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I VIZI E LE VIRTU’ : INVIDIA E CONCORDIA / 1

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Celebrazioni/04-05/9-Invidia_Concordia.html

I VIZI E LE VIRTU’ : INVIDIA E CONCORDIA / 1

La storia di Giuseppe l’Ebreo
Il Patriarca Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché lo aveva avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. Per questo i suoi fratelli, lo odiavano e il loro odio si accese ancor più quando Giuseppe raccontò loro e ai suoi genitori i suoi sogni. “Noi stavamo legando i covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio”. E ancora: “Ho fatto un sogno: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”.
Un giorno Giacobbe disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Va’ a vedere come stanno”. Il ragazzo andò. Ma quando essi lo videro complottarono di farlo morire: “Ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: Una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!”. Quando Giuseppe fu arrivato, i suoi fratelli lo spogliarono e lo gettarono in una cisterna vuota, senz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo. Passavano in quel momento alcuni mercanti ed essi tirarono su Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento lo vendettero agli Ismaeliti.
Così Giuseppe fu condotto in Egitto. Poi presero la tunica del fratello, scannarono un capro e l’intinsero nel sangue. Quindi la fecero pervenire al padre con queste parole: “L’abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio”. E il padre suo lo pianse (cf Genesi 37).

Preghiamo con il Salmo 13

Rit.: Sei tu, Signore, il mio rifugio.

Lo stolto pensa: “Non c’è Dio”.
Sono corrotti, fanno cose abominevoli:
nessuno più agisce bene. Rit.

Il Signore dal cielo si china sugli uomini
per vedere se esista un saggio:
se c’è uno che cerchi Dio. Rit.

Non comprendono nulla tutti i malvagi,
che divorano il mio popolo come il pane.
Non invocano Dio: tremeranno di spavento. Rit.

Dio è con la stirpe del giusto,
il Signore è il suo rifugio.
Da Sion viene la salvezza d’Israele! Rit.

IN CHE CONSISTE IL VIZIO CAPITALE DELL’INVIDIA

L’invidia consiste in un sentimento di profondo rammarico che investe una persona nel vedere, o anche solo nel sapere, che un altro è più fortunato, più bravo e più capace di lui: perché il suo successo negli affari è grande, perché è felice, perché la sua carriera è brillante, perché ogni cosa gli va a gonfie vele, anche la salute e la famiglia.
Ciò può investire il mio cuore e la mia mente per qualche momento e questo non ci deve impressionare, ma quando il rammarico si impadronisce di tutto me stesso, tanto da diventare un disappunto astioso e pieno di bile che può sfociare in qualche azione o comportamento non corretto, allora diventa vizio capitale, con strascico di gelosie, rivalità, dispetti e livori. Tutta la persona viene contaminata e uno rischia anche di rovinarsi la salute.
Il desiderio di poter avere anche noi il bene degli altri e la loro fortuna, è disdicevole soltanto quando il successo altrui lo consideriamo un male per noi, quando appunto consideriamo il bene degli altri quale diminuzione della nostra gloria e della nostra superiorità. Allora il cuore si rattrista, sente che ci viene rubata la stima che ci è dovuta, le nostre parole e i gesti diventano vivaci, senza ritegno, e tutto ci crea una malinconia infinita.
Il nostro io, il nostro orgoglio, sono feriti mortalmente. Il mio cuore diventa una fontana che butta in abbondanza odio, maldicenze, mormorazioni, giudizi avventati e perversi.

CHE COSA CI DICE LA BIBBIA

“Un cuore tranquillo è la vita di tutto il corpo, l’invidia è la carie delle ossa” (Pr 14,30).
“Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,23-24).
“Pilato sapeva che i sommi sacerdoti gli avevano consegnato Gesù per invidia” (Mc 15,10).
È chiaro che i mali dello spirito vengono perché non ascoltiamo il nostro Gesù. Dice infatti la Bibbia: “che se uno non segue la sana parola, costui è accecato dall’orgoglio, è preso dalla febbre di cavilli, e da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi” (1 Tm 6,4).

COME SI CAMUFFA L’INVIDIA

Non è cosa rara che l’invidia si presenti come zelo per le cose di Dio. Si tratta di un falso zelo e ciò ci deve far riflettere. Infatti quelli stessi che ardono d’invidia per il bene che altri compiono, pensano e si convincono di agire soltanto loro per la gloria di Dio. Questo succedeva anche nei primi anni della Chiesa e non solo allora. Sappiamo che non sono esenti le comunità religiose e i movimenti. Ecco alcuni esempi.
Molti miracoli e prodigi avvenivano tra il popolo per opera degli apostoli, e andava crescendo il numero di coloro che credevano nel Signore, fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze quando passava Pietro, perché anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro e venisse guarito. Allora il sommo sacerdote e i suoi aderenti, pieni di gelosia e di invidia misero le mani sugli apostoli e li gettarono in prigione (cf At 5,12ss).
Un giorno ad Antiochia di Pisidia, dopo il grande discorso che Paolo tenne nella Sinagoga, molti Giudei e proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la Parola di Dio. Quando i Giudei videro quella moltitudine furono pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo. Ma l’apostolo vista la loro ostinazione disse: “A questo punto ci rivolgiamo ai pagani. Fu allora che i Giudei sobillarono le donne pie e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba” (cf At 13,12ss).
Può, dunque, succedere che l’ardore di zelo per il Signore diventi, in pratica, vera gelosia, una sporca invidia che sfocia in contese che minacciano la vita di una comunità ecclesiale.
Dice San Giacomo: “Dove c’è invidia e ambizione egoistica, là c’è disordine e ogni azione cattiva” (Gc 3,16). E San Paolo scrivendo ai Corinti afferma: “Quando c’è tra voi invidia e discordia, non appartenete forse al mondo? Quando uno dice: Io sono di Paolo, e l’altro: Io sono di Apollo, non vi dimostrate semplicemente uomini?” (1 Cor 3,3ss). Si devono fuggire come la peste: contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, litigi, gelosie, insubordinazioni, al contrario dobbiamo rivestirci del Signore nostro Gesù Cristo.

PREGHIAMO CON IL SALMO 54

Rit.: Porgi l’orecchio, Dio, alla mia preghiera.

Non respingere la mia supplica;
dammi ascolto e rispondimi,
mi agito nel mio lamento,
sono sconvolto al grido del nemico. Rit.

Chi mi darà ali come di colomba,
per volare e trovare riposo?
Io invoco Dio e il Signore mi salva. Rit.

Di sera, al mattino, a mezzogiorno
mi lamento e sospiro ed egli ascolta la mia voce;
mi salva, mi dà pace. Rit.

Don Timoteo Munari SDB

E LA NOTTE FU. LA VERA STORIA DEL PECCATO ORIGINALE – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/212913

E LA NOTTE FU. LA VERA STORIA DEL PECCATO ORIGINALE

È uno dei dogmi più trascurati e negati. Ma per Benedetto XVI è « di un’evidenza schiacciante ». Ne ha parlato tre volte in otto giorni. Senza di esso, ha detto, la redenzione cristiana « perderebbe il suo fondamento »

di Sandro Magister

ROMA, 11 dicembre 2008 – Per tre volte in otto giorni Benedetto XVI ha insistito su un dogma che è quasi scomparso dalla comune predicazione ed è negato dai teologi neomodernisti: il dogma del peccato originale.
L’ha fatto lunedì 8 dicembre all’Angelus della festa dell’Immacolata; il precedente mercoledì 3 all’udienza settimanale con migliaia di fedeli e pellegrini; e poi ancora all’udienza generale di mercoledì 10.
All’Angelus dell’Immacolata papa Joseph Ratzinger si è così espresso:
« Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.
« L’esistenza di quello che la Chiesa chiama peccato originale è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Genesi 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione (cfr. Sapienza 1, 13-14; 2, 23-24). È il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Genesi 3, 15).
« Fin dal principio, dunque, ‘l’eterno consiglio’ – come direbbe Dante (Paradiso, XXXIII, 3) – ha un ‘termine fisso’: la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: ‘piena di grazia’ (Luca 1, 28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. È la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: ‘La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori’ (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha ‘preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato’ (Orazione Colletta).
« Carissimi, in Maria Immacolata noi contempliamo il riflesso della bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo ».

* * *
Ma il papa si è spinto ancora più a fondo, sul peccato originale, nell’udienza generale di mercoledì 3 dicembre.
Ogni mercoledì, da quando è iniziato l’Anno Paolino, Benedetto XVI dedica le sue catechesi settimanali a illustrare la vita, gli scritti, la dottrina dell’apostolo Paolo. Questa era la quindicesima catechesi della serie. Nelle due precedenti il papa aveva spiegato la dottrina della giustificazione e il nesso tra la fede e le opere. Questa volta, invece, il tema di partenza era l’analogia tra Adamo e Cristo, sviluppata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi e più ancora nella lettera ai Romani. Ricorrendo a questa analogia, Paolo evoca il peccato di Adamo per dare il massimo risalto alla grazia salvatrice donata da Cristo.
Come generalmente avviene nelle catechesi del mercoledì, Benedetto XVI si è avvalso di un testo scritto da esperti collaboratori. Ma come già in altre occasioni, se ne è distaccato. Questa volta più ampiamente del solito. Dal terzo capoverso in avanti si è rivolto direttamente ai presenti, improvvisando.
La stessa cosa ha fatto nell’udienza del mercoledì successivo, 10 dicembre. Aveva in mano un testo scritto, ma ha parlato quasi interamente a braccio. E nella parte iniziale è tornato così sul tema del peccato originale:
« Cari fratelli e sorelle, seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull’amore e sulla verità.
« Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo. ».

* * *
Queste improvvisazioni sono un indizio importante per capire il pensiero di Benedetto XVI. Esse contrassegnano le cose che più gli stanno a cuore, quelle che vuole imprimere di più nella mente degli ascoltatori.
Il peccato originale, questo dogma oggi così trascurato, è una di queste verità che papa Ratzinger sente il bisogno di rinverdire.
E il motivo l’ha spiegato ai fedeli così, nella catechesi del 3 dicembre, quella più diffusamente dedicata al tema, riprodotta integralmente qui di seguito:

ADAMO E CRISTO: DAL PECCATO ORIGINALE ALLA LIBERTÀ

DI BENEDETTO XVI

Cari fratelli e sorelle, nell’odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della lettera ai Romani (5, 12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita… Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Corinzi 15, 22-45). Con Romani 5, 12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull’umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull’umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull’umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5, 20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.
D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l’incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Romani 5, 12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.
Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento.
Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l’altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell’egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: « C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio » (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.
Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una « seconda natura » che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l’uomo. Così anche l’espressione solita: « questo è umano£ ha un duplice significato. « Questo è umano » può voler dire: quest’uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma « questo è umano » può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell’essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.
Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l’essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell’antichità questa idea implicava l’opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall’origine dell’essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire.
Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se in tale concezione la visione dell’essere è monistica, si suppone che l’essere come tale dall’inizio porti in se il male e il bene. L’essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l’evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell’essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell’essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male, e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.
E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c’è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l’essere non è un misto di bene e male; l’essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c’è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell’essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell’uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all’altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l’uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell’evoluzionismo, non possono dire che l’uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l’uomo è sanabile. E il libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 nella Vulgata). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell’Avvento con l’antico popolo di Dio: « Rorate caeli desuper », stillate cieli dall’alto. E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l’ignoranza di Dio, la violenza, l’ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

 

INDAGINE SUI DIRITTI DELL’UOMO (il testo è su San Paolo)

io in materia di diritti dell’uomo ne so poco, giuridicamente, non conosco l’autore, tuttavia vi presento ugualmente l’articolo, vedete voi se è interessante, per me tutto quello che riguarda San Paolo mi interessa, lo metto sotto teologia morale, non voglio creeare altr categorie, già ne ho messe troppe, dal sito:

http://www.dirittidelluomo.org/dh-3i.html

INDAGINE SUI DIRITTI DELL’UOMO

Genealogia di una morale

di Stefano Vaj

PARTE TERZA
Dal diritto naturale ai diritti dell’uomo

S. Paolo (3, I)

L’importanza di Paolo di Tarso nello svilupparsi del nascente cristianesimo e di conseguenza per tutta la storia umana futura, appare a prima vista enorme. Da un lato per la prima volta in S. Paolo l’insegnamento si trasforma, proseguendo nella direzione imboccata dal vangelo di Giovanni, in teologia, e la Legge in teoria morale. Dall’altro, e conseguenzialmente, la figura di Paolo di Tarso è assolutamente centrale nel dispiegamento delle potenzialità della nuova eresia ebraica e soprattutto nella svolta costituita dalla sua cattolicizzazione.
La stessa universalità del messaggio cristiano, che abbiamo visto implicita nel «messianismo compiuto» che esso comporta, viene addirittura attribuita talvolta ad esclusivo merito del pensiero paolino, a fronte del passo evangelico «Non prendete il cammino dei pagani, disse Gesù ai suoi discepoli, e non entrate in una città di Samaritani; andate piuttosto verso le pecorelle perdute della casa d’Israele» (Matt., 10, 5). In questa linea, Russell scrive: «Il cristianesimo da principio fu predicato da Ebrei a Ebrei, quasi si trattasse di un giudaismo riformato. S. Giacomo, e in misura minore S. Pietro, desideravano che esso restasse in questi limiti e avrebbero potuto prevalere, se non fosse stato per S. Paolo, deciso ad ammettere nella Chiesa i gentili senza richiedere loro la circoncisione e la sottomissione alla legge mosaica. (…) Il cristianesimo, per opera di S. Paolo conservò gli elementi attraenti delle dottrine ebraiche, escludendo quelle che i gentili trovavano più difficile assimilare» (1).
Certo è che S. Paolo dà una spinta decisiva all’universalizzazione della Chiesa nascente, spinta di cui rimane memoria negli Atti degli Apostoli sul piano pratico e nelle Epistole sul piano teorico: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e pervengano alla conoscenza della verità. Poiché Dio è unico, ed unico è anche il mediatore tra Dio e gli uomini, il Cristo Gesù» (I Tim., 2, 4-5). Con lui l’universalismo implicito e necessario del cristianesimo viene ad essere oggetto di predicazione in quanto tale e diventa una prassi. Ad esso si unisce una «degiudaizzazione linguistica» delle categorie religiose monoteiste che le rende progressivamente accettabili in una civilizzazione romana della decadenza già del resto «preparata» dall’orientalismo, dal manicheismo, dallo gnosticismo, dal sincretismo misticheggiante (2). È tutt’ora aperta la discussione sull’importanza rispettiva dell’influenza che esercitarono su Paolo lo stoicismo e la dogmatica rabbinica – alla quale stessa la dottrina stoica non era certo ignota, almeno a partire dall’epoca del Libro dei Maccabei (3). Michel Villey, ad esempio, sostiene la tesi di un influsso determinante di Atenodoro Calvo, discepolo di Posidonio e suo concittadino (;comunque, erano provenuti proprio da Tarso Zenone, la famiglia di Crisippo, Antipatro, Archidamo (4).
In ogni caso, l’uso che egli fa delle categorie del pensiero precristiano è profondamente trasformato. Se S. Paolo propone ai fedeli una tabella di vizi e di virtù che ricalca modelli stoici (Philip., 4, 8), mentre i catechismi morali dello stoicismo popolare ponevano l’adorazione degli dèi come uno dei doveri umani, per l’apostolo non sono i doveri religiosi del cristiano alla stregua dei doveri familiari e sociali, ma tutti i doveri si innestano nella sottomissione al Signore, perché tutto ciò piace al Signore (Coloss., 3, 18). L’appello alla coscienza come fonte della legge naturale è comune anche a Seneca; ma in Paolo la coscienza non è coscienza in senso puramente psicologico, ma responsabilità di fronte ad un Dio personale, così come la legge naturale che nella.coscienza viene scoperta non è le ??µa?, le pulsioni, gli «appetiti» ricercati e studiati naturalisticamente dalla filosofia pagana (5), ma le «inclinazioni naturali» di significato etico-metafisico che riempiranno poi tanta filosofia cristiana del diritto naturale (6). Così, i temi della t???? e della d??a, centrali nella teoria paolina dell’etica naturale (Rom., 1), per come sono sviluppati non possono in alcun modo essere ricondotti a precedenti orfici o stoici. E anzi ormai chiaro che «wenn er deshalb; wie in Röm., I, 18-23; die Urzeit berücksichtigt, greift er auf rabbinische Vorstellungen züruck» (7). Parimenti, il diritto naturale discende ora da Dio e dalla creazione, e non dal «mondo», ??s??, concetto questo insopportabilmente panteista; non descrive più il modo in cui le cose vanno ma esprime un comando divino «non scritto» – altra traslazione di senso dallo jus ex non scripto (lo jus civile di produzione non comiziale) e dai ??µ?? ???a??? (le norme iscritte nella «costituzione materiale» delle città e delle civiltà greche; cfr. Antigone) – che richiede osservanza all’uomo.
D’altra parte, con S. Paolo si apre un processo di compenetrazione del cristianesimo con la cultura ambiente che solo poté portare ad un’idea di diritto naturale in senso stretto, distinto non solo dal diritto positivo ma anche dalla Legge divina – con cui condivide peraltro l’autore -, presupposto questo necessario della deteologalizzazione totale del concetto, che ha condotto al giusnaturalismo illuminista ed ai Diritti dell’Uomo nel loro darsi come razionalità pu ra. E portare altresì ad una idea del diritto naturale tale da poter fondare, in analogia con la posizione giusromanistica di colui che agisce in quanto «ha lo jus», diritti soggettivi naturali dell’individuo.
In questo senso vanno le esortazioni di S. Paolo all’«onestà naturale pagana» che non solo non è in contrasto con la Legge divina, ma in cui anzi i cristiani devono primeggiare: «modestia vestra nota sit omnibus» (I Cor., 10, 32). Dal che le esortazioni a seguire le regole d’uso in materia di rapporti matrimoniali (I Tim., 5, 14; Tit., 2, 5), ad evitare le frodi e a seguire il sentimento giuridico prevalente (Tit., 2, 10), all’obbedienza muliebre (Eph., 5, 22-23), alla moralità corrente secondo i modelli pagani (Philip., 4, 8). Da qui anche la notissima fondazione teorica e riconoscimento teorico-pratico del politico, resi possibili da un lato con una separazione inedita dell’aspetto giuridico-organizzativo da quello sacrale all’interno della prima funzione; dall’altro con una sottoposizione genetica del potere politico alla volontà divina, che se lo «eteronomizza», gli permette di assumere uno status cristiano e di conservare una certa legittimità e competenza (8).
Infine S. Paolo, che sottolinea come Cristo con la Redenzione abbia restaurato la fraternità naturale tra tutti gli uomini spezzata dal peccato (Eph., 2, 11-18), introduce il principio, gravido di sviluppi futuri, che il marito deve «riconoscere il diritto» della moglie, il padre quello dei figli, il padrone quello dei servitori (Eph., 5, 25; Eph., 6, 4; Coloss., 3, 18).
Con la riflessione paolina dunque il diritto naturale cessa di essere un principio razionale che può solo essere conosciuto dal saggio attraverso l’uso della filosofia, ma diventa un’inclinazione, certo indagabile razionalmente, ma che parla innanzitutto al cuore dell’uomo, è testimoniata dalla sua coscienza, giacché esso ormai si è interiorizzato, non è più ordine cosmico ma principio normativo, onde non rappresenta più un invito all’amor fati, ma un imperativo morale diretto: «Infatti, quando dei pagani privati della legge compiono naturalmente le prescrizioni della legge, questi uomini, senza possedere la legge, tengono a se stessi luogo di legge; mostrano la realtà di questa legge iscritta nel loro cuore, di cui è prova la testimonianza della loro coscienza, così come i giudizi interiori di biasimo o di lode che portano gli uni sugli altri» (Rom., 2, 14-17). E l’accoglimento della legge naturale è un momento necessario dell’accoglimento della legge divina lato sensu (I Cor., 11, 17) (9).

Stefano Vaj

Publié dans:teologia - morale |on 14 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

3.3. Il dono del Figlio e le sue implicazioni morali, secondo le epistole paoline e altre (Pontificia Commissione Biblica)

dal sito:

http://www.jesus.2000.years.de/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_20080511_bibbia-e-morale_it.html

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

BIBBIA E MORALE

RADICI BIBLICHE DELL’AGIRE CRISTIANO

3.3. Il dono del Figlio e le sue implicazioni morali, secondo le epistole paoline e altre 

3.3.1. Il dono di Dio secondo Paolo

53. Per l’apostolo Paolo la vita morale non si comprende se non come una risposta generosa all’amore e al dono di Dio per noi. Infatti Dio, volendo fare di noi i suoi figli, ha inviato il suo Figlio e ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre (Gal 4,6; cf. Ef 1,3-14), affinché non camminiamo più prigionieri del peccato, ma ‘secondo lo Spirito’ (Rm 8,5); “Poiché se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25).

I credenti sono perciò invitati a rendere grazie costantemente a Dio (1 Ts 5,18; cf. Ef 5,20; Col 3,15). Quando Paolo li esorta a vivere una vita degna della loro chiamata, lo fa sempre mettendo di fronte ai loro occhi il dono immenso di Dio per loro, perché la vita morale non trova il suo vero e pieno senso se non è vissuta come una offerta di se stessi per rispondere al dono di Dio (Rm 12,1).

3.3.2. L’insegnamento morale di Paolo

54. Nei suoi scritti Paolo insiste sul fatto che l’agire morale del credente è un effetto della grazia di Dio che lo ha reso giusto e che lo fa perseverare. Perché Dio ha perdonato a noi e ci ha resi giusti, egli gradisce il nostro agire morale che dà testimonianza della salvezza operante in noi.

a. L’esperienza dell’amore di Dio come base della morale

55. Ciò che fa nascere la morale cristiana non è una norma esterna bensì l’esperienza dell’amore di Dio per ciascuno, una esperienza che l’apostolo vuol ricordare nelle sue lettere affinché le sue esortazioni possano essere comprese e accolte. Egli fonda i suoi consigli ed esortazioni sull’esperienza fatta in Cristo e nello Spirito senza imporre nulla dall’esterno. Se i credenti devono lasciarsi illuminare e guidare dall’interno e se le esortazioni e i consigli non possono far altro che chiedere loro di non dimenticare l’amore e il perdono ricevuti, la ragione consiste nel fatto che essi hanno sperimentato la  misericordia di Dio nei loro confronti, in Cristo, e che essi sono intimamente uniti a Cristo e hanno ricevuto il suo Spirito. Si potrebbe formulare il principio che guida le esortazioni di Paolo: quanto più i credenti sono guidati dallo Spirito tanto meno c’è bisogno di dare loro regole per l’agire.

Una conferma del procedimento di Paolo si presenta nel fatto che egli non inizia le sue lettere con esortazioni morali e non risponde direttamente ai problemi dei suoi destinatari. Mette sempre una distanza fra i problemi e le sue risposte. Riprende le grandi linee del suo Vangelo (per es. Rm 1-8) e mostra come i suoi destinatari devono sviluppare il loro modo di comprendere il Vangelo e poi arriva progressivamente a formulare i suoi consigli per le diverse difficoltà delle giovani chiese (per es. Rom 12-15).

È possibile domandarsi se Paolo anche oggi scriverebbe in questa maniera, se è vero che una maggioranza dei cristiani forse non ha mai fatto l’esperienza della generosità infinita di Dio nei loro confronti e si trovano piuttosto nella situazione di un cristianesimo puramente ‘sociologico’.

In questo contesto si pone pure un’altra domanda: se, cioè, nel passare dei secoli si sia creato un distacco troppo grande fra gli imperativi morali, presentati ai credenti, e le loro radici evangeliche. In ogni caso, è oggi importante formulare di nuovo il rapporto fra le norme e le loro motivazioni evangeliche, per far meglio comprendere come la presentazione delle norme morali dipende dalla presentazione del Vangelo.

b. Il rapporto con Cristo come fondamento dell’agire del credente

56. Ciò che determina per Paolo l’agire morale non è una concezione antropologica, cioè una certa idea dell’uomo e della sua dignità, bensì il rapporto con Cristo. Se Dio giustifica ogni persona umana mediante la fede sola, senza le opere della Legge, ciò non avviene affinché tutti continuino a vivere nel peccato: “Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso?” (Rm 6,2). Ma la morte al peccato è una morte con Cristo. Troviamo qui una prima formulazione del fondamento cristologico dell’agire morale dei credenti, fondamento espresso come unione che implica una separazione: uniti a Cristo, i credenti sono ormai separati dal peccato. Importante è l’assimilazione dell’itinerario dei credenti a quello di Cristo. In altre parole: i principi dell’agire morale non sono astratti ma vengono piuttosto da un rapporto con Cristo che ci ha fatti morire insieme con lui al peccato: l’agire morale è direttamente fondato sulla unione con Cristo e sull’inabitazione dello Spirito, dal quale esso viene e di cui è espressione. Così, questo agire non è, fondamentalmente, dettato da norme esteriori, ma proviene dal forte rapporto che nello Spirito connette i credenti a Cristo e a Dio.

Paolo trae anche implicazioni morali dalla sua affermazione unica e caratteristica che la Chiesa è il “corpo di Cristo”. Per l’apostolo questo è più che una semplice metafora e raggiunge uno status quasi-metafisico. Siccome il cristiano è membro del corpo di Cristo, commettere fornicazione è attaccare il corpo della prostituta al corpo di Cristo (1 Cor 6,15-17); siccome i cristiani formano l’unico corpo di Cristo, la varietà dei doni dei membri deve essere usata in armonia e con mutuo rispetto e amore, dando speciale attenzione alle membra più vulnerabili (1 Cor 12-13); celebrando l’Eucaristia, i cristiani non debbono violare o trascurare il corpo di Cristo, arrecando offesa ai membri più poveri (1 Cor 11,17-34; cf. sotto, le implicazioni morali dell’Eucaristia, nn. 77-79).

c. Comportamenti principali verso Cristo Signore

57. Dato che il rapporto con Cristo è tanto fondamentale per l’agire morale dei credenti, Paolo chiarisce quali sono i giusti comportamenti nei confronti del Signore.

Non frequentemente, ma in due testi conclusivi degli scritti paolini si dice che bisogna amare il Signore Gesù Cristo: “Se qualcuno non ama il Signore, sia maledetto!” (1 Cor 16,22) e “La grazia sia con tutti quelli che amano il nostro Signore Gesù Cristo con amore incorruttibile” (Ef 6,24).

È chiaro che questo amore non è un sentimento inoperante, bensì deve concretizzarsi in azioni. La concretizzazione può venire dal titolo più frequente di Cristo, quello di ‘Signore’. La denominazione ‘signore’ è opposta a quella di ‘schiavo’, al quale compete il servire. Sappiamo pure che ‘Signore’ è un titolo divino passato a Cristo. Difatti i cristiani sono chiamati a servire il Signore (Rm 12,11; 14,18; 16,18). Questo rapporto dei credenti con Cristo Signore influisce fortemente nei loro vicendevoli rapporti. Non è giusto comportarsi da giudice di un servo che appartiene a questo Signore (Rm 14,4.6-9). I rapporti fra quelli che, nella società antica, sono schiavi e sono signori, vengono relativizzati (1 Cor 7,22-23; Fm; cf. Col 4,1; Ef 6,5-9). A uno che è servo del Signore conviene, per amore di Gesù, servire quelli che appartengono a questo Signore (2 Cor 4,5).

Dato che con ‘Signore’ è passato un titolo divino a Cristo, possiamo osservare che gli atteggiamenti del credente anticotestamentario nei confronti di Dio passano pure a Cristo: in lui si crede (Rm 3,22.26; 10,14; Gal 2,16.20; 3,22.26; cf. Col 2,5-7; Ef 1,15); in lui si spera (Rm 15,12; 1 Cor 15,19); lui viene amato (1 Cor 16,22; cf. Ef 6,24); a lui si ubbidisce (2 Cor 10,5).

L’agire giusto che corrisponde a questi atteggiamenti nei confronti del Signore, si può desumere dalla sua volontà che si manifesta nelle sue parole ma specialmente nel suo esempio.

d. L’esempio del Signore

58. Le istruzioni morali di Paolo sono di diverso genere. Egli dice con grande chiarezza e forza quali comportamenti sono perniciosi ed escludono dal regno di Dio (cf. Rm 1,18-32; 1 Cor 5,11; 6,9-10; Gal 5,14); si riferisce raramente alla legge mosaica come modello di comportamento (cf. Rm 13,8-10; Gal 5,14); non ignora i modelli morali degli stoici – ciò che gli uomini del suo tempo hanno considerato come buono e cattivo; inoltre trasmette alcune disposizioni di Cristo su problemi concreti (1 Cor 7,10; 9,14; 14,37); e si riferisce pure alla “legge di Cristo” che dice: “Portate i pesi gli uni degli altri!” (Gal 6,2).

Più frequenti sono i riferimenti all’esempio di Cristo che è da imitare e da seguire. In modo generale Paolo dice: “Diventate i miei imitatori come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11,1). Esortando all’umiltà e a non cercare solo il proprio interesse (2,4), ammonisce i Filippesi: “Abbiate fra di voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù!” (2,5) e descrive l’intero cammino dell’abbassamento e della glorificazione di Cristo (2,6-11). Presenta pure come esemplare la generosità di Cristo, che si fece povero per renderci ricchi (2 Cor 8,9), e la sua dolcezza e mansuetudine (2 Cor 10,1).

Paolo mette specialmente in rilievo la forza impegnativa dell’amore di Cristo, che raggiunge il suo compimento nella passione. “Poiché l’amore del Cristo ci sospinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor 5,14-15). Seguendo Gesù non è più possibile una “vita propria” secondo i propri progetti e desideri ma solo una vita in unione con Gesù. Paolo afferma per se stesso una tale vita: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Questo atteggiamento si trova anche nell’esortazione della lettera agli Efesini: “Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio a lui gradito” (Ef 5,2; cf. Ef 3,17; 4,15-16).

e. Il discernimento della coscienza guidato dallo Spirito

59. Anche se Paolo chiede poche volte ai credenti di discernere, lo fa in modo tale da far capire loro che tutte le decisioni devono essere prese con discernimento, come  dimostra l’inizio della parte esortativa della lettera ai Romani (Rm 12,2). I cristiani devono discernere, perché spesso le decisioni da prendere non sono affatto evidenti e palesi. Il discernimento consiste nell’esaminare, sotto la guida dello Spirito, ciò che è migliore e perfetto in ogni circostanza (cf. 1 Ts 5,21; Fil 1,10; Ef 5,10). Chiedendo ai credenti di discernere, l’apostolo li rende responsabili e sensibili alla voce discreta dello Spirito in loro. Paolo è convinto che lo Spirito che si manifesta nell’esempio di Cristo e che è vivo nei cristiani (cf. Gal 5,25; Rm 8,14), darà loro la capacità di decidere che cosa sia conveniente in ogni occasione.

SAN PAOLO – SULLA CARITÀ (testo originale francese, traduzione mia, teologia)

testo originale francese, traduzione mia, dal sito: Biblio-domuni, percorso per il ritrovamento del testo:

corso di teologia,
Théologie morale : La Charité
Michel Labourdette op (année 1959 – 1960)
Seconde partie du cours concernant les vertus théologales affectives. Secunda-Secundae q. 23-46:

http://biblio.domuni.org/

Si tratta quindi di un corso di teologia già fatto, nel testo sono evidenti gli inserimenti discorsivi; io utilizzo la Bibbia Cei e la sua traduzione, il testo francese è leggermente differente, non è la « Bible de Jerusalem » che conosco, naturalmente le differenze sono di versione e non di sostanza; forse è bene guardare comunque al testo originale ed alla impostazione grafica, è utile perché -  per non prendere troppo « spazio » sul blog – io devo togliere gli « spazi » che ci sono nel testo e lo chiarificano, « spazi » tra una preposizione e l’altra;

B – SAN PAOLO – SULLA CARITÀ

Non ci sono epistole di Paolo che non abbiano parole sulla carità; ma nella maggior parte, la carità è una tema più o meno sviluppato, molte volte ripreso. Io noto solamente qualche grande punto caratteristico:
« del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. » (Ts 11,3, cfr 5,6). Che cosa è questa carità?
1.
È soprattutto l’amore di cui Dio ci ama, amore che è al principio di tutta l’economia della salvezza, ossia di tutto il grande disegno che è stato rivelato pienamente in Cristo.
« Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti, con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia
Che ci ha dati nel suo figlio diletto » (Ef 1,3-6)
Accanto a Dio, l’agape è il principio di una liberalità tutta gratuita, che si manifesta in tutti gli effetti della carità di Dio, fino al più eclatante: il Cristo, Figlio di Dio, liberato dalla morte per noi, è, per così dire, la prova obiettiva di questo amore, di cui, d’altronde, la garanzia ci è donata interiormente nello Spirito Santo:
« La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora a stento si trova che sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi: » (Rm 5, 5-8)
Questo Spirito, presenza attiva dell’amore di Dio in noi, ci assimila al Cristo, figli come lui ed eredi:
« E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. » (Gal 4, 6-7).
2.
La carità è, dunque, anche, l’amore di cui noi amiamo Dio precisamente come un Padre. Perché se lo Spirito riempie i nostri cuori dell’amore del quale Dio ci ama, e realizza la sua presenza attiva nei nostri cuori, così suscita la nostra risposta: l’amore filiale che ci fa invocare il Padre e ci mette in comunicazione intima con lui, facendo, che in definitiva, tutto non può realizzare che il nostro bene:
« La scienza gonfia, mentre la carità edifica. Se qualcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto – in termini biblici: è amato da Dio, è conosciuto da lui come un amico (1Cor 8,1b-3)
Del resto noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Perché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. » Rm 8, 28-29)3.
Ed ecco perché la stessa carità è anche l’amore con il quale amiamo i fratelli, amore che impara alla scuola di Dio:
« Riguardo l’amore fraterno, voi non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri » (1Ts 4,9)
Ed è bene, perché è ancora un grande mistero che questa carità fraterna, quella stessa della edificazione della Chiesa, cioè del Corpo di Cristo, di cui precisamente è il legame. Qui sarebbe necessario citare troppo; è, come voi sapete, uno degli apporti più personali di San Paolo, una delle pietre miliari del suo pensiero; là dove San Giovanni mette davanti l’esempio di Cristo e del suo comandamento nuovo, San Paolo invoca il mistero di Cristo e della Chiesa: Qualche testo è sufficiente ad ricordare questo tema particolarmente studiato oggi:
« Al contrario, vivendo  secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto  il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità. » (Ef 4, 15-16).
Ecco, una nuova città, è la città di Dio, che si costruisce così e che chiama ad avere dei rapporti completamente nuovi, un amore, un’amicizia, caratteristiche de quella società:
« Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo. » (Ef 2, 19-20).
Fino là, c’è il popolo di Dio, Israele e le Nazioni; ma il Cristo ha ucciso l’odio, superate queste divisioni, riunendo i due popoli in uno solo, cioè chiamando tutti gli uomini, Giudei, Greci e barbari (Ef 2, 14-17). Ed ecco la grande ed essenziale « cosa » essa è l’amore:
« Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma quello degli altri, Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù: » (Fil 2, 1-5). « Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo (Col 3, 14-15).
Io non mi fermo al grande testo, celebre, l’Inno alla carità (1Cor 13). Esso è troppo conosciuto perché parlarne in generale possa essere utile e uno studio dettagliato ci porterebbe troppo lontano; voi lo farete da soli, voi stessi, e, in tutti i casi, io lascio a voi l’esegesi. Voi sapete che  abbiamo discusso la questione di sapere se questo è altro che la carità fraterna. Si tratta di questa, sicuramente, direttamente; ma se si intende come una semplice attitudine morale, si resterebbe, evidentemente, molto al « di qua » del testo di Paolo; qui, ancora, si tratta del mistero della carità che è presente, proposto esplicitamente da uno dei suoi lati, ma che implica tutte le sue dimensioni e la sua profondità. Questa carità che sorpassa tutti i carismi, è il legame [lien in francese= legame, quello che unisce]  della perfezione, il legame di tutto il Corpo di Cristo, essa è la « via » (una via che sorpassa tutto – 1Cor 12,31) insegnato da Cristo e per il quale noi imitiamo Dio.
« Fatemi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. » (Ef 5, 1-2).
E questa idea di sacrificio a strappato a San Paolo una espressione che farà problema,   l’influenza di questa espressione è stata grande nella riflessione cristiana:
« Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne… » (Rm 9,3)
Ed infine, questa carità, nel suo ruolo d’unione e di assimilazione a Cristo, e con la comunione di tutti i fedeli, ha un sacramento:
« …e il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane noi , pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10, 16-17)

Publié dans:temi - la carità , teologia - morale |on 2 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

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