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« L’EVANGELIZZAZIONE NON È OPERA DI SPECIALISTI, MA DELL’INTERO POPOLO DI DIO »

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« L’EVANGELIZZAZIONE NON È OPERA DI SPECIALISTI, MA DELL’INTERO POPOLO DI DIO »

Udienza di Benedetto XVI ai Vescovi di recente nomina partecipanti al Convegno promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 20 settembre 2012 (ZENIT.org) – Alle ore 12 di questa mattina, nella Sala degli Svizzeri del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in Udienza i Vescovi di recente nomina partecipanti al Convegno promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti.
***
Cari Fratelli nell’episcopato,
Il pellegrinaggio alla Tomba di san Pietro, che avete compiuto in questi giorni di riflessione sul ministero episcopale, assume quest’anno particolare rilievo. Siamo infatti alla vigilia dell’Anno della fede, del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e della tredicesima Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema: «Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana».
Questi eventi, ai quali si deve aggiungere il ventennale del Catechismo della Chiesa Cattolica, sono occasione per rafforzare la fede, di cui, cari Confratelli, voi siete maestri ed araldi (cfr Lumen gentium, 25). Vi saluto ad uno ad uno, ed esprimo viva riconoscenza al Cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, anche per le parole che mi ha rivolto, e al Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali.
Il ritrovarvi insieme a Roma, all’inizio del vostro servizio episcopale, è un momento propizio per fare esperienza concreta della comunicazione e della comunione tra di voi, e, nell’incontro con il Successore di Pietro, alimentare il senso di responsabilità per tutta la Chiesa. In quanto membri del collegio episcopale, infatti, dovete sempre avere una speciale sollecitudine per la Chiesa universale, in primo luogo promuovendo e difendendo l’unità della fede.
Gesù Cristo ha voluto affidare la missione dell’annuncio del Vangelo anzitutto al corpo dei Pastori, che devono collaborare tra loro e con il Successore di Pietro (cfr ibid., 23), affinché esso raggiunga tutti gli uomini. Ciò è particolarmente urgente nel nostro tempo, che vi chiama ad essere audaci nell’invitare gli uomini di ogni condizione all’incontro con Cristo e a rendere più solida la fede (cfr Christus Dominus, 12).
Vostra preoccupazione prioritaria sia quella di promuovere e sostenere «un più convinto impegno ecclesiale a favore della nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede» (Lett. ap. Porta fidei, 7). Anche in questo siete chiamati a favorire e alimentare la comunione e la collaborazione tra tutte le realtà delle vostre diocesi.
L’evangelizzazione, infatti, non è opera di alcuni specialisti, ma dell’intero Popolo di Dio, sotto la guida dei Pastori. Ogni fedele, nella e con la comunità ecclesiale, deve sentirsi responsabile dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo. Il Beato Giovanni XXIII, aprendo la grande assise del Vaticano II prospettava «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale ed una formazione delle coscienze», e per questo – aggiungeva – «è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Potremmo dire che la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio, che il Beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell’umana attività (cfrDiscorso di chiusura del I periodo del Concilio, 8 dicembre 1962).
Gli effetti di quella nuova Pentecoste, nonostante le difficoltà dei tempi, si sono prolungati, raggiungendo la vita della Chiesa in ogni sua espressione: da quella istituzionale a quella spirituale, dalla partecipazione dei fedeli laici nella Chiesa alla fioritura carismatica e di santità. A questo riguardo non possiamo non pensare allo stesso Beato Giovanni XXIII e al Beato Giovanni Paolo II, a tante figure di vescovi, sacerdoti, consacrati e di laici, che hanno reso bello il volto della Chiesa nel nostro tempo.
Questa eredità è stata affidata anche alla vostra cura pastorale. Attingete da questo patrimonio di dottrina, di spiritualità e di santità per formare nella fede i vostri fedeli, affinché la loro testimonianza sia più credibile. Allo stesso tempo, il vostro servizio episcopale vi chiede di «rendere ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15) a quanti sono alla ricerca della fede o del senso ultimo della vita, nei quali pure «lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina» (Gaudium et spes, 22).
Vi incoraggio, perciò, ad impegnarvi affinché a tutti, secondo le diverse età e condizioni di vita, siano presentati i contenuti essenziali della fede, in forma sistematica ed organica, per rispondere anche agli interrogativi che pone il nostro mondo tecnologico e globalizzato. Sono sempre attuali le parole del Servo di Dio Paolo VI, il quale affermava: «Occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo… partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra di loro e con Dio» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 20). A questo scopo è fondamentale il Catechismo della Chiesa Cattolica, norma sicura per l’insegnamento della fede e la comunione nell’unico credo. La realtà in cui viviamo esige che il cristiano abbia una solida formazione!
La fede chiede testimoni credibili, che confidano nel Signore e si affidano a Lui per essere «segno vivo della presenza del Risorto nel mondo» (Lett. ap. Porta fidei, 15). Il Vescovo, primo testimone della fede, accompagna il cammino dei credenti offrendo l’esempio di una vita vissuta nell’abbandono fiducioso in Dio. Egli, pertanto, per essere autorevole maestro e araldo della fede, deve vivere alla presenza del Signore, quale uomo di Dio.
Non si può essere, infatti, al servizio degli uomini, senza essere prima servi di Dio. Il vostro personale impegno di santità vi veda assimilare ogni giorno la Parola di Dio nella preghiera e nutrirvi dell’Eucaristia, per attingere da questa duplice mensa la linfa vitale per il ministero.
La carità vi spinga ad essere vicini ai vostri sacerdoti, con quell’amore paterno che sa sostenere, incoraggiare e perdonare; essi sono i vostri primi e preziosi collaboratori nel portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Ugualmente, la carità del Buon Pastore vi farà attenti ai poveri e ai sofferenti, per sostenerli e consolarli, come anche per orientare coloro che hanno perduto il senso della vita.
Siate particolarmente vicini alle famiglie: ai genitori, aiutandoli ad essere i primi educatori della fede dei loro figli; ai ragazzi e ai giovani, perché possano costruire la loro vita sulla salda roccia dell’amicizia con Cristo. Abbiate speciale cura dei seminaristi, preoccupandovi che siano formati umanamente, spiritualmente, teologicamente e pastoralmente, affinché le comunità possano avere Pastori maturi e gioiosi e guide sicure nella fede.
Cari Fratelli, l’Apostolo Paolo scriveva a Timoteo: «Cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace…Un servo del Signore non dev’essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare» (2 Tm 2,22-25). Ricordando, a me e a voi, queste parole, imparto di cuore a ciascuno la Benedizione Apostolica, perché le Chiese a voi affidate, spinte dal vento dello Spirito Santo, crescano nella fede e la annuncino sui sentieri della storia con nuovo ardore.

SOLO UNA CHIESA UMILE E POVERA PUÒ IRRADIARE LA BONTÀ DI DIO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27778?l=italian

SOLO UNA CHIESA UMILE E POVERA PUÒ IRRADIARE LA BONTÀ DI DIO

I laici al giorno d’oggi hanno una immensa “nostalgia di Dio”

CASTEL GANDOLFO, martedì, 30 agosto 2011 (ZENIT.org).- Otto Neubauer, direttore dell’Accademia per l’Evangelizzazione della Comunità Emmanuel a Vienna, ha parlato sabato scorso alla presenza di Papa Benedetto XVI all’incontro del “Ratzinger Schülerkreis” delle difficoltà nel processo di apprendimento che la Comunità Emmanuel ha affrontato nel suo impegno per la nuova evangelizzazione.
Proprio il tema della nuova evangelizzazione, al centro del convegno tenutosi in questa occasione a Castel Gandolfo e che ogni anno dal 1978 riunisce gli ex allieviche con il Papa ottennero il dottorato o l’abilitazione nelle università di Bonn, Münster, Tubinga e Ratisbona, guiderà le riflessioni della XIII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi in programma per l’??ottobre del prossimo anno. Già quest’anno, tuttavia, il Papa si incontrerà con i rappresentanti della Chiesa che operano nell’ambito della nuova evangelizzazione in Occidente.
Nella sua relazione dal titolo “Una sempre nuova evangelizzazione. Quando la povertà è un ponte verso la gente”, Neubauer ha descritto il rapido progresso di secolarizzazione in atto in Europa come una opportunità per diffondere liberamente il Vangelo e comprendere nuovamente la “kenosis” (abbassamento) del Signore verso i più poveri e derelitti.
Il direttore dell’Accademia per l’Evangelizzazione a Vienna ha quindi spiegato che la povertà potrebbe diventare l’anello di congiunzione necessario tra i non credenti cosiddetti “secolari” e i cristiani. Da un lato, infatti, la negazione di Dio può portare alla luce l’immensa fame di Dio. Perché “la vera e più grande povertà in Europa, è la drammatica impossibilità ad essere accettati e amati, la mancanza di esperienza della bontà di Dio”.
Oggi le persone stanno morendo per la fame di testimonianza personale di Dio da parte dei cristiani. Hanno cercato un modo forse apparentemente povero, ma onesto e appassionato di raccontare il proprio cammino con Gesù Cristo. Per questo tipo di predicazione nello “spirito di adozione”, la “Chiesa più adulta, matura e vecchia” deve liberarsi dei propri limiti. D’altra parte i singoli cristiani e la Chiesa sono affetti dalla tendenza ad avere uno sguardo condiscendente e “di condanna del mondo”, da cui deriva una falsa fiducia in se stessi e la mancanza di comprensione della propria povertà davanti a Dio. Questo sguardo è l’ostacolo alla base dell’opera di predicazione della Chiesa. Essa rivela un diverso tipo di povertà, ossia la mancanza di comprensione della dipendenza dalla misericordia divina. Per questo è indispensabile una profonda conversione e auto-evangelizzazione dei cristiani stessi che devono essere capaci di offrire una testimonianza umile e appassionata di Cristo come Salvatore.
Neubauer ha descritto in seguito il processo di apprendimento della Comunità Emmanuel nel suo tentativo di portare avanti le missioni parrocchiali in forme nuove nelle aree di lingua tedesca. In una prima fase, la comunità ha dovuto imparare che l’ “ospitalità del Signore trasforma ogni cosa”. Si deve andare in parrocchia a preparare la via per la missione. I membri della comunità che hanno lasciato il loro ambiente per avventurarsi “per le strade, nelle piazze, nelle case, nei caffè e nei del luogo” hanno potuto sperimentare – come shock salutare – la loro povertà e la loro dipendenza dallo Spirito di Dio. Allo stesso tempo hanno potuto constatare come la loro “balbettante” testimonianza venisse spesso accolta prontamente dalle gente
Gli evangelizzatori sono andati incontro alle ferite e alle aspirazioni della persone comuni e hanno dovuto imparare ad ascoltare “per proclamare attraverso l’ascolto”. Entrando in contatto con le necessità e il desiderio nascosto degli uomini per Dio da padroni di casa si sono tramutati in ospiti che guardavano a loro stessi non più come “possessori” ma piuttosto come “chi riceve in dono” immeritatamente la “verità del ritorno a casa”. In questo modo la loro testimonianza si è fatta più umile e appassionata.
E proprio le persone meno amate e più disprezzate, li avevano accolti con maggiore gentilezza. Gesù Cristo stesso aveva parlato con i poveri e con i più bisognosi di evangelizzatori. Neubauer ha così riassunto il “primo step di apprendimento”: “La nuova evangelizzazione ha bisogno innanzitutto di un contatto autentico e attraverso questo contatto dell’esperienza e della testimonianza del sì incondizionato di Dio agli uomini. E questo sì è Cristo!”.
Il secondo step di apprendimento per una comunità missionaria è quello di “adorare Cristo nelle persone che incontriamo nella missione”. L’invito all’adorazione eucaristica – una parte integrante della vita della Comunità dell’Emmanuele – ha portato a nuove forme di culto, rivolte in maniera particolare ai giovani.
Gli evangelizzatori dovrebbe imparare “a intercedere per le persone nell’adorazione e nella lode davanti al Signore, in modo che essi possano abitare sempre più il nostro cuore”. In questo modo, attraverso “l’essere abitati”, imparerebbero come – ha detto richiamando il discorso rivolto da Benedetto XVI ai membri della Curia romana il 21 dicembre del 2009 – da questa missione adorante e da questa compassione vissuta “gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo”. Neubauer ha portato come esempio l’importanza ricoperta dalla cerchia di amici e parenti per quelle persone non credenti, che nel loro cuore hanno spesso provato una “nostalgia” segreta per Dio. Il dialogo e la compassione sono indispensabili per soffrire insieme a loro le conseguenze negative della negazione di Dio e, quindi, prepararli alla catechesi.
Come terza fase Neubauer ha parlato dell’esperienza secondo cui solo una comunità che vive in maniera fraterna e coltiva amicizie umane e spirituali è in grado di portare avanti un lavoro missionario. I grandi eventi come la Giornata Mondiale della Gioventù possono portare frutto solo “se vissuti in piccoli gruppi di amici”. Perché “tutti noi abbiamo bisogno di questo cibo semplice di amore, cioè della fraternità concreta, dell’amicizia tra di noi e con il Signore. Abbiamo bisogno di queste piccole cellule, queste piccole comunità cristiane in cui la Parola di Dio viene pregata, condivisa e tradotta nel mondo concreto. Esistono comunità oranti e comunità narranti. Che non sono luoghi in cui ritirarsi per essere coccolati, ma cellule piantate in mezzo al mondo”.
Il direttore dell’Accademia per l’Evangelizzazione ha quindi deplorato il fatto che in alcune diocesi l’aver voluto creare degli inquadramenti in strutture troppo rigide ha fatto sì che molti giovani missionari venissero ricacciati indietro mentre i movimenti ne sono usciti azzoppati in una “ondata di clericalismo” nella nuova evangelizzazione. Nella Chiesa laici e clero dovrebbero collaborare in un clima di stima reciproca e umile fraternità. Neubauer ha quindi accennato alla decisione dell’arcidiocesi di Vienna di istituire “scuole di discepolato” di vario genere che possono essere gestite anche da laici e sviluppare così nuove forze missionarie”.
Il quarto ed ultimo passo, secondo Neubauer, è imparare che “umiliazioni e ferite devono essere la materia della nuova evangelizzazione”. La Chiesa deve ammettere le proprie colpe e il proprio fallimento con umiltà, senza cercare di difendersi in maniera precipitosa. Allo stesso tempo la Chiesa in Europa deve accettare il fatto umiliante che essa si sta rimpicciolendo e sta “invecchiando” sempre più.
Dio, ha continuato, “ha scelto i cosiddetti pagani per far emergere nuovamente la sua parola. […] Per questo prego il Signore che possiamo accogliere le umiliazioni del nostro tempo vedendo in essere i cancelli di ingresso della Sua presenza. Ho quasi l’impressione che questa società possa conoscere la luce della Sua bontà solo a partire da un gruppo, sparuto, umiliato e misero”.

L’IMPEGNO MISSIONARIO ALLA LUCE DELLA SACRA SCRITTURA (Don Claudio Doglio)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio18.htm#Capitolo_I._L’ATTESA_DI_ISRAELE

don Claudio Doglio

L’IMPEGNO MISSIONARIO ALLA LUCE DELLA SACRA SCRITTURA
« Va’ e annunzia ciò che il signore ti ha fatto »

Capitolo I. L’ATTESA DI ISRAELE

Il concetto di missione appare marginale nella teologia dell’Antico Testamento. La missione, infatti, comporta il manifestarsi di due fattori all’interno di una religione: il primo è l’attività con cui i credenti si impegnano a partecipare ad altri il contenuto dottrinale e la pratica della loro fede; il secondo è la coscienza che tale attività costituisca l’obbedienza ad un comando divino.
Ora, se consideriamo la storia religiosa dell’antico Israele, dobbiamo constatare che, nella sua fase iniziale e nel suo sviluppo fino ai tempi dell’esilio (VI secolo a.C.), la religione ebraica non comporta alcuna particolare spinta a diffondersi al di fuori di Israele (cf P.Bovati, « La missione nella religione dell’antico Israele », in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 25-44). Solo dopo l’esilio babilonese inizia a farsi strada una visione universalistica, che prende in considerazione anche gli altri popoli come destinatari dell’unico progetto salvifico del Dio d’Israele. In ogni caso di « missione » nel nostro senso non si parla quasi mai.
D’altra parte il problema religioso della missione non si risolve mettendo in semplice contraddizione i concetti di « particolare » ed « universale ». È opportuno invece considerare nel suo insieme l’universo biblico veterotestamentario, per cogliere le radici « storiche » della Rivelazione e le sue principali testimonianze missionarie, senza pretendere di rinchiudere tutti i dati in un sistema compiuto (cf G.Ravasi,  » Missione e universalismo nell’Antico Testamento », in: Rassegna di Teologia 28 (1987) 32-59).
Infatti, se consideriamo tutti gli aspetti biblici, ci troviamo di fronte ad atteggiamenti e posizioni molto differenti: sarebbe possibile raccogliere questi dati in due blocchi contrapposti che un esegeta ha chiamato il « dossier dell’odio » e il « dossier dell’universalismo ». Nell’AT si trovano infatti atteggiamenti di estrema chiusura verso gli stranieri fino al desiderio della loro distruzione; ma compaiono altresì considerazioni positive sugli altri popoli con il desiderio della loro unione ad Israele. Quale di queste due correnti dobbiamo prendere in considerazione? Qualunque fosse la nostra scelta, non sarebbe corretto tacere dell’altra! Entrambe costituiscono il patrimonio biblico veterotestamentario. Non possiamo neanche pensare ad un processo di evoluzione, per cui si è passati da un antico atteggiamento esclusivista ad un recente clima di apertura ecumenica che sfocia nella fase neotestamentaria. I dati biblici non permettono questa affermazione. Esclusivismo ed apertura coesistono per tutta la storia dell’antico Israele.

A. LA PAROLA DI DIO NELLA STORIA DEGLI UOMINI
La nostra ricerca deve dunque orientarsi in un’altra direzione: è opportuno, cioè, andare alla ricerca di quei fattori più profondi che hanno caratterizzato la Rivelazione biblica. Ed il primo dato fondamentale è che la Bibbia non è caduta dal cielo, ma è cresciuta con gli uomini: la Parola di Dio non è fuori dal tempo e dalle vicende umane, ma è fin dall’inizio « incarnata » nella storia degli uomini. Questa affermazione di base permetterà notevoli sviluppi per il discorso missionario.

1) Le vicende storiche
Gli eventi che la Bibbia racconta visti da storici ed archeologi non sono altro che « fatti umani », spiegabili con categorie storiche, sociologiche, politiche, economiche: si tratta infatti di migrazioni, oppressioni, fughe, conquiste, organizzazioni di potere e colpi di stato. Eppure il Concilio ci ha insegnato chiaramente che la rivelazione « avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro » (Dei Verbum 2): vuol dire che la Parola di Dio ha dato un senso alla « storia laica » e l’ha resa storia della salvezza; vuol anche dire che le vicende degli uomini non sono indipendenti da Dio, ma, seppure con criteri propri, convergono sempre nella realizzazione del piano divino. L’affermazione per cui nessun evento storico è fuori dell’azione divina significa che la Parola di Dio è strutturalmente « missionaria ».

2) Dalle feste naturali alle feste storiche
Anche la natura con le sue fasi stagionali è assunta dalla Rivelazione come momento significativo. Le grandi feste d’Israele sono infatti celebrazioni preesistenti, legate alla vita naturale dei pastori e dei contadini: la Parola di Dio ha assunto questi elementi e li ha trasformati in celebrazione del Dio salvatore. La Pasqua era la tipica festa di primavera per i pastori che iniziavano la transumanza e per gli agricoltori che celebravano il rinnovarsi della vegetazione: in Israele invece Pasqua diventa la festa storica della liberazione. Pentecoste coincideva con il raccolto delle messi, ma per il popolo di Israele celebra il dono per eccellenza, l’alleanza con Dio al Sinai. La festa delle Capanne era la popolare ricorrenza autunnale in occasione della vendemmia, ma in Israele assume il valore di ricordo del tempo passato nel deserto e della terra donata da Dio. Così il rito naturale, comune a tanti popoli, diventa la celebrazione del Dio che si è rivelato ai figli di Israele.

3) Il rapporto con le altre culture
Anche le culture degli altri popoli, con le loro letterature e mitologie, con i loro codici e regolamenti giuridici, non sono estranee al processo della Rivelazione. Gli autori biblici, infatti, pur essendo ispirati da Dio, non hanno rifiutato la cultura dei loro vicini: anzi hanno saputo attingere a piene mani dai patrimoni letterari e giuridici dei popoli che li circondavano. Ma non hanno preso tutto in blocco acriticamente; hanno invece sempre scelto e vagliato alla luce della loro fede, spesso smitizzando racconti e teorie. La letteratura biblica dell’AT è dunque un ottimo esempio di inculturazione e di missionarietà, perché Israele ha saputo formulare la propria teologia con le categorie culturali degli altri popoli e poi, a sua volta, ha offerto alle altre nazioni il contributo del suo pensiero e della sua visione del mondo.

4) La costrizione in una lingua
Aspetto ancor più mirabile di questo processo della Rivelazione è l’incarnazione della Parola di Dio in « una » lingua umana: suscita ammirazione e stupore pensare alla « condiscendenza » di Dio che ha voluto esprimere il suo Pensiero in una lingua semplice e povera come l’ebraico e si è costretto in una particolare cultura, adattando forzatamente l’eterno allo storico. A questo fatto sono riconducibili tante espressioni lontane dal nostro modo di sentire e sempre questo fatto, alla luce del NT, ci rivela il valore strumentale che hanno le formule e i simboli della fede, premunendoci contro il rischio di assolutizzare le lingue e le forme religiose. Solo un simile pensiero permette un corretto approccio missionario, che sa rispettare lingue e culture, incarnando in esse il messaggio di fede.

5) La creazione: base dell’universalismo
Ultimo decisivo aspetto è la constatazione della realtà creata: la fede di Israele riconosce che tutto viene da Dio, tutte le creature gli appartengono e nulla sfugge al suo dominio. La creazione diviene così il primo articolo di fede, il primo evento della storia di salvezza nella convinzione che solo il Dio che ha creato l’universo è colui che può salvare. Soprattutto i Salmi celebrano il regno universale del Signore (cf Sal 22,29; 47,3.9-10; 66,5.7; 67,5; 96; 97; 98; 99; 138,5-6; 145,13); nel Salmo 33, ad esempio, si descrive in modo pittoresco il dominio cosmico di Dio:

« Il Signore guarda dal cielo,
egli vede tutti gli uomini.
Dal luogo della sua dimora
scruta tutti gli abitanti della terra,
lui che, solo, ha plasmato il loro cuore
e comprende tutte le loro opere » (vv.13-15).
All’aspetto discendente del dominio (Dio-creato) corrisponde anche un aspetto ascendente di lode e di rispetto (creato-Dio) per cui tutte le nazioni e tutte le creature sono coinvolte nell’unica lode al Creatore (cf Sal.22,28; 47,2; 67,3-8; 68,30-33; 96,1.7-9; 98,4.7; 99,3; 145,10-13). Il Salmo 145 avvicina questi due aspetti in una dolce sintesi:

« Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli » (vv.9-10).

Mons. Pietro Rossano nella prolusione alla XXX Settimana Biblica Nazionale, il 12 settembre 1988, spiegò che il dinamismo missionario è proprio e caratteristico delle religioni che credono in un Dio personale e creatore, espresse oggi nel grande tronco dell’ebraismo, dell’islam e del cristianesimo; mentre è assente nelle grandi religioni asiatiche che fondono in un’unica visione Dio, il mondo e l’uomo, disprezzando la storia e la realtà sensibile. Dalle osservazioni fatte in precedenza emerge chiaramente che la religione dell’antico Israele è segnata dalla dinamica storica e profetica e vede all’origine dell’universo un atto creatore di Dio che chiama il mondo all’essere, vi colloca l’uomo e gli rivolge la sua parola direttamente e poi per mezzo dei profeti gli indica la sua volontà e il suo disegno nella storia: un disegno di giustizia e di pace, la cui attuazione è affidata agli uomini e sul quale Dio stesso vigila come vindice del bene e del male. La storia umana appare perciò come la realizzazione progressiva di un disegno divino che abbraccia tutte le nazioni della terra e che richiede la collaborazione dei « fedeli », cioè gli uomini della fede, perché possa giungere alla piena realizzazione (P.Rossano, « La missione nella Bibbia e nelle religioni », in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 9-11).
I principi fondamentali della Rivelazione nell’AT si sono dunque presentati come la struttura portante che permette un discorso biblico missionario, anche se storicamente nel popolo di Israele non si è mai realizzata un’attività missionaria come la pensiamo noi. Questi principi fondamentali però hanno influenzato in modo diverso i periodi della storia di Israele in una continua alternanza fra la vocazione universale dell’umanità e l’elezione specifica del popolo ebraico.

Omelia (08-11-2009) : Un criterio missionario: dare dalla nostra povertà

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16578.html

Omelia (08-11-2009) 

padre Romeo Ballan
Un criterio missionario: dare dalla nostra povertà

Riflessioni
Nella selva del Brasile, un missionario chiese un giorno a un indio della etnia Yanomami: « Chi è buono? » E l’indio gli rispose: « Buono è colui che condivide ». Una risposta in sintonia con il Vangelo di Gesù! Ne danno testimonianza le due donne, vedove e povere, ambedue esperte nella fatica per vivere, protagoniste del messaggio biblico e missionario di questa domenica.

In terra di pagani, a nord della Palestina, la vedova di Sarepta (I lettura), nonostante la scarsità di viveri in epoca di siccità, condivide l’acqua e il pane con il profeta Elia, che sta fuggendo dalla persecuzione del re Acab e della regina Gezabele. Quella vedova, ormai stremata (v. 12), si è fidata della parola dell’uomo di Dio, e Dio non le fece mancare il necessario per vivere lei, suo figlio e altri familiari (v. 15-16). A dispetto della malvagità della coppia reale, la protezione di Dio si manifesta a favore del suo inviato (Elia) e dei poveri.

La scena si ripete sulla spianata del tempio di Gerusalemme, luogo ufficiale del culto, dove Marco (Vangelo) presenta due scene contrastanti. Da un lato, gli scribi: i presunti sapienti della legge, gonfi di vanità fino all’ostentazione (fanno sfoggio di vestiti lussuosi, cercano i saluti e i primi posti), presuntuosi fino a manipolare Dio con lunghe preghiere, e persino voraci divoratori delle case delle vedove (v. 40). Dall’altro lato, Gesù mette in evidenza il gesto furtivo di una vedova povera che, con la massima discrezione, senza farsi notare, getta nel tesoro del tempio due monetine, che era « tutto quanto aveva per vivere » (v. 44). Sono pochi centesimi, di valore immenso. Lei non dà molte cose, come i ricchi, ma dà molto, tutto, come dice il testo greco: « tutta la sua vita ».

Il profitto e la gratuità sono messi a confronto. Gli scribi ostentano una religiosità per profitto personale: anche nel fare opere buone cercano il loro interesse, sono vittime della cultura dell’apparire. Gesù, al contrario, esalta nella vedova la gratuità, umiltà e distacco: essa si fida di Dio e a Lui si abbandona. Ritorna qui l’insegnamento radicale del Vangelo di Marco nelle domeniche precedenti: il vero discepolo di Gesù vende tutto, lo da ai poveri, offre la vita come ha fatto il Maestro in riscatto per tutti (II lettura, v. 26), ama Dio e il prossimo con tutto il cuore. Per lei, questo duplice amore è più importante della sua stessa sopravvivenza (*).

Per il Regno di Dio non è importante dare molto o poco; l’importante è dare tutto. Già il Papa S. Gregorio Magno affermava: « Il Regno di Dio non ha prezzo; vale tutto ciò che si possiede ». Bastano anche due spiccioli, o « anche un solo bicchiere d’acqua fresca » (Mt 10,42). Il dono offerto dalla propria povertà è espressione di fede, di amore, di missione.

Così si sono espressi i vescovi della Chiesa latinoamericana nella Conferenza di Puebla (Messico, 1979), parlando dell’impegno per la missione universale: « Finalmente è arrivata l’ora, per l’America Latina, di… proiettarsi al di là delle proprie frontiere, ad gentes. È vero che noi stessi abbiamo bisogno di missionari; ma dobbiamo dare dalla nostra povertà » (Puebla n. 368). L’impegno per la missione, dentro e fuori del proprio Paese, è concreto ed esigente: occorrono mezzi materiali e spirituali, ma soprattutto persone disponibili a partire e ad offrire la propria vita. Per il Regno di Dio!

La povera di Sarepta e la vedova del Vangelo ripropongono oggi la sfida di una missione vissuta con scelte di povertà, nell’uso di mezzi poveri, fondata sulla forza della Parola, libera dai condizionamenti del potere, in mezzo agli ultimi della terra, in situazioni di fragilità, nella debolezza propria e dei collaboratori, nella solitudine, nell’ostilità… Paolo, Saverio, Comboni, Teresa di Calcutta e tanti altri missionari, hanno vissuto la loro vocazione all’insegna della Croce, affrontando sofferenze, ostacoli e incomprensioni, nella convinzione che « le opere di Dio devono nascere e crescere ai piedi del Calvario » (Daniele Comboni). Il missionario pone al centro della sua vita il Signore crocifisso, risorto e vivente, perché ritiene che la potenza di Cristo e del Vangelo si rivela nella debolezza dell’apostolo e nella precarietà dei mezzi umani (cf Paolo). Nelle situazioni di povertà, abbandono e morte, il missionario scopre in Cristo crocifisso la presenza efficace del Dio della Vita e una moltitudine di fratelli da amare e da valorizzare, portando loro il Vangelo, messaggio di vita e di speranza.

Parola del Papa
(*) « Fedele all’invito del suo Signore, la Comunità cristiana non mancherà di assicurare all’intera famiglia umana il proprio sostegno negli slanci di solidarietà creativa non solo per elargire il superfluo, ma soprattutto per cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società». Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo pertanto il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l’assioma secondo cui combattere la povertà è costruire la pace ».
Benedetto XVI
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2009, n. 15

Sui passi dei Missionari
- 8/11: (II domenica di novembre o altra data): « Giornata del Ringraziamento » a Dio per i frutti della terra. – Giornata del creato.
- 9/11: Dedicazione della Basilica di S. Giovanni in Laterano, cattedrale del Papa, in quanto vescovo di Roma: chiesa « madre e capo di tutte le chiese dell’Urbe e dell’orbe ».
- 9/11: Ricordo della caduta del « Muro di Berlino » (1989), avvenimento simbolo di rapporti nuovi fra i popoli.
- 10/11: S. Leone Magno, papa e dottore della Chiesa (+461), salvò Roma e l’Italia dalle invasioni degli Unni e dei Vandali.
- 11/11: S. Martino di Tours (+397), fondatore di monasteri ed evangelizzatore della Francia rurale, con fama di taumaturgo; fu il primo Santo non martire venerato nella Chiesa latina.
- 11/11: B. Vincenzo Eugenio Bossilkov (Bulgaria, 1900-1952), religioso passionista e vescovo di Nicopoli, ucciso in carcere a Sofia per la sua ferma comunione con la Chiesa di Roma. Due giorni dopo (il 13/11) altri tre sacerdoti agostiniani dell’Assunzione furono martirizzati in carcere a Sofia.
- 12/11: S. Giosafat Kuncewicz (1580-1623), vescovo di Vitebsk e di Polock in Polonia-Bielorussia, protomartire dell’unione dei greco-russi con la Chiesa cattolica di Roma. 

Due raccomandazioni su S. Paolo

Ho scoperto – ossia io non lo conoscevo – un’altro « innamorato di San Paolo, il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, vi presento qualcosa, la storia di Giuseppe Allamano nello stesso sito, dal sito:

http://giuseppeallamano.ismico.org/index.php?option=com_content&task=view&id=992&Itemid=1.

Due raccomandazioni su S. Paolo     

Scritto da p. Francesco Pavese, imc 
  
Wednesday, 03 September 2008 17:00 

Per concludere le riflessioni sul rapporto tra il Fondatore e S. Paolo, può essere interessante soffermarci ancora su due speciali raccomandazioni che il nostro Padre ci ha fatto diverse volte: anzitutto, la necessità di seguire S. Paolo come maestro di “perfezione apostolica”; poi l’importanza di leggere e studiare le sue lettere.

1. S. Paolo guida per un cammino di santità. Da quanto abbiamo riflettuto nei tre mesi precedenti risulta evidente come il Fondatore ritenesse S. Paolo maestro e modello di santità. Qui sintetizziamo il messaggio che ha voluto trasmetterci. Valorizzando il testo di 1Ts 4,3, ecco l’enunciazione di un principio basilare: «S. Paolo diceva ai cristiani di Tessalonica: È volontà di Dio che tutti siate santi». […]. Ma non in qualsiasi modo, di una santità solo esterna, e con i mezzi diversi da quelli insegnati; – seguendo e praticando quanto Egli loro aveva insegnato ed i precetti che loro aveva dato da parte di N.S. Gesù Cristo». In un’altra occasione: «Bisogna, dice S. Paolo, che operiamo la nostra santificazione con amore e timore. Prima con amore, ma quando questo non basta più, anche con timore».

Sappiamo che la proposta del Fondatore per la santità è costante, possiamo dire dal primo all’ultimo giorno della sua attività di educatore. Era in piena sintonia con S. Paolo anche su questo punto. Alle suore, durante gli esercizi spirituali, diceva: «Coraggio, fatevi tutte sante. Non è mica gelosia, sapete! S. Paolo diceva: Emulatevi nella santità: “Aspirate ai carismi più grandi (1Cor 12,31)”».

Per il Fondatore, la santità missionaria, a volte, coincide con la fedele corrispondenza alla vocazione. Ecco la sua esortazione a commento del testo paolino di 2Cor 6,1: «”Vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”: Io la applico a voi e dico: Voi non avete solo ricevuto la grazia della fede, non solo la grazia di questo tempo quaresimale, ma la grazia della vocazione, e che grazia è questa! Vocazione religiosa all’apostolato. Come dice S. Paolo, per carità non ricevete a inutilmente». Altre volte la santità coincide con l’adesione alla volontà di Dio. Oltre a quanto abbiamo sentito su questo aspetto in altro contesto, ascoltiamo questa esortazione molto decisa: «Per farci santi dobbiamo avere una volontà piena, costante; dobbiamo volere sul serio. S. Paolo appena sentì la voce del Signore sulla via di Damasco, non ha mica detto: Sì, voglio, ma adagio!… No, no; rispose subito con piena volontà: Signore che cosa volete che io faccia?».

Il 16 febbraio 1919 (allora era la Domenica di Settuagesima), il Fondatore ha fatto una lunga conferenza commentando il testo di 1Cor 9, 24ss, che inizia: «Non sapete che nelle corse tutti corrono, ma uno solo conquista il premio?». Nei volumi delle conferenze ai missionari non risulta che le parole del Fondatore siano state riprese da qualcuno. Per riportare il pensiero del Fondatore, mi riferisco, perciò, ai volumi delle conferenze alle missionarie. Dopo avere lungamente commentato il testo, il Fondatore trae delle conseguenze, che indicano un vero cammino di perfezione. Eccone una sintesi: «Da questa epistola noi possiamo dedurre tre cose: 1° – Come fare a correre? Per correre bene prima di tutto bisogna tenere ben fisso il fine per cui corriamo. […]. Dunque vedete, non bisogna mai dimenticare il fine per cui siamo su questa terra. […]. 2° – Bisogna camminare con energia. Lo dice S. Paolo: correte, ma in modo da riuscire i primi per aver la vittoria.[…]. Vedete, in questo noi manchiamo molto. Noi corriamo qualche giorno, massime dopo gli Esercizi Spirituali; e dopo la S. Comunione siamo ferventi nelle prime ore del mattino e poi… […]. Bisogna correre sempre; Lui, S. Paolo, non camminava, ma correva addirittura. Costi quel che vuole, bisogna riuscire! […] Dunque, ci vuole energia: il Paradiso non è per quelli molli. Ci son di quelli che si fermano tutti i momenti. 3° – Siccome è una lotta e la lotta fa sudare, bisogna che facciamo dei sacrifici.[…]. Fate come questo grande Santo che […] rendeva schiavo il suo corpo, non lasciava che questo comandasse all’anima».

La conclusione su questo aspetto può essere questa domanda del Fondatore: «Possiamo noi dire […] con S. Paolo: vivo io, non sono più io che vivo, ma vive in me Gesù Cristo?».

2. «Leggete e gustate le lettere di S. Paolo». Che il Fondatore fosse entusiasta di S. Paolo e innamorato delle sue lettere, oltre da ciò che diceva, lo desumiamo dal fatto che, quando teneva le conferenze domenicali, vi ricorreva abitualmente per attingere ispirazione o per rafforzare le proposte, di qualsiasi tema parlasse. Si pensi che dallo studio che sr. Rachelia Dreoni ha fatto sulle citazioni della S. Scrittura nelle conferenze alle Missionarie, risulta che il Fondatore è ricorso alle lettere di S. Paolo non meno di 520 volte. Solo nel volume “Così vi voglio” S. Paolo è citato dal Fondatore ben 88 volte.

Il 16 novembre 1913, prima di trattare il tema delle Costituzioni, il Fondatore è uscito in questa spontanea esclamazione a commento del breve componimento in inglese fatto da un allievo sulla prima lettura della Messa: «E sì! San Paolo è sempre San Paolo e dà una vita la parola di San Paolo!». Siccome S. Paolo era il «vero tipo del missionario», il Fondatore voleva che i suoi figlie e figlie si modellassero sulla personalità e sul pensiero dell’Apostolo. Ovviamente, ne conseguiva le necessità di familiarizzarsi con le sue lettere.

Tutti sappiamo quanto egli insistesse di studiare la S. Scrittura e, in particolare, le lettere di S. Paolo. Risentiamo con piacere le sue parole dirette. Ecco quanto ebbe a dire, il 18 gennaio 1928, come introduzione spontanea alla conferenza: «Oggi al 2° Notturno ci sono delle bellissime lezioni di S. Giov. Grisostomo: vorrei che le leggeste tutti qualche volta durante la settimana. Stamattina io mi fermavo su ogni parola, non andavo più avanti. S. Paolo bisogna leggerlo sovente: digerirlo, studiarlo bene. Io non avevo la fortuna che avete voi che lo studiate quasi tutto: io ho studiato l’Epistola Heb. come chierico; le altre le ho dovute studiare da me. Vi raccomando di meditare bene tutta la S. Scrittura […], ma sopratutto vi raccomando le lettere di S. Paolo e le altre apostoliche. Lì sopra si forma il vero carattere del missionario, esso dà uno spirito forte e robusto. Fate questa cura. Ascoltate il consiglio di S. Giovanni Grisostomo che dice che si è formato su S. Paolo, e difatti lo aveva digerito bene, e le sue opere ne sono piene». Anche in altra occasione il Fondatore incoraggiando allo studio della Sacra Scrittura, era ritornato sullo stesso esempio: «S. Giovanni Grisostomo, a forza di studiare S. Paolo, era un S. Paolo». Ripeteva: «Anche fra gli studi un po’ di tempo si trova [per leggere la S. Scrittura], e bisogna leggere, massime le lettere di S. Paolo.

Oltre a leggerle, bisogna amare e gustare le lettere di S. Paolo. Commentando il testo di 1Cor 4, 3-5, dove l’Apostolo dice «A me, però, poco importa di venir giudicato da voi […]. Il mio giudice è il Signore!», il Fondatore faceva questa conclusione: «Quindi non state a giudicare questo o quello, […]. Verrà il momento in cui il Signore sarà Lui a giudicare… Guardate com’è bello questo pezzo! Prendete affezione a queste lettere di S. Paolo; sono energiche, belle». Quanto il Fondatore disse ai ragazzi del piccolo seminario affidando S. Paolo come Patrono vale per tutti: «Dallo studio del Santo negli Atti degli Apostoli e nelle di Lui 14 lettere imparerete il vero zelo per farvi santi voi, e quindi salvare tante anime».

Invitando a studiare la S. Scrittura, diceva ancora: «Amiamola molto [la S. Scrittura], specialmente il S. Vangelo e le lettere di S. Paolo; bisogna prendervi affezione». Parlando della “mortificazione degli occhi”, concludeva la conferenza alle suore: «Voi avete bisogno di imitare S. Paolo; leggetele volentieri le sue lettere: sono una miniera».

A sentire il Fondatore, le lettere di S. Paolo hanno queste caratteristiche: “sono belle”, “sono energiche”, “sono una miniera”. Diventa logica la conclusione: non solo leggerle, ma “amarle”, “prendervi affezione”!

In missione con san Paolo (a chiusura dell’anno paolino)

In missione con san Paolo (a chiusura dell'anno paolino) dans ANNO PAOLINO 0906art6a

l’immagine è nell’articolo, dal sito:

http://www.popoli.info/anno2009/06/0906art6.htm


In missione con san Paolo

Si chiude il 29 giugno l’anno dedicato all’Apostolo delle genti. In queste pagine una riflessione sulla sua eredità per chi è impegnato nell’annuncio del Vangelo al mondo di oggi

Davide Magni S.I.
 
San Paolo apostolo (1975), olio su tavola di Mario Venzo, artista gesuita (1900-1989)
Fra i molti stimoli che l’Anno paolino ha offerto alla Chiesa, uno tra i più significativi è stato l’invito a riflettere sull’atteggiamento che i cristiani devono avere nella relazione con le varie religioni. Al termine dell’anno dedicato al bimillenario della nascita del santo vorremmo riproporre questo stimolo attraverso la proposta di un «esercizio missiologico» per incontrare il Paolo missionario e «missionologo».
Oggi tendiamo a dare per scontato che, poiché ogni religione presenta differenze e particolarità specifiche, il cristiano si debba riferire a ciascuna di esse in maniera differenziata. In realtà, il primo a rendersi conto di questo, e a maturare tale modalità di approccio, fu proprio san Paolo. Egli, partendo dall’esperienza di Cristo che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo, legge le realtà che incontra ed elabora una riflessione teologica. Questa teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, viceversa ne è il ripensamento. Egli è anzitutto un missionario e poi un teologo.
Uno degli studiosi che hanno riflettuto in maniera particolare sulle forme del dialogo e della missione nell’Apostolo delle genti è stato Pietro Rossano (1923-1991), teologo, responsabile del Segretariato per i non credenti (l’attuale Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso) e rettore dell’Università Lateranense. Rossano spiega bene come, fin dalla prima generazione cristiana, si sia manifestata una pluralità e varietà di espressioni. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente: questo perché i valori religiosi e umani presenti in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo. Rossano identifica così cinque differenti modelli di evangelizzazione sperimentati da Paolo: agli ebrei della sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,15-41); ai seguaci del politeismo cosmico di Listra (At 14,1-18); ai filosofi stoici ed epicurei di Atene (At 17,18-31); agli gnostici dell’Asia minore (Efesini e Colossesi) e ai culti politeisti di Corinto (1Cor 10,19-22). Un buon esercizio potrebbe consistere anzitutto nella lettura dei brani appena citati.
Rimanendo ai suggerimenti bibliografici, raccomandiamo un altro teologo prematuramente scomparso, il sudafricano David Bosch (1929-1992). Nel suo testo fondamentale, La trasformazione della missione. Mutamento di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000), traccia una sintesi della missione in Paolo di grande limpidezza e acume. Estrapoliamo qui solo due aspetti di questa stimolante lettura che Bosch propone sulla teologia e la prassi missionaria di Paolo: le «motivazioni» e lo «scopo» della sua missione.

LE MOTIVAZIONI DI PAOLO
Nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo c’è l’esperienza che egli ha fatto dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato conquistato da Lui: «Il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore di Dio costituisce il vero movente della missione: «Avendo conosciuto (…) cerchiamo di convincere gli uomini» (5,11); «l’amore di Cristo ci spinge» (5,14).
Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l’obbligo. Il motivo di fondo è che ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio: «ha ricevuto la grazia di essere apostolo» (Rm 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. È facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza per l’amore di Dio manifestato in Cristo. Un amore che «ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici» (Rm 5,10): è questo amore incredibile e senza misura che Paolo e le sue comunità hanno scoperto e raccontano.
San Paolo ha una preoccupazione che lo spinge. Fuori di Cristo l’umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per tale ragione, deve essere proclamato a tutti che «Gesù ci libera dalla collera che viene». Si sente ambasciatore di Cristo: «In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Tuttavia la sua grande motivazione non è predicare questa «collera che viene», ma il messaggio positivo: la salvezza che viene attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona notizia, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rm 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rm 2,4). La salvezza, per Paolo, è l’esperienza di una liberazione immeritata, grazie all’incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull’uomo: è preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l’universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.
Secondo Bosch, per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria è utile richiamare quanto egli scrive a proposito del comportamento dei credenti verso «quelli di fuori»: devono anzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente. Egli definisce i cristiani «scelti», «amati», «santi» (cioè, «messi da parte per»), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda continuamente che la testimonianza verso «quelli di fuori» esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), una condotta che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti a entrare nella comunità.
In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Esso si esprime non tanto con un’attività missionaria specifica, quanto con lo stile di vita «attrattivo» delle piccole comunità in cui le relazioni umane sono trasformate. Sono relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività, di integrazione sociale tra ricchi e poveri: esse mostrano l’opera di riconciliazione realizzata da Cristo; sono «un segno precursore» dell’alba del mondo nuovo.

LO SCOPO DELLA MISSIONE
Sulla base di queste ragioni che lo spingono, qual è dunque il fine dell’andare alle genti? Nelle prime righe della Lettera ai Romani, Paolo riassume l’obiettivo del suo apostolato. È stato «scelto per annunciare il Vangelo» e incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con Lui e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l’area mediterranea. Dove arriva, fonda Chiese: saranno, spera, manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su un dato di fatto: la salvezza è già offerta da Dio all’umanità. In retrospettiva, cioè alla luce dell’esperienza dell’amore senza condizioni di Dio, Paolo ha immaginato come sarebbe stata la sua vita senza Cristo: egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto.
Tuttavia, quando confessa di essere stato salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti, preferisce insistere sulla liberazione che è già stata data. Ha fatto l’esperienza del Vangelo, dell’amore senza condizioni: il suo scopo, lo scopo della sua missione, è di proclamare la salvezza compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.

EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO
Dicevamo all’inizio che questa «lettura spirituale» dei testi di Paolo diventa un esercizio missiologico. L’anno scorso papa Benedetto XVI ha ricordato ai gesuiti riuniti per la 35ª Congregazione generale che la loro missione si articola in quattro dimensioni: servizio della fede, promozione della giustizia, inculturazione del Vangelo, dialogo interreligioso. Questo, però, vale per tutti i cristiani. San Paolo è il modello di riferimento, o paradigma, fondamentale.
L’Apostolo ci aiuta a riflettere sull’obiettivo e le motivazioni della missione che noi abbiamo. Si tratta di un’educazione al discernimento delle modalità dell’annuncio del Vangelo nell’attuale contesto delle religioni e delle culture. La Chiesa, ricordava mons. Rossano, consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice. Per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo, essa si trova sempre impegnata in un rinnovamento interiore.
Se il Concilio Vaticano II ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini, l’anno paolino ha senza dubbio reso evidenti alcuni bisogni e desideri. Ad esempio il bisogno di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’Oriente e dell’Occidente, il desiderio di avere uno sguardo d’amore e fiducia verso i non cristiani, per i quali la Chiesa sa di dover essere come il lievito e il sale.
Pochi mesi prima dell’apertura dell’anno paolino, il 3 dicembre 2007, la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha sollecitato i cristiani a una riflessione non scontata. La Nota induce a prendere consapevolezza di dove ci smarriamo nel nostro andare alle genti. Allo stesso tempo suggerisce che cosa possiamo migliorare, correggere, cambiare e ulteriormente fare nel nostro modo di annunciare (cioè vivere) il Vangelo. La Nota parla innanzitutto delle implicazioni antropologiche dell’evangelizzazione: è la dimensione del servizio, della carità vissuta nell’impegno per la giustizia e la pace, la salvaguardia del creato. Proseguendo, espone le implicazioni ecclesiologiche: ciò richiama la Chiesa a essere luogo di comunione, ovvero a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra i popoli e le culture; la comunità è luogo accogliente e riconciliante, attraente perché ci si sente amati e rispettati nella carità. Infine, richiama la dimensione ecumenica dell’evangelizzazione: c’è bisogno della testimonianza dei cristiani adulti nella vita secondo lo Spirito, pronti al dialogo e alla condivisione di doni che promuovono una più profonda conversione a Cristo; l’incontro tra le fedi, insomma.
Dall’incontro con san Paolo e raccogliendo le sollecitazioni della Nota possiamo capire che a nulla o a poco servono l’irrigidimento delle strutture ecclesiali o i discorsi sulla pastorale di tipo tattico-strategico, se si dimentica che il centro ispiratore di ogni azione è Gesù Cristo. Priva di grandi risorse umane, la Chiesa sa che deve contare unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli apostoli ha assicurato loro: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli».

In missione con san Paolo

dal sito:

http://www.popoli.info/index.html

In missione con san Paolo

Si chiude il 29 giugno l’anno dedicato all’Apostolo delle genti. In queste pagine una riflessione sulla sua eredità per chi è impegnato nell’annuncio del Vangelo al mondo di oggi

Davide Magni S.I.
 
San Paolo apostolo (1975), olio su tavola di Mario Venzo, artista gesuita (1900-1989)
Fra i molti stimoli che l’Anno paolino ha offerto alla Chiesa, uno tra i più significativi è stato l’invito a riflettere sull’atteggiamento che i cristiani devono avere nella relazione con le varie religioni. Al termine dell’anno dedicato al bimillenario della nascita del santo vorremmo riproporre questo stimolo attraverso la proposta di un «esercizio missiologico» per incontrare il Paolo missionario e «missionologo».
Oggi tendiamo a dare per scontato che, poiché ogni religione presenta differenze e particolarità specifiche, il cristiano si debba riferire a ciascuna di esse in maniera differenziata. In realtà, il primo a rendersi conto di questo, e a maturare tale modalità di approccio, fu proprio san Paolo. Egli, partendo dall’esperienza di Cristo che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo, legge le realtà che incontra ed elabora una riflessione teologica. Questa teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, viceversa ne è il ripensamento. Egli è anzitutto un missionario e poi un teologo.
Uno degli studiosi che hanno riflettuto in maniera particolare sulle forme del dialogo e della missione nell’Apostolo delle genti è stato Pietro Rossano (1923-1991), teologo, responsabile del Segretariato per i non credenti (l’attuale Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso) e rettore dell’Università Lateranense. Rossano spiega bene come, fin dalla prima generazione cristiana, si sia manifestata una pluralità e varietà di espressioni. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente: questo perché i valori religiosi e umani presenti in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo. Rossano identifica così cinque differenti modelli di evangelizzazione sperimentati da Paolo: agli ebrei della sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,15-41); ai seguaci del politeismo cosmico di Listra (At 14,1-18); ai filosofi stoici ed epicurei di Atene (At 17,18-31); agli gnostici dell’Asia minore (Efesini e Colossesi) e ai culti politeisti di Corinto (1Cor 10,19-22). Un buon esercizio potrebbe consistere anzitutto nella lettura dei brani appena citati.
Rimanendo ai suggerimenti bibliografici, raccomandiamo un altro teologo prematuramente scomparso, il sudafricano David Bosch (1929-1992). Nel suo testo fondamentale, La trasformazione della missione. Mutamento di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000), traccia una sintesi della missione in Paolo di grande limpidezza e acume. Estrapoliamo qui solo due aspetti di questa stimolante lettura che Bosch propone sulla teologia e la prassi missionaria di Paolo: le «motivazioni» e lo «scopo» della sua missione.

LE MOTIVAZIONI DI PAOLO

Nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo c’è l’esperienza che egli ha fatto dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato conquistato da Lui: «Il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore di Dio costituisce il vero movente della missione: «Avendo conosciuto (…) cerchiamo di convincere gli uomini» (5,11); «l’amore di Cristo ci spinge» (5,14).
Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l’obbligo. Il motivo di fondo è che ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio: «ha ricevuto la grazia di essere apostolo» (Rm 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. È facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza per l’amore di Dio manifestato in Cristo. Un amore che «ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici» (Rm 5,10): è questo amore incredibile e senza misura che Paolo e le sue comunità hanno scoperto e raccontano.
San Paolo ha una preoccupazione che lo spinge. Fuori di Cristo l’umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per tale ragione, deve essere proclamato a tutti che «Gesù ci libera dalla collera che viene». Si sente ambasciatore di Cristo: «In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Tuttavia la sua grande motivazione non è predicare questa «collera che viene», ma il messaggio positivo: la salvezza che viene attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona notizia, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rm 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rm 2,4). La salvezza, per Paolo, è l’esperienza di una liberazione immeritata, grazie all’incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull’uomo: è preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l’universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.
Secondo Bosch, per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria è utile richiamare quanto egli scrive a proposito del comportamento dei credenti verso «quelli di fuori»: devono anzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente. Egli definisce i cristiani «scelti», «amati», «santi» (cioè, «messi da parte per»), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda continuamente che la testimonianza verso «quelli di fuori» esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), una condotta che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti a entrare nella comunità.
In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Esso si esprime non tanto con un’attività missionaria specifica, quanto con lo stile di vita «attrattivo» delle piccole comunità in cui le relazioni umane sono trasformate. Sono relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività, di integrazione sociale tra ricchi e poveri: esse mostrano l’opera di riconciliazione realizzata da Cristo; sono «un segno precursore» dell’alba del mondo nuovo.

LO SCOPO DELLA MISSIONE

Sulla base di queste ragioni che lo spingono, qual è dunque il fine dell’andare alle genti? Nelle prime righe della Lettera ai Romani, Paolo riassume l’obiettivo del suo apostolato. È stato «scelto per annunciare il Vangelo» e incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con Lui e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l’area mediterranea. Dove arriva, fonda Chiese: saranno, spera, manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su un dato di fatto: la salvezza è già offerta da Dio all’umanità. In retrospettiva, cioè alla luce dell’esperienza dell’amore senza condizioni di Dio, Paolo ha immaginato come sarebbe stata la sua vita senza Cristo: egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto.
Tuttavia, quando confessa di essere stato salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti, preferisce insistere sulla liberazione che è già stata data. Ha fatto l’esperienza del Vangelo, dell’amore senza condizioni: il suo scopo, lo scopo della sua missione, è di proclamare la salvezza compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.

EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO

Dicevamo all’inizio che questa «lettura spirituale» dei testi di Paolo diventa un esercizio missiologico. L’anno scorso papa Benedetto XVI ha ricordato ai gesuiti riuniti per la 35ª Congregazione generale che la loro missione si articola in quattro dimensioni: servizio della fede, promozione della giustizia, inculturazione del Vangelo, dialogo interreligioso. Questo, però, vale per tutti i cristiani. San Paolo è il modello di riferimento, o paradigma, fondamentale.
L’Apostolo ci aiuta a riflettere sull’obiettivo e le motivazioni della missione che noi abbiamo. Si tratta di un’educazione al discernimento delle modalità dell’annuncio del Vangelo nell’attuale contesto delle religioni e delle culture. La Chiesa, ricordava mons. Rossano, consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice. Per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo, essa si trova sempre impegnata in un rinnovamento interiore.
Se il Concilio Vaticano II ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini, l’anno paolino ha senza dubbio reso evidenti alcuni bisogni e desideri. Ad esempio il bisogno di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’Oriente e dell’Occidente, il desiderio di avere uno sguardo d’amore e fiducia verso i non cristiani, per i quali la Chiesa sa di dover essere come il lievito e il sale.
Pochi mesi prima dell’apertura dell’anno paolino, il 3 dicembre 2007, la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha sollecitato i cristiani a una riflessione non scontata. La Nota induce a prendere consapevolezza di dove ci smarriamo nel nostro andare alle genti. Allo stesso tempo suggerisce che cosa possiamo migliorare, correggere, cambiare e ulteriormente fare nel nostro modo di annunciare (cioè vivere) il Vangelo. La Nota parla innanzitutto delle implicazioni antropologiche dell’evangelizzazione: è la dimensione del servizio, della carità vissuta nell’impegno per la giustizia e la pace, la salvaguardia del creato. Proseguendo, espone le implicazioni ecclesiologiche: ciò richiama la Chiesa a essere luogo di comunione, ovvero a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra i popoli e le culture; la comunità è luogo accogliente e riconciliante, attraente perché ci si sente amati e rispettati nella carità. Infine, richiama la dimensione ecumenica dell’evangelizzazione: c’è bisogno della testimonianza dei cristiani adulti nella vita secondo lo Spirito, pronti al dialogo e alla condivisione di doni che promuovono una più profonda conversione a Cristo; l’incontro tra le fedi, insomma.
Dall’incontro con san Paolo e raccogliendo le sollecitazioni della Nota possiamo capire che a nulla o a poco servono l’irrigidimento delle strutture ecclesiali o i discorsi sulla pastorale di tipo tattico-strategico, se si dimentica che il centro ispiratore di ogni azione è Gesù Cristo. Priva di grandi risorse umane, la Chiesa sa che deve contare unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli apostoli ha assicurato loro: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli».

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