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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO – DI BRUNO FORTE

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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO

DI BRUNO FORTE

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

SAN PAOLO AD ATENE (interessante)

http://www.domenicanipistoia.it/sanpaolo-atene.htm

CREDERE CON IL CORPO LA LEZIONE DI PANIKKAR, TEOLOGO DI TRE RELIGIONI

di Armando Torno

SAN PAOLO AD ATENE

Ad Atene Paolo giunse per la prima volta verso l’estate del 50, giusto nella metà esatta del secolo I, a vent’anni dalla morte di Gesù. Egli proveniva dalla Macedonia e aveva già soggiornato in varie città (Filippi, Tessalonica, Berea), suscitandovi piccole comunità cristiane, frutto del suo primo viaggio missionario in Europa. Ma una città come Atene, con il suo glorioso passato politico e culturale, doveva costituire qualcosa di nuovo e affascinante.
Qui Paolo stabilì due punti di attività missionaria: la sinagoga e l’agorà (la «pubblica piazza»). L’Areòpago era fuori dalle sue intenzioni, e l’intervento al suo interno fu occasionale. Egli infatti mirava di preferenza a un contatto non tanto selettivo quanto di tipo generale e per così dire misto, come risulterà soprattutto a Corinto. Nella sinagoga, che offriva un’audience più ristretta, poteva rivolgersi in modo mirato agli Ebrei e ai «pagani credenti in Dio», cioè a coloro che erano idealmente vicini al giudaismo (cf. At 17,17a); qui era in un certo senso a casa propria. Nell’agorà, invece, per natura sua più laica e aperta, poteva parlare con chiunque incontrasse.
Essa infatti è il luogo del libero scambio, dove più evidente appare il gioco della democrazia; non per nulla nelle città dell’antico Vicino Oriente, anteriori all’ellenismo, manca uno spazio del genere «in mezzo alla città», ritenuto inutile o addirittura pericoloso.
Il discorso all’Areòpago (At 17,22- 31) secondo gli Atti degli Apostoli è il pezzo forte dell’intervento di Paolo ad Atene, e si può suddividere in un esordio (vv. 22- 23), nell’annuncio dell’unico Dio con i rischi della sua ricerca (vv. 24- 29) e nel tipico annuncio cristiano (vv. 30- 31). Vogliamo chiederci qui quale sia, in generale, il suo significato per l’incontro tra vangelo e cultura. A questo proposito, possiamo individuare tre aspetti interessanti.
L’intervento di Paolo all’Areòpago è l’unico esempio nel Nuovo Testamento di un discorso ai pagani. Va osservato che Paolo, in base al giudaismo di origine, doveva appunto considerare come «gli altri», cioè distanti e diversi, proprio i «gentili», quelli che oggi qualifichiamo genericamente come pagani. Anche se storicamente l’atteggiamento di Israele verso di loro può aver assunto forme di integrazione a vari livelli, restò sempre un giudizio di fondo, che li bollava come «un nulla» (Is 40,17) o come «peccatori» (Gal 2,15).
Ebbene, l’enorme «operazione culturale» attuata da Paolo è stata appunto quella di aprire il Dio d’Israele anche ai «gentili» e di ammetterli gratuitamente, cioè senza richiedere loro l’osservanza della legge di Mosè, ma proponendo la semplice fede nel sangue di Cristo, alla giustificazione davanti a Dio e in ultima analisi alla salvezza escatologica, sulla base non dei comandamenti formulati dal legislatore Mosè, ma delle libere promesse fatte da Dio al patriarca Abramo. Per questo Paolo si è sempre battuto: per avvicinare i lontani (cf. Ef 2,13), per ammettere e accogliere «gli altri», quelli che erano religiosamente bollati come esclusi, per superare quindi i molti recinti del sacro, della cultura, della razza, e persino del sesso (cf. Gal 3,28), tutte barriere che egli sa ormai irrimediabilmente abbattute in Cristo.
Il suo discorso all’Areòpago rappresenta il momento tipico di questa «politica». È vero che altri Giudei di ambito ellenistico operarono irenicamente nei confronti della cultura pagana: valga per tutti la figura straordinaria del filosofo-mistico Filone Alessandrino. Ma mentre Filone, pur dimostrando una conoscenza molto più ampia e approfondita della tradizione culturale greca, non rinuncia a proporre i benefici della legge mosaica, Paolo prescinde da ogni imposizione legalistica e propone semplicemente Gesù Cristo come l’unica via per giungere alla comunione con la divinità. Il discorso di Paolo all’Areòpago ci propone poi due istanze esemplari molto concrete. La prima riguarda il contatto diretto e anche fisico con «gli altri», cercandoli magari là dove essi sono e vivono, senza temere di incontrare la diversità «altrui» e di starle magari gomito a gomito, nonostante troppe volte si sia tentati dalla chiusura, dall’affermazione soltanto della «propria» diversità. La seconda istanza è un corollario della precedente: «gli altri» si incontrano veramente, non con la pretesa di strapparli alla loro cultura per imporgliene una nuova, magari antitetica, bensì adottando punti di vista della cultura altrui che possono valere come vera e propria praeparatio evangelica. La parola magica in questo senso è «inculturazione», che fa pendant con «incarnazione».
Nonostante tutta la buona volontà ecumenica di Paolo, egli tuttavia all’Areòpago annunziò il messaggio cristiano in alcuni suoi elementi tipici.
Certo, secondo il testo lucano, egli non parlò della croce di Cristo. Ma il suo discorso giunse a proporre la prospettiva del giudizio escatologico e, come suo corollario, il kerygma (o annunzio fondamentale) della risurrezione di Cristo. Ciò già poteva bastare per motivare un rifiuto, come di fatto avvenne.
Si potrebbe perciò discutere sull’eventuale necessità di cominciare il confronto con i lontani non direttamente con lo specifico kerygma cristiano, ma con dei prolegomena («premesse») che preparino alla sua accettazione. Ma resta il fatto che Paolo non premise dibattiti filosofici, se non assumendo irenicamente la palese condivisione di alcuni punti fermi della cultura greca, che sono poi quelli da noi tradizionalmente etichettati come elementi della teologia naturale (un esempio è la citazione del poeta Arato: «Di lui infatti anche noi siamo stirpe», nel v. 28). Ciò che può derivarne per ogni cristiano, al di là di ogni buona volontà di dialogo, è che non si può sfuggire all’esigenza di proporre ciò che più propriamente definisce l’identità della sua fede. Bisogna prima o poi giungere a dire che, oltre ogni nesso che lega il cristiano al ricco patrimonio delle tradizioni culturali umane, c’è qualcosa di irriducibile ad esse, qualcosa che può essere e di fatto viene giudicato «scandalo e stoltezza», di fronte a cui la sapienza del mondo viene messa in scacco (cf. 1Cor 1,17- 25). Certo è che una forte precomprensione religiosa non basta ad accogliere il vangelo. Gli Ateniesi vengono riconosciuti «molto timorati degli dèi» (v. 22), però questo non solo non valse a nulla, ma costituì forse l’ostacolo maggiore alla fede. Il vangelo infatti è sempre anche una critica della religione, cioè delle inveterate categorie, individuali e sociali, secondo le quali sembrerebbe che l’accesso a Dio sia ormai fissato irrevocabilmente in figure, istituzioni e ritualità tradizionali. Il vangelo invece annuncia a sorpresa un comportamento divino che non era stato previsto e che perciò sconvolge questi schemi. Per accoglierlo occorre una disponibilità a superare se stessi, che non è sempre facile e non si può dare per scontata. Il «Dio ignoto» degli Ateniesi (cf. v. 23) può essere metafora di tutto ciò che sta oltre ogni precomprensione e che, sulla base della rivelazione, è compito del cristiano comunicare.
L’ Areòpago di Atene, alla luce dell’esperienza di Paolo, può valere come metafora di tutte le possibili occasioni e di tutti i possibili luoghi di confronto pubblico e qualificato tra il vangelo e la cultura umana. Però, se è vero che all’Areòpago si giunge solo su invito o per un cortese trascinamento, non sempre e non a tutti è possibile accedervi. Le agorà sono invece sempre a disposizione, poiché esse sono di tutti, aperte per definizione. Se l’Areòpago richiama l’idea di un ambito riservato e in definitiva aristocratico, l’agorà propone l’idea di un ambito popolare, democratico, in cui chiunque può incontrare tutti, e al quale nessuno è precluso. Del resto è dall’agorà che si comincia: ciò che fa audience nell’agorà finisce prima o poi per approdare anche in un areòpago. Forse non è senza significato che Paolo, mentre tace il nome di Gesù nel discorso all’Areòpago, lo pronuncia invece apertamente nelle conversazioni dell’agorà (cf. vv. 17b- 18). Sembrerebbe che l’agorà sia più evangelica: essa ha comunque una destinazione universale, è per le folle. In fondo, la Galilea profonda era stata l’agorà di Gesù, e il sinedrio di Gerusalemme il suo areòpago, che l’ha messo a morte. Sembrerebbe perciò di dover riconoscere che il cristianesimo non può appartenere alle élites del potere, non solo di quello politico, ma neanche di quello religioso e neppure di quello culturale. Nel vangelo c’è qualcosa che non solo è irriducibile a queste strutture mondane, ma ne è anche in contrasto.
La menzione finale di Dionigi e Damaris (v. 34), che invece di irridere Paolo ne accolsero il messaggio, ci dice almeno che l’impegno apostolico non è senza un qualche risultato. E questo ottimismo incoraggia il lettore cristiano, il quale sa che l’odierna società così frammentata nelle specializzazioni non manca di offrire nuovi areòpaghi. L’importante è di non fruire privatisticamente della propria fede, ma di esporla pur senza ostentarla, di confrontarla senza prevaricazioni, di aprirla ad apporti altrui al di là di presunzioni autonomistiche, e di offrirla con gioiosa umiltà. Questo compito per il cristiano non è secondario, ma nativo. In fondo, la comparsa di Paolo all’Areòpago era già segnata fin dalla sua vocazione sulla strada di Damasco, quando il Signore disse: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15- 16). Secondarie sono solo le modalità. È per questo che gli Atti degli Apostoli non sono terminati. Essi continuano nella storia personale di ogni battezzato.

UNA SVOLTA PASTORALE – (L’ESEMPIO DELL’APOSTOLO PAOLO)

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350984

UNA SVOLTA PASTORALE – (L’ESEMPIO DELL’APOSTOLO PAOLO)

(da www.chiesa espressoonline.it)

Perché il sinodo dei vescovi sulla famiglia dovrebbe seguire l’esempio dell’apostolo Paolo. Da « Die Tagespost » del 22 gennaio 2015. L’autore è vicario generale della dicesi di Coira

di Martin Grichting

In vista della XIV assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi che avrà luogo il prossimo ottobre sulla « Vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo » la segreteria generale del sinodo ha pubblicato un questionario. Questo documento dovrebbe servire da approfondimento del testo finale dell’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi dell’anno scorso, la cosiddetta « Relatio synodi. » Sulla base delle risposte sarà poi sviluppato l’ »Instrumentum laboris » per il sinodo del prossimo autunno.
Nel questionario si legge che si tratta ora di lasciarsi guidare dalla « svolta pastorale » che l’assemblea straordinaria del sinodo ha iniziato a delineare. Riguardo a questa svolta pastorale si legge nella « Relatio synodi » (25): « In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nelle loro vite e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro ». Più genericamente parlando, la nuova sensibilità della pastorale odierna deve consistere nel « cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze » (41).

L’apostolo Paolo, pastore e maestro
È l’apostolo Paolo a potersi vantare di aver inventato il principio della svolta pastorale, quasi 2000 anni fa, quando, come sappiamo, si recò sull’Areòpago di Atene (cfr. At 17, 16-34) e colse gli « elementi positivi » presenti negli ateniesi. Paolo, il pastore, lodava gli ateniesi quali « molto timorati degli dei » ed espose loro la pienezza del piano di Dio indicando loro l’ara con l’iscrizione « Al Dio ignoto » e segnalando: « Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio ».
Cogliere gli « elementi positivi » nel pensiero dei suoi interlocutori non impediva però all’apostolo Paolo di annunziare sempre nuovamente tutta la verità di Cristo. Ai greci, che cercavano la sapienza, mostrava il Cristo crocifisso: « stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio » (1 Cor 1, 22-24). E circa il tema del sinodo di quest’anno diceva senza mezzi termini: « Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti… erediteranno il Regno di Dio » (1 Cor 6, 9s).

La Chiesa madre e maestra
Il prossimo sinodo dei vescovi può realizzare in maniera attendibile l’attesa « svolta pastorale » seguendo l’esempio di Paolo: deve ascoltare i fedeli, anche quelli che nel loro pensare ed agire rimangono indietro rispetto alla Parola di Dio, per comprendere il sentire di queste persone e il perché del loro agire. Cristo non ha trasmesso alla Chiesa un « munus interrogandi »; quale « complessa realtà » composta non solo da un elemento divino ma anche da un elemento umano (Lumen Gentium 8), la Chiesa deve però conoscere il mondo e le mentalità che lo dominano. Tenendo presente quanto conosciuto, come una madre piena di comprensione, dovrà invitare alla crescita spirituale, affinché gli uomini possano « raggiungere la pienezza del piano di Dio ».
In questo la Chiesa non deve però mancare di confessare chiaramente in che cosa consista questo piano di Dio. Essendo essa composta anche dall’elemento divino, ha ricevuto da Cristo il « munus docendi », la funzione di insegnare. Quest’ultima, nella « Relatio post disceptationem « − il riassunto dei dibattiti delle sessioni nella prima settimana dell’ultimo sinodo − è passata in secondo piano almeno nella sua presentazione nei media e nell’opinione pubblica.
In essa si parlava, difatti, della possibilità di « riconoscere elementi positivi anche in forme imperfette che si trovano al di fuori… [della] realtà nuziale »; di « semi del Verbo » sparsi anche nelle unioni intime non sacramentali. Inoltre, circa la convivenza che precede il matrimonio, la « Relatio » parlava di « autentici valori familiari » e infine, riguardo alle persone omosessuali – come singoli individui o come persone che vivono in un’unione intima? – il documento menzionava persone « con doti e qualità da offrire alla comunità cristiana ».
La svolta pastorale qui espressa sembrava, almeno nel modo in cui era rappresentata nei media e nell’opinione pubblica, poco ispirata dal discorso chiaro di san Paolo. Ciò indusse molti fedeli ad avere l’impressione che in futuro non ci sarebbero più veramente dei peccati, ma soltanto delle realizzazioni più o meno perfette di ideali biblici. E si era tentati – influenzati da certi mass media – di pensare che da ora in avanti non sarebbe più l’Agnello di Dio a togliere i peccati del mondo. A suo tempo, Blaise Pascal aveva già sospettato che i pastori lassisti fossero i « patres qui tollunt peccata mundi ». Adesso si era tentati di pensare che fossero i padri sinodali a togliere i peccati del mondo.
Con la « Relatio synodi » tuttavia sono stati proprio i padri sinodali a rimettere a posto l’immagine. Papa Francesco ha poi contribuito ulteriormente a calmare la situazione relativizzando la « Relatio post disceptationem », quando durante una sua intervista ha precisato che il rapporto intermedio, contrariamente alla « Relatio synodi », non si inserisce nelle conclusioni del sinodo.
Anche sulla questione dei fedeli divorziati e risposati con rito civile fu rivendicata una svolta pastorale, già alcuni mesi prima del sinodo dei vescovi, dal cardinale Walter Kasper che richiamava gli elementi positivi di tali rapporti come ad esempio il carattere vincolante che non potrebbe essere sciolto senza portare a nuove colpe o l’impegno di vivere il secondo matrimonio civile nella fede ed educando ad essa i figli.
Il riconoscimento di « elementi positivi » – come si nota ad esempio nel sussidio della conferenza episcopale tedesca del 24 novembre 2014 (Arbeitshilfe n. 273, p. 71) – risulta qui in un apriporta per far rientrare il sacramento della penitenza, l’eucaristia, il matrimonio cristiano indissolubile e i dieci comandamenti in una ponderazione dei beni con « elementi positivi » di una nuova relazione extraconiugale. Questo rischio incombe quando si omette di affiancare alla svolta pastorale il discorso chiaro di san Paolo. La conferenza episcopale tedesca, infatti, postula che nel secondo matrimonio con rito civile debbano essere riconosciuti certi « impegni morali », tra i quali per esempio la fedeltà reciproca, l’esclusività e la responsabilità per l’altro. Per questo la conferenza episcopale pone la domanda se « i rapporti sessuali in questa unione di vita siano sempre e in ogni circostanza da condannare come peccato grave ».
Se guardiamo l’esempio di san Paolo, una svolta pastorale richiede, per poter essere veramente pastorale, una testimonianza inequivocabile del piano di Dio. La Chiesa deve essere quindi molto chiara su questo punto. Si pone perciò la questione: Può la bontà morale di un atto dipendere da una ponderazione dei beni o di « elementi positivi » da raggiungere? O vi sono degli atti « intrinsecamente cattivi », come li ha chiamati il santo papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica « Veritatis splendor »?
La prima era la linea argomentativa della « morale autonoma », che – dopo il dibattito sull’enciclica « Humanae vitae » di Papa Paolo VI – riappare ora sotto nuove vesti. Nella « Veritatis splendor » la teoria della « morale autonoma » è stata respinta con l’argomento che i comandamenti cosiddetti « negativi » (« non commettere adulterio ») non devono essere sottoposti ad una ponderazione dei beni e quindi per questo motivo non possono nemmeno essere relativizzati: « Essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione ‘semper et pro semper’, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo… La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali espressi in forma negativa nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l’inderogabilità di queste proibizioni: ‘Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti:… non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso’ (Mt 19, 17-18) » (n. 52).
E più avanti al n. 81 Giovanni Paolo II continua: « Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti ‘irrimediabilmente’ cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: ‘Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) – scrive sant’Agostino –, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?’ ».
Questa dottrina, da sempre valida, non sarà neanche in futuro messa da parte dalla Chiesa. Ciò che è teologicamente falso, infatti, non può essere pastoralmente giusto. Giovanni Paolo II era dunque certo della « coesistenza e mutuo influsso di due principi, egualmente importanti… Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell’opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L’altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste » (Esortazione apostolica « Reconciliatio et paenitentia », n. 34).
Misericordia e perdono sono sempre donati da Dio come grazia immeritata e illimitata. Si ottiene questa grazia quando c’è il vero pentimento, la conversione, e quando non si permane in situazioni oggettivamente contrarie al piano di Dio. Questo non è solamente valido perché è un’autentica testimonianza della verità del Vangelo, ma perché è bene per l’interessato stesso e corrisponde alla verità della sua vita e perché solo questa verità lo rende libero (Gv 8, 2).

Comprendere ed annunciare come san Paolo
Alcuni episodi dell’ultimo sinodo dei vescovi, tra cui la summenzionata « Relatio post disceptationem », hanno risvegliato in non pochi fedeli preoccupazioni circa il futuro cammino della Chiesa. Senza dubbio possiamo confidare sul fatto che papa Francesco continuerà a sgomberare tali timori. Che sia cosciente della problematica, lo ha dimostrato al termine dell’ultimo sinodo, quando ha parlato della sua missione: « Il papa, in questo contesto, non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore, il ‘servus servorum Dei’, il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo – per volontà di Cristo stesso – il ‘pastore e dottore supremo di tutti i fedeli’ (CIC, can. 749) e pur godendo ‘della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa’ (cf. CIC, cann. 331-334) ».
La Chiesa non sbaglierà strada nel suo agire pastorale e nel suo insegnamento dottrinale, se si atterrà al modello di san Paolo. Pur essendovi stati taluni che sull’Areopago lo avevano deriso e avevano rimandato la discussione ad un’altra volta, Dionigi, Damaris e altri avevano aderito a lui ed erano divenuti credenti (At 17, 32-34). In vari luoghi l’apostolo Paolo ha fondato delle comunità e ha portato la fede sino ai confini della terra. Ciò che seminò accostandosi con circospezione alla mentalità delle persone di quei tempi e annunciando il Vangelo senza timore, fiorisce ancora oggi. Non va però dimenticato che alla fine subì il martirio. Del resto: quando era debole, era allora che era forte (2 Cor 12, 10).
La Chiesa dei nostri giorni può agire allo stesso modo di san Paolo. Deve conoscere gli orizzonti del pensiero dei suoi contemporanei e riallacciarsi ad esso nel suo lavoro pastorale. Deve in seguito però anche trasmettere con coraggio ciò che ha ricevuto dal Signore.
Anche la Chiesa è debole dinnanzi alle forze trainanti di questo mondo che hanno creato una mentalità non troppo diversa da quella cui si trovava davanti san Paolo. Malgrado la svolta pastorale, la Chiesa non riuscirà – come accadde allora a San Paolo – a convincere tutti. E dovrà, a causa dell’annuncio della Parola di Dio, continuamente subire il martirio, anche se davanti ai tribunali dell’opinione pubblica si tratterà, nella maggioranza dei casi, piuttosto di un martirio incruento.
Ma se la Chiesa oggi sente, pensa e agisce come san Paolo − e se, soprattutto, crede, spera e ama come lui – allora sarà forte, nonostante la debolezza delle sue membra. Essendo corpo di Cristo conosce – come Gesù Cristo – ciò che è nell’uomo. E sa anche che non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati. Dopo ben 2000 di storia sotto la guida dello Spirito Santo non dovrebbe essere molto più facile per la Chiesa di quanto lo sia stato per san Paolo credere e confidare che Cristo è la sua forza, qualunque cosa accadrà?
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ANTIOCHIA: DOVE PAOLO IMPARA A FARE IL MISSIONARIO

http://www.rivistamissioniconsolata.it/new/articolo.php?id=2654

ANTIOCHIA: DOVE PAOLO IMPARA A FARE IL MISSIONARIO

EUROPA GENNAIO – 2009 MARIO BARBERO

2000 ANNI DALLA NASCITA DI SAN PAOLO

«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani» scrisse un grande oratore africano dei primi secoli cristiani, Tertulliano, osservando quanto succedeva ai suoi tempi. Questo è ben visibile anche negli Atti degli Apostoli. Dopo la lapidazione di Stefano e conseguente persecuzione contro i discepoli di Cristo, alcuni di essi, per evitare il peggio, fuggirono fino ad Antiochia di Siria (At 11,19), terza città dell’impero romano, dopo Roma e Alessandria, sede del governatore romano, con circa mezzo milione di abitanti greci, siriani, ebrei; incrocio di razze, culture, religioni.
La persecuzione di Gerusalemme è come un vento che investe un giardino di fiori e dissemina il polline lontano. Questi cristiani profughi da Gerusalemme erano così entusiasti della loro fede che anche ad Antiochia continuarono non solo a praticarla, ma anche a diffonderla attorno a sé. Dapprima solo tra ebrei là residenti. Alcuni che erano di Cipro e di Cirene in nord Africa, però, cominciarono a parlare di Gesù anche ai non-ebrei, ai pagani. «Si misero a predicare anche ai pagani, annunziando loro il Signore Gesù. La potenza del Signore era con loro, così che un gran numero di persone credette e si convertì al Signore» (At 11,20-21).
La predicazione del vangelo ai pagani è un passo molto importante nella crescita del cristianesimo: apre una nuova strada. Infatti agli inizi i cristiani di Gerusalemme erano tutti di origine ebraica e sembra pensassero che Gesù era venuto solo per gli ebrei. Fu l’entusiasmo di questi cristiani originari di Cipro e Cirene (abituati cioè a vivere la loro fede ebraica in un contesto più internazionale, a contatto coi pagani) ad aprire l’evangelizzazione verso i non-ebrei (greci o pagani).
In seguito sarà soprattutto Paolo a continuare tale missione; ma è bene notare che l’inizio della missione tra i pagani fu opera di cristiani semplici, senza alcun mandato speciale degli apostoli, ma solo in forza della loro fede; così pure non si sa chi per primo abbia portato la fede cristiana a Roma: con tutta probabilità furono marinai, commercianti, schiavi, che venendo dall’Oriente per primi condivisero la loro fede nella capitale dell’impero; Pietro e Paolo arriveranno più tardi e consacrarono la chiesa con il loro martirio.
Non occorre alcun titolo speciale per essere missionario. La chiesa è sana soltanto se i suoi laici sono evangelizzatori, nella famiglia, nel posto di lavoro, nella vita sociale. I primi e più efficaci missionari sono i genitori cristiani, i quali trasmettono la loro fede ai propri figli con parole e con l’esempio. La chiesa cattolica in Corea fu iniziata da un gruppo di laici che avevano conosciuto la fede cattolica da contatti con studiosi cinesi. In Giappone decine di migliaia di cattolici conservarono e trasmisero la fede ai loro figli, pur essendo rimasti senza sacerdoti per 200 anni.

Frattanto la comunità di Gerusalemme viene a conoscenza che ad Antiochia vi sono alcuni credenti in Gesù. Per raccogliere informazioni di prima mano su quanto sta avvenendo, viene mandato Barnaba, un cristiano di ampie vedute e grande empatia. Contento di quanto vede, egli incoraggia la giovane comunità a restar fedele al Signore e si ferma per aiutare nell’evangelizzazione. Vedendo il grande lavoro, ha un colpo di genio e pensa di chiamare un aiutante, Saulo di Tarso col quale per un anno e mezzo lavorerà ad istruire la comunità. La risposta dei pagani è così entusiasta che il gruppo di credenti in Gesù si impone all’attenzione dell’ambiente circostante: «Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).
In seguito giungono ad Antiochia informazioni sulla carestia che ha colpito la Giudea e quindi i cristiani di Gerusalemme. Con generosa solidarietà la comunità di Antiochia manda aiuti ai fratelli di Gerusalemme: «I discepoli allora decisero di mandare soccorsi ai fratelli che abitavano in Giudea, ciascuno secondo le sue possibilità. Così fecero: per mezzo di Barnaba e Saulo mandarono i soccorsi ai responsabili di quella comunità» (Atti 11,30-31).
Questo quadretto della nascita della chiesa di Antiochia è un gioiello nel rappresentare cos’è la chiesa. La comunità nasce su iniziativa di credenti perseguitati che hanno il coraggio di andare oltre gli usuali confini geografici e culturali: parlano di Gesù ai pagani. La chiesa di Gerusalemme viene in soccorso a questa giovane comunità, mandando Barnaba segno di comunione con Gerusalemme e missionario capace di comprendere e istruire. Barnaba a sua volta cerca l’aiuto di un altro potenziale grande missionario, Saulo. Conseguenza di tale azione comune è la crescita della comunità che viene ora notata e chiamata per nome anche dall’ambiente esterno, «essi sono i cristiani». Conoscendo la difficoltà di Gerusalemme, la comunità di Antiochia manda aiuti: solidarietà, scambio di doni. Da Gerusalemme è arrivata la fede, a Gerusalemme arriva l’aiuto finanziario in tempo di difficoltà. Comunione di fede vuol dire anche comunione di beni.

È anche notevole che Saulo, qui ad Antiochia, per la prima volta fa il missionario in team con Barnaba. Come non vedere in questo la sua preparazione, il suo tirocinio per la missione universale cui sarà inviato proprio dalla chiesa di Antiochia?
«Mettetemi da parte Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (Atti 13,1-4). Sarà la comunità di Antiochia che manda Barnaba e Paolo in missione e tutti i viaggi missionari di Paolo inizieranno e si concluderanno in questa città, in questa chiesa che, essendo nata tra i pagani, sente più forte l’urgenza di evangelizzare i pagani nel mondo.

di Mario Barbero

BENEDETTO XVI: LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080910_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 settembre 2008

San Paolo (4)

LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui.
La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.
Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana.
Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia.

 

OBBEDIENZA E FOLLIA: PAOLO SERVO DI CRISTO, APOSTOLO PER VOCAZIONE – (1999)

http://www.meetingrimini.org/detail.asp?c=1&p=6&id=586&key=3&pfix=

OBBEDIENZA E FOLLIA: PAOLO SERVO DI CRISTO, APOSTOLO PER VOCAZIONE – (1999)

Presentazione della mostra (non trovo la mostra)

Relatori:

Gianluca Attanasio,
in rappresentanza di Mons. Massimo Camisasca,
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari
San Carlo Borromeo di Roma

Paolo Prosperi,
Fraternità Sacerdotale dei Missionari San Carlo Borromeo
di Roma

Marco Bona Castellotti,
Docente di Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Brescia

Attanasio: Monsignor Massimo Camisasca – impossibilitato ad essere qui di persona – mi ha incaricato di leggere il seguente testo, scritto per questa presentazione.

In uno dei suoi ultimi anni di vita, il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, Paolo IV che del convertito di Tarso aveva voluto prendere il nome, rivelò all’angelus che ogni tanto andava a leggersi le pagine del Vangelo che raccontano di san Pietro, per trovare nelle debolezze del principe degli apostoli conforto alle proprie. È così anche per me, e posso fare senza arrossire riferimento a quelle immani figure perché penso che così possa e debba essere per ogni cristiano. Ci sono delle sere in cui il peso delle cose fatte o non fatte, in cui tra tristezza del male proprio o altrui, in cui la complessità della responsabilità sembra schiattarci e impedirci di dormire; preferiamo allora nella notte una luce, una spiegazione, un conforto. Io spesso prendo le lettere di san Paolo, dove trovo meravigliosamente espresse le infinite sfumature dell’animo umano suscitate dalle infinite circostanze della vita. Lo scopo di questa mia riflessione non è fare l’indice di un trattato di psicologia – benché a tal riguardo le lettere di Paolo aprano al lettore attento e interessato la rivelazione di un animo a cui non è mancata nessuna corda espressiva, comprese le più estreme –, vorrei invece soffermarmi su un’altra questione di gran lunga più importante per me: chi è l’uomo preso da Dio? che cosa accade in lui ad ogni livello del suo essere a causa di questa prigionia? che ne è della sua libertà e della creatività e dei limiti, dei peccati, delle smagliature del proprio essere? Tutto è cancellato, si è sopra-vestiti senza che ce ne accorgiamo, oppure tutto rimane come prima illudendoci come visionari che qualcosa in noi sia mutato?

Innanzitutto dunque: chi è l’uomo preso da Cristo?
Anche Paolo si è definito prigioniero di Cristo, ma nell’esperienza della prigionia fisica, vissuta prima in Oriente e dopo a Roma, ha scoperto la differenza tra le due situazioni, tra la semplice prigionia fisica e la prigionia per Cristo. Il prigioniero di Cristo ha accettato tale condizione perché propriamente convinto che sia la strada per la sua libertà, l’unica strada possibile: infatti è l’abbandono ad un altro che ci conosce più di noi stessi. Quando Paolo vicino a Damasco senti quella voce chiamarlo « Saulo », percepì di essere scoperto e scrutato da Uno che sapeva di lui più di quanto lui stesso ne sapesse. « Intimior », intimo mio, dirà sant’Agostino; sia lui che san Paolo hanno in mente il salmo: « Tu mi scruti e mi conosci perché sei Colui che mi ha tessuto nel seno di mia madre, ricamato nelle profondità della terra ».
La prigionia di Gesù non è un atto di annientamento dell’io neppure nelle più grandi esperienze mistiche, come quelle di alcuni santi spagnoli dove tutto sembra, per amore dell’assolutezza che contraddistingue quel popolo, essere piegato al volere di un altro: « moro porché non moro ». Rimane paradigmatica l’esperienza di Gesù, l’umanità è unita alla divinità senza che l’una oscuri o sacrifichi l’altra. Quello che i mistici chiamano annientamento è l’espressione letteraria di un amore assoluto. Ogni amore brama l’identità dell’amante con l’amato (« amada e nell’amado trasformata », diceva san Giovanni della Croce). Ma anche tale ardente desiderio è l’ambito di una passione, non la morte dell’io. La tua volontà sia fatta ma attraverso le condizioni storiche, materiali, psicologiche, temperamentali della mia. Il mio io non viene cancellato ma riceve in tutte le sue fibre, in tutte le sue stratificazioni una nuova finalizzazione.
Per questo i grandi santi sono stati sempre grandi uomini: Paolo, Benedetto, Basilio, Ambrogio, Agostino, Francesco, Domenico, Ignazio, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Vincenzo de Paoli, Camillo de Lellis, Teresa di Calcutta… Ciascuno di loro potrebbe essere per la sua vita umanamente affascinante, e costituire il tema di più romanzi, di molti film, senza dovere inventare nulla. Per questo Gesù quando vuole fare qualcosa di grande che segni epoche intere sceglie uomini e donne che avrebbero potuto guidare Stati, immense imprese di bene o di male; ci sono, è vero, anche piccoli santi con piccoli carismi, che avranno un grande peso per la santità di molti, ma che non hanno potuto portare al regno di Dio sulla Terra quella svolta oggettiva che le grandi personalità hanno realizzato. La dimensione di una personalità non dipende dai chilometri percorsi come sarà per san Paolo, dalle parole dette come sarà per Agostino, dalle opere create come sarà per Vincenzo, Camillo, Teresa di Calcutta, dipende interamente dal modo con cui ha percepito l’umanità propria dentro l’abbraccio di Cristo; così è stato per Teresa di Lisieux, che, nell’ultimo secolo di questo millennio, ha portato tutta l’essenza umana alla semplificazione assoluta del dialogo tra una bambina e il suo creatore.
« Se non ti imprigiono non sarai mai libero », sembra dire Gesù a questi grandi uomini e donne che ho citato. La libertà si manifesta così come l’esperienza di una progressiva liberazione, come liberazione dalle catene della legge per arrendersi a Colui che si è fatto annientare perché noi potessimo essere liberi. È il cuore dell’esperienza personale di Paolo quello che lui chiama con ardimento spropositato « il mio Vangelo ». Questa liberazione totale come il dono germinale che è dentro di noi, è progressiva, e talvolta procede in modo spasmodicamente lento come esperienza: da qui la contraddizione che ogni uomo segnato da Cristo vive quotidianamente sulla sua pelle, ed è proprio qui nel punto di una possibile crepa nella vicenda di ciascuno che si manifesta la forza totalizzante della fede di Paolo e della sua stessa sintesi. Lo stesso sarà per Agostino, che preferirà correre il rischio del predestinazionismo piuttosto che cancellare l’ »etiam peccata », piuttosto che escludere i peccati dal piano di Dio. Così sono nate quello lunghe autobiografiche elencazioni di prove subite da Paolo, e raccontate a più riprese nelle lettere da differenti angolature: colpiti ma non uccisi, in tutte le prove siamo super vincitori perché nulla ci separerà dall’atto con cui Cristo ci ama. E non solo la prova ha un senso, ma anche la debolezza, la sconfitta. Paolo inventa qui una frase che resta nella storia di tutti i tempi: « Poiché la tua potenza si manifesta nella mia debolezza, è quando sono debole che sono forte ». Nulla dunque è magicamente cancellato, nulla censurato ma tutto assume un nuovo peso e una luce nuova, anche il peccato.
Così la realtà personale di colui che è segregato da Cristo per una missione, vive una letizia piena di vigilanza, e il segregato è lieto perché conosce l’irreversibilità di ciò che è accaduto, ma è anche saggiamente nel timore perché non conosce dove la misura, che non può essere misurata da lui, lo porterà, a quali esperienze del limite lo sottoporrà. « Sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni »: è questa forse l’espressione più sconvolgente dell’equilibrio cristiano, il punto più alto dell’esperienza dell’uomo nuovo che Paolo ha illustrato con la sua vita e i suoi scritti. « Le sue fatiche – ha scritto Rossano – sono state paragonabili solo a quelle di Alessandro Magno e di Giulio Cesare, le sue lettere per la bellezza della lingua all’Apologia di Socrate e di Platone o al discorso per la corona di Demostene, ma esse aprono all’uomo prospettive che né Platone, né Demostene potevano immaginare ».
Prosperi: In questa mostra abbiamo anzitutto voluto porre una sfida, una sfida a noi stessi: la sfida di riuscire a cogliere e a fare emergere dai testi che Paolo ha lasciato una persona viva, una persona presente, un’esistenza reale. Per questo, la mostra è tutta costruita su citazioni (accompagnate da commenti) tratte o dalle lettere di san Paolo o dagli Atti degli apostoli, che sono le testimonianze dirette su san Paolo che noi abbiamo. La scelta delle citazioni non è stata generica, bensì precisa e puntuale: abbiamo cercato di soffermarci di più, di trattenerci di più sui passi da cui emergeva più direttamente la sua persona, la sua intimità, il suo temperamento, un temperamento molto complesso, sfaccettato capace degli accenti più estremi.
Questa è stata la scommessa della mostra; in questo senso si capisce anche il significato del logo, dell’immagine guida della mostra. Si tratta di un particolare di un quadro del Greco, Entierro del conde d’Orgaz, una delle pochissime rappresentazioni non stilizzate di san Paolo, raffigurato con gli occhi sgranati, sbigottiti, che fissa Cristo; Cristo però non si vede, è come fuori campo. Abbiamo scelto questo quadro perché si tratta di un uomo vivo, un uomo come noi, a cui accade qualcosa di completamente spiazzante e imprevedibile che gli capovolgerà letteralmente la vita.
Il titolo della mostra può sembrare sibillino e strano, dato che accosta due concetti che sembrano contraddittori, obbedienza e follia; eppure forse queste due parole insieme alle due citate prima, prigionia e libertà definiscono esaurientemente la personalità drammatica e sempre in lotta di quest’uomo. Per questo la parola obbedienza è forse quella che si adatta meglio per definire il rapporto personale, così come è sentito da Paolo, nei confronti di Cristo. Cristo è sempre il Signore per Paolo: quando si legge Paolo sarebbe bello andare al significato originale che hanno le parole per lui. Signore significa padrone, kurios in greco, e per Paolo Cristo è padrone innanzitutto a partire dall’esperienza della sua vita, di quello che gli è successo.
La prima sezione della mostra, che si intitola « Sulla via di Damasco », riguarda appunto l’avvenimento della conversione. Paolo sta andando a Damasco per stanare i cristiani che sta perseguitando e viene improvvisamente sbalzato da cavallo da Cristo, che gli appare; quando racconta questo fatto è significativo che Paolo usi proprio questi termini, « sono stato sconfitto, conquistato da Cristo »: è come una guerra in atto, e questa è la percezione che Paolo avrà sempre di ciò che gli è accaduto e di ciò che significa il fatto cristiano. Nessuno come lui o pochi come lui avevano addirittura odiato Cristo, perché Cristo per un fariseo convinto, radicale come lui, era lo scandalo, la contraddizione più grande che ci potesse essere all’idea di Messia, l’idea del Messia re, trionfatore, Messia conquistatore. Infatti Paolo dirà « scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani ». Eppure proprio lui viene scelto, in un certo senso si più dire che Cristo sembra fare un’eccezione nel suo caso; lui stesso dirà nella prima ai Corinzi « non sono nemmeno degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo ». Cristo entra nella sua vita quasi con violenza, senza preavviso; Paolo dirà « infine è apparso anche a me come a un aborto », dove con la parola « aborto » vuole proprio indicare che è come se fosse stato strappato prematuramente, senza preavviso, rispetto agli altri apostoli che hanno vissuto tre anni con Gesù, che sono stati preparati, mentre invece per Paolo l’incontro è qualcosa di completamente sconvolgente, in un certo senso irripetibile.
Ma proprio qui sta il grande paradosso che è al centro dell’esperienza di Paolo e che accende in lui una gratitudine sterminata: tutte le volte che Paolo racconta della sua conversione sembra quasi incredulo di fronte alla predilezione che Cristo ha avuto per lui, totalmente immeritata. Per questo abbiamo scelto proprio il quadro del Greco come logo della mostra, perché Paolo ha la bocca spalancata e gli occhi spalancati come di fronte a qualcosa di inconcepibile, come se avesse subito un urto; ma questa apparente violenza è il segno di una misericordia inimmaginabile. Il primo dei peccatori scelto per il compito più vasto e più grande tra tutti gli apostoli. Questo sarà il cuore bruciante dell’esperienza di Paolo, e arriverà a determinare anche il suo modo di guardare e di sentire l’evento di Cristo. Infatti la parola che meglio descrive la percezione dell’avvenimento cristiano di Paolo e proprio la parola « caris », che in greco significa grazia. La grazia per Paolo è proprio questo darsi totale di Cristo. Le prime due sezioni, che fanno un blocco unico nella mostra, testimoniano questo, attraverso i contrasti tipici di Paolo: la personalità di Paolo non viene annullata ma viene trapassata dalla presenza di Cristo.
La seconda parte riguarda invece l’esito, il frutto di questa elezione. L’elezione è sempre per il compito, e quanto più esclusiva, come nel caso irripetibile di Paolo, tanto più è per il mondo, tanto più è per tutti, come lui stesso dirà in un modo lapidario: « mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare ad ogni costo qualcuno ». Di qui i due caratteri che abbiamo voluto più mettere in evidenza: anzitutto un’apertura a 360 gradi, indomabile verso ogni tipo di cultura, tale che, storicamente, se non ci fosse stato Paolo, il Vangelo alle Genti – ai pagani – non sarebbe arrivato con l’immediatezza e la forza con cui è arrivato. Paolo era cittadino romano e sapeva il greco benissimo: aveva tutti i requisiti, tutte le conoscenze culturali e anche l’apertura mentale, essendo cresciuto a Tarso, città cosmopolita, per incontrare ogni tipo di persona. L’altro aspetto è il fortissimo e particolarissimo senso della comunità e dell’amicizia che ha Paolo, tanto che l’immagine da lui spesso usata è quella della paternità e della maternità.
Gli ultimi due pannelli, che sembrano a parte rispetto alla mostra, in realtà ne sintetizzano il significato. Il penultimo si intitola « Cristo mio tutto »: qui abbiamo voluto riassumere il fatto che al centro di questa personalità così esplosiva, così varia e anche così contraddittoria nelle sue manifestazioni, ci sia un amore personale per quell’uomo che lo ha scaraventato giù da cavallo. In quest’ottica concreta, esistenziale, va letto il famoso brano del dilemma di San Paolo: « Siccome per me vivere è Cristo, morire è un guadagno, se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero cosa scegliere, sono messo alle strette tra queste due cose, da una parte il desiderio di essere sciolto per essere con Cristo il che sarebbe assai meglio, d’altra parte è più necessario per voi che io rimanga nella carne, per conto mio sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti per il progresso e la gioia della vostra fede ». Quindi è tale l’amore per Cristo che Paolo vorrebbe morire per star sempre con lui. L’ultimo paradosso e proprio questo, se restare significa spendersi per Lui, spendersi come Lui per gli uomini, allora restare è la possibilità più grande.
L’ultimo pannello è una citazione di una frase che Giussani ha detto alla Fraternità San Carlo, citazione che abbiamo voluto mettere a chiusura della mostra perché dice lo spirito e l’intento con cui abbiamo fatto questa mostra: « Strappiamo via la missione, cosa resterebbe di noi? Non resterebbe niente, nel senso che quello siamo non ci sarebbe più, perché l’uomo è la sa vocazione ». La mostra è una provocazione alla nostra persona: guardare Paolo per noi è guardare forse l’esempio più grandioso ed emblematico nella storia del cristianesimo di quello a cui siamo chiamati, di quello a cui ognuno di noi è chiamato, a cui ogni cristiano è chiamato.
Bona Castellotti: Allestendo la mostra su san Paolo, ci siamo accorti di non poter giocare sull’iconografia, perché è un’iconografia molto fissa: infatti, a partire dal III secolo, san Paolo ha un volto molto preciso che è quello del filosofo Plotino, volto che viene preso a prestito e messo a disposizione di questa immagine cristiana e rimane costante. È un volto piuttosto scavato, allungato, con una barba piuttosto fluente e a pizzo, i peli piuttosto radi.
Il percorso della mostra ha dei significati simbolici elementari che sono quelli che scandiscono il percorso anche concettualmente, di per sé molto semplice: il pregio essenziale di questa mostra è quello di aver mantenuto un certo rigore di forme. È quel tipo di linearità, di classicità, di forme, che consente una lettura molto semplice della realtà che si ha di fronte.

S.PAOLO: LA FORZA NELLA DEBOLEZZA (2 CORINZI 12,9) – Da: I.De La Potterie – S. Lyonnet

http://labibbiaelavita.blogspot.it/2013/01/spaolo-la-forza-nella-debolezza-2.html

S.PAOLO: LA FORZA NELLA DEBOLEZZA (2 CORINZI 12,9)

Da I.De La Potterie – S. Lyonnet:  La vita secondo lo Spirito, condizione del Cristiano
AVE 1967 cap. X pp. 313-336

LA LEGGE FONDAMENTALE DELL’APOSTOLATO FORMULATA E VISSUTA DA S. PAOLO: FORZA NELLA DEBOLEZZA – (2 CORINZI 12,9) 1

Le circostanze nelle quali Paolo ha dettato i capitoli brucianti della 2Corinzi2, lo hanno spinto a spiegarsi lungamente su quel ch’era l’apostolato autentico. Le espressioni paoline sono valide anzitutto riguardo a coloro che Il Signore invia personalmente alla sua messe, tuttavia esse si applicano senza alcun dubbio anche ad ogni cristiano che, per Il fatto stesso che al battesimo ed alla confermazione ha ricevuto Il dono dello Spirito ed è stato quindi abIlitato ad essere «testimone del Cristo» (Atti 1,8), riceve da parte sua Il compito di lavorare alla propagazione del Regno di Dio. E tra i numerosi passi dove entra in questione l’apostolato, sembra che in uno, forse Il più confidenziale di tutti, l’Apostolo ci abbia rivelato Il segreto della propria spiritualità, e che insieme abbia formulato in termini particolarmente incisivi quel che potrebbe chiamarsi la magna charta dell’apostolato. Si tratta d’un passo di questo cap. 12, che la Chiesa romana ha scelto per la lettura dell’epistola di una delle sue più antiche liturgie in onore di s. Paolo, quella della Domenica di Sessagesima, in cui la sacra Stazione quaresimale ha luogo sulla tomba dell’Apostolo, nella basIlica di San Paolo fuori le mura.
Noi commenteremo in breve Il versetto in questione , e vedremo come le affermazioni dell’Apostolo si Illuminano alla luce di quel che sappiamo della sua vita, e come esse si inseriscano in una linea precisa di spiritualità biblica.
I- significato generale del passo
Siamo nell’anno 57 o 58 d.C.3. Paolo ha evocato delle grazie d’ordine mistico, «visioni e rivelazioni del Signore», ricevute, egli afferma, «quattordici anni or sono», dunque verso gli anni 43-44, ossia proprio quando inizia Il suo ministero apostolico, quando cioè Barnaba venne a cercarlo a Tarso per condurlo ad Antiochia, dove l’abbondanza delle conversioni richiedeva dei missionari (verso Il 43). Se dunque Paolo «fu rapito fino al terzo cielo» ed «ascoltò parole indicibIli, che ad un uomo non è consentito di ripetere» (vv. 3s), è verosimIle che nel pensiero di Dio queste grazie fossero destinate immediatamente a preparare l’Apostolo alla missione che gli stava per essere affidata.
Comunque sia, a questa prima confidenza egli ne aggiunge un altra, relativa ad una rivelazione d’altro genere, ma strettamente connessa alle precedenti4 e che per lui non fu di minore importanza: «E affinché l’eccellenza stessa di queste rivelazioni non mi insuperbisse, m’è stata posta una spina nella carne, un messaggero di Satana incaricato di fustigarmi perché io non mi insuperbissi!» (v. 7)5.
Quanto al termine misterioso di «spina nella carne», ci si è chiesto da sempre a che cosa alludesse Paolo. A motivo della falsa traduzione della Volgata, che parla di «spina della carne» con un genitivo carnis invece del dativo che presenta Il greco, ed a motivo del significato specifico che Il termine «carne» aveva assunto nel vocabolario teologico ed ascetico, numerosi commentatori latini hanno ritenuto che Paolo avesse inteso indicare delle tentazioni contro la castità, che Il Signore avrebbe permesso per umIliare Il suo apostolo. Tale interpretazione, del resto sconosciuta dai greci, non offre alcuna probabIlità d’essere esatta, ed oggi nessun esegeta la propone piú6. Gli esegeti invece ne propongono in maggioranza un’altra, che tuttavia potrebbe non essere affatto piú probabIle. Giustamente essi notano che questa «spina nella carne» viene designata al versetto successivo come una astheneia, debolezza, e che nell’epistola ai Galati lo stesso termine sembra che indichi una «malattia»: questa immobilizza Paolo in territori in cui egli non aveva previsto di soggiornare, e sarebbe stata per lui l’occasione di fondare delle Chiese «nel paese galata» (Galati 4,13). Tuttavia essi concludono, probabIlmente troppo in fretta, che Il termine presenta lo stesso significato in 1Corinzi 12,8 e perciò che Paolo ha dovuto soffrire d’un male cronico come la malaria, o qualche altra malattia del genere7
La natura di questa «spina nella carne» in realtà importa di meno del suo significato e prima d’invocare un passo in cui niente prova che sia parallelo al primo, è meglio chiedersi anzitutto se Il contesto immediato non potrebbe dare qualche luce. Ora al v.7 troviamo un indicazione preziosa: Paolo vede in questa «spina inserita nella sua carne» un « messaggero di Satana» (alla lettera: un «angelo di Satana»), cioè di colui che per Paolo come per la Bibbia, è per sua essenza «Il nemico del Regno di Dio» «nemico del genere umano», geloso della sua felicità originaria (Sapienza 2,24), colui che ad esempio impedisce all’Apostolo di venire a Tessalonica (1Tess. 2,18), o che «acceca lo spirito degli increduli affinché essi non vedano splendere Il Vangelo della gloria del Cristo» (2Cor 4,4), colui di cui Luca dice che «toglie la Parola dal cuore degli ascoltatori per Il timore che credano e cosí siano salvati» (Luca 8,12). Quale che sia la sua natura concreta, si tratta dunque in ogni caso d’una prova che Paolo considera anzitutto come un ostacolo al suo apostolato 8.
I vv. 9s lo confermano in pieno: essi generalizzano, parlano di «debolezze» al plurale, en astheneiais, ed aggiungono — quasi che Paolo volesse spiegare quel che intende dire con quel termine —: «le offese, le sofferenze, le persecuzioni, le angosce», insomma tutto quel che per Paolo costituiscono le prove consuete della vita apostolica, che egli già aveva enumerato almeno due volte nei precedenti capitoli (4,8ss; 6,4), e che vengono espressamente dette «affrontate in favore del Cristo» (12,10).
D’altra parte questo significato s’accorda in pieno con l’uso paolino del «vocabolario della debolezza»: nel resto del Nuovo Testamento sia Il sostantivo astheneia, sia Il verbo asthenein, sia l’aggettivo asthenes designano quasi sempre un’infermità corporale, una malattia; presso Paolo invece essi hanno quasi sempre un significato «religioso» e designano una debolezza di ordine spirituale, in specie la «debolezza carnale», la «limitazione dell’uomo che ha bisogno dell’aiuto dello spirito»9
Anche se si suppone che Paolo alluda ad una malattia, egli qui la menziona a motivo della condizione di debolezza o d’impotenza in cui viene posto, e quindi costituisce per lui una «spina nella carne».
Paolo rivela che ha chiesto ben tre volte al Signore perché rimuovesse da lui quell’ostacolo (v. 8). La stessa insistenza della preghiera, come quella del Cristo Gesú nell’orto del Getsemani, mostra che l’Apostolo annetteva molta im­portanza a che fosse esaudito. Ebbene, Il Signore gli risponde con un rifiuto. « Tuttavia egli mi ha dichiarato: la mia grazia ti basta» (v. 9), nello stesso senso in cui Paolo nella 1 Corinzi 15,10 aveva detto: « Io sono quel che sono per la grazia di Dio, e la sua grazia nei miei riguardi non è stata senza frutto. Anzi, io ho lavorato piú di tutti loro: oh!, non io, certo, ma la grazia di Dio ch’è in me ».
Il Signore invocato sembra dunque che respinga la preghiera del suo apostolo. In realtà, invece, egli non avrebbe potuto esaudirla piú pienamente. Paolo gli chiede di togliergli questa a spina nella carne», perché egli credeva di scorgervi un ostacolo che limitava l’esercizio della sua missione; Il Signore gli spiegherà che invece quella era una condizione la quale gli permetteva di adempiere senza limiti la sua missione: «Infatti — egli aggiunge — la potenza si díspiega nella debolezza» (v. 9b): la potenza di Dio, che agisce nel suo apostolo e mediante Il suo apostolo raggiunge Il suo «compiersi», la sua «consumazione», secondo Il significato del verbo greco qui usato, teleitai, nella debolezza dello strumento apostolico; questa potenza sembra quasi che abbia bisogno di questa debolezza perché possa esercitare tutte le sue virtualità, conseguire tutti i suoi effetti, insomma, «andare fino al limite di se stessa» 10
Quella che per Paolo era un motivo di dubbio, diventa allora un motivo di fiducia. Perciò si comprende come Paolo possa proseguire: «Di gran cuore dunque, io porrò tutta la mia suffcienza nelle mie debolezze, affinché stia su di me la potenza del Cristo» (v. 9c).
«Io porrò tutta la mia sufficienza»: questo precisamente e Il significato del verbo greco kauchasthai, cosí caro a Paolo; esso evoca molto meno, infatti, la vanteria e la vana gloria, che la suílicienza, quella ad esempio dell’«ebreo» che cerca la sua giustificazione nel compimento d’una legge mentre la nozione paolina di giustificazione mediante la fede lo esclude radica]mente (Romani 3,27) 11. La sola «sufficienza » legittima è quella che l’uomo ripone «nel Signore» (1Corinzi 1,30), oppure in equivalenza, in quel che costituisce la propria debolezza 12.
«Affinché su di me stia la potenza del Cristo»: Il verbo scelto da Paolo è quello stesso che nell’Antico Testamento esprimeva la presenza della gloria del Signore sopra l’Arca dell’Alleanza — per questo motivo chiamata la «Dimora» per eccellenza —, e poi sul Tempio di Gerusalemme, l’unico luogo dove Dio abitasse sulla terra 13; ed infine nel Nuovo Testamento la presenza incarnata della Parola di Dio, com’è detto nel Prologo di Giovanni 1,14: «Il Verbo s’è fatto carne ed ha abitato tra noi, eskenosen en hemin». L’apostolo cosciente della sua debolezza, e nella misura in cui lo è, diviene come un’incarnazione della potenza stessa del Cristo Gesú.
La conclusione è connaturale, e Paolo la tira al v. 10: «Perciò, io mi compiaccio nelle mie debolezze, nelle offese, negli affanni, nelle persecuzioni e nelle angosce, in favore del Cristo; poiché proprio quando sono debole, allora sono forte».
Questo è Il significato generale del passo. L’insegnamento che ne deriva è chiaro per natura. Tuttavia al fine di penetrarne tutta la profondità, non sarà inutIle ricollocarlo nel contesto della vita di Paolo. Questo ne darà un commento molto chiarificatore, come si vedrà.
II gli insuccessi di Paolo
Paolo infatti ha espresso questa legge dell’apostolato in una formula cosí penetrante, perché forse essa gli si rívelò attraverso la sua propria esperienza apostolica. Prima ancora di apprenderla dalla bocca del Signore, egli l’aveva vissuta: e cosí ne confida qualche aspetto in una lettera inviata ai Corinzi, forse perché aveva vissuto tale esperienza in modo speciale quando aveva fondato la loro Chiesa.
Per penetrare lo stato d’animo di Paolo in questo momento, è importante riambientare quella fondazione nella serie di avvenimenti in cui essa si inseriva, e specialmente di ricordare gl’insuccessi ripetuti che l’hanno preceduta.
Nel secondo «viaggio missionario», verso Il 50 d.C., proveniente dall’Asia Minore per accogliere l’invito del Macedone misterioso intravisto in sogno a Troade, Paolo ha finalmente posto Il piede per la prima volta sul suolo dell Europa. Egli predica a FIlippi, dove sfortunatamente guarisce una schiava a posseduta da uno spirito di pitonessa, «la quale a faceva guadagnare molto danaro ai suoi padroni col suo emettere oracoli» (Atti 16,16). Questi padroni a vedendo dIleguarsi la loro speranza di lucro, sequestrano Paolo e SIla » e li a deferiscono agli strateghi della città». Miracolosamente liberati dalla prigione dove erano stati rinchíusi, Paolo e SIla debbono però abbandonare la città (16,40). Arrivati a Tessalonica, «in cui gli ebrei avevano una sinagoga» (17,1), essi conseguono all’inizio un qualche successo, specie presso i proseliti, presso pagani non ancora raggiunti dalla propaganda ebraica, e presso «signore altolocate» (17,4). Ma «gli ebrei, colti da gelosia, radunano in piazza qualche pessimo soggetto, provocano dei disordini e diffondono Il tumulto nella città», e quindi, poiché non possono mettere mano su Paolo e su SIla, s’impadroniscono del loro ospite Giasone, e di qualche fratello, che «trascinano davanti i politarchi» (17,7). Paolo e SIla, vogliono evitare ai cristiani di Tessalonica nuovi incidenti, ed approfittano della notte per fuggire in segreto e raggiungere la vicina Berea, dove – tiene a notarlo Il testo degli Atti – «gli ebrei avevano piú nobIle animo di quelli di Tessalonica» (17,11). Infatti a essi «accolsero la parola con la piú grande premura e a molti di loro abbracciarono la fede, come anche fra i greci, cioè i pagani, delle signore altolocate e un discreto numero di uomini» (17,12). Ma appena gli ebrei di Tessalonica hanno notizia del successo di Paolo, corrono a Berea «per seminare nella massa agitazione e turbolenza» (v. 13). Scrivendo da Corinto alla comunità di Tessalonica, Paolo richiamerà «questa gente che ha messo a morte Il Signore Gesú ed i Profeti, che ci hanno perseguitato, che non piacciono a Dio, che sono nemici di tutti gli uomini, quando ci impediscono di predicare ai pagani per la loro salvezza» (1Tessalonicesi 2,15s). Comunque, per rispetto ai fratelli, Paolo ritiene di non insistere: egli parte di nuovo, e stavolta per Atene.
Paolo qui fa appello a tutte le risorse del suo genio, poiché conquistare al messaggio del Cristo Gesú la capitale intellettuale del mondo antico era una posta troppo importante. Il discorso dell’Areopago infatti è un modello di adattamento: Paolo sembra di non aver mai spinto cosí lontano la preoccupazione di conquistarsi la benevolenza dell’uditorio piú difficIle che vi fosse. Ogni cosa perciò viene considerata con un pregiudizio volutamente favorevole: gli ateniesi hanno eretto tante stele votive in onore di divinità cosí numerose e «sotto ogni aspetto sono i piú religiosi tra gli uomini» (At 17,22); costruendo un altare «al dio ignoto» essi senza ancora saperlo già adoravano colui che Paolo viene ad annunciare (v. 23); per una volta, Paolo rinuncia perfino ai suoi autori preferiti, quelli della Bibbia, ed invoca la testimonianza d’un poeta greco Epaminonda di Cnosso, rafforzato da una citazione di un altro poeta greco Arato (vv. 28s): per Paolo questo caso è unico, insieme alla citazione del medesimo Epaminonda in Tito 1,12. Ebbene, tutti questi sforzi in pratica restano vani e l’insuccesso è totale. Lo prova Il fatto che nonostante qualche conversione ricordata dagli Atti — «Dionigi l’Areopagita, una donna che si chiamava Damaris, ed ancora altre», (v. 34) — Paolo decide di abbandonare la città senza che peraltro vi sia minimamente costretto. Egli di certo ritiene che non v’è niente da fare: per un apostolo la resistenza aperta demoralizza meno dell’indifferenza.
Dunque egli «s’allontana» spontaneamente da Atene (18,1); segue la «via sacra» che passa per Elensi, dove egli naturalmente non si ferma, e raggiunge rapidamente Corinto. É nota la reputazione che nel mondo antico godeva questa città cosmopolita, arricchita dai traffici: korinthiazein, vivere alla corinzia, era passato in proverbio per indicare una condotta dissoluta, e Il quadro dei costumi pagani tracciato nell’epistola ai Romani, da Paolo redatta proprio a Corinto, doveva corrispondere abbastanza bene a quanto egli aveva sotto gli occhi; e d’altronde nella 1Corinzi non sono piú lusinghiere le allusioni sporadiche al passato dei fedeli 14. Restava però l’ambiente ebraico, Il quale tanto piú s’era gelosamente preservato dai contatti corruttori. L’Apostolo dunque fissa la sua residenza proprio là, dove anzi egli ha la buona fortuna di trovare una famiglia già cristiana 15, quella di AquIla e di PriscIlla, ch’erano stati espulsi da Roma in forza dell’editto emanato dall’imperatore Claudio verso Il 49 o 50 d.C. (18,2): «E poiché esercitavano Il medesimo mestiere, egli andò ad abitare con loro e lavorò con loro », impiegando la giornata del sabato a discutere in sinagoga coi frequentatori ebrei e proseliti» (vv. 2s). Quando poi SIla e Timoteo tornano dalla Macedonia con abbondanti elemosine, egli può anche «consacrarsi completamente alla parola, testimoniando agli ebrei che Gesú è Il Cristo» (v. 5).
Ma avvenne che sorse un’opposizione ancor piú forte che altrove, e dopo tanti insuccessi provocò in lui uno «choc». Gli Atti sono espliciti: «Di fronte alla loro opposizione ed alle loro parole bestemmiatrici, Paolo scosse le sue vesti e disse: Il vostro sangue vi ricada sulla testa! Quanto a me, io sono mondo, e da adesso in poi andrò dai pagani» (v. 6). É vero, Paolo aveva compiuto Il medesimo gesto in una occasione analoga prodottasi ad Antiochia (Atti 13,5), e poi lo ripeterà ad Efeso (Atti 20,26). Tuttavia Luca pone quell’imprecazione in bocca a Paolo unicamente nell’episodio di Corinto. E si può bene immaginare quel che significasse un tale grido, e da quale sconvolgimento nell’animo dell’Apostolo fosse provocato, se si pensa a quel che per lui rappresentò l’incredulità d’Israele, alla grande tristezza ed al dolore incessante che ne provava nel cuore, desiderando d’essere anatema egli stesso, separato dal Cristo in favore dei suoi fratelli, quelli della sua stirpe secondo la carne. (Romani 9,2s). Se gli ebrei rifiutavano di credere nel Cristo Gesú, che ragionevole speranza poteva aversi che si mostrasse piú docIle una popolazione pagana tanto poco preparata a ricevere Il messaggio dell’Evangelo? Cosí Paolo sembra deciso ad abbandonare Il campo. Ma gli Atti riferiscono a questo esatto momento16 una «visione del Signore» ch’è chiaramente indirizzata a fargli coraggio: «Una notte in visione il Signore disse a Paolo: Non aver paura. Continua a parlare, non smettere, poiché io sto con te e nessuno ti metterà la mano sopra per farti del male, poiché io in questa città possiedo un popolo numeroso» (vv. 9s).
Allora Paolo, ch’è privo d’ogni umana speranza ed è del tutto conscio della sua debolezza, ripone tutta la sua fiducia unicamente in Dio ed obbedisce alla voce del Signore. E cosí Corinto fu probabIlmente una delle piú fiorenti comunità che l’Apostolo abbia fondato. Il Signore non l’aveva ingannato: «Io in questa città possiedo un popolo numeroso» (v. 10).
E del resto sullo stato d’animo dell’Apostolo quando affrontò l’ambiente pagano di Corinto, lo stesso che poi ha dato in realtà la maggior parte dei membri della giovane Chiesa, abbiamo una confessione che Paolo ha fatto ai medesimi Corinzi. Nella prima epistola che scrisse, e che ci è stata conservata, egli evoca infatti i sentimenti che lo animavano in quel momento: «Quanto a me, fratelli, quando sono arrivato da voi, non sono venuto per annunciarvi la testimonianza di Dio mediante Il prestigio della parola e della sapienza 17 Non ho voluto avere tra voi altra scienza fuorché Gesú Cristo, e questo crocifisso [proprio quello di cui aveva detto poco prima che è un assurdo per i pagani ed uno scandalo per gli ebrei]1 . Io però mi sono presentato a voi debole, timoroso e tremante l9, e la mia parola ed Il mio messaggio niente avevano dei discorsi suadenti della sapienza; si trattava invece d’una dimostrazione dello Spirito e della potenza, affinché la vostra fede fosse basata sulla potenza di Dio, e non sulla sapienza degli uomini» (1Cotinzi 2,1-5).
E veramente Paolo sembra commentare per proprio conto le affermazioni di 2Corinzi 12,9: «La mia potenza si dispiega nella debolezza. Perciò con tutto Il cuore io porrò la mia sufficienza nelle mie debolezze, affínché su di me rimanga la potenza del Cristo».
III la legge della debolezza
nella storia della salvezza
Questa legge generale dell’apostolato tuttavia non si verifica soltanto in un episodio particolare della vita di Paolo; essa ha guidato tutta la «Storia della Salvezza», e tutti i grandi servi di Dio ne hanno avuto esperienza, tutti coloro di cui Dio s’è degnato di «servirsi» per attuare Il suo disegno salvifico.
La storia di Gedeone, nel libro dei « Giudici » cioè dei «liberatori » suscitati da Dio per salvare Il suo popolo, ne offre un esempio particolarmente istruttivo. La Bibbia non si limita a narrare Il fatto, ma ne ricava un insegnamento teologico.
Il Popolo di Dio è giunto finalmente alla Terra promessa. Però l’ha trovata occupata da altri. Esso quindi dovrà conquistarsela a ferro e fuoco. Ma poi le prime vittorie conseguite sembra siano state unicamente un mezzo per consegnare Il Popolo in potere dei suoi nemici. Per punire i suoi peccati infatti «Il Signore durante sette anni aveva consegnato Israele nelle mani dei Madianiti», tanto che per salvarsi da loro, Il Popolo doveva nascondersi «negli anfratti delle montagne, nelle caverne e nei nascondigli» (Giudici 6,ls). La situazione sembrava disperata, e «ridotti ormai ad un’immensa miseria, gli Israeliti gridarono verso Il Signore» (v. 6). Il Signore allora inviò anzitutto un Profeta, Il quale ricordò al Popolo le gesta meraviglio se che un tempo Dio aveva operato in suo favore, e poi lo esortò alla fedeltà (vv. 7-10). Poi l’angelo del Signore apparve a Gedeone mentre questi si accingeva a «trebbiare Il grano nel frantoio per sottrarlo a Madian» (v. 11).
Inizia cosí Il dialogo: «Il Signore è con te, valoroso guerriero! —Di grazia, signore mio, se Il Signore è con noi, da dove viene quel che ci sta succedendo? Dove sono finiti tutti quei portenti che ci hanno raccontato i nostri Padri quando dicevano: « Il Signore non ci ha fatto salire dall’Egitto? » Ed invece adesso Il Signore ci ha abbandonato, ci ha consegnato in potere di Madian!—Allora Il Signore si volse a lui e gli parlò cosí: Vai con la forza che ti anima e salverai Israele dalla mano di Madian! Io, Io ti invio! — Di grazia, riprese Gedeone, ma come salverò Israele? La mia casata è la piú debole di tutto Manasse, e io, poi, sono l’ultimo della casa di mio padre! — Ma Il Signore gli replicò: Io sarò con te, e tu sconfiggerai Madian come se fosse un uomo solo!» (Giudici 6,12-16).
Forte della promessa del Signore, la quale conferma un segno chiesto ed ottenuto, Gedeone si pone all’opera per radunare piú combattenti che può e per affrontare cosí Il nemico. Alla chiamata rispondono in grande numero: 32 mIla uomini! Veramente Dio è con lui. Un esercito simíle non costituisce già una promessa di vittoria? «Egli dunque si alzò di buon mattino insieme a tutto Il popolo che si trovava con lui, e venne a mettere Il campo a En-Harod; l’accampamento di Madian si trovava a settentrione del suo, nella valle ai piedi della collina del Morè» (7,1). Ma allora Il Signore interviene di nuovo «Egli parlò cosí a Gedeone: Il popolo che tu hai con te è troppo numeroso perché io consegni Madian nelle sue mani» (v. 2a). Proprio la potenza dell’esercito, nella quale Gedeone riteneva di avere le sue migliori possibIlità, in realtà costituiva davanti a Dio un ostacolo irrimediabIle. E i Signore ne indica Il motivo: «Israele si glorierebbe contro di me dícendo: Il mio valore mi ha salvato!» (v. 2b). Per attuare Il suo piano salvifico, Dio vuole «aver bisogno degli uomini», ma questi uomini sono unicamente deglí strumenti nella mano di Dio, e bisogna che tutti —cioè essi stessi e poi gli altri—lo sappiano bene. Come ricorderà Paolo, l’apostolato è un’opera integralmente divina: però «noi portiamo questo tesoro in vasi fragIli affinché si veda bene che questa potenza straordinaria appartiene a Dio, e non proviene da noi» (2 Corinzi 4,7)
Sappiamo dei successivi procedimenti di Gedeone per ridurre Il numero dei combattenti. Essi sono poco importanti «Proclama agli orecchi del Popolo: chiunque ha paura e trema, torni indietro! —Tornarono indietro 22 mIla e ne restano 10 mIla. —IL Signore disse a Gedeone: Questo popolo è ancora troppo numeroso…» (vv. 3s). E cosí di seguito, fino alla cifra derisoria di trecento combattenti. «allora Il Signore parlò a Gedeone così: «Con questi trecento uomini Io vi salverò e consegnerò Madian nelle tue mani!» (v. 7). La potenza dello strumento dunque opponeva un ostacolo al Signore; la sua debolezza invece permette al Signore di dispiegare in esso tutta la sua forza.
Il caso di Gedeone è tipico, ma per nulla isolato; esso infatti si rinnova ad ogni pagina della Bibbia e soprattutto nei momenti decisivi. Non parliamo d’Abramo, Il quale parte per un paese sconosciuto senza avere posterità né speranza umana di averne, e quindi si basa unicamente sulla parola di Dio, ed obbedisce a questo medesimo Dio quando gli ordina d’immolargli l’unico depositario delle promesse divine.
Tutto l’episodio di David e di Golia senza alcun dubbio ci impartisce la stessa lezione, come del resto David si preoccupa di formularla in termini molto espliciti: «Tu mi assali con la spada, con la lancia e col giavellotto, mentre io ti vengo contro nel nome di Jahveh Sabaot, Il Dio delle schiere d’Israele che tu hai sfidato. Oggi Il Signore ti consegnerà nelle mie mani… Tutta la terra saprà che esiste un Dio Unico in Israele, e tutta questa moltitudine saprà che Il Signore non dà la vittoria per mezzo della spada né per mezzo della lancia, poiché Il Signore è Il Signore della battaglia ed Egli vi consegna nelle nostre mani» (1Sam 17,45ss).
E piú ancora questa legge sovrintende alla nascita di Mosè e dunque all’avvenimento che domina tutta la storia d Israele. Il «1iberatore » è un fanciullo, condannato a morire prima ancora di nascere (Esodo 1,22), Il quale viene abbandonato in un cesto di vimini sulla corrente d’acqua del NIlo: «la figlia del Faraone scorse Il cesto, mandò la sua serva a raccoglierlo, lo aprí e guardò: era un bambino che piangeva!» (Esodo 2,5s). Come stupirsi allora che questa legge presieda alla nascita del secondo «liberatore», colui del quale Il primo non è altro che Il «tipo», e che Il segno che gli angeli danno ai pastori sia dello stesso ordine: «Troverete un bambino fasciato di pannolini e posto in una mangiatoia» (Luca 2,12)? E questo è nell’attesa del Calvario, dove la suprema debolezza incastonerà la suprema potenza (cfr. 1Corinzi 1,18-25).
Era dunque naturale che Il Cristo Gesú ricordasse questa medesima legge quando costituí i pescatori di GalIlea come «pescatori di uomini». Egli volle che una notte di totale insuccesso precedesse la «pesca miracolosa». Esperienza preziosa, che porrà gli Apostoli in grado di diventare nelle mani di Dio gli strumenti capaci d’operare dei portenti senza per nulla essere tentati di credersene gli autori: «Maestro, abbiamo faticato tutta una notte e non abbiamo preso niente, tuttavia sulla tua parola calerò le reti. Ed avendolo eseguito, essi presero un’enorme quantità di pesci e le loro reti quasi si rompevano…—Allontanati da me, Signore, perché io sono un peccatore! — Ma ormai tu prenderai degli uomini—. Ed allora lasciarono tutto e lo seguirono» (Luca 5,5-11).
IV questa legge nella nostra vita
Se adesso cerchiamo di sapere come nella nostra vita concreta si applicherà in pratica questa legge fondamentale dell’apostolato secondo la quale «la potenza di Dio si dispiega nella debolezza», allora costateremo che Paolo ne scorge ormai una prima applicazione nella selezione che Il Cristo Gesú opera quando chiama i suoi apostoli, anzi nella stessa vocazione cristiana. Alla comunità di Corinto, abbagliata dall’abbondanza dei doni spirituali dai quali era stata gratificata20, Paolo ricorda «Il linguaggio della croce, follía — nel senso di assurdità, di realtà «insensata» — per quanti si perdono, ma per quanti si salvano, per noi, potenza di Dio» (1Corinzi 1,18), e per convincerla di questo egli invita la comunità a considerare se stessa: «Dunque, fratelli, esaminate la vostra chiamata. Non esistono molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti di alta nascita. Ma quel ch’esiste di folle nel mondo, proprio questo Dio ha scelto per confondere i sapienti; quel ch’esiste di debole nel mondo, ecco che Dio lo ha scelto per confondere la forza; quel che nel mondo è di ignobili natali, e quel che viene disprezzato, ecco quel che Dio ha scelto; quel che non è, per annientare quel che è, affinché nessuna carne abbia a glorificarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).
Tale fu Il caso, lo abbiamo visto, di Gedeone, «della casata piú debole di Manasse», ed egli stesso «ultimo nella casa di suo padre» (Giudici 6,15); e inoltre tale fu Il caso di David, Il piú giovane dei figli di Jesse, colui al quale nessuno aveva potuto pensare, né Jesse né Samuele (1 Samuele 16,6-12). E poi in misura molto maggiore fu Il caso dei Dodici Apostoli, ed i Padri della Chiesa quando commentano questi versetti paolini si compiacciono di accentuarlo. Immaginiamo lo stato d’animo di questi pescatori di GalIlea senza alcuna cultura, quando si sentirono chiamati ad evangelizzare Il mondo pagano: «Andate dunque, e fate discepole tutte le genti…» (Matteo 29,19). Niente li preparava a tale missione, e men che mai Il loro appartenere al popolo ebraico disprezzato dai pagani! Perciò essi sull’istante non poterono comprendere, e furono necessarie numerose visioni successive per persuadere Pietro ad entrare nella casa d’un pagano, Il centurione Cornelio, ed a catechizzare la sua famiglia (Atti 10,28). E tuttavia si trattava di un «uomo pio e che temeva Il Signore, Il quale distribuiva larghe elemosine al popolo ebraico e pregava Dio senza interruzione» (Atti 10,2), «al quale tutta la stirpe ebraica rendeva una buona testimonianza» (v. 22). E soltanto la discesa visibIle dello Spirito Santo su questi «incirconcisi» poté spingere Pietro ad amministrare loro Il battesimo (vv. 44-48).
Però, si dirà, non fu cosí per Paolo, l’Apostolo per eccellenza! Sembra infatti difficIle trovare uno strumento umanamente meglio preparato a1 compito che gli era stato affidato: ai suoi doni naturali straordinari si aggiungeva una cultura insieme giudaica e greca, in virtú dell’educazione ricevuta a Tarso ed a Gerusalemme 21.
Senza alcun dubbio, molte qualità umane facevano di Paolo un apostolo nato del mondo pagano. Tuttavia si terrà presente che personalmente egli non si sentiva preparato a convertire i pagani, ma i suoi confratelli ebrei. Egli stesso ce lo rivela. Certo egli ha coscienza che la sua conversione fu insieme una vocazione all’apostolato, ed all’apostolato dei pagani; 22 ma di questo disegno di Dio su di lui egli s’è reso conto solo piú tardi, dopo un tentativo di predicazione agli ebrei di Gerusalemme: «Un giorno mentre pregavo nel Tempio – ci racconta – caddi in estasi; vidi cosi Il Signore che mi parlò: Affrettati, esci subito da Gerusalemme, poiché essi non accoglieranno la tua testimonianza su di me» (Atti 22,17s). A Paolo invece sembra che la sua nomea di persecutore dei cristiani dovrebbe conferire a tale testimonianza un valore singolare: «Signore, risposi, essi però sanno che andando da sinagoga in sinagoga io facevo gettare in carcere e battere con verghe coloro che credevano in te, e quando essi versavano Il sangue di Stefano Il tuo testimone, io ero là, anch’io, d’accordo con coloro che lo uccidevano e custodivo le loro vesti. Egli però mi disse: Vai, io voglio inviarti lontano verso i pagani» (Atti 22,19ss).
Ma soprattutto le qualità umane di Paolo, per manifesta disposizione divina si trovarono costantemente come inefficaci a causa di questa spina confitta nella sua carne, questi «affanni, persecuzioni, angosce», su cui in confidenza rivela qualche cosa ai Corinzi. Anzi sembra che proprio attraverso questi affanni egli sperimentò la sua « debolezza» radicale e dunque la sua «forza», questa «povertà» dello strumento, del resto cosí ricco, di cui Dio aveva bisogno per poter utIlizzarlo con pieno rendimento. Il capitolo che precede evoca precisamente queste «tribolazioni» inerenti alla sua vita apostolica: prove fisiche, certo, «affanni, carcerazioni, fustigazioni, naufragi, travagli e fatiche, veglie frequenti, fame e sete, digiuni ripetuti, freddo e novità »; ma molto di piú, le prove morali tra le quali egli tiene a ricordare esplicitamente l’ostIlità incontrata «da parte degli ebrei suoi compatrioti», che impedivano costantemente la sua predicazione ai pagani, come abbiamo visto 23, che piú volte complottarono contro la sua vita 24, e che riuscirono a farlo incarcerare a Gerusalemme (Atti 21,33); ostIlità, ancora, «da parte dei pagani» come Il procuratore Felice che lo tiene prigioniero a Cesarea per due anni sperando che «Paolo gli avrebbe versato del danaro: e perciò mandava spesso a cercarlo per parlare con lui» (Atti 24,26); ostIlità anche e soprattutto—perché fu la prova piú dolorosa per lui—da parte di coloro ch’egli chiama «i falsi fratelli», gli «amici» che avrebbero dovuto ragionevolmente aiutarlo perché lavoravano tutti con Il medesimo còmpito: cristiani «giudaizzanti», che non acconsentono a rinunciare a Mosè ed accusano Paolo di essere infedele verso le Scritture.
Dio permise infatti che da quando iniziò Il suo ministero e fino alla sua seconda prigionia a Roma, e finché visse, Paolo incontrasse sulla sua strada avversari simIli. Ad Antiochia di Siria, ad esempio, subito dopo Il suo primo viaggio missionario, i suoi nemici lo costringono a salire a Gerusalemme insieme a Barnaba per difendersi davanti gli Apostoli (Atti 15,1-4; Galati 2,1s). Paolo trionfa, non senza pena, e cosí Il principio della libertà cristiana è cosa acquisita almeno per i convertiti dal paganesimo; ma gli avversari non disarmano. Si trovano di nuovo nelle comunità della Galazia, che sono arrivati quasi a separare dal loro apostolo (Galati 1,ó; 4,16-20; 5,4): ed a tale scopo non hanno esitato a denigrare la sua persona, a presentarlo come un apostolo di secondo rango, che non ha conosciuto Il Cristo Gesú, e che in conseguenza ignora la sua vera dottrina, che cerca di «piacere agli uomini» e per farsi ben volere moltiplica le conversioni a scapito della verità dell’Evangelo (Galati 1,10; 2,6 ecc.). A Corinto verso la stessa epoca essi lo hanno accusato di leggerezza e di opportunismo (2 Corinzi 1,17), d’orgoglio e d’arroganza (2 Corinzi 1,24; 3,1), e coi loro sforzi hanno conseguito tale successo, cosí almeno ritiene Paolo, che questi non osa piú tornare nella Chiesa che ha fondato, poiché teme che non vi sarà ricevuto, e perciò manda in avanscoperta Tito perché s’informi della situazione (2Corinzi 7,5ss). A FIlippi, giudaizzanti numerosi e verosimIlmente influenti, sono attestati dalle incisive allusioni della lettera indirizzata a questa comunità (Filippesi 3,2, e molto probabIlmente vv. 18s). A Gerusalemme, presso la Chiesa Madre dove essi sono di casa, la loro presenza fa temere a Paolo ch’essi giungano fino a rifiutare le elemosine ch’egli porta loro: questi doni delle Chiese della gentIlità sono stati raccolti da lui con tanta piú cura in quanto erano per lui Il simbolo dell’unità della Chiesa; perciò un rifiuto avrebbe significato una rottura, che avrebbe potuto frustrare tutto Il suo apostolato 26; e allora egli supplica la comunità di Roma perché «lotti con lui nelle preghiere che essa rivolge a Dio», non soltanto «perché egli eviti gli increduli della Giudea», ma anche «perché l’aiuto ch’egli porta a Gerusalemme sia gradito dai santi» (Romani 15,31); e del resto la narrazione degli Atti dimostra che i timori di Paolo erano ben fondati: poiché appena arriva a Gerusalemme egli si sente rinfacciare la sua attitudine di fronte alla Legge, e deve dare garanzie del suo attaccamento a Mosè 27
A Roma infine,dove egli si trova prigioniero per la prima volta—se la lettera ai FIlippesi è scritta da Roma, come viene ritenuto generalmente, 28 – sappiamo che «la maggioranza dei fratelli, resi coraggiosi nel Signore per Il fatto stesso delle sue catene, osano con audacia di proclamare senza timore la Parola» (FIlippesi 1,14); ma egli aggiunge questa stupefacente notizia: «Certuni, è vero, lo fanno per invidia, in spirito di rivalità… annunciano Il Signore per spirito d’intrigo; le loro intenzioni non sono pure; essi ritengono cosí di aggravare Il peso delle mie catene» (vv. 15-17). E quel che sappiamo della seconda prigionia di Paolo, sempre a Roma, sembra mostrare abbastanza chiaramente che anche là i suoi nemici avevano lavorato con successo 29. Per convincersene, basta leggere la commovente lettera ch’egli, indirizzandosi a Timoteo, Il suo «figlio dIletto», dettò dalla sua prigione poco prima del suo martirio, e che è stata rettamente chiamata Il suo «testamento spirituale». Se egli ringrazia esplicitamente Onesiforo di averlo «spesso confortato», di «non aver arrossito delle sue catene»; se egli si congratula anche delle «attive indagini» svolte dal suo arrivo a Roma per «scoprire» Il luogo dove Paolo stava carcerato (2Timoteo 1,16s), è forse arbitrario concluderne che la comunità cristiana di Roma in quella circostanza non s’era molto preoccupata di colui che subito dopo venerò come suo «fondatore »? 30
Del resto Paolo non deplora soltanto la defezione dei suoi discepoli: «Tu lo sai, tutti quelli dell’Asia, tra cui Figello ed Ermogene, si sono staccati da me» (1,15)… «Dema mi ha abbandonato per amore del mondo… Alessandro Il fonditore mi ha arrecato molto danno… anche tu guardati da lui, perché è stato un nemico accanito della nostra predicazione» (4,10-15)32. E la lamentela che segue riguarda un avvenimento verificatosi poco prima a Roma stessa: «La prima volta che ho dovuto presentare la mia difesa, nessuno mi ha sostenuto, tutti mi hanno abbandonato! Ma ciò non sia imputato a loro colpa!» (v. 16). Strano abbandono, in realtà, e l’Apostolo sente Il bisogno di implorare Il perdono del Signore su chi lo ha operato32
Mai, probabIlmente, egli si è sentito cosí isolato e cosí impotente. Ma nel momento medesimo in cui tutti lo abbandonano, Il Signore gli presenta l’occasione insperata — in questo tribunale pagano in cui, quando si trattava del processo d’un cittadino romano, assistevano sovente i piú alti personaggi e talvolta persino l’imperatore 33— di dare una testimonianza piú solenne che mai sul Cristo Gesú. Infatti egli si affretta ad aggiungere: «Il Signore, invece, mi ha assistito e mi ha colmato di forza, affinché per mio mezzo Il messaggio fosse proclamato, e giungesse alle orecchie di tutti i pagani» (V. 17).
Un’ultima volta dunque, al termine della sua vita, Paolo doveva sperimentare fino a che punto «la potenza di Dio si dispiega nella debolezza». O piuttosto, una penultima volta. Poiché l’ultima avrà luogo qualche mese o qualche settimana piú tardi, quando la spada del boia, ch’egli aveva richiamato nella sua lettera ai Romani tra i segni dell’amore del Cristo Gesú verso di noi (Romani 8,35) 34, lo riunirà realmente e per sempre al suo Maestro, e attraverso Il suo martirio lo costituirà «fondatore», insieme a Pietro, della Chiesa di Roma 35.

Stanislas Lyonnet

NOTE (molte) sul sito

 

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