Perché la notte è buia? (una domanda in fondo all’articolo: il mistero di che cosa è fatto?)
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da « Tracce » (una domanda in fondo all’articolo: il mistero di che cosa è fatto?)
Perché la notte è buia?
Marco Bersanelli
Cultura – Scienza e mistero
L’abisso nero del cielo, oltre le stelle e le galassie, porta il segno dell’origine. Un astrofisico fa il punto sulle ricerche cosmologiche più avanzate. Trattando il suo oggetto con serietà, la scienza si imbatte in un fattore che deve riconoscere come «oltre». Glielo impone la fedeltà al metodo
Perché la notte è buia?». Pare una di quelle domande di un bimbo di tre o quattro anni, che di fronte a qualunque cosa non sa trattenere quella strana paroletta: «perché?». Eppure, presa sul serio, questa domanda porta a conseguenze notevoli per la comprensione della struttura dell’universo su grande scala e sulla sua evoluzione nel tempo. In altre parole, è una domanda cosmologica. La cosmologia è il ramo dell’astrofisica che ha come oggetto (unico, per definizione) l’intero universo fisico. La cosmologia non ha come scopo lo studio dei pianeti, le nebulose, le stelle o le galassie; bensì l’insieme di tutte queste cose. Sulla domanda del nostro bambinetto ha riflettuto seriamente Olbers nel 1826. Egli si rese conto che se l’universo fosse infinito e riempito in modo più o meno uniforme di sorgenti luminose (stelle, galassie), allora il fondo del cielo invece che nero ci dovrebbe apparire luminoso, tanto brillante quanto la superficie del sole, e la temperatura ovunque nell’universo sarebbe di migliaia di gradi. Sarebbe un universo davvero poco ospitale. Ma evidentemente, e per fortuna, le cose non stanno così. Circa un secolo dopo, nel 1929, Hubble fece la scoperta che può essere considerata la base della cosmologia moderna. Hubble osservò con grande cura e tenacia le galassie più distanti osservabili con i telescopi allora disponibili, e di ciascuna misurò la distanza e la velocità. I risultati del suo studio mostravano un fatto sconvolgente: le galassie si allontanano le une dalle altre con una velocità tanto più grande quanto maggiore è la loro distanza reciproca. Per cogliere la situazione possiamo immaginare un palloncino gonfiabile, tutto giallo con dei piccoli pois rossi. Quando il palloncino viene gonfiato, i puntini rossi si allontanano gli uni dagli altri proprio come le galassie nell’universo. È nella natura stessa dello spazio (palloncino giallo) il fatto di non essere una realtà statica, ma in continua espansione. In un certo senso le galassie sono «ferme» nello spazio (come i pois sono fissati sulla plastica gialla), ma lo spazio nel quale si trovano si dilata. Così Hubble scoprì il primo fondamentale fatto che, sommato a una grande quantità di altre evidenze accumulate dalla ricerca astrofisica negli ultimi 60 anni, ha rivoluzionato la nostra visione cosmologica: l’universo fisico nel suo insieme non è una realtà statica ed immutabile, ma è in moto. Viviamo in un cosmo che muta nel tempo, che ha un passato, un futuro, una storia. Il fatto che il cosmo debba essere guardato come una realtà in movimento rende piena giustizia alla parola «uni-verso»: suggerisce che l’unità del tutto è convogliata in una direzione, verso uno scopo. La scoperta fondamentale di Hubble è all’origine del modello del Big Bang, proposto per la prima volta da George Gamow nel 1946. Se l’universo si espande significa che nel passato la stessa quantità di energia e materia doveva essere contenuta in un volume più piccolo. Di conseguenza la temperatura e la pressione dovevano essere sempre più grandi via via che ci spingiamo indietro nel passato. Il grande esercizio della cosmologia moderna è dunque quello di studiare la fisica dell’universo andando a ritroso nel tempo cosmico, considerando situazioni sempre più estreme di densità e temperatura. Ma, se le cose stanno così, a che punto siamo di questa storia cosmica? Dalla osservazione della velocità con cui si espande è possibile calcolare l’età dell’universo: esiste un tempo finito nel passato in cui la distanza tra due punti qualunque dello spazio (due puntini rossi sul palloncino) tende a zero. Questo tempo corrisponde a circa 15 miliardi di anni fa. Alla fine degli anni Quaranta, a conclusione di un originalissimo studio teorico, Gamow e i suoi due studenti Alpher e Hermann si convinsero che poteva essere rinvenuta una traccia diretta dell’esistenza di una fase iniziale della storia dell’universo caratterizzata da una altissima temperatura. I loro risultati avevano portato a prevedere l’esistenza di un residuo di energia, oggi debolissima ma ancora osservabile, proveniente direttamente dal bollente universo primordiale. Ma ci volle un puro imprevisto perché la verità emergesse. Non erano i tempi di Internet o di World Wide Web, sicché non molti vennero a sapere dei lavori di Gamow. Di sicuro non ne sapevano niente, quindici anni dopo, Penzias e Wilson del Bell Laboratory, che stavano facendo dei test su una grossa antenna per telecomunicazioni. Nel corso delle loro misure registrarono un modesto «eccesso di segnale». I due scienziati non trascurarono questo fatto apparentemente marginale, ma lo guardarono dritto in faccia. Inizialmente attribuirono il fenomeno a un difetto della loro antenna. Una attenta analisi, tuttavia, mostrò che né gli strumenti né sorgenti astronomiche note potevano spiegare quell’effetto. Penzias menzionò l’episodio a un suo amico dell’università di Princeton, il quale gli suggerì la possibilità che si trattasse di un segnale di origine cosmologica, come Gamow aveva previsto. Fu in questa maniera che Penzias e Wilson si resero conto di aver captato per la prima volta quello che è stato chiamato l’eco del Big Bang, una traccia diretta dell’universo primordiale, e che ha fatto fare un balzo incredibile alla cosmologia negli ultimi trent’anni. Per questa scoperta nel 1978 Penzias e Wilson ricevettero il premio Nobel. Per capire meglio di che si tratta basta guardare un oggetto qualunque. Per esempio, il vaso di fiori che sta di fronte a me, a tre metri di distanza. Siccome la luce viaggia a 300 mila chilometri al secondo, la luce che parte dal vaso di fiori in un dato istante raggiungerà i miei occhi un centomilionesimo di secondo dopo: un tempo molto piccolo, nessuno se ne accorge, neanche i più pignoli. Se ora alzo lo sguardo e vedo la luna, la luce che vedo è partita effettivamente dalla luna circa un secondo fa. Nel caso del sole il ritardo è di 8 minuti. Noi vediamo le cose come erano nel passato, con un ritardo tanto più pronunciato quanto più distante è l’oggetto: dobbiamo concedere alla luce il tempo di attraversare la distanza che ci separa da esso. Noi oggi vediamo le stelle come erano decine, centinaia, o migliaia di anni fa. Le galassie sono tanto distanti che la luce ha impiegato molti milioni di anni per raggiungerci. Le galassie più distanti ci mandano un segnale che è partito oltre 10 miliardi di anni fa. Se andiamo oltre, il messaggio che riceviamo proviene da un passato così profondo che le stelle e le galassie ancora non avevano avuto il tempo di formarsi ed emettere la loro energia: è questo che spiega perché il cielo è oscuro! Infine, dal fondo «ultimo» del cielo riceviamo una immagine di come l’universo era nella sua prima infanzia, circa 15 miliardi di anni fa. A causa dell’espansione dell’universo, l’energia che oggi riceviamo è molto inferiore a quella emessa in quel lontano passato: essa è equivalente a una temperatura di circa 3 gradi sopra lo zero assoluto. Questo è il segnale che Penzias e Wilson hanno registrato: una sorta di luce fossile (il «Fondo Cosmico») che ha viaggiato per 15 miliardi di anni prima di raggiungerci, e che perciò ci porta un messaggio diretto sulle condizioni fisiche dell’universo primordiale. L’abisso nero del cielo, oltre le stelle e le galassie, porta il segno dell’origine. A causa della estrema debolezza del segnale cosmico gli esperimenti possono essere fatti solo da regioni isolate – per evitare interferenze – e con una atmosfera particolarmente trasparente (come certe montagne desertiche o il centro dell’Antartide). Le condizioni ideali per queste misure sono però date dallo spazio. Nel 1992 il satellite Cobe ha fatto la prima vera e propria mappa globale dell’universo primordiale, misurando con grande sensibilità il «Fondo Cosmico» in tutte le direzioni. Dunque la regione più estrema che possiamo direttamente osservare corrisponde a un’epoca in cui l’età dell’universo era circa un ventimillesimo di quella attuale: se paragoniamo l’età dell’universo attuale all’età di un adulto di 50 anni, ciò equivale alle prime 20 ore di vita. Osservazioni dirette di quanto è avvenuto prima non sono possibili, perché in epoche precedenti la temperatura era tanto elevata da sbriciolare gli atomi in protoni ed elettroni. In queste condizioni l’universo è opaco: la luce non può attraversare liberamente lo spazio. È come se ci fosse un velo sui primissimi drammatici avvenimenti. Ma anche dietro il velo, indirettamente, qualche forma si intravvede. Ci sono vari fenomeni fisici accaduti nei primissimi minuti di vita dell’universo che sono noti e descrivibili con ragionevole sicurezza, le cui tracce indirette sono osservabili tutt’oggi. In particolare, dopo circa 3 minuti di espansione, il miscuglio uniforme di particelle e di radiazioni che riempiva l’universo doveva avere una temperatura di circa un miliardo di gradi, e si trovava in condizioni del tutto analoghe a quelle esistenti all’interno di un nucleo stellare: come se l’universo, per un certo breve periodo, si fosse trovato in una fase di «stella totale». In quella fase primordiale le stesse reazioni termonucleari che oggi fanno risplendere il nostro sole devono aver prodotto elio e altri elementi leggeri secondo quantità che possono essere valutate con calcoli accurati. Ebbene, le osservazioni astronomiche confermano la presenza di una componente cosmologica di elementi leggeri secondo le abbondanze previste. Questo fatto è un altro dei pilastri osservativi fondamentali che sostengono l’attuale ricostruzione cosmologica. Andando a tempi ancora più primordiali (e quindi a energie ancora più elevate) lo studio della cosmologia si connette in modo forte con le conoscenze che derivano dall’infinitamente piccolo: la fisica delle particelle elementari. Infatti, quando i fisici fanno scontrare, ad esempio, fasci di protoni e antiprotoni ad alta energia, in un grande acceleratore di particelle, riproducono in un piccolissimo volume condizioni simili a quelle che dovevano esistere ovunque nell’universo primordiale. Negli anni più recenti si sono formulate ipotesi teoriche che descrivono le primissime frazioni di secondo di vita dell’universo, quando le dimensioni dell’attuale universo osservabile dovevano essere circa quelle di una arancia. Dunque l’universo ha una storia, e come ogni storia anche quella cosmica sembra avere avuto un punto di partenza. Questo è, in estrema sintesi, l’ipotesi per il futuro. Tuttavia, alla domanda: «Che cosa accadde all’inizio?» la cosmologia non dà risposte. Via via che ci avviciniamo a quel punto limite le variabili fisiche che usiamo per descrivere l’universo assumono valore infinito, e le equazioni su cui ci siamo appoggiati per compiere tutti i passi intermedi che ci hanno fatto giungere fino a questo punto perdono di significato. Lo spazio e il tempo, e con essi l’energia (di cui la materia è una forma) sembrano emergere da un evento alle soglie del quale la scienza ci conduce, ma che la scienza non afferra. È uno di quei punti di frontiera in cui la scienza, trattando il suo oggetto particolare con serietà e secondo il proprio metodo, va a cozzare contro un fattore della realtà che essa stessa, per rimanere coerente, deve riconoscere come «oltre», come «inconcepibile». Questa situazione caratterizza sempre la conoscenza scientifica, ma forse emerge in modo più suggestivo quanto più è «fondamentale» l’oggetto in questione. Del resto ciò non riguarda solo l’origine della realtà fisica nel senso cosmologico (storia e passato), ma anche l’origine della realtà fisica nel presente. Se torno a guardare il vaso di fiori che ho nella mia stanza, sono ancora davanti allo stesso mistero: di che cosa è fatto?