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UNA VITA SOLITARIA ( I certosini)

http://www.certosini.info/una_vita_solitaria.htm

UNA VITA SOLITARIA ( I certosini)

Separazione dal mondo
I primi monaci certosini «seguivano il lume dell’oriente, ossia di quegli antichi monaci che, ardenti d’amore per il ricordo del Sangue del Signore versato di recente, popolarono i deserti per professarvi la vita solitaria e la povertà di spirito. Bisogna quindi che i certosini, calcando le loro orme, dimorino come loro in un eremo sufficientemente remoto dalle abitazioni degli uomini; ma soprattutto bisogna che si rendano essi stessi estranei anche alle preoccupazioni mondane».
Secondo la tradizione dei Padri del deserto la ricerca dell’unione con Dio, nel modo più diretto possibile, richiede normalmente la separazione dal mondo. La pace esteriore della solitudine protegge la pace interiore del cuore. Così il monastero è costruito lontano da abitazioni, e ciascun monaco vive solo in cella all’interno della cinta muraria, astenendosi da ogni ministero, escluso quello della preghiera. Questo costituisce per il certosino un’esigenza che gli Statuti esprimono con forza: «Essendo il nostro Ordine totalmente dedito alla contemplazione, è necessario che conserviamo in modo assolutamente fedele la nostra separazione dal mondo. Ci asteniamo perciò da qualsiasi ministero pastorale, pur nell’urgente necessità di apostolato attivo, per adempiere nel Corpo mistico di Cristo la nostra funzione specifica».
Guigo, il monaco a cui lo Spirito ha affidato la missione di redigere la prima regola dei certosini, da parte sua ha celebrato al seguito di tutti i Padri le ricchezze spirituali offerte al solitario: «Sapete infatti che nell’Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l’estasi dello spirito, quasi sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi della solitudine (…) considerate voi stessi quanto profitto spirituale nella solitudine trassero i santi e venerabili padri Paolo, Antonio, Ilarione, Benedetto e innumerevoli altri, e avrete la prova che nulla, più della solitudine, può favorire la soavità della salmodia, l’applicazione alla lettura, il fervore della preghiera, le penetranti meditazioni, l’estasi della contemplazione e il dono delle lacrime».

Esodo nel deserto

«Lasciare il mondo per dedicarsi nella solitudine ad una preghiera più intensa, non è altro che un particolare modo di esprimere il mistero pasquale di Cristo, che è una morte per una resurrezione».
La Sacra Scrittura presenta l’Esodo attraverso il deserto come l’evento principale della storia d’Israele. Sotto la guida di Mosè gli ebrei uscirono dall’Egitto; e dopo aver attraversato il Mar Rosso, vissero quaranta anni nel deserto. Non mancarono le prove, ma giunti nel cuore del deserto, al Sinai, Dio si manifestò in modo straordinario e concluse con loro un’alleanza.
I Padri della Chiesa e tutti i monaci hanno visto nell’Esodo una prefigurazione dell’itinerario mistico dell’uomo alla ricerca di Dio.
Guigo nel suo elogio della vita solitaria ha ricordato al certosino l’esempio dei grandi contemplativi della Bibbia, che nella solitudine hanno vissuto il mistero dell’incontro con Dio: Giacobbe, che lottò solo con l’Angelo e ricevette la grazia di un nome migliore; Elia, che visse per lungo tempo nel burrone di un torrente e marciò quaranta giorni e quaranta notti fino all’Oreb dove Dio si manifestò a lui in una brezza leggera; Eliseo, che amava ritirarsi in preghiera nella camera al piano superiore preparata dalla sunammita; e soprattutto Giovanni Battista, che è considerato come il patrono degli eremiti.
Lo stesso Gesù ha cercato la solitudine: subito dopo il suo battesimo nel Giordano fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo; ed in molti episodi dei vangeli lascia la folla e si ritira solo sulla montagna per pregare; un giorno invita i suoi apostoli ad andare in disparte in un luogo solitario; infine solo sulla croce, abbandonato da tutti, si offre al Padre per la salvezza del mondo.
Il monaco, seguendo Cristo nel deserto, partecipa al mistero che riconduce nel seno del Padre il Figlio crocifisso e resuscitato dai morti. Nella solitudine egli compie un vero Esodo spirituale, in cui dalla morte sgorga una nuova vita.

Solitudine della cella

La clausura nel cui interno si pone il monastero è per il certosino il segno visibile della sua separazione dal mondo. Al di fuori dello spaziamento settimanale il monaco non è autorizzato a uscire dalla casa, salvo in rari casi e per una reale necessità. Lo stesso priore della Gran Certosa, pur essendo superiore generale dell’Ordine, non oltrepassa mai i limiti del suo deserto.
Tuttavia è soprattutto nel segreto della loro cella che i padri vivono la loro vocazione di solitari; mentre i fratelli la vivono in parte nella cella e in parte nelle obbedienze dove essi lavorano. Ciascuno ha così la sua propria solitudine nel seno di un monastero, che è esso stesso solitario.
Gli Statuti ricordano a tutti che la cella è un luogo privilegiato di unione con Dio: «Il nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è infatti la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l’anima fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane». Anche le obbedienze di lavoro sono separate le une dalle altre come le celle, e sono organizzate affinché si salvaguardi il più possibile la solitudine. In tal modo la solitudine è adeguata alla situazione di ognuno.
I Padri del deserto hanno celebrato a gara i benefici della fedeltà alla cella, dove il solitario, secondo un’immagine usata da loro e ripresa dagli Statuti Certosini, si trova come un pesce nell’acqua. Guglielmo di Saint-Thierry scrisse ai certosini di Mont-Dieu: «la cella non deve esser mai una reclusione forzata ma una dimora di pace; la porta chiusa non nascondiglio ma ritiro. Colui con il quale Dio è, infatti, non è mai meno solo di quando è solo. Allora infatti gode liberamente della propria gioia; allora egli stesso è suo per godere di sé e di sé in Dio».

Il silenzio

Silenzio e solitudine vanno di pari passo, poiché il primo protegge la solitudine interiore e favorisce il raccoglimento: «Solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento leggero che manifesta il Signore».
I certosini sono dei fratelli che vivono fianco a fianco nel silenzio, rispettando reciprocamente il loro colloquio interiore con Dio. Grande è la virtù del silenzio. «Benché nei primi tempi tacere possa essere una fatica, gradualmente, se saremo stati fedeli, dallo stesso nostro silenzio nascerà in noi l’attrattiva verso un silenzio ancora maggiore». L’incontro dell’anima con Dio avviene al di là di ogni discorso, in un semplice scambio di sguardi: linguaggio dell’amore che non è altro che il linguaggio dell’eternità.
«Noi riconosceremo la qualità della parola divina, quando consacreremo il tempo in cui non abbiamo da parlare ad un silenzio privo di preoccupazioni e accompagnato da un’ardente ricordo di Dio». Vi è infatti un silenzio interiore che è ben più difficile della semplice assenza di parole. Esso consiste nel distaccarsi da pensieri erranti che penetrano nel cuore attraverso l’immaginazione. I Padri del deserto a questo riguardo mettevano i loro discepoli in guardia, e cercavano al di sopra di tutto la purezza di cuore, ossia l’amore di Dio preferito ad ogni altra cosa. Come scrisse uno di essi, Cassiano: «In vista dunque della purezza di cuore tutto deve essere compiuto e inteso da noi. Per essa deve essere cercata la solitudine…. Pertanto le virtù che vi si accompagnano, e cioè i digiuni, le veglie, la solitudine, la meditazione delle Scritture, ci conviene esercitarle in vista dello scopo principale, vale a dire della purezza di cuore, che è la carità».

Publié dans:monachesimo, MONACHESIMO (IL) |on 8 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

LO SPIRITO DELLA TRISTEZZA – di GIOVANNI CASSIANO

http://www.ora-et-labora.net/cassianoistituzioninove.html

LE ISTITUZIONI CENOBITICHE

di GIOVANNI CASSIANO

LIBRO NONO

LO SPIRITO DELLA TRISTEZZA

Estratto da “La melanconia” di Roberto Gigliucci – Ed. BUR Rizzoli

e da “Giovanni Cassiano – Le istituzioni cenobitiche » – a cura di Lorenzo Dattrino -

1. I DANNI DELLA TRISTEZZA
La nostra quinta lotta consiste nel reprimere gli impulsi della tristezza, una passione divoratrice, che se in qualche modo, con i suoi continui assalti e a seguito delle varie vicende della vita, riesce a impadronirsi della nostra anima, a poco a poco ci separa da ogni contemplazione divina e, dopo aver fatto cadere la stessa mente dall’intero suo stato di purezza, la scuote nel profondo e la deprime: non le permette di continuare a dedicarsi alla preghiera con lo stesso fervore del cuore e nemmeno di rimediare al proprio male applicandosi alla lettura dei testi sacri. Questo vizio, poi, non tollera che il monaco sia pacifico e mite con i propri fratelli, ma lo rende insofferente e scontroso nell’assolvere a tutti i suoi doveri, sia di lavoro che religiosi, e, dopo averlo privato della capacità di prendere una qualunque decisione salutare e averne turbato la saldezza del cuore, lo rende come un folle e un ubriaco, e quindi lo abbatte e lo sommerge sotto il peso di una penosa disperazione.

2. OCCORRE GUARIRE L’ANIMO DALLA TRISTEZZA
Se dunque noi aspiriamo ad affrontare decisamente e secondo le regole la lotta spirituale con impegno non minore delle battaglie precedenti, è necessario, da parte nostra, aver cura anche di questo male. Infatti, «come la tignola danneggia i vestiti e come il verme danneggia il legno, cosi la tristezza dell’uomo nuoce al suo cuore» (Pr 25, 20). Lo Spirito divino ha dunque espresso con sufficiente evidenza e proprietà la virulenza di questo vizio dannoso e pernicioso.

3. GLI INSEGNAMENTI DELLA SCRITTURA
l. E di fatto un vestito roso dalla tignola non avrà più alcun prezzo e non potrà servire ad alcun uso; così pure un legno, corroso dai vermi, non potrà essere destinato a ornare una casa anche modesta, ma soltanto a essere bruciato. Tale si rende anche l’anima corrosa dai morsi della tristezza: ella non è più adatta a indossare la veste pontificale che secondo il vaticinio del santo profeta Davide riceve abitualmente l’unguento dello Spirito Santo che discende dal cielo, prima sulla barba di Aronne e poi sulle frange del suo vestito. t scritto infatti: «Come l’unguento sul capo che scende sulla barba di Aronne e poi sul lembo del suo vestito» (Sal 132 [133], 2).
2. Ma quest’anima non potrà neppure prendere parte all’edificazione e all’ornamento di quel tempio spirituale, del quale Paolo, sapiente architetto, pose le fondamenta, dicendo: «Voi siete il tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in voi» (1 Cor 3, 16). E nel Cantico dei Cantici la sposa indica di quale legno quel tempio deve essere costruito: «Le travi sono i cipressi, e le pareti delle nostre case sono i cedri» (Ct 1, 16; LXX). Per questo vengono scelti, per l’edificazione del tempio di Dio, quelle specie di tronchi d’albero che emettono buoni odori e non sono soggetti alla putrefazione, e non subiscono né la corrosione dei tempo né l’opera roditrice dei vermi.

4. LE CAUSE DELLA TRISTEZZA
A volte la tristezza è conseguenza dell’ira che l’ha preceduta, oppure è generata da un desiderio frustrato o da qualche guadagno mancato – quando cioè uno si vede svanire la speranza che nutriva per questa o quella cosa. Altre volte, poi, anche senza alcun motivo apparente che ci spinga a cadere in questo precipizio, ma solo perché pungolati dal nostro astuto Nemico, ci sentiamo improvvisamente oppressi da una così grande afflizione, che non riusciamo ad accogliere con la consueta affabilità neppure le persone che ci sono care e a cui siamo più legati; e qualunque cosa ci dicano, per quanto adeguata alla circostanza, ci sembra inopportuna e superflua, e rispondiamo loro in modo del tutto scortese, perché il fiele dell’amarezza invade ormai tutte le profondità del nostro cuore.

5. LE CAUSE DELLA TRISTEZZA DERIVANO SOLTANTO DA NOI
Da quanto si è detto risulta chiarissimamente che non è sempre colpa degli altri se in noi si accendono gli stimoli passionali, ma è piuttosto colpa nostra, perché siamo noi stessi a custodire nel segreto del nostro intimo le cause d’inciampo e i semi dei vizi, che poi, non appena la pioggia delle tentazioni bagna la nostra mente, subito germogliano e danno frutto.

6. LE CADUTE SONO LA CONSEGUENZA DI LUNGA NEGLIGENZA
Nessuno, infatti, per quanto provocato dal vizio di un’altra persona, può essere indotto a peccare, se non ha già nel proprio cuore la radice del peccato; e quando qualcuno precipita nell’abisso di una vergognosa concupiscenza per aver contemplato la bellezza di una donna, non bisogna credere che sia stato sedotto al l’improvviso in quel momento, ma piuttosto che quella vista sia stata solo l’occasione che ha fatto emergere in superficie una malattia nascosta che egli covava già nel profondo.

7. LA CONVIVENZA CON GLI ALTRI CI RENDE PIU’ PAZIENTI
Iddio perciò, creatore dell’universo, ben sapendo più d’ogni altro il segreto di curare le sue creature e conoscendo che non negli altri, ma in noi stessi s’affondano le radici e le cause delle nostre colpe, non ci domanda di abbandonare la convivenza con i nostri fratelli e di evitare coloro che riteniamo siano stati da noi offesi oppure abbiano essi stessi disgustato noi; al contrario, Egli vuole che cerchiamo di cattivarceli, ben sapendo che la perfezione dell’anima non si acquista tanto col separarci dagli uomini, quanto piuttosto con l’esercizio della pazienza. Ed è vero che la pazienza saldamente posseduta, come può, da una parte, mantenerci sereni perfino con quelli che ricusano la pace (cf. Sal 119 [120], 7), cosi pure, se essa non è stata assicurata, potrà, al contrario, provocare continuamente la discordia anche con quelli che sono già perfetti e migliori di noi. In realtà non potranno mancare nella vita comune occasioni di turbamento, al punto da farci perfino proporre di abbandonare coloro, con i quali abbiamo a convivere, ma con questo non eviteremo le vere cause della tristezza che ci avranno indotto a separarci dai primi compagni; semplicemente, le muteremo!

8. LA PAZIENZA RENDE FACILE LA VITA IN COMUNE
Pertanto dobbiamo procurare di emendare sollecitamente i nostri difetti e di correggere le nostre abitudini. E allora, se i nostri vizi saranno corretti, la nostra vita s’accorderà in maniera molto facile non soltanto con gli uomini, ma anche con gli animali e con le bestie selvatiche, secondo quanto risulta dal libro di Giobbe: «Le bestie selvatiche saranno in pace con te» (Gb 5, 23; LXX). Non avremo più da temere motivi d’offesa provenienti dal di fuori, e non potranno sorprenderci provocazioni dall’ambiente esterno, se in noi stessi non saranno accolte e innestate le loro radici. Infatti esiste «una grande pace per quelli che amano il tuo nome; non c’è per loro occasione d’inciampo» (Sal 118 [119], 165).

9. LA TRISTEZZA DI CAINO E DI GIUDA
Esiste anche un altro genere di tristezza, ancor più detestabile, che induce il peccatore non a correggere la propria condotta dì vita e a purificarsi dai vizi, ma a disperare in modo pericolosissimo della propria salvezza: fu questa tristezza a impedire a Caino di pentirsi dopo l’uccisione del fratello (cf. Gen 4, 9-16) e a spingere Giuda, dopo il tradimento, non a cercare di riparare la sua colpa, ma a impiccarsi per la disperazione (cf. Mt 27, 5).

10. UNA SOLA E’ LA TRISTEZZA UTILE
In un solo caso, dunque, dobbiamo ritenere utile la tristezza: se nasce in noi mentre siamo infiammati dal rimpianto dei peccati, dal desiderio della perfezione o dalla contemplazione della beatitudine futura. Di essa il beato Apostolo dice: «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che conduce alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (cf. 2 Cor 7, 10).

11. COME DISTINGUERE LA TRISTEZZA UTILE DA QUELLA DANNOSA
La tristezza «che produce un pentimento irrevocabile che conduce alla salvezza» (cf. 2 Cor 7, 10) è ubbidiente, affabile, umile, mansueta, dolce e paziente, perché deriva dall’amore di Dio: mentre si sottopone infaticabilmente a ogni tipo di sofferenza fisica e di contrizione spirituale per desiderio della perfezione, resta però in qualche modo gioiosa e, fortificata dalla speranza del proprio progresso, custodisce la dolcezza dell’affabilità e della pazienza, avendo in se stessa tutti i frutti dello Spirito Santo enumerati dallo stesso Apostolo, che dice: «Il frutto dello Spirito è carità, gioia, pace, pazienza, bontà, benevolenza, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé» (cf. Gal 5, 22-23). L’altra tristezza, invece, è quanto mai amara, insofferente, dura, piena di rancore, di sterile avvilimento e di penosa disperazione. Impedisce ogni attività a chi ne rimane vittima e lo distoglie dall’afflizione che lo porta alla salvezza, poiché è irrazionale e non solo distrugge l’efficacia della preghiera, ma elimina tutti i frutti spirituali che abbiamo appena enumerato e che la prima tristezza è in grado di procurarci.

12. OGNI TRISTEZZA E’ NOCIVA, SE NON PROVIENE DA DIO
Per queste ragioni ogni tristezza, se si eccettua quella che viene accolta per una salutare penitenza o per l’impegno della perfezione o per il desiderio dei beni futuri deve essere repressa, perché tutta propria del mondo e perché provocatrice di morte. Perciò è necessario estirparla radicalmente dal nostro cuore al modo stesso della fornicazione, dell’avarizia e della collera.

13. I RIMEDI PER VINCERE LA TRISTEZZA
Noi pertanto riusciremo a espellere da noi questa passione così dannosa solo se saremo in grado di sollevare il nostro spirito e mantenerlo continuamente occupato nella meditazione spirituale in previsione della speranza futura e della promessa beatitudine. In questo modo infatti saremo in grado di superare ogni genere di tristezza, quella che deriva in noi da un precedente atto di collera o per la perdita di un guadagno o per un danno a noi inferto; e cosi pure la tristezza generata in noi da un’ingiuria subita, oppure nata dentro di noi per qualche turbamento della mente sorto senza fondato motivo, o anche creatosi in noi per effetto d’una mortifera disperazione. Cosi, perseverando sereni e sicuri nella previsione dei beni futuri, senza lasciarci vincere dalle vicende del mondo presente quando esse ci sono avverse, e senza lasciarci lusingare quando esse tornano a nostro favore, potremo considerare le une e le altre come passeggere e destinate a cadere ben presto.

 

Publié dans:MEDITAZIONI, monachesimo |on 29 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

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