questa preghiera, pur senza poterne mai misurare o comprendere tutta la profondità, ci presentiamo davanti al trono di Dio pregando con Cristo.
Nel Salmo 69 di solito il verso 6 crea difficoltà, perché in esso Cristo si lamenta della propria follia e delle proprie colpe davanti a Dio. Certamente qui David ha parlato della sua colpa personale. Cristo però parla della colpa di tutti gli uomini, anche di quella di David e della mia, che egli ha preso e portato su di sé, per cui ora subisce l’ira del Padre. Il vero uomo Gesù Cristo prega in questo salmo e ci include nella sua preghiera.
I Salmi 2 e 110 testimoniano la vittoria di Cristo sui suoi nemici, l’instaurarsi del suo regno, l’adorazione prestatagli dal popolo di Dio. Anche qui la profezia si richiama a David e alla sua regalità. E in David abbiamo la prefigurazione del Cristo futuro. Lutero parla del Salmo 110 come del «vero grande salmo del nostro amato Signore Gesù Cristo».
I Salmi 20, 21, 72 in origine si riferiscono indubbiamente alla regalità terrena di David e Salomone. Il Salmo 20 invoca la vittoria del re messianico sui nemici, l’accettazione del suo sacrificio da parte di Dio; il Salmo 21 ringrazia per la vittoria e l’incoronazione del re; il Salmo 72 prega per la giustizia e l’aiuto da prestare ai poveri, per la pace, per uno stabile dominio, per un’ eterna gloria nel regno. In questi salmi noi preghiamo per la vittoria di Gesù Cristo nel mondo, ringraziamo per la vittoria ottenuta e chiediamo l’instaurazione del regno di giustizia e di pace, in cui è re Gesù Cristo. In questo ambito rientrano anche i Salmi 61,7ss.; 63,12.
Dell’ amore per il re messianico parla il molto discusso Salmo 45, in cui si celebra la sua bellezza, la sua ricchezza, la sua forza. La sposa che si unisce in matrimonio con questo re deve dimenticare il proprio popolo e la casa paterna (v. 11) e rendere omaggio al re. Per lui solo deve adornarsi e con gioia prendere dimora presso di lui. È il canto e la preghiera che celebra l’amore fra Gesù, il re, e la sua comunità, che gli appartiene.

La chiesa
I Salmi 27,42,46,48,63,81,84,87 ecc. cantano Gerusalemme, la città di Dio, le grandi solennità del popolo di Dio, il tempio e la bellezza dei servizi liturgici. È la presenza del Dio della salvezza nella sua comunità, ad esser qui il motivo del nostro ringraziamento, della nostra gioia, del nostro desiderio. Ciò che per gli israeliti era il monte Sion e il tempio, per noi è la chiesa di Dio in tutto il mondo, ogni luogo in cui Dio abita presso la sua comunità nella Parola e nel sacramento. Questa chiesa sussisterà, nonostante i suoi nemici (Sal 46), e la sua prigionia sotto il dominio delle potenze del mondo senza Dio avrà fine (126, 137). Il Dio di misericordia, presente in Cristo alla sua comunità, è il compimento di ogni moto di gratitudine, di gioia e di nostalgia dei salmi. Anche Gesù, in cui abita Dio stesso, ha desiderato la comunione di Dio, in quanto è stato uomo come noi (Lc 2,49), e per questo egli prega con noi per la vicinanza e presenza piena di Dio presso i suoi.
Dio ha promesso di essere presente alla sua comunità nel culto, per cui la comunità tiene il suo culto secondo l’ordine posto da Dio. E Gesù Cristo stesso ha prestato il culto perfetto, in cui ha portato a compimento ogni sacrificio prescritto nel libero e perfettamente puro sacrificio di sé. Cristo ha compiuto in sé il sacrificio di Dio per noi e il nostro sacrificio a Dio. A noi non resta che il sacrificio di lode e di ringraziamento, nella preghiera, nel canto, in una vita secondo i comandamenti di Dio (Sal 15, Sal 50). Così tutta la nostra vita si trasforma in culto, in sacrificio di ringraziamento. A tale sacrificio di ringraziamento Dio non farà mancare il suo assenso e mostrerà la sua salvezza a chi gli si rivolgerà con gratitudine (Sal 50,23 ). Questi salmi hanno il compito di insegnarci la gratitudine a Dio per amore di Cristo e la lode a Dio nella comunità, una lode che sale dal cuore, dalle labbra e dalle mani.

La vita
Molti di coloro che cercano di essere cristiani con serietà sono sorpresi dalla frequenza con cui s’incontra, nella preghiera dei salmi, la richiesta della vita e della felicità. Dalla contemplazione della croce di Cristo, certi fanno derivare la poco sana convinzione che la vita e le benedizioni terrene e sensibili di Dio siano per se stesse un bene ambiguo, e comunque da non richiedere. Di conseguenza parlano delle corrispondenti preghiere del salterio come di un grado preliminare, imperfetto della spiritualità dell’ Antico Testamento, che il Nuovo Testamento avrebbe superato, ma in tal modo vogliono essere più pii di Dio stesso.
La richiesta del pane quotidiano comprende tutto il campo delle necessità della vita fisica, allo stesso modo in cui la richiesta di vita, di salute, di prove visibili del favore divino fa parte necessariamente della preghiera rivolta a Dio che ha creato e che conserva questa vita. La vita fisica non va disprezzata, anzi, Dio ci ha donato la sua comunione in Gesù Cristo, perché possiamo vivere al suo cospetto in questa vita, e poi di conseguenza anche nell’ altra. Per questo ci dà le preghiere terrene, in modo che riusciamo a conoscerlo, a lodarlo e ad amarlo quanto più possibile. Dio vuole che i pii abbiano prosperità in terra (Sal 37) 13. Questa volontà non viene messa fuori causa nemmeno dalla croce di Gesù Cristo, anzi se mai viene confermata, e proprio laddove gli uomini, nella sequela di Gesù, devono farsi carico di molte privazioni, ad essi succederà come ai discepoli, che alla domanda di Gesù: «Vi è mancato forse qualche cosa?» rispondono: «Niente!» (Le 22,35). Ciò presuppone quanto dice il salmo: «Meglio è il poco di cui gode il giusto che l’abbondanza di molti empi» (Sal 37,16).
In effetti non dobbiamo avere scrupoli di coscienza a pregare con il salterio per ottenere vita, salute, pace, beni terreni, purché con il salmo riconosciamo in tutto questo i segni della comunione di grazia che Dio ci concede e teniamo ben fermo che la benevolenza di Dio è preferibile alla vita (Sal 63,4; 73,25s.).
Il Salmo 103 ci insegna tutta la ricchezza dei doni di Dio, dalla conservazione della vita fino alla remissione dei peccati, e ce ne fa comprendere il carattere unitario, per cui dobbiamo presentare a Dio lodi e grazie (cfr. anche Sal 65). Per amore di Cristo, il creatore ci dà e ci conserva la vita. Così pure vuol disporci ad ottenere in ultimo la vita eterna, facendoci perdere, con la morte, tutti i beni terreni. Solo per amore di Gesù Cristo e per suo comando possiamo chiedere nella preghiera i beni terreni e anche farlo con fiducia. E se riceviamo ciò di cui abbiamo bisogno, non cesseremo di ringraziarne di cuore Dio, così benevolo nei nostri confronti per amore di Gesù Cristo.

La sofferenza
Dove si trovano parole di tristezza più lamentosa e più straziante di quelle dei salmi di lamentazione? È come se si leggesse nel cuore di tutti i santi, quando si sentono in preda alla morte, anzi, all’inferno. Lì si vede l’oscurità che ci invade, quando ci sentiamo sotto lo sguardo adirato di Dio (Lutero).
Il salterio ci dà molti insegnamenti sul giusto modo di presentarci a Dio nelle molte specie di sofferenze che il mondo ci procura. Gravi malattie e profondo abbandono da parte di Dio e degli uomini, minacce, persecuzioni, prigionia e ogni tipo di miseria che possa esserci in terra, tutto questo è ben noto ai salmi (13, 31, 35, 41, 44, 54, 55, 56,61, 74, 79, 86, 88, 102, 105 ecc.). Non si nega la sofferenza, non la si camuffa con espressioni devote, anzi i salmi la riconoscono come dura prova per la fede, anzi talvolta non vedono alcuna prospettiva al di là della sofferenza (Sal 88), e tutti se ne lamentano con Dio. Nessun uomo può pregare i salmi di lamentazione sulla base della propria esperienza; in essi viene esposta la miseria dell’intera comunità in tutti i tempi, e il solo ad averla provata integralmente è Gesù Cristo. Poiché essa accade per volontà di Dio, anzi, poiché Dio solo la conosce integralmente e più di quanto noi la conosciamo, per questo è solo Dio che può portarci aiuto, ma è vero anche che per questo tutte le richieste devono sempre insistentemente rivolgersi a Dio.
Nei salmi non c’è una troppo rapida resa alla sofferenza. Si passa sempre attraverso un combattimento, si vive la paura, il dubbio. Si mette in discussione la giustizia di Dio, che fa soffrire i pii e salvaguarda gli empi, e addirittura si mette in discussione la bontà e la grazia del volere divino (Sal 44,35). Il suo agire è troppo incomprensibile, ma anche nella più profonda disperazione, Dio resta il solo a cui ci si rivolge. Non si aspetta aiuto dagli uomini, né si perde di vista nell’ autocommiserazione l’origine e il fine di ogni miseria, cioè Dio. Chi soffre, combatte contro Dio in difesa di Dio. Al Dio adirato si rinfacciano moltissime volte le sue promesse, la sua precedente benevolenza, la gloria del suo nome tra gli uomini.
Se sono colpevole, perché Dio non perdona? Se sono innocente, perché non pone fine ai tormenti, dimostrando la mia innocenza davanti ai miei nemici? (Sal 38, 79, 44). A tutte queste domande non c’è una risposta sul piano teorico, come del resto neppure nel Nuovo Testamento. L’unica risposta reale è Gesù Cristo. E questa risposta è già nei salmi. Anzi è la risposta che tutti i salmi hanno in sé, in quanto in essi ogni miseria e ogni tentazione viene presentata a Dio, nell’invocare: non ce la facciamo più a sopportare, dacci sollievo e prendi tutto su di te, tu solo puoi aver ragione della sofferenza. Questo è lo scopo di tutti i salmi di lamentazione. Essi invocano colui che si è fatto carico di ogni nostra malattia e infermità, Gesù Cristo, lo predicano come unico aiuto nella sofferenza, poiché in lui Dio ci è vicino.
Nei salmi di lamentazione si tratta della piena comunione con Dio, che è giustizia e amore. Ma Gesù Cristo non è solo lo scopo della nostra preghiera, bensì egli è anche personalmente presente nel nostro pregare. Avendo sopportato ogni nostra miseria16, l’ha portata davanti a Dio, per amor nostro ha pregato in nome di Dio: «Non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu». Per amor nostro sulla croce ha gridato:. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ora sappiamo che non c’è più sofferenza sulla terra, in cui Cristo non sia presso di noi, nella condivisione del dolore, nella preghiera, lui, l’unico che ci può portare aiuto.
Su questa base nascono i grandi salmi di fiducia. Una fiducia in Dio senza Cristo è vuota e priva di certezza, anzi non è altro che una nuova forma di fiducia in se stessi. Ma chi sa che in Gesù Cristo Dio stesso partecipa alla nostra sofferenza, può dire con grande fiducia: «Tu sei con me, la tua verga e il tuo bastone mi rassicurano» (Sal 23, 37, 63, 73, 91, 121).

La colpa
Più raramente di quanto non ci si aspetti ricorre nel salterio la preghiera per la remissione dei peccati. La maggior parte dei salmi presuppone la completa certezza della remissione dei peccati. Ciò può sorprenderci, ma anche nel Nuovo Testamento le cose non stanno in modo diverso. Si impoverisce e si compromette la preghiera cristiana, riportandola esclusivamente all’invocazione che i peccati siano rimessi. Per amore di Gesù Cristo è possibile lasciarsi alle spalle con fiducia il peccato.
Tuttavia nel salterio non manca in assoluto la preghiera di penitenza. I cosiddetti sette salmi penitenziali (6,32,38,51, 102, 130, 143), ma non solo essi (Sal 14, 15,25,31,39,40,41 ecc.), ci danno tutta la profondità della confessione di peccato davanti a Dio, ci aiutano a confessare la nostra colpa, indirizzano tutta la nostra fiducia alla grazia della remissione divina, e giustamente Lutero li ha chiamati i «salmi paolini». Per lo più si hanno circostanze specifiche che inducono a tale preghiera, o una grave colpa (Sal 32, 51), o una sofferenza inattesa, che spinge alla penitenza (Sal 38, 102). Comunque si ripone tutta la speranza nella libera remissione che Dio ci ha offerto e promesso nella sua Parola incarnata in Gesù Cristo, per l’eternità.
Pregare questi salmi non offrirà difficoltà di nessun tipo al cristiano. Ma potrebbe sorgere la domanda sulla possibilità che anche Cristo possa pregare con noi secondo lo spirito di questi salmi. Come può chiedere remissione un innocente? In nessun altro modo, se non come l’innocente che porta i peccati di tutto il mondo e che è stato reso peccato per noi (2 Cor 5,21). Gesù prega per la remissione del peccato, non a causa di un suo peccato, ma a causa del nostro peccato di cui egli si è fatto carico, per il quale soffre. Egli si mette senza riserve dalla nostra parte, vuol essere un uomo come noi al cospetto di Dio. E quindi egli prega con noi anche la più umana delle preghiere, mostrandosi proprio in questo vero Figlio di Dio.
Per un cristiano evangelico risulta spesso particolarmente sorprendente e sconcertante il fatto che nel salterio si parli non solo della colpa, ma in uguale misura anche dell’innocenza dell’uomo religioso (cfr. Sal 5, 7, 9, 16, 17,26,35,41,44,59,66,68,69,73, 86 ecc.). Qui sembra emergere un resto della cosiddetta giustificazione per mezzo delle opere, che si attribuisce all’Antico Testamento, e che si ritiene non abbia più niente a che fare con i cristiani. Ma una considerazione del genere resta del tutto alla superficie, ed ignora tutto della profondità della Parola di Dio. È certo che si possa parlare della propria innocenza con l’intento di autogiustificarsi, ma forse non sappiamo che anche la più umile confessione del peccato può essere mossa dallo stesso intento? Si può esser lontani da Dio sia nel parlare della propria colpa che della propria innocenza.
Ma la questione non è di conoscere i possibili motivi che stanno dietro ad una preghiera, bensì se il suo contenuto sia giusto o no. E qui è chiaro che il cristiano veramente credente non deve parlare solo della sua colpa, ma ha qualcosa di altrettanto importante da dire circa la sua innocenza e giustizia. Rientra nella fede di un cristiano il riconoscimento di esser divenuto, per la grazia di Dio e per il merito di Gesù Cristo, integralmente giusto e innocente agli occhi di Dio, per cui «non c’è più nulla da condannare in coloro che sono in Gesù Cristo» (Rm 8,1). E nella preghiera del cristiano rientra anche la partecipazione a questa innocenza e giustizia, a cui deve attenersi, richiamandosi alla Parola di Dio e ringraziando. Per cui non solo ci è consentito, ma ci è fatto obbligo addirittura, se prendiamo sul serio l’azione di Dio in noi, di pregare con grande umiltà e sicurezza nel modo seguente: «Integro sono stato dinanzi a lui e mi sono guardato dalla mia iniquità» (Sal 18,24), «Tu hai visitato il mio cuore, niente di male hai trovato» (Sal 17 ,3 )21. Con tali preghiere ci troviamo nel cuore del Nuovo Testamento, nella comunione con la croce di Gesù Cristo.
Particolarmente forte è l’affermazione di innocenza nei salmi che trattano dell’ oppressione ad opera di nemici senza Dio. Qui prevale la preoccupazione per il diritto della causa di Dio, che naturalmente dà ragione a chi la sostiene. Se siamo perseguitati per la causa di Dio, egli ci dà ragione nei confronti del suo nemico. Accanto all’innocenza oggettiva, che certo non può mai restare solo tale, visto che la causa della grazia di Dio ci riguarda sempre anche personalmente, ci può essere in alcuni di questi salmi anche una confessione di colpa soggettiva (Sal 41,5; 69,6), a sua volta solo un segno del fatto che realmente solo la causa di Dio mi sta a cuore. Posso addirittura chiedere nello stesso momento: «Giudicami, o Dio, difendi la mia causa da gente senza pietà» (Sal 43,1).
È senz’ altro contrario alla Bibbia e fuorviante l’idea che non sia possibile la sofferenza innocente, cioè finché siamo immuni da colpa. Non è questo il modo di vedere né dell’Antico, né del Nuovo Testamento. Se siamo perseguitati per la causa di Dio, soffriamo innocentemente, il che significa appunto che soffriamo con Dio stesso; la nostra reale vicinanza a Dio e quindi la nostra innocenza risulterà proprio dal fatto che chiediamo la remissione dei peccati.
Ma non siamo innocenti solo al cospetto dei nemici di Dio, bensì anche davanti a Dio stesso; infatti ora egli ci vede legati alla sua causa, in cui egli stesso ci ha coinvolto, e ci rimette i nostri peccati. Così tutti i salmi che proclamano l’innocenza confluiscono nel canto: «Il sangue e la giustizia di Cristo sono il mio ornamento e la mia veste d’onore; così mi presenterò a Dio quando andrò in cielo».

I nemici
Nessuna parte del salterio ci procura oggi imbarazzo maggiore di quella costituita dai cosiddetti salmi di vendetta23. È spaventosa la frequenza di questi pensieri in tutto il salterio (5,7,9, 10, 13, 16, 21, 23, 28, 31, 35, 36, 40, 41, 44, 52, 54, 55, 58, 59, 68, 69, 70, 71, 137 ecc.). Qui si direbbe che siano condannati al fallimento tutti i tentativi di far nostre queste preghiere, e veramente pare che ci si trovi di fronte a un grado inferiore di religiosità, come esso viene chiamato, rispetto al Nuovo Testamento. Cristo in croce ha pregato per i suoi nemici e ci ha insegnato a fare altrettanto. Come possiamo ancora con i salmi invocare vendetta sui nemici? Dunque il problema è se i salmi di vendetta possano essere intesi come Parola di Dio per noi e come preghiera di Gesù Cristo. Possiamo da cristiani pregare questi salmi? Si noti ancora che non si tratta dei possibili motivi, per noi insondabili, ma del contenuto della preghiera.
I nemici di cui qui si parla sono nemici della causa di Dio, che ci assalgono per questo motivo. Non si tratta dunque mai di una contesa personale. Mai colui che prega nei salmi vuole eseguire la vendetta con le sue mani, ma l’affida a Dio solo (cfr. Rm 12,19). Quindi deve liberarsi da qualsiasi idea di vendetta personale, da qualsiasi brama di vendicarsi, altrimenti la vendetta non sarebbe veramente rimessa a Dio. Ma solo chi è personalmente innocente nei confronti del nemico può affidare a Dio la vendetta. La preghiera per la vendetta di Dio è la preghiera per la piena applicazione della sua giustizia nel giudicare i peccati. Questo giudizio deve compiersi, se Dio è fedele alla sua Parola, e deve applicarsi a chiunque; io stesso con il mio peccato devo sottostarvi. Non ho alcun diritto a impedirlo. Deve compiersi per volontà di Dio, ed è stato compiuto, sia pure non per la via più consueta.
La vendetta di Dio non ha infatti colpito i peccatori, ma l’unico innocente, che ha preso il posto dei peccatori, il Figlio di Dio. Gesù Cristo ha portato il peso della vendetta di Dio, di cui il salmo chiede l’esecuzione. Egli ha placato l’ira di Dio per il peccato e così ha pregato nell’ ora del giudizio divino: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Solo lui poteva pregare così, in quanto ha preso su di sé l’ira di Dio. Qui si è posto fine ad ogni idea sbagliata dell’ amore di Dio, come se esso non prendesse sul serio il peccato. Dio odia e giudica i suoi nemici nell’unico giusto, e questi chiede remissione per i nemici di Dio. Solo nella croce di Gesù Cristo è possibile trovare l’amore di Dio.
Così il salmo di vendetta ci porta alla croce di Gesù e all’amore di Dio che perdona ai nemici. Non posso con le mie forze perdonare il nemico di Dio, può farlo solo il Cristo crocifisso, e io lo posso attraverso di lui. In tal modo l’esecuzione della vendetta si trasforma in grazia per tutti gli uomini in Gesù Cristo.
Certamente è cosa molto diversa, se ci si trova a pregare il salmo nel tempo della promessa o nel tempo del compimento, ma è una differenza che vale per tutti i salmi. Prego secondo i salmi di vendetta essendo certo che questa sarà eseguita in modo miracoloso, rimetto la vendetta nelle mani di Dio e gli chiedo di applicare la sua giustizia a tutti i suoi nemici, sapendo che Dio è rimasto fedele a se stesso e si è fatto giustizia nel giudizio dell’ira pronunciato sulla croce, e che quest’ira è divenuta grazia e gioia per noi. Gesù Cristo in persona chiede l’esecuzione della vendetta di Dio sul suo corpo, e così ogni giorno mi richiama al peso e alla grazia della sua croce per me e per tutti i nemici di Dio.
Anche oggi posso credere all’ amore di Dio e perdonare ai nemici solo passando per la croce di Cristo, per l’esecuzione della vendetta di Dio. La croce di Gesù Cristo è per tutti. Chi vi si oppone, chi altera la parola della croce di Cristo, deve subire direttamente la vendetta di Dio, deve sopportare la maledizione di Dio sulla terra o nell’aldilà. E il Nuovo Testamento parla con la massima chiarezza di questa maledizione che colpisce chi odia Cristo, in questo non distinguendosi dall’Antico, parla però anche della gioia della comunità nel giorno del giudizio finale (Gal 1,8s.; 1 Co; 16,22; Ap 18; 19; 20, Il). In tal modo Gesù crocifisso ci insegna ad applicare nel giusto modo i salmi di vendetta alla preghiera.

La fine
La speranza dei cristiani è rivolta al ritorno di Gesù e alla risurrezione dei morti. Nel salterio non c’è una formulazione letterale di questa speranza. Ciò che dopo la risurrezione di Gesù si è sviluppato per la chiesa in una lunga successione di eventi di storia della salvezza, in rapporto con la fine di tutte le cose, nella prospettiva dell’ Antico Testamento risulta ancora come un tutto indivisibile. Oggetto della preghiera nei salmi è la vita in comunione con il Dio della rivelazione, la vittoria finale di Dio nel mondo e l’instaurarsi del regno messianico.
Qui in sostanza non c’è differenza dal Nuovo Testamento. In effetti i salmi invocano la comunione con Dio nella vita terrena; sanno però che essa non si realizza in terra, ma differisce molto da questo ordine di realtà, anzi addirittura si oppone ad esso (Sal 17 ,14s.; 6,3425). Per cui la vita in comunione con Dio è sempre posta al di là della morte. È vero che questa è considerata sempre l’irrevocabile, amara fine per il corpo e l’anima. È il salario del peccato, e il richiamarla è doloroso (Sal 39 e 90). Ma al di là della morte c’è Dio, che è eterno (Sal 90 e 102). Perciò non sarà la morte, ma la vita nella forza di Dio a trionfare (Sal 16,9ss.; 56,14; 49,16; 73,24; 118,15ss.). Troviamo questa vita nella risurrezione di Gesù Cristo, e l’invochiamo per il presente e per l’eternità.
I salmi della vittoria finale di Dio e del suo messia (Sal 2.96.97. 98.110.148-150) ci guidano nella lode, nel ringraziamento e nella richiesta della fine di tutte le cose, allorché tutto il mondo renderà onore a Dio, e la comunità dei redenti regnerà con Dio in eterno, mentre le potenze del maligno finiranno e Dio solo avrà potere.
Abbiamo intrapreso questo breve percorso del salterio, nella speranza di imparare a pregare meglio alcuni salmi. Non sarebbe difficile riportare al Padre nostro tutti i salmi citati. Ci sarebbe ben poco da mutare nella successione dei paragrafi che abbiamo seguito. Ma l’unica cosa importante è il ricominciare di nuovo con fedeltà e amore a pregare i salmi, in nome del nostro Signore Gesù Cristo.
«Il nostro diletto Signore, che ci ha dato e ci ha insegnato a pregare secondo il salterio e il Padre nostro, ci dia anche lo spirito della preghiera e della grazia, cosicché sentiamo il gusto della preghiera, ci manteniamo in essa rigorosamente fedeli e perseveranti; infatti è per noi una necessità, e Dio ce l’ha comandato e questo si attende da noi. A lui sia lode, onore e grazie. Amen» (Lutero).

Publié dans:Bonhoeffer D. |on 9 avril, 2013 |Pas de commentaires »

DIETRICH BONHOEFFER TEOLOGO PROTESTANTE, MARTIRE DEL NAZISMO – 9 APRILE 1945 IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO

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DIETRICH BONHOEFFER TEOLOGO PROTESTANTE, MARTIRE DEL NAZISMO – 9 APRILE 1945 IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO

CHIESE DELLA RIFORMA

BRESLAU, GERMANIA (OGGI WROCLAW, POLONIA), 4 FEBBRAIO 1906 – FLOSSENBURG, 9 APRILE 1945

Il contesto storico del suo tempo; la Germania nazista
Nella Germania nazista, non tutti i tedeschi furono partecipi dell’ideologia militaristica, razzista, egemone, scaturita dalla mente contorta di Adolf Hitler (1889-1945), che provocò nella prima metà del secolo XX, milioni di morti, distruzioni immense, innumerevoli feriti, invalidi, dispersi, profughi, perseguitati e sconvolgimenti politici epocali in tutto il mondo.
Tutto ciò ebbe il suo epilogo nella Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), ma già dal 1920, anno della fondazione del nazionalsocialismo da parte di Hitler, in Germania si andò diffondendo l’ideologia della pretesa superiorità razziale del popolo tedesco e della conseguente rigida discriminazione verso gli altri popoli, in particolare gli Ebrei, che furono oggetto di spietate persecuzioni.
Nel campo economico e sociale, il nazionalsocialismo respingeva le dottrine liberiste e quelle marxiste, contrapponendo ad esse una visione rigidamente corporativa e attuando una politica di stretto controllo dell’attività economica.
In politica estera, l’ideologia nazista tese i suoi sforzi alla preparazione della rivincita della sconfitta subita dalla Germania, nella Prima Guerra Mondiale, proclamando apertamente la necessità per il popolo tedesco, di strappare alle altre nazioni lo spazio vitale necessario.
Tutto questo, a partire dal 1933 quando Hitler prese il potere, portò ad una vasta militarizzazione dello Stato, instaurò un clima di repressione dei dissidenti, istituendo un regime totalitario basato sull’identificazione tra Partito e Stato; poi ad invasioni di Stati confinanti, occupazioni militari, rastrellamenti e deportazioni di ebrei, dissidenti, prigionieri, zingari, malati di mente, nei famigerati campi di concentramento, vergogna di una civilissima nazione, che tanto aveva dato in arte, letteratura, scienze, filosofia, all’Europa e al mondo fino allora.
Ma non tutti i tedeschi condividevano le politiche naziste, alcuni vincendo la paura della famigerata Gestapo (polizia segreta), furono in aperta contrapposizione e molti pagarono con il carcere, le torture, i lavori forzati, la vita stessa, la loro libertà di espressione e l’anelito di indipendenza dal rigido regime.

I tentativi per fermare Hitler e le conseguenze
Nell’ottica di fermare in qualche modo, la deriva della Germania, trascinata in una disastrosa guerra contro decine di Nazioni del mondo, alcuni ufficiali delle Forze Armate, appoggiati da dissidenti, organizzarono un primo attentato a Hitler, il 13 marzo 1943 a Monaco, che ebbe un esito negativo; molto più vasta fu la congiura organizzata nell’estate dell’anno successivo.
Il 20 luglio 1944, il colonnello von Stauffenberg collocò una bomba nel quartiere generale del Führer (‘tana del lupo’) a Rastenburg, nella Prussia Orientale, ma Hitler, ferito solo leggermente, riuscì rapidamente a schiacciare i rivoltosi che, credendolo morto, si erano scoperti senza tuttavia organizzare un’azione efficace a Berlino.
I feldmarescialli Kluge e Rommel, implicati indirettamente nel complotto, si uccisero; il generale Beck, il colonnello Stauffenberg, il maresciallo von Witzleben, il generale von Stülpnagel, l’ammiraglio Canaris, più direttamente coinvolti, vennero giustiziati.
Con loro furono arrestati, migliaia di oppositori del regime e giustiziati in un susseguirsi di fucilazioni ed impiccagioni; affogando in un lago di sangue, l’anelito di libertà dalla tremenda dittatura nazista, comunque arrivata al capolinea nell’anno successivo.

Il teologo Dietrich Bonhoeffer
Fra queste persone di varia estrazione sociale e di pensiero, vi fu il teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, uno dei maggiori e più aperti oppositori dell’ideologia nazista, che per questo era già detenuto dal 5 aprile 1943.
Dietrich era nato il 4 febbraio 1906 a Breslau, una città della Slesia, allora in Germania, ma dopo la II Guerra Mondiale ritornò ad essere parte della Polonia con il nome di Wroclaw, dopo quattro secoli di dominio austriaco, prussiano e nazista.
Il padre Karl era un professore di Neurologia e Psichiatria, la madre Paula cristiana fervente, era dedita all’educazione dei suoi otto figli, quattro maschi e quattro femmine.
Quando Dietrich aveva sei anni, la famiglia Bonhoeffer si trasferì a Berlino di dove era originaria; i suoi genitori frequentavano la Chiesa Luterana, ma con un’impostazione sostanzialmente laica e positivista; il giovane Dietrich invece, si avvicinava sempre più alla religione, decidendo di dedicarsi agli studi teologici.
Aveva 16 anni quando la mattina del 21 giugno 1921, era a scuola nel ginnasio del quartiere residenziale di Grunewald e udì gli spari che a poca distanza dall’istituto, uccisero Walter Rathenau, ministro degli Esteri, davanti alla porta di casa. E da allora, Dietrich molto turbato, cominciò a domandarsi quale futuro poteva avere una Germania, che assassinava i suoi figli migliori.
La sua vocazione allo stato religioso, fu accolta in casa con una certa sorpresa, considerandola una scelta curiosa, perché lo studio della teologia, era una cosa che non portava da nessuna parte.
Durante i suoi studi all’Università, prima di Tubinga e poi di Berlino, maturò convinzioni politiche; l’incontro con il pacifista francese Jean Lasserre, eliminò quell’amarezza contro i trattati di Versailles, che avvelenava l’opinione pubblica tedesca e che porterà poi all’appoggio popolare alla politica rivendicativa di Adolf Hitler.

Docente universitario; la sua formazione religiosa e politica
Influenzato in modo significativo dalla teologia dialettica e dal pensiero del teologo protestante svizzero Karl Barth (1886-1968), Dietrich Bonhoeffer si laureò nel 1930 con una tesi sulla Chiesa, dal titolo “Sanctorum communio”, diventando pastore luterano e ottenendo a soli 24 anni, l’abilitazione per la docenza universitaria.
Dal 1931 al 1933, insegnò teologia all’Università di Berlino, coinvolgendo gli studenti con il suo approccio innovativo e impegnato, teso a sensibilizzare le coscienze, sulla situazione politica della Germania di allora.
La sua attenzione era concentrata sulla Chiesa, intesa come concreta comunità di uomini, che, in quanto tale, ha il dovere di calarsi nella realtà e combatterne le distorsioni, per realizzare una società giusta, lontana dalla violenza.
In quegli anni Dietrich, maturò la sua forte opposizione al nazismo; a contatto con Gerhard Leibholz di origine ebrea e marito della sua gemella Sabine (la coppia nel 1933, lascerà la Germania a seguito delle leggi razziali), prese coscienza del grande peccato costituito dall’antisemitismo e si opporrà in seguito pubblicamente alla “clausola ariana”, contenuta negli statuti della Chiesa Protestante, imposti dal regime nazista; tutto ciò porterà la sua discesa in campo in prima persona, per denunciare la deriva del potere politico in Germania.
Il suo itinerario di studioso, insegnante, pastore, fu interrotto solo dai viaggi fatti in Italia e a New York; ma nel 1933 in Germania, avvenne la svolta radicale dell’avvento al potere di Adolf Hitler e Dietrich Bonhoeffer fece subito e chiaramente la sua scelta, schierandosi con la cosiddetta “Chiesa confessante”, cioè quella parte della comunità evangelica, che aveva imboccato la via della resistenza al regime nazionalsocialista, organizzando per essa seminari e corsi di studio, stabilendo contatti anche all’estero, affinché fosse sostenuta la resistenza tedesca.
Per questo la sua voce fu progressivamente spenta, in particolare nel 1933, quando partecipò ad una trasmissione radiofonica, definendo pubblicamente Hitler “un seduttore”, provocando così l’interruzione del programma; l’interferenza del regime diventò sempre più capillare ed invasiva e gli fu proibito man mano di insegnare, di predicare, di scrivere.

Riparato all’estero
Trovatosi nell’impossibilità di portare avanti il suo programma d’insegnamento, Bonhoeffer, lasciò, nell’ottobre 1933, la Germania, scegliendo di fare il pastore a Londra, per svegliare le coscienze nei confronti del rischio nazista; ma le sue amicizie con gli ebrei, l’impegno nelle file dell’opposizione, il discorso sulla pace tenuto nell’isola danese di Fanø, attirarono su di lui l’attenzione del regime.
E quando dopo un paio d’anni tornò in patria, fu costretto ad abbandonarla di nuovo, dopo una parentesi come direttore di un Seminario protestante, chiuso come illegale; poiché sulla sua testa pendevano diversi provvedimenti di polizia, che gl’impedivano la libertà di azione e mettevano in pericolo la sua incolumità.
Riparato negli Stati Uniti, come “docente ospite” nell’estate del 1939, vi restò però solo due settimane; la sua coerenza morale e l’amore per il suo popolo, gl’impedivano di stare a guardare, mentre il suo Paese precipitava nell’orrore e nell’imminente guerra, guidato da un criminale che bisognava cercare di bloccare ad ogni costo.

Aderente al gruppo di resistenza antinazista; arrestato dalla Gestapo
Uomo audace e profondamente religioso, era convinto della necessità per la Chiesa e i suoi esponenti, di risvegliare la coscienza critica degli uomini e di diffondere la Parola di Dio anche, e soprattutto, nei momenti storici più difficili; una volta rientrato in Germania, si unì per questo al gruppo di Resistenza sorto attorno all’ammiraglio Wilhelm Canaris (1887-1945), impegnato a cercare una via d’uscita che evitasse il disastro totale.
Ma il 5 aprile 1943, Dietrich Bonhoeffer fu arrestato dalla Gestapo; iniziava così il suo calvario in varie prigioni del Reich; nelle carceri di Tegel e Berlino, scrisse le celebri lettere e appunti, raccolte poi nel vol. “Resistenza e resa” (pubblicato nel 1951), esempio di lucida coerenza in principi come libertà, patria, democrazia, pace, dialogo, ascolto dell’altro.
In quelle pagine, ora dolci ora drammatiche, pronte a scavare nel mistero di Dio e dell’uomo, espressione ardente di una vita con Dio e per Dio, con gli uomini e per gli uomini, si delineavano alcune tesi del suo pensiero, che avevano avuto una vasta trattazione già in altri suoi scritti precedenti, come “Agire ed essere” (1931), “Sequela” (1937), “La vita comune” (1939) ed “Etica” (1949, opera postuma).

Il percorso interiore nella sofferenza
Le lettere, maturate negli anni di carcere, rappresentano l’opera più conosciuta di Bonhoeffer, documento frammentario, ma interessantissimo di una vicenda umana esemplare.
Bonhoeffer credeva nei valori della comunità, come necessaria risposta religiosa all’esistenza, come luogo del rispetto reciproco e in quelli dell’interiorità, che nessuna tirannia avrebbe potuto violare.
Quattro mesi prima dell’arresto, nel gennaio 1943, Dietrich si era fidanzato con la diciottenne Maria von Wedemeyer, da lui teneramente amata, ma che non poté mai sposare, perché il resto della sua vita lo trascorse in carceri e campi di concentramento.
Nel Natale 1943, il teologo Bonhoeffer così pregava: “È buio dentro di me, ma presso di te c’è luce; sono solo, ma tu non mi abbandoni, sono impaurito, ma presso di te c’è aiuto; sono inquieto, ma presso di te c’è pace; in me c’è amarezza, ma presso di te c’è pazienza, non comprendo le tue vie, ma tu conosci la mia vita”.

Il martirio
Dopo un breve passaggio nel campo di concentramento di Buchenwald, fu trasferito nel lager di Flossenbürg presso Monaco; là dopo un processo sommario, fu condannato a morte e impiccato il 9 aprile 1945, a 49 anni, insieme all’ammiraglio Canaris, per espresso ordine di Hitler.
In quei mesi che precedettero il crollo finale del nazismo, e che seguivano il fallito attentato ad Hitler del 20 luglio 1944, anche altri suoi familiari furono uccisi, quali dissidenti del regime: suo fratello Klaus Bonhoeffer avvocato, i mariti delle due sorelle Christine e Ursula, Hans von Dohnanyi e Rudiger Schleicher, con loro Ernst von Harnack, parente e frequentatore del circolo musicale, dove il gruppo clandestinamente congiurava.

La sua teologia
Il noto biblista Gianfranco Ravasi, in un suo articolo su Famiglia Cristiana, così sintetizza il pensiero di Bonhoeffer: “Egli esaltava la necessità dell’impegno del cristiano nelle “realtà penultime”, cioè in quelle della storia e dell’azione sociale e politica, per poter accedere alle “realtà ultime” della fede e della pienezza di vita in Dio. Egli sentiva fortemente l’importanza di un confronto col mondo diventato “adulto” e secolare, e questo dialogo doveva avvenire attraverso un cristianesimo “non religioso”, cioè ripensato in una nuova forma, non più sacrale. Queste ed altre tesi, alcune di forte impronta mistica, altre di tonalità esistenziale, contenevano reazioni e fremiti legati alla sua esperienza e al contesto di quel tempo e sono poi state sottoposte a critica”.
Il pensiero del teologo Bonhoeffer, è stato fra l’altro citato per un confronto sugli scritti di Mario Pomilio (1921-1990); trent’anni prima, Dietrich Bonhoeffer inaugurava la teologia della “morte di Dio” e al tempo stesso una nuova sofferta ed esistenziale cristologia: “Cristo è per l’uomo la ricerca del Dio assente”; in confronto il libro di Pomilio “Il Quinto Evangelo” (1975), si tiene ben lontano dalla rapinosa vertigine dell’intuizione di Bonhoeffer.
Il suo Dio, non è assente ma nascosto e la storia umana è un susseguirsi di balenanti sue apparizioni e rivelazioni, di segni misteriosi, di tracce certe anche se spesso indecifrabili della sua presenza, che consentono di ricostruire l’itinerario che conduce a Lui.
Rimane indubbia, però, la fede pura di Bonhoeffer e la sua testimonianza integra, e con questa fede egli si avviò al martirio. Scrisse di lui più tardi uno dei medici del lager: “Mi ha scosso nel profondo… Nei quasi 50 anni di pratica medica, non ho mai visto morire allo stesso modo, un uomo consacrato al Signore”.
In una sua lettera dal carcere, Bonhoeffer scrisse: “Quando si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi: un santo, un peccatore convertito o un uomo di Chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano, allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si prendono finalmente sul serio non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nei Getsemani e, io penso, questa è fede; e così diventiamo uomini, diventiamo cristiani”.

Il ricordo di Dietrich Bonhoeffer
Dietrich Bonhoeffer, viene considerato uno dei dieci “testimoni” delle cristianità del secolo scorso. A questo titolo, dal 1998, la sua statua è stata collocata in una nicchia della facciata dell’abbazia di Westminster, in Inghilterra; tiene in mano una Bibbia, ed è in compagnia, fra gli altri, di Martin Luther King, del vescovo Oscar Romero, di san Massimiliano Kolbe, in un ecumenismo del martirio, più eloquente di qualsiasi solenne dichiarazione.
È ricordato il 9 aprile, giorno della sua morte, nel calendario “Il libro dei Testimoni”, che la Comunità di Bose ha dedicato al martirologio ecumenico.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Bonhoeffer D. |on 9 avril, 2013 |Pas de commentaires »

INTERPRETAZIONE DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI – DIETRICH BONHOEFFER

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer2.htm

DIETRICH BONHOEFFER 

LE DIECI PAROLE DEL SIGNORE: PRIMA TAVOLA

INTERPRETAZIONE DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI

(forse l’ho già messo, ma è sempre bello!)

In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell’arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l’avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell’onore – qualunque sia la forma di questi beni – non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c’è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all’infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è ‘Io’. L’uomo deve trattare con questo « io », non con una legge generale, non con un « si deve fare questo o quello », ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l’ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti « Parole di vita » (Atti 7,38).
Forse invece di dire « dieci comandamenti » sarebbe meglio parlare delle « dieci parole » di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il « Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l’eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un’abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice « Io », allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice « Io », questo è grazia. Quando Dio dice « Io », dice semplicemente tutto, la prima cosa e l’ultima; quando Dio dice « Io », vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l’unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C’è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l’ obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l’obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l’unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com’è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell’arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell’arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.

Il primo comandamento
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L’imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»… e perciò non… È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l’unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l’uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c’è posto per null’altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d’essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l’arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l’onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di « altri dei ». Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c’è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l’insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l’onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l’incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell’imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all’idolo d’oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D’altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell’esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell’imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».

Il secondo comandamento
«Non usare il nome dell’Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». « Dio » non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. « Dio » è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono « dio », o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. « Dio » è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire « Dio », lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo « Dio », è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).

La parola « dio » è nulla; il nome « Dio » è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire « Dio »; e dicono invece « divinità », « destino », « provvidenza », « natura », « l’onnipotente ». « Dio » suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola « dio » non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C’è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la « perla ai porci ». È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l’obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell’occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c’è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c’è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola – non certo più vera – ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.

Il terzo comandamento

«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell’adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l’uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l’Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l’uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L’uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall’azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con « sabato » ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
« Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall’operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».

Le dieci parole del Signore: prima tavola (Dietrich Bonhoeffer)

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DIETRICH BONHOEFFER 

Le dieci parole del Signore: prima tavola

Interpretazione dei primi tre comandamenti

(il commento agli altri comandamenti non lo trovo)

In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell’arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l’avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell’onore – qualunque sia la forma di questi beni – non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c’è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all’infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è ‘Io’. L’uomo deve trattare con questo « io », non con una legge generale, non con un « si deve fare questo o quello », ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l’ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti « Parole di vita » (Atti 7,38).
Forse invece di dire « dieci comandamenti » sarebbe meglio parlare delle « dieci parole » di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il « Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l’eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un’abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice « Io », allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice « Io », questo è grazia. Quando Dio dice « Io », dice semplicemente tutto, la prima cosa e l’ultima; quando Dio dice « Io », vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l’unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C’è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l’ obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l’obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l’unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com’è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell’arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell’arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.

Il primo comandamento
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L’imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»… e perciò non… È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l’unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l’uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c’è posto per null’altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d’essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l’arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l’onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di « altri dei ». Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c’è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l’insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l’onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l’incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell’imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all’idolo d’oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D’altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell’esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell’imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».

Il secondo comandamento
«Non usare il nome dell’Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». « Dio » non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. « Dio » è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono « dio », o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. « Dio » è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire « Dio », lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo « Dio », è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).
La parola « dio » è nulla; il nome « Dio » è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire « Dio »; e dicono invece « divinità », « destino », « provvidenza », « natura », « l’onnipotente ». « Dio » suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola « dio » non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C’è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la « perla ai porci ». È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l’obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell’occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c’è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c’è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola – non certo più vera – ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.

Il terzo comandamento
«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell’adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l’uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l’Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l’uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L’uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall’azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con « sabato » ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
« Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall’operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».

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