buona notte

dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21934.html
Omelia (01-04-2011)
Movimento Apostolico – rito romano
Non sei lontano dal regno di Dio
Vi è una tentazione perenne che sempre serpeggia nel cuore dell’uomo e che spinge a separare l’amore di Dio da quello dell’uomo e l’amore dell’uomo da quello di Dio, oppure a identificare l’amore di Dio con quello dell’uomo e l’amore dell’uomo con quello di Dio. Dio e l’uomo sono persone distinte. Distinto dovrà essere l’amore per l’uno e per l‘altro. Dio e l’uomo non sono persone uguali. Disuguale dovrà essere l’amore. L’amore per il Signore dovrà essere infinitamente diverso dall’amore per l’uomo. Dio è Creatore. L’uomo è creatura. A Dio si deve un amore di obbedienza. All’uomo un amore di servizio. Dio è la Legge di ogni amore. L’uomo è l’osservante di ogni Legge di amore.
Dio si ama con tutto il cuore. Il cuore dell’uomo deve essere indiviso. In esso non può abitare nessun altro Dio. L’idolatria è la negazione dell’amore vero, come la superstizione, la magia, lo spiritismo, la consultazione dei morti e degli indovini, come ogni altra realtà vera o presunta, reale o immaginaria dalla quale facciamo dipendere la nostra vita. Nel nostro cuor Dio vuole abitare da solo. Nessun’altra cosa vi deve stare.
Si ama con tutta l’anima. L’anima è di Dio. A Lui appartiene per intero. Non può essere data a nessuna creatura. Si ama Dio con tutta l’anima, se essa rimane sempre nella più grande santità. È nella santità se è nella più perfetta obbedienza alla Legge, ai Comandamenti, ai Precetti dati per la nostra elevazione spirituale.
Si ama con tutta la mente. La mente è il pensiero, che deve essere solo quello di Dio in noi. Un solo pensiero non di Dio ci esclude dal vero amore. Se il pensiero deve essere di Dio, a Dio lo si deve chiedere con preghiera insistente, quotidiana, perenne.
Si ama con tutta la forza. Per comprendere questa quarta qualità dell’amore, è sufficiente leggere questa frase del profeta Geremia: « Maledetto chi compie fiaccamente l’opera del Signore » (Ger 48,10). Ozio, pigrizia, accidia, incostanza, non perseveranza, vivacchiare, giocare, dilettantismo, occasionalità, momentaneità, pendolarismo, sono cose che non impegnano le tutte le nostre forze. Con queste cose non amiamo il Signore come si conviene.
Il prossimo va amato con un amore di servizio. Il servizio è duplice della giustizia e della carità. Con la giustizia gli diamo tutto ciò che è suo. Ciò che gli spetta mai potrà essergli tolto. È giusto che sia sempre in suo possesso. Con la carità gli diamo ciò che è nostro. Glielo diamo perché ne ha bisogno. Gli serve per vivere da uomo. Tutto ciò che eleva la sua umanità gli deve essere donato. Se ci fermiamo solo all’essenzialità, alla vita misera, di stenti, di certo non lo amiamo secondo il comandamento del Signore. Come vogliamo la nostra elevazione, così dobbiamo desiderare l’altrui.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, insegnaci il duplice amore: di giustizia e di carità. Angeli e Santi del Cielo, fate che il nostro amore sia sempre puro e santo.
dal sito:
http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=35
La pace nella Bibbia
sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 22-23 novembre 1986
La pace, nella visione biblica veterotestamentaria, non significa semplicemente assenza di guerra o rapporti favorevoli, ma benessere materiale. Nel Nuovo Testamento – l’ambito è quello delle piccole comunità – il concetto di pace assume connotazioni più spirituali.
bibbia ebraica: fede e scelte di guerra
L’Antico Testamento è intriso di violenza, di guerre condotte non solo dagli uomini, ma anche da Dio. « Il campo di battaglia non è solo la culla della nazione, ma anche il suo più antico santuario. Lì era Israele e lì era Jahwé » (Wellhausen). Questo aspetto bellico non è secondario, ma nell’AT Jahwé è salvatore in quanto guerriero, salva il suo popolo annientando gli altri popoli. Anche nelle preghiere, nei salmi, si invoca l’annientamento dei nemici, la vendetta sanguinaria. Negli oracoli profetici si garantisce lo sterminio da parte di Dio delle nazioni pagane. Il libro di Giosué è pieno di guerre sante, di guerre di sterminio. L’apocalittica è protesa verso la guerra finale in cui saranno sbaragliati i nemici.
Nell’attuale bibbia sono confluite quattro grandi tradizioni (Jawista, Eloista, deuteronomistica e sacerdotale).
La più antica, quella Jahwista – che va dalla creazione sino alla monarchia – ritiene il tema della guerra come naturale, senza elaborare una riflessione esplicita sul tema guerra-pace.
La tradizione deuteronomista (Deuteronomio, Giosué, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re) invece elabora una riflessione sulla guerra, in particolare sulla guerra sacra, soprattutto nel racconto dell’insediamento nella terra promessa. La guerra è combattuta da Jahwé in favore di Israele: è lui che combatte e vince (l’espressione « Dio degli eserciti » compare ben 284 volte); a lui spetta la gloria per la vittoria e anche il bottino di guerra (herém: uomini e animali venivano uccisi e offerti ritualmente a Dio). C’è una liturgia militare. L’insediamento nella terra promessa viene presentato come una conquista militare dalla bibbia. Oggi gli storici ritengono che l’insediamento sia durato molto a lungo con interventi militari e insediamenti pacifici.
I circoli deuteronomistici teologizzano la guerra sacra in questo modo: la terra è di Dio che la assegna lotto per lotto ai diversi popoli. Ad Israele ha assegnato la terra di Canaan. Quindi Israele ha su di essa un diritto divino che viene affermato con la violenza. La fede israelitica si esprime nel coraggio bellico di effettuare, mano armata, la conquista della terra.
Il problema nell’AT non sono le violenze condannate, ma la giustificazione della guerra a servizio di un diritto divino. La fede è bellica.
Questa interpretazione teologica è nata sotto Giosia (648 a.C.), il quale diede inizio ad una grande riforma religiosa per estirpare l’idolatria, centralizzare il culto a Gerusalemme e opporsi alla potenza assira che aveva conquistato le regioni del Nord.
La tradizione sacerdotale invece risale al periodo dell’esilio e del dopo esilio e rilegge la storia di Israele alla luce delle nuove situazioni. Non vuole risuscitare lo stato monarchico, dato l’esito disastroso dell’esilio, ma propone una nuova immagine di Israele. Per il sacerdotale tutta la storia, a partire dalla creazione, è segnata da una violenza-caos che deve essere vinta. Il peccato originale dell’umanità è la violenza che sfocia nel diluvio. Il patto di Dio con Noè è all’insegna della esclusione della violenza. In termini non violenti è presentato il passaggio del Mar Rosso e l’insediamento nella Terra.
Nella visione complessiva del sacerdotale la guerra è bandita dalla faccia della terra. Si prospetta una società pacifica al proprio interno e prefiguratrice di una umanità pacificata. L’aggressività è ammessa solo nei confronti degli animali per motivi cultuali.
Tra la tradizione deuteronomista e quella sacerdotale il Nuovo Testamento ha scelto la linea del sacerdotale, privilegiando la non violenza, l’immagine di Dio che spezza la guerra.
Nell’AT ci sono voci che si mettono sulla linea del sacerdotale, attendendo (attese escatologiche) una svolta epocale nella storia dell’umanità, una terra da cui sia bandita la violenza.
I profeti sono i costruttori di questa attesa escatologica, di una umanità pacificata e pacificatrice.
Dio « spezza la guerra » (Osea); « faranno aratri delle loro spade e trasformeranno le lance in falci » (Isaia); « il lupo abita con l’agnello… » (Isaia). La funzione del re è quella di essere principe di pace (Michea).
il messianismo di Gesù
Il Nuovo Testamento riprende e approfondisce i filoni della non violenza e della pace. Gesù si colloca nella linea profetica e del messianismo dell’AT, che attende un re che farà giustizia al povero e che instaurerà il regno di pace paradisiaca. Il tema della pace è affrontato secondo diverse prospettive
la pace con Dio
La pace è sinonimo di salvezza. È quanto emerge nel canto angelico natalizio: pace agli uomini che sono oggetto dell’amore di Dio (Lc 2,14). La pace è dono di Dio in Cristo agli uomini.
Avere pace è essere messi in un giusto rapporto con Dio: noi, giustificati mediante la grazia, abbiamo pace con lui (Rom 5,1).
Pace è inoltre riconciliazione, nel senso che Dio riconcilia a sé l’uomo, superando una condizione di inimicizia.
Quindi la pace indica i rapporti positivi con Dio: in questo senso devono essere interpretate le parole di saluto di Gesù ai discepoli pace a voi
pace con Dio e tra gli uomini
Nel mondo di allora c’era una frattura insanabile tra pagani e giudei, che erano una minoranza consistente (un 10 per cento) e significativa. I giudei disprezzavano i pagani dal punto di vista morale religioso e culturale e i pagani disprezzavano i giudei odiatori dell’umanità (per la loro separatezza). L’autore della lettera agli Efesini vede la chiesa come una nuova umanità in cui è superata la frattura: In Cristo, nella sua croce, giudei e pagani sono pacificati
pace come non violenza e amore del nemico
Gesù propone un superamento della legge del taglione (rispondere alla violenza con una violenza pari). Vuole spezzare la spirale della violenza.
Positivamente Gesù afferma che al nemico si deve rispondere con l’amore. Non l’amore sentimentale, ma l’amore fattivo, benefico. Il soggetto non si fa nemico al nemico. La motivazione risiede nell’essere figli di Dio, che ama tutti in modo indiscriminato.
Nella beatitudine beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio, si sostiene che diventa figli di Dio diventando operatori di processi di pacificazione.
Il messianismo di Gesù si discosta dalle attese prevalenti al suo tempo (Gesù è molto riservato nell’attribuire a sé il titolo di Messia, proprio per le attese trionfalistiche e bellicistiche). Gesù è un messia pacifico, umile, non violento, disarmato, che non è venuto per essere servito, ma per servire.
Gesù rinuncia alla guerra (potrei chiedere al Padre legioni armate…) e diventa il criterio interpretativo dei diversi e a volte contrastanti filoni presenti nell’AT.
dal sito:
http://www.sangiovannileonardi.com/eventi/lectio-divina-del-papa-al-seminario-romano-maggiore/
Lectio divina del Papa al Seminario Romano Maggiore: Ef 4,3
ROMA, domenica, 6 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la lectio divina sul testo della Lettera agli Efesini (4,3), tenuta il 4 marzo da Benedetto XVI durante la visita al Seminario Romano Maggiore, alla vigilia della Festa della Madonna della Fiducia, Patrona dell’Istituto.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
sono molto felice di essere, almeno una volta all’anno, qui, con i miei seminaristi, con i giovani che sono in cammino verso il sacerdozio e saranno il futuro presbiterio di Roma. Sono felice che questo succeda ogni anno nel giorno della Madonna della Fiducia, della Madre che ci accompagna con il suo amore giorno per giorno e ci dà la fiducia di andare avanti verso Cristo. “Nell’unità dello Spirito” è il tema che guida le vostre riflessioni durante questo anno formativo. È un’espressione che si trova proprio nel passo della Lettera agli Efesini che ci è stato proposto, là dove san Paolo esorta i membri di quella comunità a “conservare l’unità dello spirito” (4,3). Questo testo apre la seconda parte della Lettera agli Efesini, la cosiddetta parte parenetica, esortativa e comincia con la parola “parakalo”, “vi esorto”. Ma è la stessa parola che sta anche nel termine “Paraklitos”, quindi è un’esortazione nella luce, nella forza dello Spirito Santo. L’esortazione dell’Apostolo si basa sul mistero di salvezza, che aveva presentato nei primi tre capitoli. Infatti, il nostro brano inizia con la parola “dunque”: “Io dunque…vi esorto…” (v. 1). Il comportamento dei cristiani è la conseguenza del dono, la realizzazione di quanto ci è donato ogni giorno. E, tuttavia, se è semplicemente realizzazione del dono datoci, non si tratta di un effetto automatico, perché con Dio siamo sempre nella realtà della libertà e perciò – poiché la risposta, anche la realizzazione del dono è libertà – l’Apostolo deve richiamarlo, non può darlo per scontato. Il Battesimo, lo sappiamo, non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona. Forse per questo san Paolo fa riferimento proprio qui alla sua attuale condizione: “Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto…” (ibid.). Seguire Cristo significa condividere la sua Passione, la sua Croce, seguirlo fino in fondo, e questa partecipazione alla sorte del Maestro unisce profondamente a Lui e rafforza l’autorevolezza dell’esortazione dell’Apostolo.
Ora entriamo nel vivo della nostra meditazione, incontrando una parola che ci colpisce in modo particolare: la parola “chiamata”, “vocazione”. San Paolo scrive: “comportatevi in maniera degna della chiamata, della klesis che avete ricevuto” (ibid.). E la ripeterà poco dopo, affermando che “…una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (v. 4). Qui, in questo caso, si tratta della vocazione comune a tutti i cristiani, cioè della vocazione battesimale: la chiamata ad essere di Cristo e a vivere in Lui, nel suo corpo. Dentro questa parola è inscritta un’esperienza, risuona l’eco dell’esperienza dei primi discepoli, quella che conosciamo dai Vangeli: quando Gesù passò sulla riva del lago di Galilea, e chiamò Simone e Andrea, poi Giacomo e Giovanni (cfr Mc 1,16-20). E prima ancora, presso il fiume Giordano, dopo il battesimo, quando, accorgendosi che Andrea e l’altro discepolo lo seguivano, disse loro: “Venite e vedrete” (Gv 1,39). La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine. E ciò sia nella dimensione del credere, sia in quella dell’agire: tanto la fede quanto il comportamento del cristiano sono corrispondenza alla grazia della vocazione.
Ho parlato della chiamata dei primi apostoli, ma pensiamo con la parola “chiamata” soprattutto alla Madre di ogni chiamata, a Maria Santissima, l’eletta, la Chiamata per eccellenza. L’icona dell’Annunciazione a Maria rappresenta ben di più di quel particolare episodio evangelico, per quanto fondamentale: contiene tutto il mistero di Maria, tutta la sua storia, il suo essere; e al tempo stesso parla della Chiesa, della sua essenza di sempre; come pure di ogni singolo credente in Cristo, di ogni anima cristiana chiamata.
A questo punto dobbiamo tenere presente che non parliamo di persone del passato. Dio, il Signore, ha chiamato ognuno di noi, ognuno è chiamato con il nome suo. Dio è così grande che ha tempo per ciascuno di noi, conosce me, conosce ognuno di noi per nome, personalmente. È una chiamata personale per ognuno di noi. Penso che dobbiamo meditare diverse volte questo mistero: Dio, il Signore, ha chiamato me, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta di Maria, aspettava la risposta degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla voce di Dio, attenti alla sua Parola, alla sua chiamata per me, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me. In questo testo, poi, San Paolo ci indica qualche elemento concreto di questa risposta con quattro parole: “umiltà”, “dolcezza”, “magnanimità”, “sopportandovi a vicenda nell’amore”. Forse possiamo meditare brevemente queste parole nelle quali si esprime il cammino cristiano. Ritorneremo poi alla fine, ancora una volta, su questo.
“Umiltà”: la parola greca è “tapeinophrosyne”, la stessa parola che san Paolo usa nella Lettera ai Filippesi quando parla del Signore, che era Dio e si è umiliato, si è fatto “tapeinos”, è sceso fino al farsi creatura, fino al farsi uomo, fino all’obbedienza della Croce (cfr Fil 2,7-8). Umiltà, quindi, non è una parola qualunque, una qualche modestia, qualcosa… ma è una parola cristologica. Imitare il Dio che scende fino a me, che è così grande che si fa mio amico, soffre per me, è morto per me. Questa è l’umiltà da imparare, l’umiltà di Dio. Vuol dire che dobbiamo vederci sempre nella luce di Dio; così, nello stesso tempo, possiamo conoscere la grandezza di essere una persona amata da Dio, ma anche la nostra piccolezza, la nostra povertà, e così comportarci giustamente, non come padroni, ma come servi. Come dice san Paolo: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). Essere sacerdote, ancora più che l’essere cristiano, implica questa umiltà.
“Dolcezza”: nel testo greco qui sta la parola “praütes”, la stessa parola che appare nelle Beatitudini: “Beati i miti perché avranno in eredità la terra” (Mt 5,5,). E nel Libro dei Numeri, il quarto libro di Mosé, troviamo l’affermazione che Mosé era l’uomo più mite del mondo (cfr 12,3) e, in questo senso, era una prefigurazione di Cristo, di Gesù, che dice di sé: “Io sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Anche questa parola, quindi, “mite”, “dolcezza”, è una parola cristologica e implica di nuovo questo imitare Cristo. Perché nel Battesimo siamo conformati a Cristo, quindi dobbiamo conformarci a Cristo, trovare questo spirito dell’essere miti, senza violenza, di convincere con l’amore e con la bontà.
“Magnanimità”, “makrothymia” vuol dire la generosità del cuore, non essere minimalisti che danno solo ciò che è strettamente necessario: diamo noi stessi con tutto quello che possiamo, e cresciamo anche noi nella magnanimità.
“Sopportandovi nell’amore”: è un compito di ogni giorno sopportarsi l’un l’altro nella propria alterità, e proprio sopportandoci con umiltà, imparare il vero amore.
E adesso facciamo un passo avanti. Dopo questa parola della chiamata, segue la dimensione ecclesiale. Abbiamo parlato adesso della vocazione come di una chiamata molto personale: Dio chiama me, conosce me, aspetta la mia risposta personale. Ma, nello stesso tempo, la chiamata di Dio è una chiamata in comunità, è una chiamata ecclesiale, Dio ci chiama in una comunità. E’ vero che in questo brano che stiamo meditando non c’è la parola “ekklesia”, la parola “Chiesa”, ma appare tanto più la realtà. San Paolo parla di uno Spirito e un corpo. Lo Spirito si crea il corpo e ci unisce come un unico corpo. E poi parla dell’unità, parla della catena dell’essere, del vincolo della pace. E con questa parola accenna alla parola “prigioniero” dell’inizio: è sempre la stessa parola, “io sono in catene”, “catene ti terranno”, ma dietro sta la grande catena invisibile, liberante dell’amore. Noi siamo in questo vincolo della pace che è la Chiesa, è il grande vincolo che ci unisce con Cristo. Forse dobbiamo anche meditare personalmente su questo punto: siamo chiamati personalmente, ma siamo chiamati in un corpo. E questo non è una cosa astratta, ma molto reale.
In questo momento, il Seminario è il corpo nel quale si realizza concretamente l’essere in un cammino comune. Poi sarà la parrocchia: accettare, sopportare, animare tutta la parrocchia, le persone, quelle simpatiche e quelle non simpatiche, inserirsi in questo corpo. Corpo: la Chiesa è corpo, quindi ha strutture, ha anche realmente un diritto e qualche volta non è così semplice inserirsi. Certo, vogliamo la relazione personale con Dio, però il corpo spesso non ci piace. Ma proprio così siamo in comunione con Cristo: accettando questa corporeità della sua Chiesa, dello Spirito, che si incarna nel corpo.
E dall’altra parte, spesso forse sentiamo il problema, la difficoltà di questa comunità, cominciando dalla comunità concreta del Seminario fino alla grande comunità della Chiesa, con le sue istituzioni. Dobbiamo anche tenere presente che è molto bello essere in una compagnia, camminare in una grande compagnia di tutti i secoli, avere amici in Cielo e in terra, e sentire la bellezza di questo corpo, essere felici che il Signore ci ha chiamati in un corpo e ci ha dato amici in tutte le parti del mondo.
Ho detto che la parola “ekklesia” non c’è qui, ma c’è la parola “corpo”, la parola “spirito”, la parola “vincolo” e sette volte, in questo piccolo brano, ritorna la parola “uno”. Così sentiamo come sta a cuore all’Apostolo l’unità della Chiesa. E finisce con una “scala di unità”, fino all’Unità: Uno è Dio, il Dio di tutti. Dio è Uno e l’unicità di Dio si esprime nella nostra comunione, perché Dio è il Padre, il Creatore di tutti noi e perciò tutti siamo fratelli, tutti siamo un corpo e l’unità di Dio è la condizione, è la creazione anche della fraternità umana, della pace. Quindi, meditiamo anche questo mistero dell’unità e l’importanza di cercare sempre l’unità nella comunione dell’unico Cristo, dell’unico Dio.
Ora possiamo fare un ulteriore passo avanti. Se ci domandiamo qual è il senso profondo di questo uso della parola “chiamata”, vediamo che essa è una delle porte che si aprono sul mistero trinitario. Finora abbiamo parlato del mistero della Chiesa, dell’unico Dio, ma appare anche il mistero trinitario. Gesù è il mediatore della chiamata del Padre che avviene nello Spirito Santo. La vocazione cristiana non può che avere una forma trinitaria, sia a livello di singola persona, sia a livello di comunità ecclesiale. Il mistero della Chiesa è tutto animato dal dinamismo dello Spirito Santo, che è un dinamismo vocazionale in senso ampio e perenne, a partire da Abramo, che per primo ascoltò la chiamata di Dio e rispose con la fede e con l’azione (cfr Gen 12,1-3); fino all’”eccomi” di Maria, riflesso perfetto di quello del Figlio di Dio, nel momento in cui accoglie dal Padre la chiamata a venire nel mondo (cfr Eb 10,5-7). Così, nel “cuore” della Chiesa – come direbbe santa Teresa di Gesù Bambino – la chiamata di ogni singolo cristiano è un mistero trinitario: il mistero dell’incontro con Gesù, con la Parola fatta carne, mediante la quale Dio Padre ci chiama alla comunione con Sé e per questo ci vuole donare il suo Santo Spirito, ed è proprio grazie allo Spirito che noi possiamo rispondere a Gesù e al Padre in modo autentico, all’interno di una relazione reale, filiale. Senza il soffio dello Spirito Santo la vocazione cristiana semplicemente non si spiega, perde la sua linfa vitale.
E finalmente l’ultimo passaggio. La forma dell’unità secondo lo Spirito richiede, come avevo detto, l’imitazione di Gesù, la conformazione a Lui nella concretezza dei suoi comportamenti. Scrive l’Apostolo, come abbiamo meditato: “Con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore”, e poi aggiunge che l’unità dello spirito va conservata “per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,2-3).
L’unità della Chiesa non è data da uno “stampo” imposto dall’esterno, ma è il frutto di una concordia, di un comune impegno di comportarsi come Gesù, in forza del suo Spirito. C’è un commento di san Giovanni Crisostomo a questo passo che è molto bello. Crisostomo commenta l’immagine del “vincolo”, il “vincolo della pace”, e dice: “E’ bello questo vincolo, con cui ci leghiamo insieme sia gli uni con gli altri sia con Dio. Non è una catena che ferisce. Non dà crampi alle mani, le lascia libere, dà loro ampio spazio e un coraggio più grande” (Omelie sull’Epistola agli Efesini 9, 4, 1-3). Troviamo qui il paradosso evangelico: l’amore cristiano è un vincolo, come abbiamo detto, ma un vincolo che libera! L’immagine del vincolo, come vi ho detto, ci riporta alla situazione di san Paolo, che è “prigioniero”, è “in vincolo”. L’Apostolo è in catene a motivo del Signore, come Gesù stesso, si è fatto schiavo per liberarci. Per conservare l’unità dello spirito occorre improntare il proprio comportamento a quella umiltà, dolcezza e magnanimità che Gesù ha testimoniato nella sua passione; bisogna avere le mani e il cuore legati da quel vincolo d’amore che Lui stesso ha accettato per noi, facendosi nostro servo. Questo è il “vincolo della pace”. E dice ancora san Giovanni Crisostomo, nello stesso commento: “Legatevi ai vostri fratelli, quelli così legati insieme nell’amore sopportano tutto con facilità… Così egli vuole che siamo legati gli uni agli altri, non solo per essere in pace, non solo per essere amici, ma per essere tutti uno, un’anima sola” (ibid.).
Il testo paolino del quale abbiamo meditato alcuni elementi, è molto ricco. Ho potuto portare a voi solo alcuni spunti, che affido alla vostra meditazione. E preghiamo la Vergine Maria, la Madonna della Fiducia, perché ci aiuti a camminare con gioia nell’unità dello Spirito. Grazie
dal sito:
PASSAGGI DI VITA, PASSAGGI DI FEDE
L’ICONA DI MOSÉ
Bruno Forte
Per introdurre la riflessione sulle « transizioni » della vita e il cammino della fede scelgo l’icona biblica di Mosè, il « salvato dalle acque ». Il perché è presto detto: secondo la tradizione ebraicocristiana Mosè è la figura dell’uomo davanti a Dio in tutti i passaggi della vita e della fede. È attingendo a questa convinzione che Gregorio di Nissa ha scritto uno dei testi più importanti della spiritualità cristiana, la Vita di Mosè, dove il « Salvato dalle acque » è presentato come esempio del cammino che tutti dovremmo percorrere per piacere a Dio, vivendo la nostra esistenza di battezzati – anche noi salvati dalle acque! – come un cammino pasquale, un continuo esodo dalla schiavitù del nostro Egitto alla libertà della terra della promessa di Dio. Mosè – secondo Gregorio – è colui che ha conosciuto sul monte la « tenebra luminosa » dell’esperienza mistica del divino (II, 163), perché è stato « l’ardente innamorato della bellezza » (II, 231), che non ha mai cessato di avanzare verso la
visione di Dio: « Vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderarlo… né il progredire del desiderio del bene è impedito da alcuna sazietà » (II, 239). Proprio in questa continua crescita Mosè si offre come un modello, che ci insegna a sperimentare come lui ha fatto « l’impronta della bellezza che ci è stata mostrata » (11,319) nei vari passaggi della vita e della fede. In sintonia con la tradizione ebraica, e il capitolo settimo degli Atti degli Apostoli (7,20-43) a scandire la vita di Mosè in tre tappe, ciascuna di 40 anni: al v. 23 si dice che « quando furono compiuti 40 anni sali nel suo cuore l’idea di visitare i fratelli, i figli d’Israele »; al v. 30 si afferma che « compiuti altri 40 anni, gli apparve nel deserto del Sinai un angelo in fiamma di fuoco ». Nel libro del Deuteronomio è lo stesso Mosè morente a dire: « Io oggi ho 120 anni » (31,2: cf. 34,7). Dunque, secondo questa preziosa testimonianza biblica, la vita di Mosè dura tre volte 40 anni – 40 alla scuola del Faraone, 40 nella terra di Madian, 40 nel deserto. Quaranta – quattro, numero del mondo definito dai quattro punti cardinali, moltiplicato 10, numero indicativo della perfezione – è una cifra
densamente simbolica: tre tappe di 40 anni vogliono dire che ognuna di esse ha un significato di valore universale. In esse ogni creatura umana potrà riconoscere i propri decisivi passaggi della vita e della fede e rileggere la propria esistenza davanti a Dio. Cosi, si intravede la convinzione che Mosè siamo noi, tutti e ciascuno chiamati a camminare alla presenza dell’Eterno. La prima tappa della vita di Mosè scandisce il tempo dell’utopia, ovvero della dolce incoscienza, in cui colui che è stato salvato dalle acque dalla Figlia del Faraone e istruito in maniera raffinata (cf. Es 2 e At 7), vive in un mondo ovattato. E l’età dei sogni e delle grandi illusioni: è la stagione di una conoscenza filtrata, piuttosto astratta della vita e degli uomini (cf. At 7,20-22). Fra gli agi e i piaceri tutto sembra bello, possibile, facile: è un’età nella quale il confine tra la realtà ed il sogno è difficile da marcare, fino al punto che la realtà sembra talvolta nient’altro che un’appendice dell’immaginazione.
Cosi, Mosè incomincia a sognare di cambiare il mondo. Egli sa, perché la madre-nutrice glielo ha confidato, che è un figlio di Israele, e da giovane brillante, ricco e felice qual è, concepisce il sogno di essere il liberatore della sua gente. Nella dolce incoscienza di questa fase, egli cerca più la propria gloria che la libertà di un popolo, di cui non ha di fatto alcuna conoscenza. Mosè esce cosi dalla casa del Faraone per andare in mezzo ai figli d’Israele. Lo spettacolo, cui assiste per caso, di un egiziano che sta percuotendo un ebreo, lo indigna a tal punto da indurlo ad uccidere il violento, per poi pentirsene subito, tanto da nasconderne il corpo, quasi a voler cancellare l’atto compiuto. Quando, però, il giorno seguente un ebreo colpisce in sua presenza un altro ebreo e Mosè vuole intervenire per ricordare la fratellanza che li unisce, lo raggiunge una frase inattesa, tagliente: « Vuoi uccidere me come hai ucciso l’Egiziano? ». I suoi fratelli cominciano a rifiutarlo: divenuto terribilmente scomodo, Mosè prova il dolore profondo di sentirsi estraneo agli altri, a se stesso, a
Dio. Il sognatore, il giovane vissuto nell’incoscienza, scopre tutta la pesantezza della realtà. Inizia il tempo del disincanto. E questo il secondo grande passaggio della vita di Mosè, la stagione dello scacco: l’illusione cede il posto alla delusione. Osserva lapidariamente il racconto degli Atti: « Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero » (At 7,25). In questo « ma » c’è tutta l’amarezza di una frustrazione, la crisi del sogno della sua scelta di vita (cf. vv. 27-29). Lui, il coraggioso che aveva rinunciato ai privilegi uscendo dalla casa del Faraone, ha paura e fugge: « Fuggi via Mosè e andò ad abitare nella terra di Madian, dove ebbe due figli » (v. 29). Nella terra d’esilio si va tuttavia progressivamente accomodando: pensa di aver fatto abbastanza, abbandona i sogni della giovinezza, ritiene di aver ormai diritto ad una vita tranquilla, senza sorprese o pericoli. E il tempo della rassegnazione, in cui Mosè sembra diventato incapace di sognare: lo scacco diventa rinuncia e l’esilio da esterno si fa interiore. Mosè si arrende alla realtà e, per far finta che tutto vada bene, si stordisce, inseguendo il denaro, il successo, il potere. Eppure, i 40 anni di Madian sono anche un tempo di bilanci, di maturazione, di solitudine con Dio nel deserto, come non manca di osservare Gregorio di Nissa. Nel disincanto, si prepara la missione degli anni della maturità. E la terza tappa, il tempo della fede e dell’amore più grande, che comincia con un passaggio radicale, segnato dall’irruzione di Dio nella sua vita: « Passati quarant’anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente » (At 7,30). Apparentemente
all’improvviso, in realtà come frutto di una maturazione lenta e profonda, Mosè scopre l’iniziativa di Dio e capisce che – anche se lui non volesse essere interessato a Dio – Dio è interessato a Lui. Si collocano qui i grandi eventi che faranno di Mosè l’anticipazione del Messia e di ogni battezzato in Cristo, quegli eventi che sono veri e propri « passaggi di fede », eloquenti per il cammino di ogni cuore che si apra all’azione misteriosa dell’Eterno.
Il primo passaggio è l’esperienza del « roveto ardente » (At 7,30-31; Es 3,1-15; cf. Es 6,2-13 e 6,28-7,7). Ciò che risalta anzitutto nel racconto è la meraviglia di Mosè: egli sta pascolando il gregge nell’area del monte Sinai ed ecco che improvvisamente vede un arbusto che arde senza consumarsi. « Si avvicinò per guardare… »: è importante questa annotazione, perché ci dice che Mosè, sebbene ne abbia viste tante, continua ad essere in grado di meravigliarsi. A 80 anni egli è capace ancora di stupirsi, di aprirsi al nuovo! E l’uomo alla radice, il cercatore del Mistero: dove c’è meraviglia, c’è apertura alla novità di Dio, alla Sua impossibile possibilità! Solo dove non c’è meraviglia, non c’è più vita, non c’è più sorpresa. Mosè non ha cessato di essere un pellegrino, un cercatore; nonostante
si sia adattato all’esilio, il suo cuore ha continuato a desiderare segretamente la patria, una bellezza non ancora incontrata. E a questo punto che arriva la chiamata di Dio: « Mosè! Mosè! ». Dio chiama per nome. Nessuno è anonimo davanti a Lui: ognuno è un « tu » assolutamente unico, singolare, oggetto di un amore infinito. Mosè si sente amato personalmente da Dio. Non è l’esperienza di voler catturare Dio per sé: al contrario, l’ammonimento è chiaro, « Non avvicinarti, togliti i sandali… » (Es 3,4-6). E un
lasciarsi afferrare da Dio, perché è Dio solo che può fare del deserto terra santa! Dio ti trova dove sei e Ti cambia il cuore e la vita, cambiando il mondo intorno a te, si che lo vedi con occhi completamente nuovi. Il Dio che ti chiama non è qualcosa di cui ti puoi impossessare: tu devi restare davanti a Lui nello stupore dell’ascolto e dell’attesa; devi lasciare che Lui sia Altro da te e che faccia Lui… Devi aprirti alla Sua impossibile possibilità, non alla possibilità calcolata che vorresti imporgli. Il Dio che chiama non è una proiezione di te, del tuo desiderio o delle tue paure, ma è il Dio dei padri, il Dio trascendente, che si dà a conoscere come Colui che è per te: « Sono io che ti mando ». Non è più lui, Mosè, il protagonista, che decide e pretende di cambiare il mondo: è Dio che lo manda. « Va’ dal Faraone ». Come se nulla fosse stato, come se non avesse mai conosciuto lo scacco, Mosè accetta il nuovo inizio. Dio rende possibile l’impossibile: il Suo nome è una promessa, « Io sono Colui che sono », « Io sarò con Te », il Dio fedele (Es 3,14). Mosè non ha chiesto
la definizione dell’essenza divina: ciò che ha chiesto è che Dio si impegni per lui e il suo popolo. Il Nome santo e benedetto è allora una garanzia, fondata nella realtà del Dio fedele, in base alla quale Mosè può iniziare la sua avventura. Mosè parte, perché si è lasciato sovvertire da Dio: fino a quando non si è conosciuto questo capovolgimento, questo passaggio della fede, che da protagonista ti fa servo obbediente dell’Altissimo, non si è conosciuto Dio. Dio è il Dio che ti sconvolge, che chiede tutto ed a cui si deve dare tutto. È a questo punto che Mosè sperimenta il passaggio più duro, che è appunto la prova
della fede: è l’ora del passaggio del Mar Rosso (Es 14,5-15,20: cf. 1 Cor 10,1-2; Eb 11,29). Da una parte c’è il mare con i suoi flutti, dall’altra il Faraone con i suoi cavalli e i suoi carri. La logica umana imporrebbe un calcolo, una scelta orientata al compromesso. Mosè ha paura: umanamente l’alternativa è fra la morte nel mare o la resa al Faraone (cf. Es 14,10-14). La scelta si impone: o fidarsi di Dio o calcolare secondo la logica degli uomini. È il passaggio chiave dell’atto di fede: « L’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio, o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé ». Mosè non esita a coinvolgere il popolo, a incoraggiarlo: « Non abbiate paura. Siate forti e vedrete la salvezza del Signore » (v. 13). Resta però solo davanti a Dio, con un peso enorme, perché abbandonarsi a Dio può sembrare ora una rinuncia ad agire. Nella solitudine grida al suo Dio, tanto che l’Altissimo gli chiede: « Perché gridi verso di me? » (V. 14). Eppure, continua a testimoniare al popolo la fiducia nella fedeltà dell’Eterno: « Il Signore combatterà per voi » (v.14). Mosè è ormai un vero capo, perché sa che quello che può permettersi nel contatto diretto con Dio e cerca di mediarlo con saggezza ai suoi: non bisogna mai scaricare le proprie croci sulle spalle di chi è più debole! Mosè comprende che c’è un’altra possibilità: credere in Dio nonostante tutto,
nonostante l’apparente sconfitta di Dio. È cosi che Mosè giunge all’atto più importante della sua vita: si fida di Dio, crede contro ogni evidenza. Vivendo l’oscurità del salto della fede, obbedisce al Signore gli dice: « Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto » (vv. 15s). È a questo punto che le acque del mare si aprono, il popolo passa incolume, gli Egiziani che lo inseguono vengono travolti. Il simbolismo è tragico e
durissimo: le acque della vita per gli uni sono le acque della morte per gli altri. Mosè, il condottiero della fede che passa attraverso il mare, è il salvato dalle acque insieme al suo popolo. È allora che conosce il trionfo della fede: nella notte, fidandosi ciecamente, senza vedere, si compie il passaggio verso la libertà, ed esplode dal cuore il cantico della riconoscenza, il cantico dei salvati nel mare (cf. Es 15). Da allora in poi Mosè sarà quel che è stato in quella notte al Mar Rosso: l’uomo dell’intercessione e della responsabilità (cf. Es 17), l’uomo della Parola (cf. Es 19,3), colui che soffre per amore del suo popolo e per amore del suo Dio, in un continuo esodo vissuto nella speranza verso la terra promessa.
A 120 anni si conclude la vita di Mosè: secondo il racconto del Deuteronomio Mosè muore solo, in obbedienza a Dio, senza entrare nella terra della promessa. « Il Signore disse a Mosè: Sali su questo monte degli Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira il paese di Canaan, che io dò in possesso agli Israeliti. Tu morirai sul monte sul quale stai per salire » (Dt 32,49s). È commovente quest’andare a morire solo, in obbedienza a Dio: « Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore » (Dt 34,5). Nella solitudine, nel freddo del monte, Mosé vive l’ultimo passaggio, che è al tempo stesso passaggio di vita e passaggio di fede: il bacio di Dio lo raggiunge come un bacio mortale, che succhia la sua anima in cielo, come spiega una tradizione rabbinica; un Altro lo accoglierà, lo riscalderà. E mentre gli farà contemplare
da lontano la terra promessa, gli darà quella vera di cui essa è simbolo. La morte di Mosè – come quella del cristiano, salvato dalle acque e perciò custode della speranza del Risorto – non è semplice tramonto, ma aurora di vita: « dies natalis », giorno della nascita, e non giorno della fine, passaggio ultimo dove l’Altro divino ti chiama e ti accoglie nel compimento della Pasqua eterna. È cosi che Mosè interpella la vita di tutti i salvati nelle acque del battesimo, redenti dalla Pasqua di Gesù, sfidando a verificare sui suoi passaggi di vita e di fede i nostri: dove siamo nel cammino della vita? E dove nel pellegrinaggio della fede? Qual è la tappa in cui ci riconosciamo? Abbiamo veramente superato il tempo dell’utopia, che per l’umanità di cui siamo parte è stato il tempo delle ideologie e dei sogni della modernità emancipata? Abbiamo superato il disincanto o siamo ancora in esso, compagni di strada delle inquietudini delle donne e degli uomini della nostra epoca? Siamo entrati fino in fondo nella notte della fede? Abbiamo attraversato con Gesù, il nuovo Mosè, il nostro Mar Rosso? Ci siamo incamminati decisamente con Lui verso la terra della promessa di Dio? Vi stiamo conducendo con fedeltà e speranza coloro che ci sono stati affidati? Sono le domande a cui ogni credente ed ogni testimone ed educatore alla fede non può né deve sottrarsi. Con umiltà e fiducia chiediamo al Signore, che ha liberato il Suo popolo e sempre di nuovo lo guida a libertà, di liberare sempre più profondamente anche noi, accompagnandoci nei passaggi di vita e di fede cui siamo chiamati e rendendoci capaci di accompagnare altri nella verità, immersi nell’oceano del Suo amore. Lo facciamo ispirandoci alle parole di Gregorio di Nissa: « Rendici, Signore, come Mosè ardenti
amanti della bellezza, che, accogliendo quanto via via ci appare immagine del Desiderato, bramino di saziarsi del Modello originario, volendo anzi con richiesta temeraria, che supera i limiti del desiderio, godere della bellezza non attraverso specchi e messi, ma faccia a faccia… Come a Mosè, dona anche a noi di sapere che si vede veramente il Tuo Volto quando vedendolo non si cessa mai di desiderare di vederlo… » .
(XLI Convegno Nazionale dei Direttori UCI, Vasto 18 Giugno 2007)