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IL DIALOGO NELLA BIBBIA

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/06-Dialogo_nella_Bibbia.html

IL DIALOGO NELLA BIBBIA
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Oggi si parla molto di dialogo. Ma cosa ci dice la Bibbia a riguardo di questa parola, divenuta molto di moda? Il termine è di origine greca e la parola diàlogos è del tutto assente. Esiste invece il verbo, dialégomai, che compare tredici volte con diverso valore… Gesù usa abitualmente la forma dell’asserzione autoritativa: “in verità (amen) vi dico” (rafforzata nel quarto Vangelo: “In verità, in verità vi dico”). Quando poi si confronta con i farisei e i dottori della legge, più che una discussione nasce regolarmente un diverbio. Sicché non si vede proprio come si possa presentare Gesù come l’antesignano del “dialogo” nel senso moderno del termine.

Dialogo e fede
Verso la metà del nostro secolo la parola “dialogo” nella mentalità comune diventa emergente e quasi mitica: il termine viene caricato di sentimenti, di attese, di problematiche che la portano molto lontano dalla sua valenza primitiva. Il fenomeno concerne soprattutto il discorso religioso nel mondo cattolico…
A sentire certi pronunciamenti sembra che si sia identificato nel “dialogo” l’intera fede cristiana, sicché il “dialogare” sarebbe già per se stesso obbedire alla missione fondamentale di predicare il Vangelo; in realtà il credente deve avere il nous di Cristo; cioè la sua mentalità, la sua visione di Dio e dell’universo, la sua capacità di cogliere il senso di ogni cosa entro il disegno del Padre. “Credere” vuol dire guardare la realtà con gli occhi del Risorto…
Chi è investito di questa luce superiore è in grado di contemplare il disegno che è stato pensato e voluto per questo ordine di provvidenza. Chi invece ne è privo, non cogliendo il disegno unificante di Dio, non può esaurire l’intelligibilità di nessun esistente, perché ogni esistente in concreto è “vero” solo in quanto è inserito nella “unitotalità” del progetto di Dio ed è finalizzato ad esso.
Senza dubbio, possiamo dialogare su molte cose, ma su ciò che davvero conta e importa nella nostra vita, il cristiano non può svendere la sua fede. Per esempio, non sul significato dell’universo, non sull’uomo che ha come sua indole propria di essere immagine di Cristo, non sul matrimonio che è annuncio e figura del mistero sponsale che connette la creazione al Creatore, non sull’amore, sulla giustizia, sulla bellezza, e sul fondamento ultimo di questi valori.
Ascoltare su questi temi i discorsi di coloro che ignorano Cristo e la sua causalità esemplare e finale nei confronti di ogni essere, è pressappoco come ascoltare i giudizi su un’esecuzione musicale di chi fosse sordo dalla nascita o le disquisizioni di chi è sempre stato cieco sul cromatismo di un maestro della pittura. Lo si può anche fare, ma soltanto per ragioni di cortesia, senza alcuna speranza che i “dialoghi” di questo genere abbiano esiti per qualche aspetto plausibili.

Abbiamo lo spirito di Dio
A questo proposito è illuminante la dottrina di San Paolo, che ha affrontato il problema nel secondo capitolo della prima lettera ai Corinzi, dove mette in opposizione il credente e il non credente. La sua risposta è chiara, e la riportiamo senza commenti: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale (psychicòs) non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale (pneumaticòs) invece giudica ogni cosa…”. È da notare che l’impermeabilità alla luce dello Spirito può sussistere anche in persone che sono “psichicamente” – cioè naturalmente, culturalmente, scientificamente – molto dotate.
Questo spiega come ci siano uomini intellettualmente acutissimi, illustri pensatori, ricercatori e letterati insigniti del premio Nobel, che in materia di religione, di antropologia, di etica enunciano dottrine e opinioni che sono remotissime dalla verità e dalla saggezza.
Mentre si potrà trovare molta verità e molta saggezza in persone senza istruzione e senza notorietà; persone alle quali lo Spirito di Dio si è compiaciuto di infondere un’eccezionale capacità di vedere le cose nel loro senso ultimo e nel loro valore.

La sapienza della fede
L’uomo davvero realizzato – cioè l’uomo secondo il progetto di Dio – è l’uomo “pneumatico”. Là dove c’è una volontaria ed esplicita chiusura all’azione dello Spirito spesso si determina anche un logoramento delle facoltà così dette “naturali”.
La perdita della fede molte volte dà luogo a qualche scardinamento della ragione, che diviene premessa per qualche aberrante giustificazione di comportamenti lesivi della dignità umana. In particolare, non ci si può attendere dai non credenti qualche comprensione sostanziale di quelle realtà che più direttamente attengono al cuore del “mistero nascosto dai secoli in Dio”, mistero che adesso nell’atto di fede noi conosciamo “con ogni sapienza e intelligenza”. Per esempio, non ci si può aspettare che comprendano qualcosa circa l’Incarnazione del Figlio di Dio e la redenzione del mondo attraverso il suo sacrificio; circa la vita intima di Dio come vita trinitaria; circa la Chiesa, sposa del Signore risorto e suo “corpo”, che cammina in questa nostra storia di errori e di peccati senza sviarsi e senza contaminarsi; circa la presenza del “Corpo dato” e del “Sangue sparso” sotto i segni eucaristici; circa il valore del matrimonio indissolubile e della verginità consacrata; circa la positività e anzi la preziosità del dolore.

Gioire della verità, sempre
Chi è davvero “non credente” è, in questi discorsi, in uno stato di analfabetismo quale che sia la sua forza speculativa naturale e l’ampiezza della sua erudizione. Sulla terra dell’incredulità noi siamo dunque “stranieri e pellegrini” e non dobbiamo cullarci nell’illusione che ci si possa intendere facilmente con tutti.
Ma non per questo dobbiamo sfuggire a ogni contatto e a ogni discorso che non sia tra coloro che sono “illuminati”. Si può e si deve sempre cercare di dialogare con tutti, nella speranza di trovare qualche parziale concordanza di vedute e qualche frammentario riconoscimento dei valori cristiani. Se li troveremo, non potremo che rallegrarci.
Ma sarà meglio persuadersi che non potrà essere troppo facile, né troppo frequente la convergenza sia pure parziale tra coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena variopinta e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Signore Gesù, crocifisso e risorto, Figlio unico e vero del Dio vivente, Salvatore dell’universo…
Nell’ipotesi che anche nel “non credente” si possano dare spazi di luce e singole persuasioni di origine “pneumatica” – cioè dovuti all’azione insindacabile e imprevedibile dello Spirito – allora si può ancora sostenere la totale impossibilità e la totale inutilità di un “dialogo”? La consapevolezza che l’ordine attuale di provvidenza possiede una dimensione soprannaturale intrinseca e onnicomprensiva, ci induce a pensare che nessun uomo di fatto esistente sia abbandonato entro i confini della pura “naturalità”.

Gesù, la verità che salva
Ogni uomo appartiene al Signore Gesù prima ancora di essere stato raggiunto e trasformato dal suo Spirito.
Ogni uomo riproduce in sé in qualche modo il suo volto prima ancora di partecipare alla vita divina. Ogni uomo ha già dentro di sé il fondamento oggettivo di una sua immancabile tensione e vicinanza al Figlio di Dio incarnato. Inoltre la verità rivelata storicamente ha permeato e permea di sé ogni conoscenza umana e ogni cultura, anche quella che con più tenacia si vuol qualificare “profana” o “laica”, cioè dichiaratamente lontana e indipendente da ogni visione cristiana.
Il detto famoso di Benedetto Croce “Non possiamo non dirci cristiani” è ambiguo, serve alla confusione delle idee e favorisce il travisamento dell’avvenimento evangelico. Però possiede una sua verità, nel senso che oggi non è possibile per nessuno sottrarsi ai fermenti concettuali e spirituali della rivelazione. Questo è particolarmente evidente per coloro che appartengono alla nazione italiana e sono fatalmente segnati dalla sua tradizione, dal suo patrimonio letterario e artistico, dalla sua civiltà.
Infine non è da sottovalutare la libera azione illuminante che è propria dello Spirito Santo. Le intelligenze umane, anche se di solito non arrivano a percepirlo, sono spesso “pneumatizzate” quando si pongono sinceramente al servizio della verità. Tutto ciò è enunciato dal celebre aforisma caro a San Tommaso: “Ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”. È un’affermazione ai nostri fini molto preziosa, perché riconosce non solo l’esistenza di un irradiamento “pneumatico” che va ben oltre l’area dell’appartenenza ecclesiale, ma anche che possiamo e dobbiamo ascoltare ogni parola di luce, una volta riconosciuta come tale, da qualsiasi bocca venga pronunciata.
Per un vero dialogo, occorre affermare anzitutto che non c’è alcuna possibilità di “dialogo” tra la fede e l’incredulità, considerate come atteggiamenti mentali e spirituali totalmente estranei e tra loro antitetici. Del resto, dall’incredulità come tale – intesa come piena negazione di ogni rapporto con Cristo – non abbiamo niente da prendere o da imparare.
Il non credente invece può farsi portavoce inconsapevole dello Spirito; nel qual caso noi ci dobbiamo porre in ascolto. Questo non vuol dire che tutto ciò che egli dice provenga dallo Spirito Santo, poiché dallo Spirito Santo proviene soltanto ciò che è vero, vale a dire, ciò che realizza il disegno del Padre e il Vangelo di Cristo. Si rende perciò necessario un atteggiamento vigile, che sappia accuratamente esaminare e vagliare.
In conclusione, tutta la riflessione sul “dialogo” va preservata da ogni faciloneria e da ogni leggerezza.
La posta in gioco è altissima e la questione è seria: ci può essere il rischio, con una spensierata apertura scambiata per generosità, di non riconoscere più Cristo come l’unico maestro di vita e l’unico salvatore dell’uomo; ma ci può essere anche il rischio, in nome di una improvvida intransigenza dottrinale, di disimparare ad amare: ad amare tutti gli uomini senza eccezione, i quali per il fatto di essere stati creati, sono chiamati ad aver parte alla gioia divina e restano sempre immagini vive dell’unico Signore dell’universo.

Card. Giacomo Biffi

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SUL SITO IMMAGINI:

1  Chi dialoga non solo deve essere profondamente convinto di quello che dice, ma deve anche sforzarsi di vivere ciò che dice. Solo così potrà provare la verità delle sue idee. (Foto di G. Viviani)
2  Il dialogo autentico rifugge dalle maschere, dai tentativi di nascondersi e di rifiutare l’incontro con l’altro. ( Foto Daniele Dal Bon)
3  Gesù si presenta all’uomo con un’esclusività totale. Lui non è una verità fra le tante, o una possibilità di realizzazione dell’uomo fra le molte che gli sono proposte, Gesù si annuncia come la verità e l’unica salvezza per l’uomo.

Il san Paolo di Tommaso d’Aquino : Un vaso ricolmo di sapienza

dal sito:

http://difenderelafede.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8648220

Il san Paolo di Tommaso d’Aquino

Un vaso ricolmo di sapienza

Presso l’Accademia San Tommaso d’Aquino in Vaticano si è svolto un convegno su san Tommaso lettore di san Paolo. Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni.

di Inos Biffi

Tommaso parte dalla definizione che di Paolo è data negli Atti degli apostoli, dov’è denominato « vaso di elezione » (9, 15), e dallo sviluppo di questa immagine ne disegna – in apertura al suo commento paolino – la figura spirituale.

« Il beato Paolo viene chiamato vaso di elezione, e quale vaso egli fosse risulta da ciò che si dice nel Siracide:  « Come un vaso d’oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose » (50,9). Fu un vaso d’oro per lo splendore della sua sapienza. Perciò il beato Pietro gli rende testimonianza dicendo:  « Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto secondo la sapienza che gli è stata data »(i Pietro, 3 15) ».
 
  »Egli fu inoltre saldo nella virtù della carità (…). Nella Lettera ai Romani, dice:  « Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire ecc. potrà mai separarci dall’amore di Dio » (8, 38) ».

« E di che genere fosse questo vaso risulta da quanto esso elargiva:  insegnò i misteri dell’eminentissima divinità che riguardano la sapienza, come appare da 1 Corinzi:  « Tra i perfetti parliamo di sapienza »(2,6); elogiò inoltre altamente la carità, in 1 Corinzi, 13; insegnò agli uomini le varie virtù, come risulta da Colossesi, 3, 12:  « Rivestitevi dunque come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine »".

Volgendo l’attenzione su quanto Paolo, quale « vaso » di elezione, contenesse, Tommaso premette il rilievo che, come « ci sono vasi di vino, vasi di olio e altri vasi diversi secondo il genere », così ci sono « uomini (…), riempiti divinamente con diverse grazie, come si dice in 1 Corinzi:  « A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro il linguaggio della scienza… »(12,8) ».
 
Ora, Paolo fu ripieno del liquido prezioso che è « il nome di Cristo, del quale nel Cantico dei Cantici si dice:  « Profumo olezzante è il tuo nome »(1, 2) ». Perciò si dice « Egli è il vaso eletto per me affinché porti il mio nome ». E infatti si mostra tutto ripieno di questo nome, come si afferma nell’ Apocalisse:  « Inciderò su di lui il mio nome (3,12) ».

E l’Angelico precisa:  « Ricevette questo nome nella conoscenza dell’intelletto, secondo quanto si dice in 1 Corinzi:  « Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso » (2,2). Inoltre ebbe questo nome nei suoi affetti, conformemente a Romani:  « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (8,35); e a 1 Corinzi:  « Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema » (16,22). Si tenne poi stretto a lui in tutto il suo modo di vivere. Per cui in Galati dichiara:  « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (2,20) ».

Ma Paolo non solo fu personalmente colmo del nome di Cristo, ma fu anche destinato a portare questo nome agli altri. « Era infatti necessario – scrive Tommaso – che il nome fosse portato perché si trovava lontano dagli uomini ». Quel nome « è lontano da noi a causa del peccato », « a causa dell’oscurità dell’intelletto ». Ora « il beato Paolo portò il nome di Cristo anzitutto nel corpo, imitando la sua condotta e la sua passione, secondo Galati « Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo »(6,17); e poi nella sua bocca, e questo risalta dal fatto che nelle sue lettere nomina spessissimo Gesù Cristo:  « Poiché la bocca parla della pienezza del cuore » come si asserisce in Matteo (12, 34) ».

In particolare, Paolo – paragonato dal Dottore Angelico alla colomba che recò all’arca del diluvio il ramoscello d’ulivo, simbolo della misericordia – « recò quel ramoscello alla Chiesa, allorché espresse in molti modi la sua virtù e il suo significato, mostrando la grazia e la misericordia di Cristo. Per cui in 1 Timoteo dice:  « Appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità »(1,16) ».

E al riguardo l’Angelico annota:  « Come tra le Scritture dell’Antico Testamento nella Chiesa si usano più frequentemente i Salmi di Davide, che dopo il peccato ottenne il perdono, così nel Nuovo Testamento si usano le lettere di Paolo, che ottenne il perdono, perché i peccatori siano innalzati verso la speranza ».

Per Tommaso le lettere di Paolo contengono soprattutto un messaggio di misericordia e di speranza, ed è la ragione per la quale la Chiesa le legge spesso. Ma egli aggiunge un’altra ragione ed è che nei Salmi e nelle Lettere paoline « è contenuta quasi l’intera dottrina della teologia – fere tota theologiae continetur doctrina ».

Paolo, inoltre, portò il nome di Cristo « non solo ai presenti, ma anche agli assenti e ai futuri, trasmettendo il senso della Scrittura », esattamente coincidente con il nome di Cristo.

È proprio « in questo ufficio consistente nel portare il nome di Dio » una triplice « eccellenza » di Paolo.

In primo luogo, un’eccellenza quanto alla « grazia dell’elezione ». Paolo è chiamato « vaso di elezione » – in virtù, quindi, di una scelta divina avvenuta « prima della creazione del mondo » (Efesini, 1, 4). In secondo luogo, un’eccellenza quanto « alla fedeltà »:  « Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore » (2 Corinzi, 4, 5).

Infine, un’eccellenza singolare nella sua fatica apostolica:  lui stesso in 1 Corinzi afferma:  « Anzi ho faticato più di tutti loro ». Per questo viene espressamente definito « un vaso di elezione per me ».

(L’Osservatore Romano – 25 giugno 2009)

sulla sapienza, dalla « Fides et Ratio » Lettera Enciclica, Giovanni Paolo II – 1998

sulla sapienza, stralcio dal libretto che ho a casa:

LETTERA ENCICLICA
FIDES ET RATIO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I RAPPORTI
TRA FEDE E RAGIONE

CAPITOLO II

CREDO UT INTELLEGAM

« Acquista la sapienza, acquista l’intelligenza » (Pro 4, 5) 21-23 San Paolo

21. La conoscenza, per l’Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta osservazione dell’uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa sua condizione, l’uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come « essere in relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate. Lo sforzo della ricerca non era esente, per l’Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore » (cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.

22. San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando un’argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l’Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il creato gli « occhi della mente » possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua « potenza » e la sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell’uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell’importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell’uomo. Secondo l’Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l’origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l’uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno. Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell’uomo, quando narra che Dio lo pose nel giardino dell’Eden, al cui centro era situato « l’albero della conoscenza del bene e del male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l’uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell’orgoglio illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata dall’avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora l’Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di Cristo è stata l’evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s’era imprigionata.

23. Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata. L’inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12, 10). L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza. La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella « follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.

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