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IL BIG BANG DI DIO (DI G.RAVASI)

http://liberstef.myblog.it/2008/04/20/il-big-bang-di-dio-di-g-ravasi/

IL BIG BANG DI DIO (DI G.RAVASI)

Posted on 20 aprile 2008
Il rapporto fra creazione ed evoluzione, il dialogo tra fede e scienza, il futuro dell’universo: una riflessione di Gianfranco Ravasi

fonte: www.avvenire.it (19.04.08)

Per la tradizione giudeo-cristiana nella creazione è insita una rivelazione cosmica che non si oppone a quella soprannaturale. Il confronto fra le diverse cosmologie.

Nell’assemblea del tempio di Gerusalemme si fece silenzio; un solista si alzò e intonò il Grande Hallel, la lode a Dio per eccellenza, il Salmo 136: «Lodate il Signore: egli è buono! / I cieli ha fatto con sa­pienza, / la terra ha stabilito sul­le acque, / ha fatto le grandi lu­ci: / il sole a reggere i giorni, / la luna e le stelle a regger la not­te! ». E il popolo a ogni verso ac­clamava: Ki le’olam hasdò, «per­ché eterno è il suo amore!». In quella strofa, che avrebbe gui­dato un rosario di altre strofe dedicate alla storia sacra così da comporre il Credo d’Israele, ba­lenava la prima, indimenticabile pagina della Bibbia, quel celebre capitolo 1 della Genesi, aperto da un lapidario Bereshit bara’ E­lohìm,
«In principio Dio creò…». Era, quella della Gene­si, una pagina curiosa nella sua ieratica ripetitività. Essa sembra oggi elaborata al computer se­condo un complesso schema numerico: 7 giorni nei quali af­fiorano 8 opere divine scandite in 2 gruppi di 4; 7 formule fisse alla base dell’intera trama del racconto; 7 ritorni del verbo ba­ra’,
‘creare’; per 35 volte (7×5) risuona il nome di Dio; per 21 volte (7×3) entrano in scena ‘terra e cielo’; il primo versetto si compone di 7 parole e il se­condo di 14 (7×2)… Questa spe­cie di cabala, ritmata sul 7 della settimana liturgica, numero di pienezza, di perfezione e di ar­monia, era destinata a celebrare lo squarcio che nel silenzio del nulla e nella tenebra del caos compie la parola divina creatri­ce. Tutta la creazione, infatti, è riassunta in un possente impe­rativo: «Sia la luce! E la luce fu».
Forse il miglior commento a questa riga biblica è nell’orato­rio La creazione di Haydn, con la sua prodigiosa generazione di un solare Do maggiore che sboccia dal caos di una modula­zione infinita di suoni. Per la Bibbia Dio non crea il mondo attraverso una lotta primordiale intradivina, come insegnavano le cosmologie babilonesi per le quali il dio vincitore Mar­duk faceva a pezzi la divi­nità negativa Tiamat, com­ponendo con essa l’univer­so. In tal modo il creato reca­va in sé neces­sariamente e definitivamen­te la stimmata del male e del limite. Per la Bibbia, invece, co­me dirà l’evangelista Giovanni in quel capolavoro innico che è il prologo al suo vangelo, «in principio c’era la Parola (il Lo­gos) », il Verbo efficace divino.
Nel libretto del profeta Baruk si dice che «le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono. Dio le chiama per nome ed esse ri­spondono: Eccoci! E brillano di gioia per colui che le ha create» (3,34-35). Nell’idillio primaverile dipinto nel Salmo 65, la terra di­venta come un manto fiorito e chiazzato di greggi perché in es­sa è passato col suo cocchio il Signore delle acque e della fe­condità e «tutti gridano e canta­no di gioia». In modo più freddo e ‘teorico’ il libro della Sa­pienza, uno scritto biblico sorto forse ad Alessandria d’Egitto alle soglie del cri­stianesimo, osserverà che «dalla gran­dezza e dalla bellezza delle creature per a­nalogia si co­nosce l’autore» (13,5). E in que­sta stessa linea si muoverà Paolo nel suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani: «Dalla crea­zione del mondo in poi, le per­fezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intel­letto nelle opere da lui compiu­te » (1,20).
Il creato è, dunque, latore di una rivelazione ‘cosmica’ e ‘natura­le’ che non sostituisce ma nep­pure si oppone a quella ‘so­prannaturale’. Per ricorrere a un gioco di parole, possibile solo in greco, si potrebbe dire col filo­sofo ebreo alessandrino Filone (I secolo d.C.) che Dio ha com­posto dei poiemata, cioè delle ‘opere’ che sono anche ‘poe­mi’, atti che sono messaggi, realtà che sono parole. Dopo tutto in ebraico un unico voca­bolo, dabar, significa contem­poraneamente ‘parola’ e ‘fat­to’. L’orizzonte creato per il cre­dente ebreo o cristiano è, sì, un panorama mirabile che può es­sere contemplato con animo ro­mantico (nella Bibbia ci sono al riguardo pagine emozionanti) ma è soprattutto un ‘testo’, un bagliore del Creatore, una pre­senza nascosta ma reale.
Questa presenza, però, non si­gnifica identità panteistica tra creato e Creatore. La concezione ebraico-cristiana della natura comprende in modo vigoroso il senso del limite e della finitudi­ne. Dio stesso impedisce alla sua creazione – pur limitata e fragile – di dissolversi. È ciò che dichiara con un interrogativo re­torico Dio stesso a Giobbe: «Chi serrò tra due battenti il Mare, quando erompeva a fiotti dal suo grembo materno, quando spezzavo il suo slancio impo­nendogli confini, spranghe e battenti e gli dicevo: Fin qui tu verrai e non oltre, qui s’abbas­serà l’arroganza delle tue onde?» (38,8-11).
A questa forza negativa si asso­cerà anche la potenza oscura della libertà umana che irrompe sul creato, come insegna il capi­tolo 3 della Genesi, sfasciando­ne l’armonia col suo peccato di orgoglio e di egoismo e riducen­dolo a un deserto di ‘spine e cardi’.
Ma la grande attesa non è domi­nata dall’incubo di una dissolu­zione. Paolo, infatti, immagina la creazione come una donna che geme nelle doglie di un par­to e l’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, dipinge il mondo futuro come un creato privo del mare-male e del dolore-morte: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più… Dio tergerà ogni lacrima dai loro oc­chi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,1.4).

LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO AI ROMANI – INTRODUZIONE (come meditazione per domenica)

http://www.movimentoapostolico.it/romani/testi/capitoli/introdrom.htm

LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO AI ROMANI – INTRODUZIONE (come meditazione per domenica)

La Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani possiamo definirla un compendio perfetto del mistero della salvezza. In essa tutti i temi legati alla Redenzione dell’uomo vengono affrontati e risolti con somma chiarezza di dottrina e di sapienza nello Spirito Santo, che dona ad ogni realtà il suo valore, ma soprattutto la legge secondo la sua interiore verità.
San Paolo è questa luce soprannaturale di sapienza che dice bene il bene e male il male. In questo è di Maestro al nostro secolo che avvolto dalla grande confusione e dall’ambiguità sa trasformare il bene in male e il male in bene. Per San Paolo il peccato è peccato, la luce è luce, la grazia è grazia, il male è male e nessuno lo può chiamare bene. La non retta conoscenza di Dio o l’ignoranza circa la sua conoscenza anche questa è un male, che produce tanto altro male nel mondo.
Per San Paolo tutto il mondo è avvolto dalla non conoscenza di Dio, da una cattiva conoscenza, da una conoscenza non secondo verità. È compito dell’apostolo del Signore – e l’apostolo per questo è stato chiamato – far risplendere nel mondo dell’ignoranza e dell’ambiguità circa la conoscenza di Dio il mistero e la luce radiosa del Vangelo.
L’obbedienza alla fede è la via della salvezza. Per Paolo la fede non è un sentimento che parte dal cuore dell’uomo e raggiunge Dio. La fede nasce dalla Parola, la Parola è Cristo, Verbo Eterno ed increato del Padre, Suo Figlio Unigenito generato da Lui nell’eternità. La Parola eterna si è fatta carne, quindi parola visibile ed udibile, parola pronunziata che rivela il mistero di Dio e dell’uomo, ma lo rivela nella sua vita, per la sua vita, chiamando ognuno a diventare sua vita, divenendo suo corpo. L’obbedienza alla fede dice essenzialmente accoglienza di Cristo e della sua Parola, vita in Cristo e nella sua Parola, ascolto del Vangelo per essere vissuto in ogni sua parte. L’obbedienza pertanto è un fatto soprannaturale e l’adesione della mente e del cuore; è la consegna di noi stessi a Dio che ha parlato a noi per mezzo di Gesù Suo Figlio. L’obbedienza alla fede è il tema portante di tutta la Lettera ai Romani.
L’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio ha in sé la possibilità di conoscere Dio attraverso molteplici vie. La Scrittura conosce la via analogica: dalla perfezione e bellezza delle opere di Dio si può pervenire all’infinita bellezza e sapienza di colui che le ha create. Di fatto però molti uomini vivono nell’ignoranza di Dio. Non lo conoscono, perché? La risposta Paolo non la trova nell’intelligenza dell’uomo, ma nella sua volontà. Quando un uomo non è più puro nel cuore, quando si abbandona al vizio e al peccato, quando si lascia avvolgere dalle tenebre, egli altro non fa che soffocare la verità nell’ingiustizia e l’ingiustizia è il suo agire in totale difformità con la giustizia di Dio che è la sua volontà, scritta nel nostro cuore, manifestata attraverso la rivelazione. Da qui l’urgenza di iniziare la via dell’evangelizzazione dei popoli, affinché attraverso l’ascolto della verità e il dono dello Spirito Santo possano entrare nella vera conoscenza di Dio, piena e totale, e godere i frutti della salvezza accogliendo la redenzione di Cristo Gesù.
Altro problema suscitato è quello della coscienza e della legge. Siamo salvati per l’osservanza della giustizia. La conoscenza della giustizia è data dalla coscienza e dalla conoscenza della legge. La coscienza tuttavia non possiede la pienezza della conoscenza della giustizia. La coscienza non illuminata dalla perfezione della verità conosce come a tentoni, a sprazzi. Ma l’uomo non è chiamato ad una giustizia parziale, ad una conoscenza imperfetta, ad una realizzazione a metà di sé, egli è chiamato a compiere tutto il cammino della salvezza che è per ogni uomo vocazione ad essere in tutto conforme all’immagine di Cristo Gesù. Poiché questo può solo avvenire nella conoscenza di Cristo e della sua Parola è più che giusto, anzi necessario che ogni uomo venga a conoscenza di questa verità, venga a sapere chi è Cristo e cosa ha fatto per lui, perché scegliendolo ed accogliendolo e vivendo santamente il suo Vangelo raggiunga la perfezione a cui è stato chiamato fin dall’eternità.
La giustificazione per mezzo della fede al Vangelo, cioè che nasce dall’adesione a Cristo e alla sua Parola di salvezza, è la sola salvezza perfetta. Tutte le altre sono imperfette. Sono imperfette perché non realizzano a pieno il mistero dell’uomo né su questa vita, né nell’eternità. È in questa imperfezione salvifica la ragione profonda per cui ogni cristiano e in modo particolare l’apostolo del Signore e i suoi collaboratori – Vescovo e presbiteri – hanno l’obbligo grave di coscienza di predicare il Vangelo, di annunziare Cristo, di andare per terra e per mare per fare conoscere Lui e la potenza della sua salvezza. Questo non solo per obbedire a Gesù Cristo che li ha chiamati e li ha costituiti missionari della sua Morte e della sua Risurrezione, ma anche per amore dell’uomo. Chi ama veramente l’uomo deve dargli il bene più grande, il bene assoluto, il bene eterno, il solo bene che lo fa veramente essere uomo e questo unico bene è Gesù Cristo, solo Lui e nessun altro, nel suo mistero di morte e di risurrezione.
Gesù è il Redentore di ogni uomo e Lui ha compiuto la Redenzione mentre noi eravamo empi, lontani da Dio, suoi nemici, perché avvolti dal peccato sia originale che attuale. La morte di Gesù per gli empi al tempo stabilito non deve significare in nessun modo che noi dobbiamo restare tali o che saremo comunque salvati perché Cristo è morto per noi. Cristo è morto per gli empi, è morto per il mondo intero. La salvezza si compie nel momento in cui risuona la parola della salvezza e la si accoglie, prestando l’obbedienza alla fede, cioè alla Parola e vivendo secondo la verità in essa contenuta. Dall’empietà ognuno è chiamato a passare nella pietà, nell’amore filiale, lo stesso amore che manifestò Gesù al Padre offrendo a Lui la propria vita per la salvezza del genere umano.
Ci sono pertanto due misteri che si devono compiere nell’uomo. L’uomo attuale non è l’uomo voluto da Dio. Egli non diviene uomo per il semplice fatto di essere concepito, di nascere e di crescere come creatura umana. Ogni uomo che viene in questo mondo è avvolto dal mistero di Adamo, nasce con la sua disobbedienza, nella perdita dei beni divini ed eterni. Nasce come diviso in se stesso. Ogni sua facoltà è come se camminasse per se stessa, ma questa è solo apparenza, poiché la passione, la concupiscenza ha il sopravvento sull’anima; è il corpo che governa l’anima e non viceversa. Quando il corpo governa l’anima, tutto l’uomo cammina di peccato in peccato, di morte in morte, di stoltezza in stoltezza. L’insipienza lo avvolge e lo consuma.
Dal mistero di Adamo ogni uomo deve fare il passaggio nel mistero di Cristo e Cristo è l’uomo che è mosso solo dallo Spirito Santo, secondo la Volontà di Dio. Cristo è l’uomo che ha sottomesso tutto se stesso corpo, anima e spirito a servizio del Padre per la redenzione del mondo. Tutto Egli ha consegnato di se stesso al Padre, niente che è in Lui gli è appartenuto per un solo istante. Questa è la vocazione dell’uomo: diventare in Cristo servo del Padre, mosso dallo Spirito Santo, pronto sempre a compiere il suo volere. Questo è possibile solo per grazia, accogliendo tutta la grazia e la verità che Cristo ha fruttificato per noi sull’albero della croce, nel suo mistero di morte e di risurrezione. Cristo è la perfetta immagine a somiglianza della quale ogni uomo è chiamato a trasformarsi. Senza questa trasformazione egli non compirà il mistero di Cristo in lui che è la sua vocazione eterna. Dio Padre creando l’uomo lo ha creato perché divenisse ad immagine di Cristo suo figlio. Lo ha fatto a sua immagine e somiglianza, ma lo ha fatto solo come primo momento della creazione dell’uomo, come momento incipiente, il momento perfettivo, momento assoluto, è quello però di divenire ad immagine di Cristo crocifisso e risorto. Questa è la vocazione e questo è il mistero che deve realizzare in sé.
Lo potrà realizzare solo per mezzo dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è il primo frutto del mistero pasquale di Cristo Gesù, frutto dato, frutto da dare ad ogni uomo. Lo Spirito Santo è stato dato agli Apostoli, questi dovranno darlo ad ogni uomo, altrimenti il mistero della loro configurazione totale a Cristo Gesù non si compie, non si può realizzare. Lo Spirito viene dato attraverso una duplice via. È dato come Spirito di conversione attraverso la Parola di Cristo annunziata nella santità del missionario del Vangelo. Con la Parola che giunge al nostro orecchio lo Spirito che è nel missionario e che vive in lui operativamente a causa della sua santità, tocca il cuore e lo fa aderire alla Parola della Predicazione. Poi è dato come Spirito di rigenerazione e di conformazione al mistero di Cristo nel Battesimo e negli altri sacramenti. Nel Battesimo compie egli in noi, spiritualmente, il mistero di Cristo. In esso, nelle sue acque, egli ci fa morire al peccato e ci risuscita a vita nuova, muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo. È questo il mistero che lo Spirito realizza per noi nel santo Battesimo. L’uomo conformato ora alla morte e alla risurrezione di Cristo Gesù, sempre mosso dallo Spirito e da Lui guidato, cammina verso la realizzazione piena di Cristo in sé, affinché veramente muoia all’ingiustizia e alla disobbedienza e nasca alla verità e all’ascolto del Padre in ogni suo desiderio. Questo mistero si compie solo alla fine del tempo quando anche nel corpo risuscitato egli sarà reso in tutto simile a Cristo, morto e risorto.
In Cristo tutto il creato è chiamato a ricevere nuova forma, nuova luce, nuova energia. Come il peccato di Adamo ha coinvolto la creazione nella caducità e l’ha costituita strumento di peccato e non di obbedienza, di caduta e non di elevazione, di deperimento e non di innalzamento, così l’obbedienza di Cristo porta la creazione nuovamente nel mistero della verità di se stessa, poiché attraverso la redenzione dell’uomo, anche la creazione è redenta e dall’uomo redento e salvato essa ogni giorno viene messa a servizio della gloria di Dio. Anche per la creazione deve compiersi il mistero della sua totale novità in Cristo, poiché è Cristo risorto il Capo della nuova creazione e questa sarà totalmente rinnovata attraverso la santità del cristiano; gusterà però tutti i frutti della bellezza e della sapienza secondo la quale il Signore l’ha creata, quando saranno creati i cieli nuovi e la terra nuova. Allora veramente tutta la bellezza di Dio si rifletterà in essa, poiché non ci sarà la stoltezza e l’insipienza del peccato dell’uomo a corromperla e a deprimerla, facendola divenire strumento di male e di perdizione.
Cristo è il compimento di tutto il disegno salvifico di Dio. Fuori di Cristo e in assenza di Lui non c’è alcun disegno di salvezza mantenuto in vigore dal Padre celeste. Dell’Antico Israele che ne è attualmente? Tutto l’Antico Israele è divenuto il Nuovo Israele. È la Chiesa l’Israele di Dio, il suo popolo, il popolo che Cristo si è acquistato mediante il suo sangue. Dei figli di Abramo nati secondo la carne e non secondo la fede, perché la fede è solo nella discendenza di Abramo che è Cristo Gesù, cosa ne avverrà? Un giorno anche loro riconosceranno che Gesù è il loro Salvatore e non ne dovranno attendere un altro, perché un altro non c’è. San Paolo sa per scienza ispirata che la non fede dei figli di Abramo in Cristo Gesù avrà un termine. Quando questo avverrà e nessuno lo sa, né può saperlo, la gloria di Dio sarà manifestata nel mondo in modo eminentemente grande. Essa brillerà in tutto il suo fulgore, e questo perché anche i discendenti di Abramo, i figli suoi secondo la carne, avranno riconosciuto che solo in Cristo è la vera discendenza e solo in Lui si diviene suoi veri figli. Quanti non sono in Cristo non possono essere detti discendenti di Abramo secondo la fede, perché la fede di Abramo è Cristo Gesù.
La legge della salvezza è la fede in Cristo. Vale per i pagani, vale anche per i Giudei. La salvezza non viene dalle opere, ma dalla fede. Se venisse dalle opere non sarebbe salvezza in Cristo, sarebbe merito dell’uomo e Cristo non sarebbe il Salvatore universale, il solo redentore dell’umanità, poiché ognuno potrebbe gloriarsi dinanzi a Dio di aver fatto abbastanza per essere giustificato. Non viene dalle opere perché l’uomo è attualmente morto alla grazia e quindi nessuno può operare frutti di santità dal momento che è concepito nel peccato e nel peccato nasce. Che non siano necessarie le opere per essere giustificati, cioè per passare dalla morte alla vita, non significa in alcun caso che non siano necessarie per essere salvati, cioè per entrare nel paradiso. Si è già detto qual è la vocazione dell’uomo: quella di essere conforme all’immagine di Cristo Gesù. Questa conformità è necessaria che sia realizzata, altrimenti non si può entrare nel regno di Dio, non si può godere il frutto della risurrezione gloriosa in Cristo Gesù. Il pericolo della dannazione eterna per coloro che pur avendo creduto non hanno compiuto le opere della fede è così reale, che veramente ognuno deve attendere alla propria santificazione con timore e tremore.
Nasce l’urgenza per ogni cristiano di divenire in vita e in morte in tutto simile a Cristo. Occorre pertanto che si disponga ognuno ad offrire se stesso a Dio in sacrificio spirituale, in tutto come ha fatto Gesù Signore. È questo il vero culto del cristiano. Da qui l’impegno di fare ogni cosa sul modello di Cristo. Chi legge la Lettera ai Romani comprende una verità basilare. Paolo ha dinanzi ai suoi occhi Cristo Gesù nel suo mistero di obbedienza fino alla morte e alla morte di croce, nel suo mistero di amore, di carità, di pazienza. Guardando Cristo egli traccia l’identità del cristiano e per lui scrive le regole perché questa identità possa essere raggiunta fino alla perfezione assoluta. Il Cristo è il martire della verità e dell’amore del Padre, il cristiano è il martire della verità e dell’amore di Cristo Gesù, nello Spirito Santo.
C’è pertanto una sola via perché il cristiano possa compiere se stesso secondo la sua eterna vocazione: la contemplazione della croce di Cristo Gesù. È l’unica identità possibile da cercare, da realizzare, da insegnare, da mostrare, da predicare. Quando il cristiano cresce e progredisce nella realizzazione della sua identità, egli diviene testimone di Cristo, è testimone non solo perché attesta e dice ciò che Cristo in verità è, perché lui lo ha conosciuto e lo conosce secondo verità, è testimone perché lo mostra al vivo. In fondo solo il cristiano che diviene cristiforme è il vero testimone di Cristo Gesù, è testimone perché lo rivela, lo manifesta, lo rende presente nel mondo, lo fa conoscere all’uomo.
Quando questo avviene dal cuore e dalla vita del cristiano si innalza a Dio l’inno di gloria e di benedizione. La gloria di Dio Padre è Cristo Gesù, morto e risorto. Chi vuole rendere vera gloria a Dio deve divenire in Cristo in tutto simile a Lui, deve morire e risorgere per obbedienza al Padre, per compiere la sua volontà, per amare il Padre sino alla fine con la consumazione totale della sua vita.
Sono solo pochi cenni sul mistero di Cristo e del cristiano contenuto nella Lettera di Paolo Apostolo ai Romani. Leggendo il testo della Lettera, e se lo si ritiene utile, servendosi di appena qualche riflessione che si è riuscita a decifrare e a scrivere in queste pagine, invocando lo Spirito del Signore e lasciandosi aiutare da Colei che più di ogni altra creatura ha compreso il mistero del Figlio Suo, poiché le ha dato la carne e la vita quando il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, sicuramente si crescerà nella conoscenza e dalla conoscenza un nuovo amore per Cristo sgorgherà nel nostro cuore, portato in esso dallo Spirito Santo e nuova luce di Cristo si riverserà nel mondo, per liberarlo dalle sue tenebre e introdurlo nella luce radiosa del Figlio unigenito del Padre.
Che la Madre della Redenzione interceda per noi e mandi dal cielo lo Spirito Santo, suo Mistico Sposo, affinché ci dia la piena conoscenza di Cristo e ci faccia ad immagine perfetta di Lui.

Vivere è conoscere Te, o Cristo Gesù, amare Te, servire Te, gioire per Te, morire per Te, risuscitare in Te, abitare in Te per tutta l’eternità.

NEL BUIO UNA LUCE: (2 COR 12,9)

 http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo113_3.asp

NEL BUIO, UNA LUCE

EDITORIALE

«La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza».
     (2 Corinzi 12,9)

«Vittoria… disfatta…
queste parole non hanno senso.
Sotto queste immagini c’è la vita;
la vita che prepara altre immagini.
Una vittoria indebolisce un popolo,
una disfatta ne rianima un altro».
     (Antoine de Saint-Exupéry)

     La nostra è un’epoca di grandi risultati e di grandi mete raggiunte! Il progresso e la fiducia nella scienza hanno condotto il genere umano a conquiste che si ritenevano solo cent’anni fa insperate. Abbiamo da poco celebrato il trentesimo anniversario dell’approdo dell’uomo sulla Luna; vent’anni fa iniziava l’inarrestabile ‘rivoluzione informatica’, destinata a entrare capillarmente e di prepotenza nel mondo del lavoro; per non parlare poi delle tante, piccole, ma incisive acquisizioni in ambito bio-medico. Grandi conquiste dunque hanno dinamicizzato la società e i rapporti tra i paesi, hanno aperto nuove frontiere della conoscenza e del sapere, costruendo più sicurezze per il futuro.
     Eppure tutto questo non ci ha protetto più di tanto dal vivere esperienze concrete molto umane, dal sapore ancestrale, come quella del fallimento: nella nostra progettualità tutto o in parte può riuscire o compiersi; ma non è escluso ­ e qualche volta ciò accade ­ che tutto si risolva in un insuccesso, in un fallimento, parziale o totale che sia. L’insuccesso ­ a livello personale e sociale ­ è ben vivo e radicato nella nostra società contemporanea. Nessun soggetto ne è esente: può essere l’affermato politico, costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo; oppure il popolare attore che, trascorso il periodo di notorietà, cade nel vortice della depressione perché non riesce più a ‘calcare la scena’. Più comunemente: l’affiatata coppia che, dopo anni di matrimonio e di consolidata unione, decide di separarsi; il parroco del paese che, pur avendo dato prova di essere un brillante predicatore ed essersi dimostrato prodigo di cure e attenzioni verso i fedeli, ritorna sulla propria scelta e abbandona il sacerdozio. Si constata con una punta di amarezza che le proprie forze non sono all’altezza del ruolo che si sta svolgendo (prete, religioso, marito, madre, ecc.).
    Gente comune e gente importante indistintamente possono fallire, possono accorgersi di aver sbagliato, di aver percorso magari nella loro vita per un tratto (a volte, con tragicità, per tutto il cammino) la strada errata. Istintivamente si cerca di rimuovere la crisi, oppure di minimizzare, di ignorarla, impegnandosi magari in attività febbrili; altrimenti ci si abbandona alla rassegnazione e a praticare forme compensatorie, quasi che il fallimento sia una colpa spassionatamente personale. La psicologia giustamente ci avverte che il fallimento in sé e per sé non è da considerarsi necessariamente colpevole. Certo, può essere originato da una propria debolezza corporea o psichica, da una malattia, da un concorso di sfortunate circostanze che lo stesso soggetto ­ a sua insaputa ­ contribuisce a creare. Ma non è in sé e per sé una colpa.
    Come risponde un cristiano con la propria fede davanti al fallimento personale? Con delusione, arrendevolezza, cinismo? Oppure con speranza e attesa? È possibile affrontare in modo cristiano queste esperienze? E la teologia, oltre a proporre situazioni ideali di vita cristiana, che cosa può direi al riguardo?
    La comprensione cristiana sul fallimento parte obbligatoriamente da Cristo. La sua vita terrena termina con una sconfitta, con un fallimento, dal punto di vista umano. Questo giovane ebreo trentenne, che socialmente minacciava di destabilizzare i poteri forti locali, viene condannato a morte. Anche lui sulla croce tocca il limite estremo del fallimento (la morte) e vive l’esperienza dell’impotenza: ‘Non può salvare se stesso’, gli gridano ai piedi della croce. Il Figlio piange, urla, ma accetta nella volontà del Padre il limite che sta vivendo. La pietra sul sepolcro è la sconfitta delle sue parole, ormai destinate a restare mute.
    Ma è proprio a partire dal suo fallimento che in Gesù si manifesta il ‘successo’ di Dio, è nella debolezza che la potenza divina si dimostra pienamente (cf. 2Cor 12,9). Abbandonandosi a tale destino, Cristo non guadagna nulla di più per sé. Sa e spera che anche in quel momento la sua esistenza ha un senso per il Padre. Nel fallimento della croce ‘si incarna’ l’amore del Padre, un amore che non conosce limiti, trasformando in gloria la sconfitta. E quei segni infamanti del dolore sulla croce, quei segni evidenti della sconfitta diventeranno segni tangibili di fede: non a caso Gesù, apparendo agli Undici, mostra le piaghe sulle mani e sul costato per dipanare le loro paure, i timori e i sospetti.
    L’esperienza terrena di Gesù forse non risolleverà più di tanto dal personale dolore davanti a un nostro fallimento. Non giustifica, non spiega i tanti ‘perché’ dei nostri fallimenti. Tuttavia ci induce a pensare che ogni fallimento ­ compreso quello ‘estremo’ alla progettualità umana, qual è la morte ­ non è l’ultima parola della nostra esistenza. Quanto è accaduto a Gesù accende una luce nel nostro piccolo o grande buio personale, annuncia un possibile futuro di gloria.
      Il presente numero si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima viene data una lettura in chiave psicologica di questa esperienza dell’uomo (GIUSEPPE SOVERNIGO). Il Messia sconfitto come paradigma per la vita cristiana è il tema svolto da PAOLO GIANNONI. Abbiamo chiesto a GIANNINO PIANA  di illustrarci quale particolare linguaggio la nostra religiosità ha sviluppato innanzi a questo tipo di esperienze. La riflessione di ALDO NATALE TERRIN descrive le suggestioni e le soluzioni che prospetta la ‘Deep Ecology’.
    La seconda parte del fascicolo è senz’altro un po’ anomala, ma non meno istruttiva della prima. Abbiamo preferito proporre poche teorie per comprendere queste intime situazioni di vita e domandare ad altri di narrare la loro storia personale. Tra le tante esperienze raccontabili, abbiamo scelto quelle di alcuni malati gravi, di coppie sposate e di persone consacrate.

a.f.

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