Archive pour février, 2012

Crocifisso ligneo, Basilica del Santissimo Crocifisso, Borgo a Buggiano

Crocifisso ligneo, Basilica del Santissimo Crocifisso, Borgo a Buggiano dans immagini sacre a-crocifisso

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L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (PRIMA PARTE)

http://www.zenit.org/article-29565?l=italian

L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (PRIMA PARTE)

La fede cristiana nelle forme dell’arte

di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.

Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina

ROMA, martedì, 14 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Nell’arte è custodita un’allusione al divino e al paradiso: è questa una stupenda intuizione che N.V. Gogol espresse nel suo racconto Il ritratto del 1835, ma è questo anche uno dei tanti comuni e banali asserti che si ripetono, forse per assuefazione accademica o con ironica accondiscendenza. Si dimentica così che l’arte come scintilla del divino è una conquista della visione biblica della realtà: laddove la prospettiva del pensiero antico riconosceva nella bellezza una qualità dell’essere, la rivelazione biblica scopre un gesto personale di Dio creatore, che con gusto artistico dissemina nel cosmo le sue vestigia.
Atanasio, con sguardo estatico, vede nel mondo creato l’impronta della sapienza divina: «Ma se il mondo è stato organizzato con sapienza e conoscenza ed è stato riempito di ogni bellezza [d?a?e??sµata?], allora si deve dire che il creatore e l’artista [d?a??sµ?sa?ta] è il Verbo di Dio» (Oratio contra gentes, 40, in: PG, 25, 79-80D). Dio come artista precede ogni artista umano, che con i suoi strumenti aggiunge una pennellata di bellezza a questo mondo splendido, in cui la Sapienza ama trastullarsi accanto ai figli degli uomini (cfr. Sir 24,3-11; Gv 1,3.14).
Un’interessante dibattito si è innescato recentemente a partire da questi argomenti a proposito del nuovo Fonte battesimale, creato dall’Architetto e Designer Alberto Cicerone sotto la guida del Teologo Don Salvatore Vitiello per le celebrazioni nella Cappella Sistina. Ci si chiede infatti se l’arte sia capace non solo di rimandare genericamente al divino, ma possa in verità servire la fede della Chiesa nella sua vita liturgica.
Sembra superfluo ricordare che la produzione artistica si fa segno autentico del divino non per un suo vuoto sforzo di teoresi, ma nella misura in cui essa riesce a parlare di Dio, e in questi termini offre già un servizio ottimo al cammino di fede dell’uomo. Ma c’è da aggiungere che il ministero dell’arte non è affatto una soggezione che ne svilisce l’originalità, né la Chiesa si arroga un’autorità che definisca canoni e modalità espressive: al contrario «la Santa Madre Chiesa è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122).
Questa amicizia, che si potrebbe a buon diritto definire alleanza, ha come obiettivo eccellente un servizio a Dio e all’uomo, in una felice circolarità che non sminuisce nessun autentico valore umano, esaltando al contrario tutto ciò che di bello e di buono l’uomo è in grado di produrre, nel solco di quella creatività che tanto lo avvicina al Creatore-artista. Non esiste infatti  niente di «genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1): così ogni valore artistico di cui l’uomo è capace è di per se stesso una scintilla di vangelo, e per questo motivo appartiene anche all’indole del cristiano.
Il nuovo Fonte Battesimale è espressione artistica del nostro tempo e prodotto di uno sforzo di riflessione sullo spazio legittimo tra arte e liturgia operato nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
La forma innovativa non ha un riscontro nell’iconografia storica del fonte cristiano, ma si presenta come un segno gravido di rimandi biblici e liturgici e capace di parlare anche all’uomo di oggi, che in gran parte ha perduto i codici simbolici cristiani, ma sa ancora decriptare un messaggio iconografico che parli il linguaggio dei segni naturali.
La struttura è molto semplice, costituita da tre elementi, che finemente lavorati definiscono una composizione che attrae lo sguardo. La pietra calcarea funge da base alla struttura: essa è solcata da profonde incisioni, le quali tuttavia non richiamano la mano dell’uomo che lavora la roccia, ma l’azione del tempo, che modella le forme naturali in anatomie che parlano di storia eterna.
Nella pietra affonda le radici il bronzo dell’albero che la sovrasta: è un olivo giovane, ma già segnato da un suo percorso di vita che disegna il fusto contorto e slanciato verso l’alto, dove le ricche fronde, sempre verdi e abbondanti esprimono l’esuberanza dell’energia vitale che lo percorre, e dove sono nascosti ventiquattro frutti, che fanno corona alla sfera che si trova nel cuore della chioma. Viene da chiedersi se la rilucente sfera sia adagiata sui rami dell’olivo, oppure sorga proprio da quel tronco attorcigliato: la simbologia solare è tuttavia evidente, e risplende nella luce dell’oro di cui è rifinita. La sfera è cava, e si apre a metà, lasciando scoprire al suo interno l’alveo dell’acqua rigeneratrice del battesimo.
Cristo, sole nascente dall’alto (Lc 1,78; cfr. Liturgia delle Ore, Invocazioni alle Lodi mattutine della II domenica del salterio) siede in trono sull’albero della vita. In lui luce del mondo (Gv 8,12) sono immersi gli uomini per essere illuminati (Ef 5,14) e rinascere dall’alto (Gv 3,3.7), e diventare a loro volta luce (Mt 5,14; Gdc 5,31) in questo mondo immerso nelle tenebre, che attende un raggio di speranza.
Cristo è ad un tempo il volto di Dio e il volto dell’uomo su cui risplende la bellezza e la potenza del sole (Ap 1,16): avvicinarsi a lui, entrare nella fonte che lui apre nel proprio costato, equivale ad entrare nella sua orbita e lasciarsi trasformare dalla sua forza divina in un’umanità nuova, capace di contenere, senza rimanerne schiacciata, tutta la pienezza di Dio (cfr. Es 33,23; Gdc 13,22). Di questo sole è rivestita Maria (Ap 12,1), prima e perfettamente redenta, donna trasformata dalla grazia, madre di tutti i viventi che da quel sole attingono la loro energia vitale; di questo sole si veste anche la Chiesa (Ap 12,1; 22,5), splendente della luce del suo Signore (Preconio pasquale).
[Domani pubblicheremo la seconda ed ultima parte]
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L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (SECONDA PARTE)

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L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (SECONDA PARTE)

La fede cristiana nelle forme dell’arte

di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.

Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina

ROMA, mercoledì, 15 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Israele, nella vitalità che la misericordia di Dio gli dona, sanandolo dalle sue infedeltà, possiede la bellezza dell’olivo verdeggiante (Os 14,7), e fonda la propria giustizia solo nella fedeltà di Dio alle sue promesse (Sal 52[53],10), nel suo affetto e nel suo cuore paterno che non dimentica l’alleanza di pace.
Questo olivo è il popolo che Dio si è scelto, la radice santa su cui sono innestate tutte le genti per mezzo della fede (Rm 11,11-24), ma solo in virtù della linfa vitale che gli deriva dalla radice vera dell’albero di vita che è Cristo stesso (Ap 22,16; Is 11,10; Gv 15,4-5). Egli è la radice cresciuta in terra arida (Is 53,2), nata sulla roccia senza vita della nostra umanità perduta. In virtù dell’offerta che il Figlio fa di se stesso sulla croce sgorga il fiume vivificante, sulle cui sponde crescono gli alberi sempre verdi e ricchi di frutti (Ez 47,1-12; Ap 22,1-2). Egli è ancora il nuovo albero della vita, che viene restituito ad Adamo dopo la riconciliazione (Ap 2,7; 22,14): nel legno della sua croce rifiorisce la vita che il peccato aveva spento.
Dio stesso è la roccia sicura, difesa e gloria del suo popolo (Dt 32,4; 1Sam 2,2; Sal 18[19],3; 31[32],3; Is 26,4), una roccia viva che genera Israele (Dt 32,18), e che si spacca, si apre per far scaturire acqua di vita (Es 17,6; Ger 2,13; Gv 4,10). I discepoli di Gesù riconoscono che egli era la roccia che nel deserto dissetò Israele (1Cor 10,4), quella roccia spirituale che ancora oggi continua ad aprirsi per donare l’acqua viva dello Spirito, anzi per far sgorgare le sorgenti di quest’acqua nel cuore degli stessi credenti (Gv 7,38), che battezzati in lui, diventano per mezzo di lui tempio dello Spirito di Dio (Ez 36,26).
Cristo è la piccola pietra che solo in apparenza è insignificante (Dn 2,34-35), una pietruzza che “si stacca dall’alto”, senza intervento di mano d’uomo: è Dio stesso che la invia per l’uomo, per poter ricostruire tutto secondo il progetto di Dio (Mt 21,42; At 4,11; Ef 2,20): i costruttori infatti l’hanno scartata, ma Dio vuole che diventi basamento di costruzione per la casa nuova dell’umanità nuova, contro la quale nessun attacco potrà portare distruzione (Mt 7,24-25). In lui anche i discepoli sono resi pietre vive, per la costruzione del tempio santo dove Dio desidera abitare in mezzo agli uomini (1Pt 2,4-5).
Questo breve e sintetico excursus che analizza la simbologia artistica in riferimento a quella biblica mostra come il messaggio sotteso dal linguaggio del Fonte battesimale utilizzato nella Cappella Sistina è duplice: ci parla di Dio e dell’uomo, parte sempre dal creatore per giungere alla creatura umana.
Ci dice come la realtà dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo non sia una semplice rivelazione di qualcosa di misterioso, ma una rivelazione misterica, invita cioè gli uomini a entrare dentro il mistero, a prendere parte da protagonisti alla storia della salvezza. In quel fonte comincia una vita nuova, che non avrà fine, e che segnerà per sempre la comunione tra Dio e l’uomo, in un’alleanza sponsale che nessuna forza potrà mai spezzare. Attraverso quel grembo la creatura umana accede nell’intimità di Dio e diventa come lui, partecipando al suo dono di vita, assumendo in sé il suo essere, e transumanando.
Il fonte trova collocazione nell’ambito delle celebrazioni che si svolgono nella Cappella Sistina, che con la sua sinfonia di affreschi fa da sottofondo alla liturgia celebrata dal Santo Padre. Se non si dà una corrispondenza sincronica o puntuale della triplice simbologia nel contesto iconografico della Cappella, molti rimandi allusivi ci consentono di trovare una sorprendente consonanza che illumina il linguaggio artistico.
Se alcuni particolari della creazione di Eva e del peccato originale, che si trovano nella volta, ci possono mettere sulle tracce dell’albero della vita secondo un’interpretazione tutta michelangiolesca, tuttavia è la simbologia solare che risalta immediatamente, ed anzi è la più evidente per la sua collocazione proprio sopra lo spazio celebrativo dell’altare: Cristo possente, attorno al quale, nel giudizio universale, si muovono tutti gli altri personaggi. È lui il centro della storia, quel sole di giustizia che sorge dall’alto, e che Michelangelo ha rappresentato nella sua aurora definitiva, la luce dorata che lo incornicia alle spalle, e che abbraccia anche Maria seduta alla sua destra.
Ci chiediamo se sia legittima la pretesa di aggiungere una nuova componente artistica in un contesto di così alto valore come la Cappella Sistina. La risposta è ancora una volta banale, ma non per questo meno vera: in momenti diversi della storia ed anche con contributi differenti la Cappella è stata arricchita.
Anche la mano degli artisti del nostro tempo ha diritto a partecipare a questa sinfonia che comprende consonanze e dissonanze di mirabile bellezza: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura.
Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 123; cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 3a ed., 289; Caeremoniale Episcoporum, 37). Nel suo contributo, che per certi versi ha anche il pregio di mantenersi umile, al contesto liturgico e artistico, il fonte parla il linguaggio della fede, quello della bellezza comprensibile e ricca di dignità, e con la sua originalità, concorre alla composizione del momento celebrativo senza sminuire, anzi esaltandola attraverso i riflessi, lo spessore della simbologia tradizionale che gli sta intorno.
Pare proprio che teologia ed arte possano tornare a dialogare.
[La prima parte è stata pubblicata ieri, martedì 14 febbraio: http://www.zenit.org/article-29565?l=italian]

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Le Chiese in Siria: Arabesco cristiano

http://www.stpauls.it/jesus03/0312je/0312je40.htm

Le Chiese in Siria

Arabesco cristiano

di Vittoria Prisciandaro

(3 dicembre 2003 – leggo dal link) 

Nella terra che vide la conversione dell’apostolo Paolo, la piccola minoranza cristiana oggi rappresenta un incredibile melting-pot di confessioni, riti e culture. In passato motivo di tensioni, questa convivenza nella varietà ha fatto sì che la Siria diventasse un piccolo ma avanzato laboratorio di dialogo ecumenico.
Il monaco ortodosso ha appena sfornato il pane. È ancora caldo quando lo consegna alla parrocchia cattolica. Un tempo le due comunità cristiane di Qaryatayn, un piccolo paese nel nord ovest della Siria, si combattevano senza tregua. I siro-ortodossi accusavano i siro-cattolici di aver loro sottratto il monastero di san Elian, appena fuori paese. Un oltraggio consumato a metà ’800, quando parte della popolazione ortodossa diventò cattolica in seguito a complesse vicende storiche. Una ferita che ha continuato a dividere famiglie e Chiese per decenni, a suon di profanazioni nei rispettivi cimiteri. «Ci si combatteva anche fisicamente», racconta padre Bassel Bursom, parroco della comunità siro-ortodossa.
Poi le cose sono cambiate. I parroci hanno iniziato a dare il buon esempio e oggi padre Bassel prepara il pane per le celebrazioni delle due comunità, la sua e quella cattolica, dedicate entrambe a san Elian. «Jack è come un fratello», dice Bassel. Padre Jack Murad, parroco siro-cattolico, vive nel monastero di mar Musa, poco lontano.
I bambini delle due comunità fanno il catechismo insieme, la gente partecipa indifferentemente alla Messa dell’una o dell’altra Chiesa, la formazione degli adulti si fa a settimane alterne dall’uno o dall’altro, e si sta pensando di aprire un asilo comune e di unificare anche le feste del patrono. «Nel nostro piccolo viviamo una comunione quasi perfetta», conclude padre Bassel.
Un caso abbastanza particolare. La Siria, insieme al Libano, è infatti la terra che esprime pienamente la ricchezza e la complessità della storia cristiana. Le Chiese orientali, cattoliche e ortodosse, ci sono tutte, immerse nella maggioranza musulmana. Caldei, melchiti, siriaci, latini vivono nelle stesse città, abitano le stesse case e gli stessi quartieri.
Le famiglie cristiane al loro interno presentano una varietà di sfumature difficili da comprendere per un occidentale. Differenze che vengono vissute con ecumenica simpatia, tanto che spesso si frequenta la chiesa più vicino casa, a prescindere dal rito di appartenenza. Più forti le resistenze delle gerarchie, in particolare quelle ortodosse. Mentre i cattolici in caso di necessità possono comunicarsi alla Messa ortodossa, non è permesso il contrario. Per questo i siro-ortodossi rappresentano un’eccezione: «Nel 1984 c’è stata una dichiarazione comune tra il Papa e il nostro Patriarca», dice Gregorios Yohanna Ibrahim, metropolita siro-ortodosso di Aleppo. «Da quel momento nella nostra Chiesa ufficialmente c’è ospitalità eucaristica con tutti i cattolici del mondo. Tra gli ortodossi siamo gli unici».
Eppure basta passeggiare lungo Sharia bab Sharqi, nel quartiere cristiano di Damasco, per capire quanto forti siano i legami tra le varie comunità. Le cattedrali distano poche decine di metri e spesso gli stessi abitanti della zona le confondono tra di loro. Anche ad Aleppo le chiese cristiane sono tutte nel breve raggio della nuova piazza Madre Teresa, dove ha sede l’arcivescovado siro-cattolico. Insomma, nella pratica spesso i fedeli seguono una prassi diversa da quella richiesta dall’ufficialità delle Chiese. «Nei fatti si chiude un occhio e, se non c’è un segno di riconoscimento esterno, se non è una religiosa o un prete, gli ortodossi partecipano senza problemi alle messe cattoliche», dice l’arcivescovo greco-cattolico (melchita) di Damasco, monsignor Isidore Battikha.
La sua è la Chiesa cattolica più numerosa. E proprio dal patriarca melchita, Grégoire III Laham, è partita la proposta di celebrare la Pasqua cristiana tutti insieme, secondo il calendario giuliano, quello ortodosso. In linea di principio sarebbero tutti d’accordo, ma le cose sono meno semplici di quanto si potrebbe pensare: da quasi 40 anni, infatti, gli armeni ortodossi hanno deciso a livello mondiale di celebrare la Pasqua secondo il calendario gregoriano, cattolico. Un segno di unità, almeno intorno alla grande mensa pasquale, per un popolo segnato da guerre e persecuzioni. Insomma mentre gli ortodossi in generale sono fermi al calendario giuliano e la Pasqua comune in Siria sarebbe possibile soltanto se tutti i cattolici decidessero di accordarsi su questa data («ma dovremmo decidere insieme, il patriarca melchita l’ha proposto senza consultarsi con nessuno», precisa il vescovo siro-cattolico di Aleppo, monsignor Denys Antoine Chahda), la piccola minoranza armena cattolica, dopo che gli armeni ortodossi hanno convenuto sul calendario gregoriano, non vuole tornare indietro.                               
«Tutti parlano di unità, ma le Chiese sono strutturate in maniera completamente autonoma», dice padre Pierre Masri, greco-cattolico, professore all’università di Aleppo e consultore del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. «Sono piramidali e autosufficienti: patriarca, sinodo, vescovi, preti. E possono vivere la vita ecclesiastica senza tener conto degli altri. Tant’è che non c’è una struttura che permette un confronto: ad Aleppo siamo cinque comunità cattoliche, ma tra noi preti non ci incontriamo mai. Insomma: tante tradizioni sono troppe per una minoranza così limitata come è quella cristiana».                  
I numeri dicono che, in totale, la comunità cristiana conta non più di un milione e mezzo di fedeli, tra il 10 e il 15 per cento della popolazione, a maggioranza musulmana. Padre Masri, che dirige tra l’altro la biblioteca spirituale di Aleppo, giovane istituzione che sta raccogliendo consensi anche tra universitari musulmani, sostiene che, se in passato la diversità era giustificata dal fatto di avere culture vive – siriaca, greca, armena –, «una volta passati a quella araba, le diversità sono comprensibili solo per gli addetti ai lavori. Per i giovani sono senza senso. E ai musulmani non testimoniano l’unità dei cristiani».
È questo il senso della proposta lanciata da monsignor Battikha: ritrovarsi sotto la comune denominazione di « Chiesa araba ». «La Chiesa ha sempre una collocazione geografica, sin dai tempi di san Paolo», dice l’arcivescovo melchita. «Dopo aver sopportato le divisioni del passato, quello che oggi può unirci è la visione del futuro: siamo tra un popolo arabo, che non vuol dire musulmano. E condividiamo gli stessi problemi: l’essere una minoranza, l’educazione della gioventù, l’emigrazione dei cristiani, la pace con Israele».
Una proposta che per alcuni è solo una faccia della medaglia. «Si deve capire che quando si difende un’identità – caldea, siriaca, armena – si difende una libertà»: con toni pacati il vescovo caldeo di Aleppo, monsignor Antoine Aude, gesuita, spiega che la difesa di una cultura non è espressione di fanatismo, ma «del diritto a essere differenti dagli altri, pur nella comunione». Questa antica Chiesa « nestoriana », che nel 1551 ha scelto la comunione con Roma e che oggi è presente soprattutto in Iraq, non intende rinunciare al suo patrimonio. «Dobbiamo essere coscienti che apparteniamo alla cultura araba senza complessi e questa è la lingua da usare per essere testimoni. Dobbiamo trovare una via ecumenica, ma senza rinunciare alla nostra tradizione liturgica e spirituale», dice Aude.
Se le gerarchie faticano a incontrarsi, un luogo in cui si ritrovano in pellegrinaggio tutti i cristiani è la cittadina di Maalula, ai piedi della catena dell’Antilibano, dove ha sede il convento di santa Tecla, Deir Mar Takla, e dove si parla l’antico dialetto aramaico dei tempi di Gesù. Seguace di Paolo, tra le prime martiri cristiane, sulla tomba di Tecla anche i musulmani si recano per chiedere benedizioni.
Delle relazioni amicali con i vicini di fede islamica, la gente e i sacerdoti parlano volentieri. Più dolente è il tasto della libertà di coscienza: «C’è libertà di culto, anche maggiore che in altri Paesi», sostengono tutti i vescovi interpellati. «Ma vorremmo che ciascuno fosse libero di poter scegliere la sua religione», osserva monsignor Chahda. Oggi è già meglio di ieri, dicono. E sperano nel futuro, mentre la comunità cristiana continua ad assottigliarsi, a causa della forte migrazione. Di come la vicenda dei cristiani in Siria vada comunque letta nel complesso scacchiere mediorientale lo racconta la piccola croce tatuata sul braccio di un anziano muratore, che lavora al restauro della splendida cattedrale siro-cattolica di Aleppo. La data segnata accanto alla croce è quella del pellegrinaggio compiuto a Gerusalemme. Era prima della guerra con Israele. Oggi le frontiere sono chiuse. E la Terra Santa, per i cristiani di Siria, rimane un sogno a portata di mano, eppure proibito.

Vittoria Prisciandaro

Mat-04,01-Temptation_and_freedom

Mat-04,01-Temptation_and_freedom dans immagini sacre 19%20BLAKE%20THE%20THIRD%20TEMPTATION

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-04,01-Temptation_and_freedom_Tentation_et_%20liberte/slides/19%20BLAKE%20THE%20THIRD%20TEMPTATION.html

Publié dans:immagini sacre |on 25 février, 2012 |Pas de commentaires »

COMMENTO DI PELAGIO ALLA LETTERA AI ROMANI

http://www.zenit.org/article-29693?l=italian

COMMENTO DI PELAGIO ALLA LETTERA AI ROMANI

Un contatto diretto con il celebre avversario di sant’Agostino

di Robert Cheaib

ROMA, sabato 25 febbraio 2012 (ZENIT.org). – La lettera ai romani di san Paolo è una delle opere più importanti per il pensiero teologico cristiano. Se considerata dal punto di vista della storia degli effetti (Wirkungsgeschichte), essa rivela una stupefacente influenza su diversi aspetti – spesso scottanti e contrastanti – del Mistero cristiano. Numerose nozioni e dottrine teologiche di insigni maestri e dottori trovano in questa lettera scaturigine, giustificazione e conferma.
Nell’epistola ai romani, ad esempio, sant’Agostino d’Ippona trovò l’ossatura biblica della dottrina del peccato originale (cap. 5). Da essa, Lutero evinse la sua teoria della giustificazione per la sola fide (cap. 3-4). Un’altro riformatore, Giovanni Calvino, vi scorse l’humus per la sua dottrina della doppia predestinazione (cap. 9-11). Non a caso la lettera è stata sempre oggetto di commentari e studi da parte dei più importanti pensatori cristiani cominciando da Origene, passando per Agostino, l’Ambrosiaster, Lutero, Karl Barth… per elencare soltanto alcuni nomi. L’editrice Città Nuova arricchisce il panorama dei commentari sull’epistola ai romani con una traduzione del Commento di Pelagio, il celebre avversario di Agostino. Il recente volume della «Collana di testi patristici» (vol. 221) raggruppa, infatti, due opere importanti del monaco bretone: «Commento all’epistola ai romani» e «Commento alle epistole ai corinzi».
I Commenti di Pelagio rivestono un significato particolare perché ci permettono di considerare alcuni aspetti del pensiero dell’autore prima della polemica con Agostino. Il volume è una preziosa risorsa per chi vuole conoscere la visione di Pelagio attraverso un contatto diretto, e non tramite il filtro delle opere di Agostino e il setaccio non imparziale della polemica.
I due commenti riportati in questa traduzione fanno parte dell’opera più estesa di Pelagio, le «Expositiones XIII epistularum Pauli», composte nel periodo tra il 406 e il 409, e in cui l’autore commenta tutto il corpo paolino, ad esclusione della lettera agli ebrei considerata da lui come autentica di san Paolo.
Il pregio di questi commenti pre-polemici è duplice: essi mostrano un pensiero ancora caratterizzato da grande fluidità, non incastonato nelle rigidi distinzioni e posizioni della polemica. D’altro canto, i commenti ci conducono alle origini stesse del pensiero di Pelagio.
Il testo edito da Città Nuova è corredato da una preziosa introduzione di Sara Matteoli in cui si inquadrano sia la figura di Pelagio sia i commenti alle tre lettere. La Matteoli evidenzia anche i punti salienti dei Commenti di Pelagio sviluppandone in particolare quattro:
1. La distinzione tra lex naturae attraverso la quale l’uomo può conoscere per analogia che esiste Dio e che Dio è giusto, la lex litterae,ovvero la legge divina data a Mosè, e la lex fidei, che sola è capace di salvare l’uomo e di liberarlo dalla morte.
2. Le conseguenze del peccato di Adamo e il problema della grazia divina, dove l’autore sembra rifiutare il «traducianesimo», ovvero la trasmissione della colpa ai discendenti, e assume un’interpretazione solo esemplare della colpa di Adamo, in quanto Adamo si erge come modello negativo ai suoi discendenti. A differenza di Adamo, – per Pelagio – Cristo ha offerto un exemplum oboedientiae che indica agli uomini la via della salvezza.
3. Prescienza divina e libero arbitrio. L’autore dedica un’attenzione particolare alle questioni sollevate da Rm 9, dove sembra che Dio predestini alcuni alla salvezza e altri alla dannazione a prescindere dal libero arbitrio dell’uomo singolo. Pelagio supera tale difficoltà mostrando la coincidenza in Dio tra predestinazione e prescienza; così, ad esempio, «Dio ha preferito Giacobbe ad Esaù perché nella sua prescienza ha potuto vedere in suoi meriti futuri; in questo modo la scelta di Dio non è arbitraria, ma si basa sulla fede dei singoli, che egli nella sua onniscienza, è in grado di prevedere».
4. Essendo i commenti rivolti all’aristocrazia romana in cerca di approfondire la scienza e la prassi della fede, i commenti di Pelagio sono ricchi di esortazioni parenetiche. Il testo è attraversato da varie riflessioni sui problemi morali e sulla condotta che i cristiani devono conservare nel mondo.
In conclusione, questi commenti, scritti tra l’altro in un linguaggio accessibile e conciso, sono di doppio interesse: il primo è quello del cultore della letteratura cristiana antica che può confrontare le tematiche pelagiane prima ancora del loro irrigidimento polemico; il secondo è quello di un confronto con un pensatore cristiano zelante intento a mostrare la bellezza dell’essere seguaci e imitatori di Cristo; un uomo attraversato dall’ansia di annunciare Cristo giacché – come scrive il nostro autore – «tu rubi agli uomini Cristo, tenendolo loro nascosto».
robert@zenitteam.org
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PRIMA LETTERA DI PIETRO – COMMENTO BIBLICO

http://www.ilcristiano.it/2010/ott10/libri_bibbia.htm

PRIMA LETTERA DI PIETRO

La conoscenza della sofferenze affrontate da Cristo per compiere l’opera di salvezza per l’umanità e, soprattutto, la conoscenza del suo trionfo sulla morte dovevano costituire un forte motivo di incoraggiamento per i cristiani del primo secolo, nel loro tormentato pellegrinaggio terreno, quotidianamente esposto a persecuzione e prove. Ma incoraggiano anche noi, “pellegrini” del ventunesimo secolo. 

Introduzione
Il nostro brano (1P 3:18-22) si apre con una frase incredibilmente ricca di significato. Partendo dal fatto che molti dei suoi lettori erano chiamati a soffrire per il nome di Cristo, l’apostolo li incoraggia con l’esempio della sofferenza del loro Signore. Ma, nel parlarne, riassume, in termini indimenticabili, sia il motivo della morte di Cristo sia ciò che essa ha prodotto. Ecco la frase:
“Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio” (v. 18a).
Il brano si chiude con un riferimento all’ascensione di Cristo e alla sua posizione attuale:
“Gesù Cristo… asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti”.
Fra queste due dichiarazioni Pietro mette in relazione con la risurrezione trionfale di Cristo le seguenti cose: gli angeli che si ribellarono al tempo di Noè, il diluvio e il battesimo (vv. 18b-21). Per la sua brevità questo brano risulta di difficile interpretazione. Allo stesso tempo il fatto che l’apostolo considera il diluvio una pietra miliare nell’amministrazione divina della storia (si veda 2P 3:5-6; cfr. 2:4-5), aiuta a comprendere la sua scelta di servirsi di alcuni fatti inerenti a quest’evento come analogici dell’esperienza dei suoi lettori.

Il valore della sofferenza di Cristo (v. 18a)
Nel secondo discorso di Pietro riportato nel libro degli Atti, Pietro parla di Gesù come il Messia Servo venuto per soffrire (At 3:18, 26; cfr. 4:27). Nel nostro brano egli spiega il perché di tale sofferenza, ponendo l’enfasi innanzitutto sulla sua unicità:
“Cristo una volta…”.
Ne seguono delle parole che ne descrivono lo scopo: “per i peccati ha sofferto”.
 Il valore unico e permanente della sua sofferenza trovò eco in un evento concomitante con la sua morte sulla croce.
Ecco come l’apostolo Matteo lo descrive:
“Ed ecco, la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo…” (Mt 27:51).
Quest’evento indicò in modo figurativo l’obiettivo che era stato raggiunto con la morte di Cristo. Per usare una frase di Paolo, il Messia Servo “ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” (Cl 2:14).
A rendere necessario il sacrificio unico di Cristo erano sia la giustizia di Dio sia il suo amore che l’ha indotto a provvedere a soddisfare la propria giustizia per mezzo dell’incarnazione del Figlio che si è sostituto all’umanità peccatrice, “lui giusto per gli ingiusti”, come aveva predetto il profeta Isaia (53:11).
Alla luce del valore unico, sufficiente e permanente del sacrificio del Figlio di Dio incarnato, ogni pretesa di offrire a Dio ulteriori sacrifici per espiare i peccati evidenzia una mancanza di comprensione del valore di questo suo sacrificio. Dal momento che Cristo è morto al nostro posto, noi non dobbiamo più morire per i nostri peccati!
L’unica cosa che dobbiamo fare, per “fare le opere di Dio” (Gv 6:28-29), è di credere in Gesù, che ha compiuto l’opera che il Padre gli aveva affidato (Gv 17:4).
La frase termina con le parole: “…per condurci a Dio”, facendo comprendere che il sacrificio di Cristo rende Dio propizio nei nostri confronti. Quando noi ci presentiamo al Padre nel nome di Cristo, Dio Padre ci riceve come persone ubbidienti in quanto rivestiti della giustizia di colui che ha ubbidito al Padre per conto nostro (Ro 5:19). In altre parole, la morte di Cristo ha effettuato la riconciliazione fra Dio tre volte santo e l’uomo peccatore.
Chi si affida al Salvatore non è più distante da Dio e non ha bisogno di altri mediatori umani per avvicinarsi a Dio quando prega o adora il Dio vivente e vero.

Il trionfo di Cristo (vv. 18b, 22)
Sempre come esempio del valore che la sofferenza ingiusta possa rappresentare nella vita dei pellegrini cristiani, Pietro descrive l’esito della sofferenza di Cristo. Ecco le sue parole:
“Messo a morte nella carne ma vivificato nello spirito… essendo passato attraverso il cielo, Egli è alla destra di Dio, essendogli sottoposti angeli, principati e potenze” (vv. 18b, 22).
Come, nella sua morte Gesù ha trionfato sul peccato che aveva separato l’umanità da Dio, così nella sua risurrezione ha trionfato sulla morte stessa per poi ascendere in cielo e prendere il posto che gli spetta alla destra del Padre da dove regna supremo sopra ogni altra autorità. Ricordarsene può essere di grande incoraggiamento per i cristiani pellegrini che affrontano vari tipi di persecuzione e ingiustizia, in quanto partecipano nel trionfo di Cristo, loro sostituto.
Prima di considerare il resto del brano è importante notare il parallelismo e il contrasto fra “carne” e “spirito” nella seconda parte del v. 18. Gesù fu “messo a morte quanto alla carne” e fu “vivificato quanto allo spirito”, quale premessa della sua posizione attuale di supremazia nell’universo (si veda anche Mt 28:18). Il soggetto indicato dal verbo “vivificare” (zoopoietheis) non può essere altro che la sua risurrezione, in quanto il verbo presuppone che ciò che viene vivificato sia passato per lo stato di morte. In altre parole non può riferirsi all’esistenza spirituale di Gesù durante il periodo che va dalla sua morte alla sua risurrezione.
Come previsto per il corpo di risurrezione di “quelli che sono di Cristo” (1Co 15:22-23, 42-46), il verbo zoopoieo è usato da Pietro per descrivere la risurrezione in un nuovo tipo di corpo, compatibile con la sfera “spirituale” (gr. en pneumati), esattamente come il corpo di “carne” aveva reso il Figlio di Dio partecipe della vita sulla terra, per poter morire come nostro sostituto.

La proclamazione trionfale di Cristo (vv. 19-20)
La parte centrale di questo brano inizia con la locuzione “in esso” (gr. en ho). Tale pronome relativo corrisponde, quanto a numero e genere, alle parole “in spirito” (gr. en pneumati, v. 18b), quindi fa riferimento allo stato di risurrezione di Cristo.
Prendendo sul serio questo dettaglio grammaticale, il ventaglio di possibili interpretazioni di questi versetti si riduce notevolmente. Infatti gli interpreti che, basandosi sull’uso del pronome relativo altrove nella lettera (si veda 1:6; 2:12; 3.16; 4:4) attribuiscono a questa locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, trascurano il fatto che qui, a differenza degli altri casi citati, esiste una precisa corrispondenza grammaticale.
In pratica l’interpretazione che attribuisce alla locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, si ispira più al testo del Credo Apostolico, nella versione del 390 d. C., secondo cui Gesù “fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all’inferno, il terzo giorno risorse dai morti…”, che non al testo della 1Pietro.
Questa serie di eventi fa comprendere che Gesù avrebbe fatto il suo annuncio agli “spiriti trattenuti in carcere” dopo la sua morte e prima della sua risurrezione e, per farlo, avrebbe dovuto visitare l’inferno. Ma il testo di un Credo dovrebbe basarsi sul testo biblico e non vice versa. L’idea che Cristo sia sceso nell’inferno dopo la sua morte è una deduzione da brani quali Romani 10:7, Efesini 4:8-9 e dal riferimento a “morti” in 1Pietro 4:6, però nessuno di questi brani richiede una simile interpretazione. D’altra parte la dichiarazione di Gesù al ladrone sulla croce: “oggi sarai con me in paradiso” (Lu 23:43) nonché le sue parole: “Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio” (Lu 23:46), sembrano escludere tale ipotesi.
Secondo Grudem i versetti 19-20 insegnerebbero che Cristo aveva predicato agli spiriti ora tenuti in carcere tramite Noè mentre questi costruiva l’arca. Anche quest’interpretazione ignora sostanzialmente la corrispondenza grammaticale fra il pronome relativo “in esso” (v. 19) e l’ultima frase del v. 18, secondo cui a predicare fosse il Cristo risorto.
Inoltre, quest’interpretazione presuppone che gli “spiriti” a cui si fa riferimento nel v. 19 siano quelli degli uomini che erano ribelli al tempo di Noè. Ma in questo caso sarebbe stato più naturale scrivere “gli spiriti trattenuti in carcere di coloro che una volta furono ribelli” e non già “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli”. Prese alla lettera le parole di Pietro sembrano indicare esseri spirituali.
Secondo una terza interpretazione, “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli” nel periodo in cui Noè stava preparando l’arca, sono da identificare con degli angeli ribelli che tentarono di far scomparire la discendenza che faceva capo a Set, che temeva Dio (Ge 4:26). Avrebbero corrotto queste persone o simulandosi esseri umani e avendo rapporti sessuali con i discendenti di Set, per compromettere spiritualmente la loro prole, oppure inducendo le persone che discendevano da Set e che temevano Dio a sposare i discendenti profani di Caino (cfr. Ge 6:1-3; 2 P 2:4-5).
Pietro stesso conferma che angeli ribelli furono coinvolti nel peccato che provocò il giudizio del diluvio (2P 2:4-5). Se, come credo, questa è l’interpretazione giusta, le parole “in esso andò anche a predicare” si riferirebbero a un annuncio fatto da Cristo, della sua definitiva vittoria, a questi angeli.
Tali angeli sarebbero da identificare con “i principati e potenze” su cui Cristo aveva trionfato “per mezzo della croce” (Cl 2:15). Il Cristo risorto avrebbe fatto quest’annuncio mentre attraversava i cieli nella sua ascesa alla destra di Dio, da dove esercita un potere assoluto sopra di loro (1P 3:22; Eb 2:14-15; 4:14; 1 Co 2:6-8).

Battesimo e risurrezione di Gesù Cristo (vv. 20-21)
Dopo la menzione dell’annuncio fatto da Cristo ai “spiriti trattenuti in carcere”, Pietro inserisce una parentesi in cui parla delle persone che scamparono al giudizio divino che cadde sull’umanità indotta a peccare al tempo di Noè.
Il soggetto in questi versetti è la salvezza di alcune persone dal diluvio, una circostanza che Pietro considera analogica con la salvezza di cui sono eredi i suoi lettori.
Un dettaglio del v. 20 suggerisce che il motivo di questo accostamento sia il contesto di persecuzione in cui queste persone erano chiamate a vivere. Mi riferisco alla precisazione che nell’arca “poche anime, cioè otto, furono salvate…”. In modo simile i lettori della prima lettera erano una minoranza nel mondo pagano e quindi costretti a vivere “come forestieri dispersi” spesso incompresi e trattati ingiustamente (1:1). Le otto anime salvate dal diluvio e i primi lettori della 1Pietro avevano in comune anche l’esperienza di essere in qualche modo “salvate attraverso l’acqua”.
Nel caso dei lettori della 1Pietro, l’immersione (gr. baptisma) in acqua corrispondeva al momento in cui avevano confessato la loro fede in Gesù Cristo come il loro Salvatore e Signore (cfr. Mr 16:15-16; At 2:38; 10:43-48). Pertanto, come non era stata l’acqua in sé a salvare Noè e la sua famiglia, bensì l’arca costruita in obbedienza alla Parola di Dio, così il battesimo, comandato da Cristo, non era stato la causa efficace della salvezza dei pellegrini cristiani a cui Pietro scriveva; lo era stato il trionfo di Cristo sul peccato e sulla morte.
Infatti Pietro precisa:
“… battesimo (che non è l’eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio). Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo”.
Infatti “se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Ro 10:9).
In definitiva la nostra giustificazione e la nostra salvezza eterna sono rese possibili dalla risurrezione del Salvatore, ovvero l’esito trionfale della sua morte vicaria (si veda Ro 4:25; 1 Co 15:12-23).
Pietro invita i suoi lettori a riflettere sul fatto che il loro battesimo faceva riferimento al trionfo di Cristo, che dopo aver sofferto una volta sola per i peccati, era stato totale. La sua risurrezione aveva dato inizio alla nuova creazione. Quindi non dovevano scoraggiarsi quando si trovavano a soffrire per la giustizia o come cristiani; anzi dovevano “glorificare Cristo come Signore” nei loro cuori (v. 15), sapendo che i nemici di Dio sono stati informati della sua vittoria e ora Cristo “sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti” (v. 22).

Per la riflessione personale e lo studio di gruppo

1. Quante verità apprendiamo da 1Pietro 3:18?
2. L’interpretazione di 1Pietro 3:19-21 proposta sopra tiene presenti i diversi contesti del brano, in particolare quello grammaticale, quello del contesto storico in cui vivevano i primi lettori e quello rievocato di Genesi 6-9. A proposito di questo ultimo, c’è da notare che Pietro attribuisce valore storico al diluvio. In quali altri brani delle lettere di Pietro l’apostolo prende le distanze dalla categoria di miti, quando tratta eventi di carattere soprannaturale?

Rinaldo Diprose
(Assemblea di Roma, Borgata Finocchio)

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