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I FONDAMENTI DELLA TEOLOGIA DI BEN SIRA. SAPIENZA E TIMORE DEL SIGNORE (SIR 1)

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I FONDAMENTI DELLA TEOLOGIA DI BEN SIRA. SAPIENZA E TIMORE DEL SIGNORE (SIR 1)

Calduch-Benages N.

(dal Siracide prima lettura dell’Ufficio delle letture, continua fino a domenica)

I due primi capitoli del libro di Ben Sira meritano una speciale attenzione, perché costituiscono l’introduzione, o se vogliamo, il portale d’ingresso di tutta l’opera. Mettendo insieme il tono innico con la parenesi, Ben Sira fa un’esposizione dottrinale di carattere programmatico, nella quale presenta il nucleo teologico del suo insegnamento: la relazione tra la sapienza e il timore del Signore attraverso la fedeltà ai comandamenti e l’esperienza della prova.

IL PORTALE TEOLOGICO DEL LIBRO DI BEN SIRA
Come buon pedagogo, il saggio dispiega il suo pensiero in varie tappe e in forma graduale: l’origine divina della sapienza (1,1-10), la sua intima relazione con il timore del Signore (1,11-30) e, da ultimo, la prova come condizione indispensabile per il discepolo che teme il Signore, osserva la legge e cerca la sapienza (2,1-18)[1]. Tutti questi temi, diversamente trattati, riappariranno nel corso dell’opera nelle istruzioni e nei poemi del saggio, applicati a situazioni concrete della vita quotidiana e illuminati dal passato glorioso di Israele. Concentriamo ora l’attenzione sul primo capitolo, oggetto della nostra riflessione.
Il poema iniziale del libro (1,1-10) è una bellissima composizione innica dedicata alla sapienza. In linea con la tradizione sapienziale dell’Antico Testamento (cf. Pr 8,22-31 e Gb 28,1-28), Ben Sira insiste sull’origine divina della sapienza: ogni sapienza proviene da Dio. Ella è stata la prima creatura uscita dalle mani di Dio ed è stata destinata a essere un dono per gli uomini e le donne che lo amano.
Nel poema seguente (1,11-30) Ben Sira non solo pone in evidenza l’intrinseca relazione che esiste tra il timore del Signore e la sapienza (vv. 11-20), ma anche offre un’istruzione sulla pazienza (vv. 22-24) e un’altra sulla sincerità (vv. 28-30), virtù imprescindibili per il discepolo che teme il Signore e desidera incontrare la sapienza (vv. 25-27).

PRIMA PARTE: L’ORIGINE DIVINA DELLA SAPIENZA (1,1-10)
Senza ricorrere ad alcun preambolo introduttivo per predisporre il suo giovane uditorio, Ben Sira inizia il suo discorso:
Ogni sapienza viene dal Signore, e sta con lui per sempre (1,1).
Le sue parole sono categoriche e non lasciano spazio né al dubbio né a errate interpretazioni. Il soggetto delle due orazioni è «ogni sapienza», cioè qualsiasi tipo di sapienza senza eccezione alcuna (artigianale, intellettuale, filosofica…), o meglio ancora la sapienza nella sua totalità. Di essa il saggio afferma l’origine divina e la sua stretta relazione con il Signore.
Le parole inaugurali del saggio contengono due insegnamenti fondamentali: la sapienza non solo ha la sua origine nel Signore, ma anche mantiene con lui una stretta relazione che si estende nel tempo. A questo riguardo, le preposizioni giocano un ruolo importante, perché esprimono rispettivamente l’origine (dal Signore), la relazione (con il Signore) e l’orientamento (per sempre) della sapienza. Detto in altro modo, il passato, il presente e il futuro della sapienza dipendono dal Signore.
Questa sentenza del saggio, unica in tutta la Bibbia, è tanto importante che occupa il posto d’onore nel libro. Così, già fin dal primo momento, i discepoli (e anche i lettori/lettrici) comprendono che la sapienza e il Signore sono uniti da un vincolo strettissimo. Tanto è vero che l’acquisizione della sapienza si converte in un’impresa di carattere eminentemente religioso: ricevere la sapienza è ricevere il Signore e ricevere il Signore è ricevere la sapienza (cf. 4,13ss).

IL SENSO CREATURALE DELL’UOMO
La sabbia dei mari, le gocce della pioggia e i giorni dell’eternità,
chi li può contare?
L’altezza dei cieli, l’estensione della terra e la profondità dell’abisso[2],
chi li può scrutare? (1,2-3).

Il verbo «contare» (exarithmeo) fa riferimento a qualcosa di molto caratteristico dell’essere umano: l’affanno di controllare quantitativamente la realtà (si pensi agli elenchi, ai cataloghi, agli inventari, ai censimenti…). In questo caso si tratta di contare la sabbia del mare, le gocce della pioggia e i giorni eterni. Tutti questi elementi si compongono di un’infinità di unità minute (grani, gocce, giorni…) che viste in un insieme, in cambio, formano un’immensità incalcolabile (la spiaggia, l’acqua, l’eternità). Tanto la piccolezza come la grandezza sono dimensioni che superano abbondantemente la capacità umana, e l’uomo, anche se volesse non potrebbe mai esaurirla. Contare la sabbia del mare, le gocce della pioggia o i giorni eterni sono impreseimpossibili per l’uomo, quantunque non per Dio (cf. Is 40,12-14).
Il verbo «scrutare» (exichneuo) segue la medesima linea del precedente. Qui l’impresa impossibile consiste nel misurare le grandi dimensioni dell’universo (l’altezza dei cieli, l’estensione della terra, la profondità dell’abisso). Però la situazione dell’uomo è la stessa che nel versetto precedente: anche queste dimensioni sonoper lui inesauribili. La menzione dei cieli, della terra e dell’abisso riflette le antiche cosmogonie, nelle quali la terra si concepisce come una grande piattaforma che si appoggia su una serie di colonne e sostiene la volta celeste (cf. Pr 8,27-29).
L’uomo vive in contatto con l’universo creato: lo vede, lo conosce, lo sperimenta quotidianamente. Però, nonostante questa vicinanza vitale, non riesce a sottometterlo al suo controllo. Ed è perché il dominio dell’universo sempre sarà fuori dalla sua portata, per il fatto che questa è una prerogativa esclusiva di Dio. Questo è l’insegnamento del saggio. Così queste domande hanno una funzione pedagogica molto chiara. In nessun momento pretendono di scoraggiare il discepolo o indurlo al pessimismo (cf. Pr 30,1-4), ma di fargli prendere coscienza della sua condizione di creatura e della infinita grandezza di Dio.

LA RADICE DELLA SAPIENZA
Anzitutto fu creata la sapienza,
l’intelligenza prudente fin dall’eternità
La fonte della sapienza è la parola di Dio nelle altezze
e i suoi canali sono disposizioni eterne (1,4-5).

La risposta alle domande precedenti ci rimanda al tema del v. 1: l’origine divina della sapienza. Per mezzo di un passivo teologico («fu creata»), il saggio afferma che Dio creò la sapienza prima di tutte le cose. E subito dopo aggiunge che la «intelligenza prudente», cioè la medesima sapienza, esiste da sempre. L’insistenza sulla dimensione temporale della sapienza («prima di tutte le cose», «da sempre») rafforza la relazione tra il v. 4 e il v. 1 prima menzionata. A questo punto, il saggio ha conseguito il suo obiettivo: situare la sapienza in un ambiente del tutto divino. Il GrII[3] aggiunge il v. 5.

La radice della sapienza a chi fu rivelata?
E i suoi disegni li conosce?
La scienza della sapienza, a chi fu rivelata?
e la sua molta esperienza, chi la conobbe? (1,6-7).

I verbi «rivelare» (apokalypto) e «conoscere» (gignosko) appartengono a una sfera molto distinta dalle precedenti (contare, scrutare, misurare). Qui si tratta di una conoscenza molto più profonda che si ottiene per rivelazione e che ha per oggetto la sapienza. Più esattamente, il testo parla della «radice della sapienza» e dei «suoi disegni». È la prima volta che Ben Sira utilizza la metafora vegetale applicata alla sapienza (cf. 1,20). Come intendere questa metafora? La radice della sapienza, come la radice di una pianta rappresenta la sua origine, il suo fondamento, la sua essenza più intima, il suo principio generatore di vita. E che significano i suoi disegni? Se intendiamo la parola «disegni» nella sua accezione positiva, i disegni della sapienza indicano le sue possibilità di attuazione, o meglio, il suo modo di procedere. Il GrII aggiunge il v. 7.

DIO SOLO È SAPIENTE
Uno solo è sapiente, molto terribile, seduto sopra il trono (1,8).
La risposta del saggio consiste in un’affermazione solenne su Dio, quantunque non menzioni esplicitamente il suo nome (cf. 43,29 e anche Is 31,2; Gb 9,4). Dio è l’unico sapiente, cioè il saggio per eccellenza (in Egitto e in Mesopotamia la sapienza era attributo degli dei). Dio è molto temibile, cioè infonde grande rispetto. Dio sta seduto sul suo trono, cioè governa con autorità. In altre parole, Dio è sapiente, trascendente e potente, capace di realizzare quei progetti che sono impossibili per l’uomo: dominare l’universo e conoscere la sapienza.

È il Signore che ha creato la sapienza,
l’ha vista e l’ha misurata,
l’ha diffusa su tutte le sue opere.
La elargì su ogni mortale
e a quanti lo amano la prodigò.
L’amore del Signore è sapienza degna di onore;
a coloro ai quali si rivela,
viene distribuita perché la possano vedere (1,9-10).

Se prima il saggio ci ha presentato la figura del Dio sapiente, ora ci spiega le sue azioni relative alla sapienza: l’ha creata (cf. 4a), l’ha vista, l’ha misurata (cf. 2b), l’ha diffusa e l’ha concessa come dono. Il processo descritto inizia con un atto creativo da parte di Dio (cf. 4a), prosegue con la contemplazione e la misurazionedella creatura (cf. Gb 28,26-27) e termina con la sua generosa diffusione nell’universo (cf. Gl 3,1-2)[4] e tra gli uomini.
Vediamo appunto che il Signore crea la sapienza non per mantenerla nel segreto o trattenerla per sé, ma per diffonderla e ripartirla gratuitamente tra tutti gli uomini, specialmente tra quelli che lo amano. Con l’aggettivo «tutti», si sottolinea il carattere universale della sapienza e con la menzione di quelli che lo amano si lascia intravedere una predilezione per il popolo di Israele (cf. 24,7-12). Il GrII aggiunge il v. 10cd.

SECONDA PARTE: IL TIMORE DEL SIGNORE E LA SAPIENZA (1,11-30)
Terminando con la menzione dell’amore di Dio (v. 10), l’inno alla sapienza presuppone che esista un cammino che conduce alla sapienza, e questo cammino è precisamente il timore del Signore (phobos kyriou):

Il timore del Signore è gloria, vanto,
gioia e corona di esultanza.
Il timore del Signore allieta il cuore,
dà contentezza, gioia e lunga vita.
Il timore del Signore è un dono del Signore,
perché si appoggia sui cammini dell’amore
Chi teme il Signore andrà bene alla fine,
sarà benedetto nel giorno della sua morte (1,11-13).

Il poema si apre con tre versetti che ci parlano dei benefici che il timore del Signore produce a livello individuale: gloria, onore, contentezza, giubilo, diletto, gioia, lunga vita, buona morte e benedizione. Ad eccezione della lunga vita (cf. v. 20), gli altri termini denotano concetti astratti, la cui nota dominante è la felicità vista nelle sue multiformi sfaccettature. Il timore del Signore, cioè, non ha nulla a che vedere con il terrore, la paura o l’angoscia. È la attitudine religiosa che rende l’uomo cosciente del suo essere creatura, e che l’accompagna dalla sua nascita fino al giorno della sua morte. È il senso religioso che gli permette di sfruttare i beni terreni e di sperare un felice compimento.

Principio della sapienza è il timore del Signore,
ella fu creata con i fedeli nel grembo materno.
Tra gli uomini stabilì il suo seggioeterno,
e con la sua discendenza si manterrà fedele (1,14-15).

L’affermazione di 14a, che s’ispira a Pr 9,10: «Il principio della sapienza è il timore del Signore e nel conoscere il Santo sta l’intelligenza», offre una buona sintesi della dottrina teologica di Ben Sira. Secondo lui, il timore del Signore è l’elemento principale, essenziale e più importante della sapienza: non c’è sapienza senza timore del Signore. In continuità il saggio, riprendendo l’idea del v. 10, sottolinea la presenza della sapienza tra gli uomini. Per quel motivo utilizza la triplice ripetizione della preposizione «con» (con i fedeli, con gli uomini, con la sua discendenza). Si tratta di una presenza costante nella vita dei fedeli, una presenza che inizia nel seno materno, continua durante la loro esistenza terrena e poi si prolunga fedelmente nella loro discendenza (cf. 4,16). Il destino della sapienza è, cioè, stare con gli uomini, accompagnarli nella loro ricerca. Attraverso di esso si appoggia (lett.: pone il suo fondamento) in mezzo a loro per sempre (cf. 24,7-9).

PIENEZZA E FIORITURA
Pienezza della sapienza è temere il Signore,
essa riempie con abbondanza i suoi fedeli dei suoi frutti.
Riempie loro tutta la casa di cose desiderabili,
e i granai dei suoi prodotti (1,16-17).
Qui l’idea predominante è quella della pienezza. Nel v. 16a il saggio afferma che la pienezza della sapienza è temere il Signore, e poi sviluppa il concetto attraverso immagini molto più concrete. La novità di questi versetti ha la sua radice nei verbi transitivi che attribuiscono alla sapienza delle attività proprie degli umani: «ricolmare con abbondanza»e«riempire». In tal modo cioè la sapienza personificata sazia abbondantemente i fedeli con i suoi frutti, riempie loro la casa di cose desiderabili e i granai dei suoi prodotti. Frutti, cose desiderabili e prodotti sono beni materiali che completano i benefici del timore del Signore menzionati nei vv. 11-13.

Corona della sapienza è il timore del Signore,
essa fa fiorire la pace e la buona salute.
Ambedue sono doni del Signore per la pace,
estendono la gloria a coloro che lo amano.
[Dio ha visto e misurato la sapienza] [5]
Ha fatto piovere la scienza e l’intelligenza,
ha esaltato la gloria di quanti la possiedono (1,18-19).

L’immagine della corona intesa come il ceppo dell’albero, ci introduce nel regno vegetale. I verbi «far fiorire» e «far piovere» completano questa immagine. La sapienza[6], come se fosse un albero (cf. 24,13-14.16-17), fa fiorire la pace e la buona salute e essa stessa, come se fosse una nube, fa piovere scienza e intelligenza. Questi quattro doni, che potremmo riassumere in benessere e intelligenza, non sono paragonabili con quello che chiude l’elenco: la gloria (cf. 11a). Così la sapienza conclude la sua intensa attività: esaltando la gloria di quanti la possiedono (19b).

Radice della sapienza è temere il Signore,
i suoi rami sono lunga vita.
Il timore del Signore allontana i peccati,
chi persevera allontana la collera (1,20-21).

Proseguendo con le immagini vegetali, il saggio conclude la parte più poetica della sua composizione: radice e rami, principio e sviluppo, origine e maturità, discrezione ed esuberanza. Così come l’albero ha bisogno della radice per assorbire l’alimento della terra ed estendere i suoi rami, allo stesso modo il discepolo necessita del timore del Signore per poter vivere a lungo e in pienezza. Il GrII aggiunge il v. 21.

CONTRASTO FRA PASSIONE E PAZIENZA

La passione dell’ingiusto[7] non può giustificarsi,
perché la furia della sua passione lo farà cadere.
L’uomo paziente afferra il momento opportuno,
e alla fine la sua ricompensa è la gioia.
Fino al momento opportuno trattiene le sue parole,
per questo molti elogiano la sua prudenza (1,22-24).

Subito le parole del saggio si traducono in una denuncia contro un’attitudine che il discepolo deve evitare a ogni costo, in quanto è incompatibile con il timore del Signore: la collera. Ma perché parlare della collera proprio in questo preciso momento? Perché passare da un linguaggio astratto (il timore del Signore) a uno tanto concreto (la passione)?
Con grande abilità pedagogica, Ben Sira si adatta alla mentalità e alla situazione del suo giovane uditorio, utilizzando un’antitesi molto appropriata (passione e pazienza) di elementi che hanno effetti contrari: rovina e lunga vita. La persona collerica o «appassionata» non è capace di dominare la collera, ma anche la sua furia (impeto, ardore) è più forte di essa, la domina completamente e la trascina verso la caduta. Le conseguenze sono gravi, perché non solamente toccano la persona in questione ma anche tutti quelli che le stanno intorno: la convivenza si rompe e nasce la divisione. L’effetto distruttivo della collera incontrollata contrasta con l’effetto che ottiene la persona paziente: una lunga vita segnata dalla felicità.
La persona paziente è capace di mantenere l’equilibrio delle emozioni e di misurare le parole, anche in circostanze difficili. Il risultato del suo autocontrollo è la contentezza (cf. 11b.12b) e il riconoscimento sociale (cf. 39,9). Questa contentezza è la stessa che deriva dal timore del Signore (cf. 1,12b.23) e, per questo, collera e furia costituiscono la faccia opposta del temere il Signore, cioè della sapienza. Senza alcun dubbio, i vv. 22-24 rinviano a Pr 15,18: «L’uomo collerico suscita litigi, il lento all’ira seda le contese». È chiaro cioè che i ragazzi che frequentavano la scuola del saggio dovevano imparare, prima di ogni altra cosa, a controllare debitamente i propri impulsi passionali.

L’OSSERVANZA DELLA LEGGE È CONDIZIONE INDISPENSABILE

Tra i tesori della sapienza vi sono proverbi molto saggi,
come quello che adorare il Signore ripugna al peccatore.
Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti,
e il Signore te la concederà.
Perché il timore del Signore è sapienza e istruzione,
si compiace della fiducia e della mansuetudine (1,25-27).

La sapienza ricompare sulla scena. Le massime sapienti, ossia i proverbi, contengono sapienza, però il peccatore non può accedere ad essa perché disprezza il timore del Signore, lo considera un abominio (v. 25b). La sapienza è un dono che il Signore concede e ripartisce secondo la sua generosità (vv. 9-10) e, per questo, non basta desiderarla per conseguirla. Richiede partecipazione e sforzo da parte del discepolo. Così si esprime il saggio al v. 26: «Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la elargirà».
È chiaro, quindi, che l’osservanza della legge è condizione indispensabile per ottenere la sapienza dal Signore. Il v. 27 mostra un forte parallelo con Pr 15,33, il che ci permette di qualificarlo come il primo proverbio dei tesori della sapienza (cf. 1,25!). Non si tratta semplicemente di una citazione, dato che nel nostro testo l’ordine delle parole è distinto e il suo significato anche.
In 27a la sapienza, insieme con la disciplina, si identifica di nuovo con il timore del Signore e in 27b appaiono due concetti nuovi: pistis (fede, fedeltà, fermezza, costanza) e prautes (umiltà, modestia, semplicità, dolcezza) che sono il compiacimento del Signore. In tal modo, quindi, per acquisire la sapienza che viene dal Signore si richiede un’attitudine di fede e umiltà. Con fede e umiltà si comportò Mosè e per questo il Signore lo consacrò (cf. 45,4). Se l’umiltà è la disposizione dell’uomo che corrisponde alla sapienza immanente (timore del Signore), la fede è quella che corrisponde alla sapienza trascendente (che viene da Dio).

REGOLE DI ATTUAZIONE
Non essere disobbediente al timore del Signore,
e non avvicinarti ad esso con doppiezza di cuore.
Non essere ipocrita davanti agli uomini e vigila sulle tue labbra.
Non esaltarti per non cadere e per non attirarti il disonore;
il Signore svelerà i tuoi segreti e ti umilierà davanti all’assemblea,
perché non hai ricercato il timore del Signore,
e il tuo cuore è pieno di inganno (1,28-30).

Una serie di regole di attuazione, la maggior parte delle quali formulate in negativo, avvertono il discepolo degli atteggiamenti che deve evitare nella vita (28-30b). L’uso della seconda persona singolare si allaccia con l’imperativo «osserva i comandamenti» di 1,26 e rivela che la disciplina è iniziata. Nella relazione con il Signore si deve evitare la doppiezza del cuore; nella relazione con il prossimo l’ipocrisia (vigilanza nel parlare) e nella relazione con se stessi l’autoesaltazione. Questa, come l’impulso della passione (22b), provoca la caduta della persona in senso morale (30b).
Gli ultimi stichi (30c-f) descrivono la reazione del Signore di fronte a un’attitudine falsa, ipocrita e vanitosa. Se il discepolo si accosta a lui (lett.: al timore del Signore) con un cuore pieno di inganno, il Signore lo castigherà mettendo allo scoperto i suoi più intimi segreti (pensieri) e umiliandolo in mezzo alla assemblea (Pr 5,12-14).

A MO’ DI CONCLUSIONE
Sir 1,1-30, insieme con 2,1-18 presenta una sintesi della teologia e dell’antropologia di Ben Sira così come un primo accostamento alla sua pedagogia, specialmente in tempo di prova. Le colonne sulle quali si appoggia la sua dottrina teologica sono la sapienza, il timore del Signore e la legge. Per ottenere la sapienza, si richiede il timore del Signore e questa attitudine interiore di carattere eminentemente religioso si consegue per mezzo del compimento della legge: «La sapienza consiste nel temere il Signore; colui che è saggio osserva le sue leggi» (19,20). Molte e di diversa natura saranno le difficoltà che dovrà superare il discepolo che desidera ottenere la sapienza (o che vuole servire il Signore), ma se il suo cuore si mantiene unito al Signore, potrà ottenere l’obiettivo desiderato: «Riponi in lui la tua fiducia, ed egli verrà in tuo aiuto, procedi con rettitudine e spera in lui» (2,6).

Nuria Calduch-Benages

Lo scandalo vincente del Profeta – Il Profeta Ezechiele

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Lo scandalo vincente del Profeta – Il Profeta Ezechiele

[Omelia (05-07-2009)]

padre Romeo Ballan

Riflessioni
Io ti mando a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me? sono figli testardi e dal cuore indurito? sono una genìa di ribelli? (Ez 2,3-5). Con un linguaggio, che oggi sarebbe subito considerato ?politicamente scorretto?, il Signore ha inviato il giovane Ezechiele (I lettura) ad essere profeta tra gli Israeliti (VI sec. av. C.) deportati in schiavitù a Babilonia. Il linguaggio duro indica la difficile missione di essere profeta. Era difficile allora; lo è stato per Gesù (Vangelo) e per Paolo (II lettura). Essere profeta di Dio, portatore del Vangelo di Gesù, è stata sempre una missione ardua in ogni epoca e latitudine. Senza il prurito di cercarsi aureole di eroismo, la storia offre prove copiose di tali difficoltà. Le tre letture di questa domenica invitano a riflettere sullo ?scandalo del profeta?, presentandone la vocazione e la missione.

Il profeta autentico non è mai un auto-candidato, ma un chiamato da Dio, che lo manda. Spesso la chiamata di Dio avviene a tappe, che aiutano a comprendere il senso e la portata di una vocazione. Così è avvenuto per Abramo, Mosè, Gesù stesso, i Dodici apostoli, Paolo e tanti altri. Per Ezechiele la chiamata ha almeno tre momenti: in primo luogo, la visione del ?carro del Signore? in una scenografia ricca di immagini di non facile comprensione (Ez 1). Segue la chiamata vera e propria, espressa in termini diretti (I lettura): è Dio che interviene e abita nel profeta (v. 2); questi si alza in piedi, ascolta la voce di Dio che lo manda (v. 3.4) a quei ?figli testardi e dal cuore indurito? (v. 4). Ma il profeta -è il terzo momento della vocazione- non deve aver paura, non deve lasciarsi impressionare dalle facce di quella genia di ribelli, che sono come cardi, spine, scorpioni? (v. 6-7). Egli si presenta a loro, forte della Parola che ha mangiato: il rotolo della Parola diventa per la sua bocca dolce come il miele. Il profeta avrà una ?faccia tosta?: non dirà parole sue, ma solo quelle che avrà ascoltate dal Signore e che avrà accolte nel suo cuore. In questo modo egli sarà sentinella fedele e coraggiosa nel trasmettere i messaggi di Dio. Ascoltino o non ascoltino! (Ez 3).

Paolo è un modello di profeta, scelto dal Signore per una missione di primo annuncio del Vangelo ai pagani. Una missione che egli ha realizzato con determinazione, generosità, ampiezza di orizzonti geografici e culturali, in mezzo a prove di ogni genere, come racconta nei testi che precedono il brano di oggi (II lettura). È stata una missione coraggiosa, ma vissuta, al tempo stesso, nell?umiltà e debolezza, con una spina nella carne (v. 7). Ha pregato insistentemente per esserne liberato, ma alla fine ha compreso che la grazia del Signore era in lui (v. 8-9). E ancor più, che la missione è più forte e più vera quando si realizza nella debolezza: negli oltraggi, difficoltà, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo (v. 10). Perché in tal modo appare chiaramente che missione e vocazione sono opera di Dio e non invenzioni umane. (*) L?esperienza storica dei missionari e delle Chiese da loro fondate e sostenute danno prova di questo paradosso, sul quale solo il mistero di Cristo getta un po? di luce.

Sembrerebbe logico che almeno la missione profetica del Figlio di Dio in carne umana fosse chiara per tutti, accettata senza rifiuti né contestazioni. Invece, proprio nella sua patria, tra i suoi, Gesù fu incompreso (Vangelo) e, più tardi, nella città santa di Gerusalemme fu eliminato in un complotto ordito dai suoi avversari religiosi e politici. A Nazaret la gente, stupita (v. 2), oscilla tra varie interpretazioni: si pone ben cinque domande circa l?identità di Gesù (v. 2-3), passando dalla sorpresa allo scandalo, alla gelosia e fino al rifiuto di quel concittadino, che appare troppo divino (sapienza, prodigi?), ma, al tempo stesso, troppo umano (falegname, uno come loro, di famiglia ben conosciuta?). Data l?incredulità di molti, Gesù, a malincuore, è obbligato a limitarsi: compie solo poche guarigioni (v. 5).

Nonostante la chiusura e l?incomprensione di quegli abitanti, Gesù risponde con un duplice segno: 1. percorre i villaggi d?intorno, si commuove al vedere la gente, insegna loro molte cose (v. 6 e 34); 2. chiama i Dodici e li manda a due a due tra la gente, dando anche a loro ?potere sugli spiriti immondi? (v. 7). Anche i Dodici, venuto il tempo della loro missione piena sulle strade del mondo, vivranno le stesse esperienze del loro Maestro: incontreranno riconoscimenti e accettazioni, ma, più spesso, incomprensioni e persecuzioni, sospetti e disprezzo, assieme a malattie e difetti personali. Sono le alterne vicende della vita di ogni missionario, chiamato a seguire i passi di Gesù, che aveva predetto: ?Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola?? (Gv 15,20). E sempre con la certezza di Paolo: la potenza di Cristo e del suo piano di salvezza ?si manifesta pienamente nella debolezza? (2Cor 12,9). Attraverso la fragilità degli strumenti umani, appare più chiaramente che la forza della missione viene da Dio. È questo lo scandalo del profeta; è lo scandalo vincente della croce.

Parola del Papa
(*) ?Paolo appartiene a quella schiera di ?mistici costruttori?, la cui esistenza è insieme contemplativa ed attiva, aperta su Dio e sui fratelli per svolgere un efficace servizio al Vangelo. In questa tensione mistico-apostolica, mi piace rimarcare il coraggio dell’Apostolo di fronte al sacrificio nell’affrontare prove terribili, fino al martirio (cf 2Cor 11,16-33), la fiducia incrollabile basata sulle parole del suo Signore: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9-10)?.
Benedetto XVI
Omelia nella festa della Presentazione del Signore, 2.2.2009

Don Claudio DOGLIO: Marta e Maria di Betania

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio11.htm#Marta%20e%20Maria%20di%20Betania

Don Claudio DOGLIO

Marta e Maria di Betania

Adesso vediamo invece un altro tipo di persona ritornando nell’ambito delle « pie » donne, per parlare di due sorelle che sono legate da stretta amicizia con Gesù: Marta e Maria di Betania, sorelle di Lazzaro, delle quali l’evangelista Giovanni parla in diversi punti. Ne parla anche Luca in un episodio famoso collocato subito dopo il racconto del buon samaritano. Siamo verso la fine del capitolo 10 del Vangelo di Luca: « Mentre erano in cammino – durante il viaggio verso Gerusalemme -, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte buona, che non le sarà tolta» » (Lc 10, 38-42).

L’episodio è molto noto ed è raccontato con maestria e semplicità; al centro c’è la parola di Gesù con la duplicazione del vocativo, caratteristica tipica di Luca: « Marta, Marta » è un dolce rimprovero, c’è la voce dell’amicizia in questo chiamare per nome due volte.

Il rimprovero che viene mosso a questa donna è di preoccuparsi e di agitarsi per molte cose; non viene rimproverata perché fa da mangiare – meno male che Marta ha fatto da mangiare, altrimenti quel giorno avrebbero saltato il pranzo! -, il rimprovero non è rivolto all’azione, ma all’essere troppo presa da molti servizi. In greco c’è la parola « diaconia » ed il riferimento è di tipo ecclesiale, non domestico, non è il problema del far da mangiare in casa o non collaborare; è invece un problema di attività, di impegno nella vita della Chiesa.

Ho detto che questo episodio è collocato subito dopo la parabola del buon samaritano e l’ho detto perché è importante tenere insieme i due racconti. Quando parlo dell’episodio del buon samaritano mi viene logico concludere che bisogna « fare » concretamente, e infatti Gesù per due volte dice allo scriba che lo stava interrogando: « Va’ e fai anche tu lo stesso! »; il buon samaritano è uno che ha operato, che ha fatto del bene, che ha fatto la carità, quindi, dico che l’importante è « fare ». Poi, subito dopo leggo Marta e Maria e, dimenticandomi di ciò che ho detto prima, dico che l’importante è « ascoltare », per cui sono contraddittorio senza ombra di dubbio. Le due cose infatti sono da tenere insieme e Luca, molto saggiamente, ha messo i due episodi uno di seguito all’altro per evitare l’atteggiamento estremista di contrapposizione, in base al quale si sostiene che bisogna fare oppure, al contrario, che bisogna ascoltare. Sono necessarie entrambe le cose e la grande lezione di Luca sta in questo concetto: bisogna « fare » la carità, ma per poter fare bisogna prima « ascoltare », come pure è vero che non basta ascoltare se poi non si mette in pratica. Le due cose non sono alternative, ma necessarie entrambe; quindi, Marta e Maria non sono due figure antitetiche bensì due figure complementari che devono diventare entrambe il modello della Chiesa, cioè di un atteggiamento operativo-contemplativo.

   Il significato della « parte buona » nell’episodio di Marta e Maria

L’immagine buona è della donna che accoglie il Signore nella sua casa; lo sbaglio di Marta sta appunto nell’agitazione e nella preoccupazione, cioè in quel di più che fa mettere in secondo ordine la persona. Domandiamoci allora qual è la « parte buona » che Maria ha scelto e che, in italiano, è stata tradotta con « migliore »; in greco c’è un aggettivo positivo « agathós », semplicemente, la parte buona. Subito dopo, Gesù specifica « quella che non le sarà tolta », cioè la relazione con la persona; la relazione di amicizia con la persona è eterna, resisterà nel tempo e nell’eternità: i poveri, i malati da curare, gli ignoranti da istruire non ci saranno più, le opere di carità finiranno, ma non così la carità. La carità è la relazione con la persona, rivolta alla persona; la parte buona che Maria ha scelto e che non le sarà tolta è proprio la relazione personale con Gesù, mentre lo sbaglio di Marta sta nel mettere le cose prima della persona, per cui la cura per i piatti e per le pietanze le fa dimenticare la persona. È quindi importante che metta i piatti e che cucini le pietanze, ma per la persona, dando la priorità alla relazione personale; la dimensione dell’ascolto, di cui Maria è modello esemplare, è proprio l’atteggiamento che permette di fare: se non si ascolta il Signore, se non lo si accoglie in profondità, non si è in grado di fare, per cui ci si agita e ci si preoccupa vanamente per molte cose.

L’immagine di Maria che ascolta viene ripresa dall’evangelista Giovanni, al capitolo 12, quando parla della cena di Betania, quando è proprio Maria di Betania che unge i piedi di Gesù con l’unguento profumato. Questo episodio somiglia molto a quell’altro della peccatrice, ma questa non è una donna peccatrice bensì colei che ha scelto la parte buona. Viene da pensare all’ironia liturgica perché c’è la festa di Santa Marta, ma non quella di Santa Maria di Betania; il motivo è molto semplice: nella tradizione antica fu confusa con Maria Magdalena, quindi si assommarono le due persone e Maria di Betania venne assimilata con Maria di Magdala. Tant’è vero che la festa di Santa Maria Magdalena è il 22 luglio e quella di Santa Marta è nell’ottava, sette giorni dopo, il 29 luglio, come se fossero le due sorelle; ma, dato che ormai è chiaro che sono due persone diverse, nella riforma del Messale è introdotta la dicitura per cui il 29 luglio è la festa di Santa Marta, Maria e Lazzaro di Betania, amici di Gesù, festa di tutti e tre, una famiglia di amici, di persone accoglienti che ricevono il Signore in casa propria e lo ascoltano.

Questo è un altro grande insegnamento delle donne bibliche: l’accoglienza e l’ascolto, è la grandezza della persona. Se pensiamo alla figura di Erodiade ed alla figura di Maria di Betania dobbiamo concludere che in quest’ultima c’è la grandezza: l’accoglienza e l’ascolto.

Publié dans:LETTURE: PERSONAGGI BIBLICI |on 29 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

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