Archive pour avril, 2012

San Giuseppe

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Publié dans:immagini sacre |on 30 avril, 2012 |Pas de commentaires »

SAN GIUSEPPE? Santo sì, ma lavoratore!

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SAN GIUSEPPE? Santo sì, ma lavoratore!

L’aspetto sociale del lavoro con l’apporto della sua concretezza derivante dalla spiritualità vissuta nella casa di Nazareth.

Il cammino profetico dei fondatori è sempre segnato da « intuizioni », piccole luci interiori emerse nella preghiera, nella riflessione personale e sperimentate nel loro accrescersi passando da piccole fiammelle a grandi fari accesi nella notte nel percorso umano e sociale vissuto da questi « uomini di Dio » che solcano la storia come « maestri », desiderosi di procedere nascostamente nel loro impegno indipendentemente dall’essere più o meno compresi o più o meno acclamati. Così anche il Beato Giacomo Alberione, il nostro Primo Maestro, definito qualche anno prima della sua morte da Paolo VI « umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile e raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera » ci sprona col suo stile « volutamente nascosto » a farci riflettere e interrogarci sulle note che risuonano dalla sua spiritualità pienamente accordata sulla vita ecclesiale ed apostolica del suo tempo. Sicuramente fu così anche per la « devozione a S. Giuseppe » che egli visse personalmente e trasmise ai suoi fin dai primi anni di fondazione dell’opera paolina. Il 5 ottobre del 1921 lui stesso scelse per sé il nome di Giuseppe, emettendo in quel di Alba la professione religiosa con i suoi primi discepoli. Nella coroncina dedicata al Santo, di vetusta tradizione, e che egli fece propria leggendo uno scritto di Giovanni Bosco, emergono svariati aspetti che, estrapolati dalla vita del santo patrono della Chiesa universale, egli seppe applicare al proprio ministero e promuovere col proprio apostolato a servizio ed in unità al Magistero dell’epoca.

I Papi ispiratori: Pio IX, Leone XIII, Pio XIIi
L’aspetto cristologico di familiare intimità vissuta da S Giuseppe nella Casa di Nazareth, il suo intervento continuo a protezione della stessa, e ben descritta da Papa Leone XIII nell’enciclica del 15 agosto 1889 Quamquam pluries, crearono l’humus, il terreno favorevole, per un rilancio della figura di S. Giuseppe come difensore della cristianità. Rilancio al quale il Primo Maestro non rimase indifferente negli anni a venire e che segnarono alcuni importanti cardini nella spiritualità paolina. Papa Leone XIII riprese e sviluppò quanto già avviato dal suo predecessore, Pio IX, con il decreto della S. Congregazione dei Riti Quemadmodum Deus dell’ 8 dicembre 1870.
Giuseppe, Patrono della Chiesa universale, proponendo ai fedeli di ricorrere a lui riconoscendogli un potere di preghiera d’intercessione inferiore solo a quella di Maria. Verso la fine dell’800 Leone XIII, introducendo la sua lettera sostennne di « ritenere sommamente conveniente » che il popolo cristiano oltre a rivolgersi alla Madre di Dio « si abitui a pregare con singolare devozione e animo fiducioso il suo castissimo sposo San Giuseppe » ed auspicava che la devozione al padre putativo di Gesù mettesse  » profonde radici nelle istituzioni e nelle abitudini cattoliche ». Forse sarà utile sapere, pensando noi paolini al nostro Istituto Santa Famiglia, che già allora lo stesso Pontefice, nella lettera apostolica Neminem fugit del 14 giugno 1892, istituirà canonicamente la Pia Associazione Universale delle Famiglie consacrate alla Sacra Famiglia di Nazareth, sottolineando la partecipazione intima di Giuseppe alla suprema dignità della santa Famiglia. Tornando alla Quamquam pluries, la preghiera che conclude l’enciclica di Leone XIII, « A te beato Giuseppe… » verrà ripresa in più edizioni successive, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, nei libri di preghiera ad uso della Società San Paolo e di alcune delle istituzioni paoline, accompagnando i punti della « Coroncina a San Giuseppe » fin dai primi anni della sua stampa e diffusione. Del resto, cresciuto nella devozione popolare a questo santo, il nostro Fondatore insegnò a coltivarne una considerazione sempre più convinta e apostolicamente motivata; per questo fine introdusse negli istituti da lui fondati l’uso di dedicare il mese di marzo ed il primo mercoledì di ogni mese al Patrono della Chiesa universale.
Nello sviluppo e nella crescita della spiritualità alberioniana in riferimento a S.Giuseppe di non poco conto sono pure le suggestioni mediate dagli scritti di Papa Pio XII. È il pontefice che nel ’45 indica S. Giuseppe come patrono e modello degli operai e che dieci anni dopo il 1° maggio 1955, istituisce la festa liturgica di san Giuseppe operaio; tra gli altri scritti che portano la sua firma è pure il caso di menzionare l’enciclica Sacra Virginitas (25 marzo 1954), sulla verginità consacrata, nella quale trattando del celibato sacerdotale viene ripreso un pensiero di S. Pier Damiani, « il nostro Redentore amò tanto l’integrità del pudore, che non solo nacque da un utero verginale, ma volle essere trattato da un nutrizio vergine ». Don Alberione, già nel manuale di preghiera del 13 marzo 1952, aveva fatto aggiungere alla fine della recita della coroncina a S Giuseppe l’invocazione « O S Giuseppe custode e padre dei vergini » con chiaro riferimento ai consacrati paolini. Perciò si troverà a proprio agio nell’utilizzare, a due mesi di distanza dall’uscita dell’enciclica, la stessa terminologia in una meditazione tenuta alla Famiglia Paolina radunata in Roma nella cripta del Santuario della Regina degli Apostoli, il 2 giugno dello stesso anno a commento proprio del primo punto della coroncina. « S. Giuseppe è fedele cooperatore della nostra redenzione. Ha cooperato, in che cosa? – chiede alle comunità Don Alberione – Sappiamo dal Vangelo come egli ha disposto, ha cercato un rifugio per la nascita di Gesù a Betlemme, come salvò la vita insidiata di Gesù con la fuga in Egitto, come accompagnò il Bambino nel ritorno in Terra santa. Si stabilì a Nazareth e lì fu il nutrizio, il padre putativo di Gesù: insegnò a Gesù stesso il lavoro e lo accompagnava a Gerusalemme per le grandi funzioni. Perciò noi domandiamo al Signore, per intercessione di san Giuseppe, la grazia di essere anche noi strumenti nelle mani di Dio per la cristianizzazione del mondo, la diffusione del Vangelo, l’apostolato ».

Intercessione sicura per l’apostolato
Dato che la preghiera del beato Alberione non poteva che tradursi in azione apostolica, anche il riferimento a Giuseppe di Nazareth non poteva che seguire la stessa traiettoria, assumendo una valenza operativa. Così il Primo Maestro pur rifacendosi fino agli anni ’50 alla coroncina  » I sette dolori e le sette allegrezze di san Giuseppe » attribuita ad uno dei primi discepoli di sant’Alfonso de Liguori, il beato Gennaro Sarnelli (+ 1744) e ampiamente diffusa nei libri di devozione, sentì che occorreva guardare in modo nuovo la figura di S.Giuseppe, lasciando quel profilo devozionale, ormai non più convincente. Detto, fatto: siamo al 15 febbraio 1953. Ne è testimone il suo segretario personale, Don Antonio Speciale, che annota nel suo diario che dopo aver celebrato in cripta alle ore 4 ed essersi lì fermato a pregare ascoltando altre SS. Messe fino alle 6.30, per dettare la meditazione alle comunità paoline sul XIII capitolo della lettera ai Corinti, il Primo Maestro cambia l’ordine del giorno precedentemente stabilito. « Il Primo Maestro- scrive Don Speciale – pensava partire dopo la meditazione, come era inteso con D. Cordero, che avrebbe dovuto accompagnarlo in macchina fino a Pescara; ma forse per il tempo cattivo, o per altro motivo, non parte. .. Alle 7 è chiuso in camera e lavora. Ha composto una nuova coroncina su S. Giuseppe per il libro delle nostre « Preghiere ». Alcune parti o punti sono stati rifatti distruggendo lui stesso gli originali. E pare abbia terminato di scrivere l’articolo per il « San Paolo » composto di undici foglietti del suo notes. Nella coroncina verranno messi in rilievo i vari aspetti inerenti alla vita del Santo e del suo operare a favore della Santa Famiglia e dell’intera umanità: dall’aspetto pedagogico a quello sociale, dall’ambito familiare a quello ecclesiale ed escatologico Quali potevano essere però le novità riportate se non quelle che ne attualizzassero i contenuti in vista della missione paolina? I titoli tradizionali venivano ad essere accostati ad aspetti e funzioni più dinamiche quali la cooperazione in un progetto di redenzione che investe l’umanità, o il recepire che l’essere S. Giuseppe « maestro di lavoro allo stesso Figlio di Dio »; sfociava nel suo essere modello di impegno per tutti i lavoratori nella società o di operosità silenziosa nelle Case paoline. Specialmente lo diventava per tutti i « maestri »e « maestre » d’apostolato, esperti in un’antropologia apostolica appresa dall’unico testo che era la vita paolina vissuta ora per ora, giorno dopo giorno, nelle comunità in Italia e nel mondo; non più come nella casa di Nazareth dietro la pialla del falegname, ma dietro le macchine da stampa e le risme di carta pronte a ricevere l’inchiostro ed i caratteri allineati preparati da esperti linotipisti.

Paternità formativa
Dare corpo e forma alle idee utili per evangelizzare, trasferire su supporti cartacei la Parola di Dio ed il pensiero cristiano, redatto in Casa in unità col Magistero e diffuso con tutti i mezzi, era l’entusiasmante carica che impegnava tutti, piccoli e grandi, a crescere insieme lavorando. Ecco perché alla figura di S. Giuseppe, Don Alberione associava sempre la « paternità formativa » guardando all’aspetto umanistico del lavoro che è attività creativa che aiuta le persone a crescere, le opere di Dio a realizzarsi, le potenzialità ricevute – nelle opere e nelle persone stesse – ad essere valorizzate per tradursi in feconda profezia paolina. È sempre degli anni ’50 il Catechismo sociale di Don Alberione e del ’54 l’opuscolo Il lavoro nelle Famiglie paoline: in entrambe integrava l’aspetto sociale del lavoro con l’apporto della sua concretezza e della sua spiritualità ispirata alla vita nella Casa di Nazareth, formulando una sorta di teologia del lavoro i cui tratti vide confermarsi ed arricchirsi di nuove motivazioni e approfondimenti partecipando alle Sessioni del Concilio Vaticano II. La vita di S. Giuseppe e quella del Beato Alberione sembrano compararsi e descriversi in uno dei brani più originali della spiritualità alberioniana nelle parole che nel 1960 il fondatore ebbe a dire in una meditazione sul lavoro, fatta alla luce della Casa di Nazareth, nella prima settimana del Corso di Esercizi in Ariccia: « I Santi sono tutti lavoratori. In proporzione degli anni vissuti, quanto hanno operato ed in quante direzioni…Tutti! Diedero il primo posto al lavoro interiore; poi questo fruttò l’operosità esterna, così meravigliosa, fruttuosa, umanitaria, che desta in tutti grande ammirazione ». È questa ammirazione che sperimentiamo guardando la dedizione di Giuseppe: lo sposo di Maria nella casa di Nazareth, ma anche Giuseppe Giacomo Alberione nella Famiglia Paolina. Santi, sì, ma lavoratori!

Vittorio Stesuri, ssp

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NEL MITE GIUSEPPE IL VERO COLPO DI SCENA (GIANFRANCO RAVASI)

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Dallo sposo di Maria riverberi sulla nostra vita


NEL MITE GIUSEPPE IL VERO COLPO DI SCENA

di GIANFRANCO RAVASI

Anni fa, mentre ero in viaggio verso Montréal in Canada, rimasi stupito vedendo in lontananza ergersi ai bordi della città un’enorme mole bianca su un colle: seppi poi che si trattava del santuario di s. Giuseppe, eretto nel 1904 da fratel André (frate laico della Congregazione della S. Croce) e divenuto una sorta di tempio nazionale cattolico canadese. Era la testimonianza di una devozione derivata, certo, dall’Europa, ma ormai ramificata in tutti i continenti (sono un’ottantina le congregazioni religiose che hanno s. Giuseppe nel loro titolo). Ebbene, nel giorno dedicato a questo santo così popolare – il cui nome è il più diffuso (coi vari diminutivi e vezzeggiativi) in Italia – vorremmo evocare qualche tratto del suo volto che Luca con una pennellata dipinge come «uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe, fidanzato di Maria» (1,27).
In verità, a raffigurare maggiormente questo personaggio, tanto caro alla tradizione cristiana (la voce a lui riservata nella Bibliotheca Sanctorum occupa quaranta grandi colonne) e alla storia dell’arte, è Matteo che s’incrocia con Luca nel dichiarare innanzitutto la sua discendenza davidica. Entrambi gli evangelisti ribadiscono che era «figlio di Davide» (Matteo 1,20), ossia «della casa e della famiglia di Davide» (Luca 2,4), e confermano questo dato, in modo indiretto, attraverso la nascita di Gesù a Betlemme, patria del celebre re ebraico, e in modo diretto attraverso le due genealogie di Gesù che essi offrono. Sono note le discrepanze tra questi due elenchi (Matteo 1 e Luca 3), persino sul nome del padre di Giuseppe, Giacobbe per Matteo ed Eli per Luca. Lo scopo però di quelle liste nell’antico Vicino Oriente non era storiografico bensì celebrativo: si voleva, così, mostrare che Gesù – oltre che figlio di Adamo, cioè vero uomo – era partecipe della stirpe ebraica attraverso Abramo ed era inserito nella linea davidica che in sé conteneva la promessa messianica.
Giuseppe è, perciò, attraverso un phylum generazionale, il tramite della messianicità di Cristo, « incarnata » nella vicenda della « casa di Davide ». Il ritratto più accurato – come si diceva – ci è, però, offerto da Matteo in quella sua pagina che è stata definita « l’annunciazione a Giuseppe », parallela all’analoga di Luca che vede Maria come protagonista (Matteo 1, 18-25). Non è questo il luogo, in cui affrontare un simile testo, così pieno di colpi di scena ma anche di difficoltà interpretative. Certo è che, dalle pagine di Matteo e di Luca, emerge nitidamente la funzione di Giuseppe: egli sarà il padre legale di Gesù. Sarà lui, perciò, a recarsi con Maria incinta a Betlemme per la nascita, sarà lui a imporgli il nome durante la circoncisione, sarà lui a dirigere la piccola famiglia nei primi drammatici eventi, sarà ancora lui a partecipare alla vicenda collegata alla maggior età di Gesù, a dodici anni nel tempio di Gerusalemme («Tuo padre e io angosciati ti cercavamo», dirà Maria) e sarà lui con la sua sposa a guidare il giovane figlio («stava loro sottomesso»).
Ma a quel punto Giuseppe si ritira dalla ribalta della vita di Cristo. Vi affiorerà indirettamente solo nelle occasioni in cui si ironizzerà su Gesù e sulle sue origini da parte dei suoi avversari. Ne vogliamo citare solo una, ambientata proprio a Nazaret, allorché i suoi concittadini, un po’ sprezzantemente, dicono di Gesù: «Non è egli forse il figlio del tékton?» (Matteo 13,55). Abbiamo lasciato la parola greca – che tra l’altro in Marco (6, 3) è applicata allo stesso Gesù – perché su di essa si è aperto un piccolo dibattito. Non è mancato, infatti, qualche studioso, come G.W. Buchanan, che ha immaginato che quel vocabolo potesse applicarsi anche a un piccolo imprenditore o a un amministratore commerciale di impresa di costruzioni (il titolo del saggio era in inglese significativo: Jesus and the upper class!).
In realtà il termine greco indica di per sé chi lavora materiale duro come legno, pietra, corno, avorio, forse anche il ferro (pur se il vocabolo meno s’ada tta all’idea di « fabbro »). La resa « carpentiere » o, quella più tradizionale, di « falegname » è quindi corretta. Si è cercato di elevare questa attività ricorrendo al vocabolo aramaico equivalente, aggara’, che vuol dire sia « carpentiere » o « artigiano » ma anche « artista », « mastro ». Sta di fatto che Giuseppe non può essere collocato in una sorta di middle class, come ha voluto qualche esegeta, perché la struttura sociale della Galilea – accuratamente vagliata dallo studioso americano S. Freyne – comprendeva solo due classi: da un lato, i latifondisti, i notabili, i mercanti, gli ufficiali e i sovrintendenti fiscali (ad esempio, Zaccheo) e dall’altro, una classe modesta di artigiani, agricoltori, pescatori, braccianti e pubblicani (ossia piccoli impiegati). Oltre queste due fasce, c’era solo la povertà assoluta e l’emarginazione.
Giuseppe e Gesù, quindi, si ritrovano in questa seconda fascia, certo fluida, non riducibile alla povertà ma non comparabile alla nostra piccola o media borghesia, tant’è vero che i contemporanei di Cristo ironizzavano proprio sul contrasto tra la modestia delle sue origini e le « pretese » delle sue parole e opere. E’, dunque, nel lavoro semplice e quotidiano che Giuseppe ha condotto la sua vita e ha educato quel figlio che aveva accolto come dono assicurandogli la sua paternità legale.
Null’altro di lui sappiamo: saranno gli apocrifi a intessere sul silenzio evangelico le loro dolci creazioni, fino a quell’estremo trapasso, tanto caro all’arte cristiana. L’apocrifa « Storia di Giuseppe il falegname », scoperta nel 1722 dallo svedese G. Wallin, mette sulle labbra dell’agonizzante Giuseppe questa suggestiva invocazione: «O Gesù nazareno, o Gesù mio consolatore, Gesù liberatore della mia anima, Gesù mio protettore, Gesù nome soavissimo sulla mia bocca e su quella di tutti coloro che l’amano!».

“AVVENIRE” – 19 marzo 2004

COSÌ HO SCOPERTO LA TOMBA DI SAN FILIPPO

http://www.zenit.org/article-30445?l=italian

COSÌ HO SCOPERTO LA TOMBA DI SAN FILIPPO

Intervista con il professor Francesco D’Andria, direttore della missione archeologica che ha compiuto la scoperta

di Renzo Allegri*
ROMA, lunedì, 30 aprile 2012 (ZENIT.org).- Il 3 maggio la Chiesa ricorda San Filippo e San Giacomo minore. Due apostoli, che fecero parte dei dodici. Grandi santi, quindi, ma non molto ricordati dal popolo cristiano.
Di San Filippo si è parlato molto la scorsa estate quando fu data la notizia che, a Hierapolis, in Frigia, è stata trovata la tomba dell’apostolo. Si tratta di una straordinaria scoperta archeologica, che ha interessato ed entusiasmato gli studiosi di tutto il mondo.
“Il valore di questo ritrovamento è indubbiamente di altissimo livello”, dice il professor Francesco D’Andria, direttore della missione archeologica che ha compiuto la scoperta. “Non solo per quanto riguarda la tomba dell’apostolo ma soprattutto perché intorno a quella tomba abbiamo individuato e in parte scoperto un nuovo grande complesso archeologico che si estende per l’intera collina orientale di Hierapolis. Un complesso costituito da due chiese, una grande strada processionale, gradinate in travertino, cortiletti, cappellette, fontane, una serie di vasche termali per la purificazione, alloggi per i pellegrini, un complesso che dimostra come San Filippo, a Hierapolis, nei primi secoli della storia cristiana, godeva di una grandissima popolarità e il culto a lui attribuito era massimo”.
Pugliese, classe 1943, laureato all’Università Cattolica di Milano in Lettere classiche e specializzatosi poi in Archeologia, il professor D’Andria è docente di archeologia all’Università del Salento-Lecce e direttore della “Scuola di Specializzazione in Archeologia” presente nell’ambito di quella Università. Da oltre trent’anni lavora a Hierapolis, alla ricerca della tomba di San Filippo e dal 2000 è direttore di quella missione scientifica. Al professore D’Andria abbiamo chiesto di parlarci di San Filippo e della eccezionale scoperta che con la sue equipe di ricercatori ha portato a termine.
“Notizie storiche su San Filippo ce ne sono poche”, dice il professor Francesco D’Andria. “Dai Vangeli si ricava che era originario di Betsaida, sul Lago di Genezaret. Apparteneva quindi a una famiglia di pescatori. Giovanni è l’unico dei quattro evangelisti che lo cita diverse volte. Al capitolo primo del suo Vangelo, racconta come Filippo sia entrato nel gruppo degli apostoli fin dall’inizio della vita pubblica di Gesù, chiamato direttamente dal Maestro. In ordine di chiamata, occupa il quinto posto dopo Giacomo, Giovanni, Andrea e Pietro. Al capitolo sesto, quando narra il miracolo della moltiplicazione dei pani, Giovanni riferisce che, prima di compiere il prodigio, Gesù si rivolge a Filippo chiedendogli come si potesse dar da mangiare a tutta quella gente e Filippo gli rispose che 200 denari di pane non sarebbero stati sufficienti neppure per darne un pezzo a ciascuno. E al capitolo 12, sempre Giovanni riferisce che dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, alcuni greci volevano parlare con il Maestro e si rivolsero a Filippo. E durante l’ultima cena, quando Gesù parla del Padre (‘Se conoscete me, conoscerete anche il Padre’), Filippo gli dice: ‘Signore, mostraci il Padre e ci basta’. Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che Filippo era presente con gli altri al momento dell’Ascensione di Gesù al cielo e il giorno di Pentecoste quando si verificò la discesa dello Spirito Santo. Le informazioni scritte si fermano a quel giorno. Tutto il resto proviene dalla tradizione”.
Che cosa dice ancora la tradizione?
Professor Francesco D’Andria: Dopo la morte di Gesù, gli apostoli si dispersero in giro per il mondo per diffondere il Messaggio evangelico. E secondo la tradizione e antichi documenti scritti dei Santi Padri, sappiamo che Filippo svolse la sua missione in Scizia, nella Lidia, e, negli ultimi anni della sua vita, a Hierapolis, in Frigia. Policrate, che verso la fine del secondo secolo era vescovo di Efeso, in una lettera scritta a Papa Vittore I, ricorda i personaggi importanti della propria Chiesa, tra cui gli apostoli Filippo e Giovanni. Di Filippo dice: ‘Fu uno dei dodici apostoli e morì a Hierapolis, come due delle sue figlie che invecchiarono nella virginità…. Altra sua figlia… fu sepolta in Efeso.
Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che queste informazioni di Policrate sono assolutamente attendibili. La Lettera, che risale a circa il 190 dopo Cristo, cento anni dopo la morte di Filippo, è un documento fondamentale per i rapporti tra la Chiesa Latina e la Chiesa Greca. Riguarda la disputa sulla data della celebrazione della Pasqua. E in quella lettera, Policrate, che era il patriarca della Chiesa Greca,. rivendica la nobiltà delle origini della Chiesa nell’Asia affermando che come a Roma ci sono i trofei (i resti mortali) di Pietro e Paolo, nell’Asia ci sono le tombe degli apostoli Filippo e Giovanni. Inoltre, da quella lettera veniamo a sapere che Filippo trascorse gli ultimi anni della sua vita a Hierapolis, con due delle sue tre figlie, che certamente lo aiutavano nella sua opera di evangelizzatore. Eusebio da Cesarea, nella sua ‘Storia Ecclesiastica’, riferisce che Papia, che fu vescovo di Hierapolis all’inizio del terzo secolo, conobbe le figlie di Filippo e da esse apprese particolari importanti riguardanti la vita dell’apostolo, tra i quali anche il racconto di un miracolo strepitoso: la risurrezione di un morto.
Si sa come e quando l’apostolo Filippo morì?
Professor Francesco D’Andria: La maggior parte degli antichi documenti affermano che Filippo morì a Hierapolis, nell’anno 80 dopo Cristo, quando aveva circa 85 anni. Morì martire per la sua fede, crocifisso a testa in giù come San Pietro. Venne quindi sepolto a Hierapolis. Nell’antica necropoli di quella città fu trovata una iscrizione che accenna a una chiesa dedicata a San Filippo. In una data non precisata, il corpo di Filippo venne portato a Costantinopoli per sottrarlo al pericolo di profanazione da parte dei barbari. E nel sesto secolo, sotto Papa Pelagio I, trasferito a Roma e sepolto, insieme all’apostolo Giacomo, in una chiesa appositamente edificata per loro. La Chiesa, che si chiamava ‘Dei santi Giacomo e Filippo’, di stile bizantino, nel 1500 venne trasformata in una magnifica chiesa rinascimentale che è quella attuale che si chiama ‘Dei santi apostoli’.
Quando sono iniziate le ricerche dalla tomba di Filippo a Hierapolis?
Professor Francesco D’Andria: Nel 1957, per merito del professor Paolo Verzone, che era docente di ingegneria al Politecnico di Torino e grande appassionato di ricerche archeologiche. Tra le Repubbliche italiana e turca venne allora stipulato un accordo che permetteva a una nostra equipe di archeologi di fare delle ricerche a Hierapolis. E il professor Verzone è stato il primo direttore di quella missione. Cominciò subito naturalmente a cercare la tomba dell’apostolo Filippo. Concentrò gli scavi in un monumento che era già in parte visibile e conosciuto come la chiesa di San Filippo, e portò alla luce una straordinaria chiesa ottagonale. Un autentico capolavoro della architettura bizantina del Quinto secolo, con archi meravigliosi in travertino. Questa chiesa era inglobata in un ampio quadrato, sul quale sorgevano le stanze che ospitavano i pellegrini e dove c’erano anche dei cortiletti triangolari, delle cappellette a sette lati: tutto quindi era giocato su una particolare simbologia dei numeri: il numero otto che, secondo Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, è il simbolo dell’eternità; il numero quattro, che richiama i quattro evangelisti; il tre, che è simbolo della Trinità e il sette, tipico numero di valenza simbolica ebraico-cristiana. Tutto questo insieme di costruzioni , eseguite con tanta cura e ricercatezza, faceva pensare che quella era una grande chiesa di pellegrinaggio, un santuario molto importante, e il professor Verzone lo aveva identificato come il ‘Martyrion’, cioè la chiesa martiriale di San Filippo e quindi pensava che fosse stata costruita sulla tomba del santo. Fece perciò eseguire vari scavi nella zona dell’altare maggiore, ma non trovò mai niente che facesse pensare alla tomba.
Io stesso pensavo che la tomba si trovasse nella zona di quella chiesa, ma nel 2000, quando diventai direttore della missione archeologica italiana di Hierapolis su concessione del Ministero della Cultura di Turchia, cambiai opinione.
Perché?
Professor Francesco D’Andria: Tutti gli scavi compiuti in tanti anni non avevano dato alcun risultato. Feci ancora delle indagini anche attraverso delle ‘prospezioni’ geofisiche, cioè delle particolari esplorazioni del sottosuolo, e non ottenendo niente mi convinsi che bisognava cercare altrove. Sempre nella zona, ma in altra direzione.
E dove diresse le sue ricerche?
Professor Francesco D’Andria: I miei collaboratori ed io abbiamo studiato attentamente una serie di foto satellitari della zona, e le ricognizioni di un gruppo di bravi topografi del CNR-IBAM diretti da Giuseppe Scardozzi, e abbiamo capito che il Martyrion, la chiesa ottagonale, era il centro di un complesso devozionale ampio e articolato. Abbiamo identificato una grande strada processionale che portava i pellegrini dalla città fino alla chiesa ottagonale, il Martyrion in cima alla collina; i resti di un ponte che permetteva ai pellegrini di oltrepassare una valle dove scorreva un torrente; abbiamo visto che ai piedi della collina partiva una ‘gradonata’ in travertino, cioè una scalinata costituita da ampi scalini in pendenza, che portava alla sommità. All’inizio della ‘gradonata’, abbiamo identificato un altro edificio ottagonale, che non si vedeva in superficie, ma solo delle foto satellitari. Abbiamo scavato intorno a quell’edificio e ci siamo resi conto che era un complesso termale: i pellegrini che arrivavano a Hierapolis per rendere omaggio al corpo di San Filippo, prima di raggiungere il ‘Martyrion’ sulla collina, dovevano purificarsi. Anche per ragioni igieniche perché i viaggi che affrontavano erano massacranti.
Questa è stata una scoperta illuminante che ci ha fatto capire che l’intera collina era adibita a un percorso di pellegrinaggio con varie tappe. Continuando i nostri scavi, abbiamo trovato un’altra scalinata che arrivava direttamente all’Martyrion, e sullo spiazzo, accanto al Martyrion, c’era una fontana dove i pellegrini facevano altre abluzioni con l’acqua, e lì vicino, un piccolo pianoro, proprio di fronte al Martyrion, dove si vedevano delle tracce di edifici. Il professor Verzone non aveva osato affrontare uno scavo in quella zona perché era un’immane cumulo di pietre. Nel 2010 abbiamo iniziato a fare un po’ di polizia e sono venuti alla luce elementi di estrema importanza.
Tipo?
Professor Francesco D’Andria: Un architrave di marmo di un ciborio con un monogramma sul quale si leggeva il nome di Teodosio. Io ho pensato che fosse il nome dell’imperatore e quindi quell’architrave permetteva la datazione della chiesa martiriale tra il IV e il V secolo. Poi, piano piano abbiamo trovato tracce di un’abside. Scavando e pulendo è venuta alla luce la pianta di una grande chiesa. Mentre il Martyrion era a pianta ottagonale, questa era a pianta basilicale, con tre navate. Chiesa stupenda, con capitelli in marmo, raffinate decorazioni, croci, transenne traforate, fregi, tralci vegetali, palme stilizzate all’interno di nicchie e un pavimento centrale realizzato a intarsi marmorei con motivi geometrici a colori: tutto riferibile al quinto secolo, cioè l’età dell’altra chiesa, il Martyrion. Però, al centro di questa meravigliosa costruzione che ci entusiasmava e ci commuoveva, c’era un qualche cosa di sconcertante che ci teneva con il fiato sospeso.
Ed era?
Professor Francesco D’Andria: Una tipica tomba romana risalente al primo secolo dopo Cristo. La sua presenza poteva, in un certo senso, essere giustificata dal fatto che in quella zona, prima che i cristiani costruissero il santuario protobizantino, vi era una necropoli romana. Ma esaminando bene la sua posizione, abbiamo constatato che quella tomba romana si trovava al centro della chiesa. Quindi, la chiesa, nel V secolo, era stata costruita proprio ‘intorno’ a quella tomba romana pagana, per proteggerla, perché quella tomba era evidentemente importantissima. E abbiamo subito pensato che forse quella poteva essere la tomba dove era stato messo il corpo di San Filippo dopo la morte.
E avete trovato conferme a questa supposizione?
Professor Francesco D’Andria: Certamente. Nell’estate del 2011 abbiamo affrontato uno scavo in estensione nella zona di questa chiesa con il coordinamento di Piera Caggia, ricercatrice archeologa dell’IBAM-CNR, e sono emersi elementi straordinari che hanno pienamente confermato le nostre supposizioni. La tomba era inglobata in una struttura sulla quale vi è una piattaforma raggiungibile attraverso una scala di marmo. I pellegrini, entrando dal nartece, il vestibolo esterno alla chiesa, salivano nella parte superiore della tomba, dove vi era un luogo per la preghiera e scendevano dal lato opposto. E abbiamo visto che le superfici marmoree dei gradini di quelle scale marmoree sono completamente consunti dal passaggio di migliaia e migliaia di persone. Quindi, la tomba riceveva un tributo straordinario di venerazione.
Sulla facciata della tomba, intorno all’entrata, si vedono dei fori di chiodi che certamente servivano per sostenere una chiusura metallica applicata. Inoltre, vi sono degli incassi ricavati sul pavimento che fanno pensare a una ulteriore porta in legno: tutti accorgimenti che indicano come in quella tomba vi era un tesoro inestimabile, cioè il corpo dell’apostolo.
E sulla facciata, sui muri ci sono numerosi graffiti con croci che hanno in qualche modo sacralizzato la tomba pagana.
Scavando accanto alla tomba, abbiamo trovato delle vasche d’acqua per immersione individuali, che certamente servivano per le guarigioni. I pellegrini ammalati, dopo aver venerato la tomba, venivano immersi in quelle vasche, proprio come si fa a Lourdes.
Ma la conferma principale, direi matematica, che attesta senza ombra di dubbi che quella costruzione è veramente la tomba di San Filippo, viene da un piccolo oggetto che si trova in un museo di Richmond negli Stati Uniti. Un oggetto sul quale ci sono delle immagini che prima d’ora non si riusciva a decifrare pienamente, mentre ora hanno un significato solare.
Di che oggetto si tratta?
Professor Francesco D’Andria: E’ un sigillo in bronzo di circa dieci centimetri di diametro, che serviva per autenticare il pane di San Filippo da distribuire ai pellegrini. Sono state trovate delle icone che rappresentano San Filippo con in mano un grosso pane. C’era anche allora il pane di San Filippo, come oggi c’è ancora il pane di Sant’Antonio. E questo pane, per distinguerlo dal pane comune, veniva marchiato con quel sigillo in modo che i pellegrini sapessero che si trattava di un pane speciale, da conservare con devozione.
Come ho detto, su quel sigillo ci sono delle immagini. Vi è la figura di un santo con il mantello del pellegrino e una inscrizione che dice ‘San Filippo’. Sul bordo scorre il ‘trisaghion’ in greco: antica frase di lode a Dio: ‘Agios o Theos, agios ischyros, agios athanatos, eleison imas’ (Santo Dio, Santo forte, Santo immortale, abbi pietà di noi). Tutti gli specialisti di storia bizantina che conoscono quel sigillo hanno sempre detto che proveniva da Hierapolis. Ma la cosa più straordinaria, sta nel fatto che la figura del santo è rappresentata tra due edifici: quello alla sinistra, è coperto da una cupola, e si capisce che rappresenta il ‘Martyrion’ ottagonale; quello alla destra del santo, ha un tetto a due spioventi come il tetto della chiesa a tre navate che ora noi abbiamo scoperto. Tutti e due gli edifici sono alla sommità di una scalinata. Sembra proprio che si tratti di una fotografia del complesso esistente allora intorno alla tomba di San Filippo. Una fotografia scattata nel secolo VI. Inoltre, la chiesa con il tetto spiovente, nell’immagine del sigillo ha un elemento emblematico: una lampada appesa all’ingresso, tipico segno che serviva a indicare il sepolcro di un santo. Quindi, già in quel sigillo si indica che la tomba si trovava nella chiesa basilicale e non nel Martyrion.
Tutte queste scoperte voi le avete fatte in tempi recenti.
Professor Francesco D’Andria: Direi, recentissimi. Le abbiamo fatte tra il 2010 e il 2011. Soprattutto il 2011 è stato l’anno delle più grandi emozioni per noi: abbiamo scoperto la seconda chiesa e la tomba di Filippo. Abbiamo cioè concluso un lavoro iniziato 55 anni fa. La notizia ha fatto il giro del mondo. Ed ha richiamato a Hierapolis studiosi e curiosi. Tra gli altri, alla fine dell’agosto scorso, cioè subito dopo che era stata data in modo ufficiale la notizia della scoperta, sono arrivati cento cinesi, numerosi coreani e giornalisti di varie nazionalità.
Il 24 novembre scorso, io ho avuto l’onore di presentare la scoperta presso la Pontificia accademia archeologica di Roma davanti a studiosi e rappresentanti del Vaticano. Anche il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, primate della Chiesa ortodossa, ha voluto ricevermi per avere i dettagli della scoperta, e il 14 novembre, festa di san Filippo per la Chiesa Ortodossa, ha voluto celebrare la Messa proprio sulla tomba ritrovata a Hierapolis. Ed io ero presente, emozionato come non mi era mai capitato, anche perché i canti della liturgia greca risuonavano dopo più di mille anni tra le rovine della chiesa.
Ed ora?
Professor Francesco D’Andria: Nei prossimi mesi riprenderemo i lavori e sono certo che ci attendono altre importanti sorprese.
—–
*Renzo Allegri è giornalista, scrittore e critico musicale. Ha studiato giornalismo alla “Scuola superiore di Scienza Sociali” dell’Università Cattolica. E’ stato per 24 anni inviato speciale e critico musicale di “Gente” e poi caporedattore per la Cultura e lo Spettacolo ai settimanali  “Noi” e  “Chi”. Da dieci anni è collaboratore fisso di “Hongaku No Tomo” prestigiosa rivista musicale giapponese.
E’ direttore di un giornalino che si intitola « Medjugorje Torino » e viene diffuso in 410 mila copie a numero. Ha pubblicato 42 libri, tutti gi grandissimo successo. Diversi dei quali sono stati pubblicati in  francese, tedesco, inglese, giapponese, spagnolo, portoghese, rumeno, slovacco, polacco e cinese. Tra tutti ha avuto un successo straordinario “Il Papa di Fatima” (Mondatori).

The Good Shepherd

The Good Shepherd dans immagini sacre sheepfollowing

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Publié dans:immagini sacre |on 28 avril, 2012 |Pas de commentaires »

EDITORIALE: Il Buon Pastore

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EDITORIALE: Il Buon Pastore

di padre Serafino M. Lanzetta, FI

Nell’arte cristiana la figura del buon pastore costituisce insieme con l’orante, uno dei due ideogrammi della storia della salvezza. In essa quasi come in compendio, si racconta all’ammiratore la lunga storia dell’amore salvifico di Dio. L’immagine del buon pastore ha origine nella tradizione figurativa tardoantica, dove la materia bucolica veniva assunta come rappresentazione dell’aldilà, immaginato come luogo sereno ed ideale dell’otium campestre. In questo spazio della pace ultraterrena, l’immagine del buon pastore con l’ovino sulle spalle, erano una formulazione idilliaco-pastorale della philantropia e dell’humanitas, secondo la tradizione dell’Hermes psicopompo, quali virtù condottiere al riposo della pace. Infatti, una delle rappresentazioni del dio Hermes era appunto quella di un pastore in atto di portare sulle spalle un ariete (animale a lui sacro), simbolo della sua missione di accompagnatore delle anime dei morti nell’Averno.
Il Cristianesimo – come farà anche per altre raffigurazioni pagane – assumerà la figura del buon pastore che presto inizia a comparire nelle raffigurazioni catacombali, per esprimere la sua fede in Cristo Salvatore che quale Buon Pastore conduce le sue pecorelle ai pascoli della vita eterna . In tal modo la fede cristiana testimoniava la pienezza espressiva di un simbolo o di simboli che finalmente in Cristo acquisivano il loro pieno e definitivo significato salvifico. Di qui poi muoveranno i Padri greci per sviluppare il concetto della “divina filantropia”.
In verità, il tema del pastore ha una forte risonanza biblica. L’immagine del pastore inteso come guida e condottiero ha il suo fertile humus nell’Antico Testamento (cf. Ez 34; Ger 31,10; Is 40,11; Sal 22,1-5; 79,2). In particolare con Ezechiele si prepara la venuta escatologica del Pastore che andrà lui stesso in cerca delle pecore perdute del suo gregge, le condurrà al pascolo e le farà riposare; lui stesso, fascerà quella ferita e curerà quella malata (cf. Ez 34,11.15-16). In tale unità di rivelazione, quale suo pieno compimento, si colloca il discorso giovanneo sul Buon Pastore. Gesù richiamando l’Antica Alleanza dice: «Io sono il Buon Pastore. Il Buon Pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11). Gesù è il Pastore messianico a cui viene dato il trono di Davide e il cui regno non avrà fine (cf. Ez 34,23 alla luce di Lc 1,32-33), il Pastore che offrendo se stesso in riscatto, riporta la pecorella smarrita sulle sue spalle all’ovile del Padre (cf. Lc 15,4-7). Ogni pecorella è conosciuta ed amata personalmente dal Buon Pastore e per ogni pecorella il Pastore ha versato tutto il suo sangue: ecco perché non s’importa delle novantanove lasciate nel deserto. È Cristo il vero filantropo, colui che per amore dell’uomo si fa uomo e salva l’uomo, introducendolo per mezzo della sua umana natura nella vita divina del Dio Unitrino. Ecco la piena realizzazione della figura tardoantica del Buon Pastore: Cristo è il vero Cireneo che con la sua croce realizza un ponte sempiterno tra noi e Dio. In Lui si va al Padre e solo in Lui che è «la porta delle pecore» (Gv 10,7) si va a Dio, si è menati all’eterna salvezza. Il Nuovo Testamento riflettendo sul ruolo salvifico del Buon Pastore-Redentore, continuerà a riferirsi a Cristo “Pastore piagato” per esprimere la sua fede nella salvezza da lui operata (cf. 1Pt 2,25), a Cristo agnello offerto in sacrificio che oramai glorioso, guida alle fonti delle acque della vita (cf. Ap 7,17).

L’immagine del Buon Pastore è cara alla riflessione teologica del nostro Pontefice. Sin dalla sua omelia per l’inizio del ministero petrino, Benedetto XVI ha fatto allusione a Cristo Buon Pastore. In quella circostanza così unica per un novello Pietro che si accinge alla missione di Pastore universale della Chiesa, il Papa richiamando il significato del pallio, tessuto di lana d’agnello che allude alla pecorella che il Pastore porta sulle sue spalle diceva:
«La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L’umanità – noi tutti – è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore» .
Il Buon Pastore ritorna poi nell’enciclica Deus caritas est tra le figure neotestamentarie che donano «carne e sangue» ai concetti biblici esprimenti quell’agire già imprevedibile e in un certo senso inaudito di Dio: «Questo agire di Dio acquista ora la sua forma drammatica nel fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la “pecorella smarrita”, l’umanità sofferente e perduta» (n. 12).
L’immagine del Buon Pastore diventa emblema della confluenza nel Dio incarnato di ciò che è proprio dell’uomo, l’eros, con ciò che è Dio, l’agape. Dio assume ciò che è dell’uomo per purificarlo in ciò che lui semplicemente è: amore. «Cristo l’amore incarnato di Dio» è il Buon Pastore che porta sulle sue spalle l’eros per riscattarlo da ogni vuota seduzione, per redimerlo da quella concupiscenza intrisa d’ebbrezza e d’indisciplinatezza. L’agape incarnata di Dio in Cristo dona verità all’eros dell’uomo e l’uomo in Cristo può raggiungere realmente le soglie di un amore che più non finisce, può partecipare come figlio all’agape di Dio.
Cristo, il Buon Pastore, è colui che ridona verità all’amore, facendoci scoprire l’amore nella verità. Dall’amore nella verità si giunge alla verità dell’amore, quindi alla verità di Dio e dell’uomo. Dio e l’uomo si toccano nella verità dell’amore. Dio e l’uomo sono uno in Cristo che è il Logos-Agape incarnato. Alla verità giovannea del Deus caritas est (1Gv 4,8), fa eco, quale manifestazione visibile, quella del prologo: «il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Il Deus caritas ha manifestato il suo volto d’amore nel Logos sarx. L’amore si fa toccare nel Logos che diventa a noi vicino. In Dio ragione e amore sono uno. In Cristo ragione e amore si incarnano. In Lui, nel Buon Pastore, allora, come in una magnifica pittura si intrecciano nella percepibilità della carne – l’Eucaristia che mangiamo è questa percepibilità per antonomasia – il Logos e l’Agape, la ragione e la carità. In Lui l’uomo – fatto a sua immagine e somiglianza – rinasce nella verità dell’unità di ragione e amore, di una ragione che è il fondamento dell’amore e di un amore che è la pienezza della ragione.
Di più, nel Dio incarnato, Logos e Agape sono uniti in un’armonia che tutto unifica: la Bellezza. Cristo è il Bel Pastore – o poimèn o kalòs nell’accezione greca originaria – che compendia Logos e Agape nella verità della sua bellezza che come dardo infuocato “brucia” l’intelligenza e il cuore – il bello ha un valore oggettivo e non è un semplice effetto sul nostro animo come dice D. Hume –; Cristo è il “bello” che rapisce e traduce in contenuti estetici la verità dell’amore nell’amore alla verità. Il volto del Buon Pastore è il volto della bellezza nella quale si compendiano in unità la verità e l’amore, il Logos e l’Agape. Avvicinandosi a Cristo, nella bellezza del suo sguardo, si è rapiti dalla bontà della verità e dalla verità del bene per rinascere seconda la sua statura in cui la molteplicità diventa unità: la verità, l’amore, la bellezza sono uno: Lui, il Buon Pastore.

Il Buon Pastore, allora, che campeggia sulla nostra rivista, vuole essere un’immagine espressiva del ricco contenuto teologico che vi si legge in filigrana. Ora tentiamo una lettura dell’immagine a modo di grande schizzo teologico per disegnare gl’ideali di “Fides Catholica”.
Il Pastore che adagia sulle sue spalle la pecorella – un ariete nel nostro caso in relazione ad Hermes – è, come si diceva, l’Agape di Dio incarnata, Cristo che nell’unità della sua persona divina assume la nostra umanità e la redime portandola sulle sue spalle. Su di lui la pecorella è tranquilla. Ritorna all’ovile.
La ragione e l’eros appaiati in un’unità a volte disorganica e precipitosa per lo più nell’oblio della ragione e nell’accentuazione dell’eros come mera brama egoistica, in Cristo trovano nuovamente la loro unità. Sono assunte da Cristo, in lui redente, sì che possano di nuovo convivere in un tutto organico che ormai è la partecipazione di entrambe ad un paradigma più alto, quello del Logos-Agape che dà lume alla ragione e verità all’eros. Dando verità all’eros rendendolo partecipe dell’agape, ci si muove nella verità dell’amore, così da imparare a scoprire nell’amore la verità. L’uomo in Cristo, incamminandosi sui sentieri dell’amore che gli sono così consoni, scopre in Lui il fondamento del suo essere, la verità del suo amore, la possibilità del suo pensiero dell’amore (dell’Agape) e del suo amore al pensiero (al Logos). Questa ci sembra la linea tratteggiata da Deus caritas est, in cui principiando dall’amore si conduce l’uomo a scoprire in Dio-amore la verità e la pienezza di sé.
È necessario indicare all’uomo di oggi, imbrigliato nelle redini di un pensiero post-moderno, incapace di verità e che obbliga l’uomo ad accontentarsi delle mere illusioni – tutto è illusione se non c’è la verità –, che l’eros è già in se stesso desiderio di andare oltre, di elevarsi dal sensibile all’intelligibile e che solo nell’agape trova la sua misura. L’eros senza la ragione è cieco e la ragione senza l’eros risanato dall’agape è fredda. Non è un caso che il nostro tempo, vivendo nell’oblio della ragione, abbia concesso solo all’amore diritto di cittadinanza, ma un amore spesso vuoto, superficiale, egoistico, squallido. Si vede tuttavia un passaggio progressivo che va dall’Illuminismo e quindi dalla modernità alla post-modernità che per tanti sarebbe un post-cristianesimo. «L’irresponsabile coltivazione di un logos moderno totalmente anaffettivo fa perfettamente il paio con l’eruzione violenta di un eros post-moderno totalmente irrazionale. E attrae nella sua spirale involutiva passioni “politiche” – e persino “religiose” – senza ragioni e senza affetti. Dunque senza giustizia. Potenze figlie di un eros senza logos né agape, perciò falsamente divinizzato e umanamente distruttivo» .
Si vive in un mondo e in un tempo in cui la concupiscenza da cavallo del cocchio è diventata auriga. Si è dominati largamente da un eros irrazionale che diluisce nella banalità le cose più importanti della vita. In un mondo così affogato, è necessario partire dalla purificazione dell’eros mostrando la strada risanatrice dell’agape: l’uomo che ama Dio inizierà ad amare veramente se stesso e perciò ad amare l’amore, nel quale convengono Dio e l’uomo. Così, ristabilita la verità dell’amore – la forza trainante dell’uomo, quella copula mundi –, sarà più facile poter guardare al rapporto ragione e fede. Un rapporto che ora dovremmo indicare come ragione-amore e fede. Guarito l’eros nell’agape che è in un certo senso la “razionalità” dell’amore, la verità dell’amore, risolte le aporie di una cultura erotico-irrazionale, anche la ragione scopre di nuovo il suo ruolo determinante nella vita di un uomo. La ragione postula la necessità di Dio. Senza Dio si brancola nel buio e si finisce coll’edificare la propria esistenza sulla mera banalità dell’irrazionale. Ora la ragione, non più derelitta a causa di un “eros misura delle cose”, è capace di affrontare serenamente il discorso su Dio, quando si apre alla contemplazione della realtà nella sua totalità. La ragione insieme all’amore postula l’esistenza di Dio, di un Dio che è la Ragione e che possa anche amare nella sua libertà. La fede finalmente ci svela il volto di questo Dio: Cristo, il Buon Pastore è il volto del Logos-Agape. In Cristo Dio si è fatto uomo. In Cristo Dio ha preso il nostro volto e dà verità alla nostra ragione e fondamento al nostro amore.
In tal modo s’intravede già, nella sinergia di ragione-amore e fede, un’apologia dell’unicità del Cristianesimo, la sola religio vera. Se Cristo è il Logos agapico incarnato, solo in Lui v’è la risposta piena e definitiva al chi è Dio e chi è l’uomo. L’uomo scopre in Cristo il fondamento di se stesso, dà ragione della sua ragione e del suo amore, perché si vede fatto ad immagine del suo Creatore e del suo Redentore. Il Creatore e il Redentore, poi, chiede di essere conosciuto nella libertà dell’amore. La religio vera avrà la caratteristica di “imporsi” nella libertà, chiedendo di amare la verità religiosa. Dio mi chiede di amare la verità e di accoglierla nella libertà. Solo quella religione che chiede la libertà del mio amore per aprirmi alla verità, sarà la religio vera, perché in definitiva mi chiede di essere pienamente me stesso, dando ragione a me stesso e alla realtà nella sua totalità. Credendo in Cristo e amando Cristo si dà pieno fondamento alla ragione e all’amore e così la fede apre le porte della carità. Fede e carità diventano la pienezza e la perfezione soprannaturale della mia ragione e del mio amore. Pertanto, l’affermazione logica: solo Cristo è il Deum verum, solo il Cristianesimo è la religio vera, implicherà in Cristo e nel Cristianesimo la pienezza di ciò che è anche dell’uomo. Se, in definitiva, l’uomo e Dio convengono proprio nella realtà dell’amore (cf. Deus caritas est, n. 2.31/c), la religio vera sarà la religione dell’amore, la religione del Deus caritas. In questo modo la carità diventa una manifestazione della verità di Dio, di Dio che è amore (cf. Deus caritas est 31/c). Il Buon Pastore è il Dio d’amore. La violenza in nome della religione è la forte forza della menzogna.
Guardando ancora all’immagine della nostra copertina come non rammentare il anche il mistero della Redenzione? Cristo è il Redentore dell’uomo. In quella pecorella che porta sulle sue spalle – mentre due stanno ai suoi piedi – si può scorgere l’immagine di colei che redenta in modo unico in una Redenzione preservativa, l’Immacolata Concezione, è divenuta in Cristo l’Immacolata Corredentrice, ovvero colei che con Cristo, accovacciata sulle sue spalle, partecipa in modo unico alla Redenzione di noi tutti. E noi stando ai piedi di Gesù, tutto riceviamo da Lui a dalla sua Madre. Maria non è mai scesa dalle spalle di Cristo, non tocca la terra sebbene sia fatta di terra. È l’unica pecorella che rimane sempre con Cristo: sempre con Lui nel dolore e nell’amore. Lei diventa la misura della nostra Redenzione, la misura della nostra ragione-amore e fede.
Infine, possiamo scorgere nel Buon Pastore, ancora un altro tema di notevole attualità che è l’ecumenismo. Ricordiamo le parole del Signore: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). Ci sono delle pecore che non sono ancora in comunione con il gregge di Cristo, perché non v’è solo un solo pastore che visibilizzi il Buon Pastore. Siamo fiduciosi però e crediamo nelle parole di Cristo. Il suo gregge radunato intorno a Lui, non potrà che avere un solo Pastore quello designato da Cristo – «Tu sei Pietro» e non io sono Pietro – e una sola Madre, la sua Madre, l’Immacolata Corredentrice.
Seguiamo Cristo il Buon Pastore, il Logos Amore che raduna in unità la sua Chiesa e ci porta ai pascoli della vita eterna. Le parole di san Gregorio Magno, riassumono quello che zoppicando abbiamo tentato di esprimere:
«Le sue pecore perciò troveranno pascolo, perché chiunque lo segue con cuore semplice, viene nutrito per mezzo di pascoli che sono verdeggianti in eterno. Qual è poi il pascolo di queste pecore se non le intime gioie del paradiso verdeggiante? Infatti il pascolo di coloro che sono eletti è la presenza del volto di Dio, e guardandolo, senza che esso venga mai meno, la mente si sazia in eterno del cibo della vita. Cerchiamo quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, in cui possiamo gioire nella solenne festosità di cittadini tanto grandi. Facciamo in modo di essere attirati dalla stessa festosità di coloro che sono felici. Accendiamo dunque il nostro animo, fratelli, la fede venga riscaldata da ciò in cui ha creduto, i nostri desideri si accendano per i beni celesti, e in questo modo amare significa già incamminarsi» .

NOTE
Cf. F. BISCONTI, Buon Pastore, in ID. (a cura di), Temi di iconografia paleocri-stiana, Città del Vaticano 2000, p. 138.
Omelia del 24 aprile 2005, in L’Osservatore Romano del 25-26 aprile 2005, p. 6.
Si vedano le riflessioni a tal proposito di D. VON ILDEBRAND, Estetica, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006, pp. 22-25. La famosa tesi humiana formulata in questo modo: «Se ci viene alle mani qualche volume… domandiamoci: “Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri?” No. “Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza?” No. E allora, get-tiamo nel fuoco, perché non contiene altro che sofisticherie e inganni» (An Enquiry Concerning Human Understanding, cit. in D. VON ILDEBRAND, cit., pp. 24-25, nota 6), in effetti, altro non è che una petitio principii, cioè cade nella semplice con-traddizione di ritenere evidente (la non evidenza della bellezza) ciò che non è e-vidente. Il valore della bellezza misinterpretato viene contrapposto al fatto, ciò che è infondato e a maggior ragione non evidente. Cf. D. VON ILDEBRAND, cit., p. 25.
P. SEQUERI, Il Dio della rivelazione cristiana: Logos e Agape, in L’Osservatore Romano del 16-17 giugno 2006, p. 7.
Hom. 14, 3-6; PL 76, 1130.

Publié dans:ARTE |on 28 avril, 2012 |Pas de commentaires »

DOMENICA 29 APRILE 2012 – IV DI PASQUA

DOMENICA 29 APRILE 2012 – IV DI PASQUA

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/pasqB/PasqB4Page.htm

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 12, 1-18

Il segno della donna
Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro (Sal 2,9), e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato
l’accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
Ma essi lo hanno vinto
per mezzo del sangue dell’Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio,
poiché hanno disprezzato la vita
fino a morire.
Esultate, dunque, o cieli,
e voi che abitate in essi.
Ma guai a voi, terra e mare,
perché il diavolo è precipitato sopra di voi
pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo».
Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.
Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.
E si fermò sulla spiaggia del mare.

Responsorio    Cfr. Ap 12, 11-12; 2 Mac 7, 36
R. Hanno vinto con il sangue dell’Agnello e la testimonianza del loro martirio; hanno disprezzato la vita fino a morire. * Esultate, o cieli, e voi che in essi abitate, alleluia.
V. Dopo breve tormento, hanno ottenuto da Dio l’eredità della vita eterna.
R. Esultate, o cieli, e voi che in essi abitate, alleluia.

Seconda Lettura
Dalle «Omelie sui Vangeli» di san Gregorio Magno, papa
(Om. 14, 3-6; PL 76, 1129-1130)

Cristo, buon pastore
«Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore», cioè le amo, «e le mie pecore conoscono me» (Gv 10, 14). Come a dire apertamente: corrispondono all’amore di chi le ama. La conoscenza precede sempre l’amore della verità.
Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell’amore; non del solo credere, ma anche dell’operare. L’evangelista Giovanni, infatti, spiega: «Chi dice: Conosco Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (1 Gv 2, 4).
Perciò in questo stesso passo il Signore subito soggiunge: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore«(Gv 10, 15). Come se dicesse esplicitamente: da questo risulta che io conosco il Padre e sono conosciuto dal Padre, perché offro la mia vita per le mie pecore; cioè io dimostro in quale misura amo il Padre dall’amore con cui muoio per le pecore.
Di queste pecore di nuovo dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna (cfr. Gv 10, 14-16). Di esse aveva detto poco prima: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Entrerà cioè nella fede, uscirà dalla fede alla visione, dall’atto di credere alla contemplazione, e troverà i pascoli nel banchetto eterno.
Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch’è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l’anima si sazia senza fine del cibo della vita.
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S’infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s’infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la mèta stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare.

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