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LA SPERANZA NELLA BIBBIA (anche Paolo) – Giuseppe Barbaglio

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LA SPERANZA NELLA BIBBIA (anche Paolo)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

Verbania Pallanza, 28 febbraio-1 marzo 1981
Nella relazione ci si sofferma su quattro filoni: 1) sulla fede di Abramo che è speranza; 2) sulla speranza come pianticella esile, ma anche rigogliosa, che cresce lungo i fiumi di Babilonia: l’esperienza dell’esilio per il popolo di Israele; 3) sulla speranza in alcuni testi di Paolo; 4) la speranza di Gesù.

1. la fede di Abramo che è speranza
Il capitolo 15 della Genesi contiene la riflessione del redattore sulla vicenda di Abramo quale fu rivissuta da Israele in tempi molto lontani dall’esistenza di Abramo stesso.
« Abramo credette e gli fu computato a giustizia ».
Nella tradizione biblica, credere significa stare appoggiato. Abramo credette: stette saldamente appoggiato alla Parola di Dio, visse ancorato alla promessa di Dio. La promessa di Dio è promessa di una terra e promessa di una numerosa discendenza. Ma la promessa di una terra è contraddittoria, perché i possessori di questa terra sono altri (i Cananei); anche la promessa di una numerosa discendenza è contraddittoria, perché Abramo non ha discendenti. E’ una promessa in un contesto di deserto di vita. La promessa di Dio si pone perciò in termini alternativi alla storia, alle condizioni obiettive.
Abramo credette, superò la contraddizione tra promessa e realtà attuale e si ancorò alla promessa. La sua fede gli permise di occupare la giusta collocazione nei confronti di Dio. L’appoggiarsi di Abramo alla promessa di Dio (alternativa, contraddittoria rispetto alla situazione attuale) è la speranza.
Scrive Paolo nella lettera ai Romani (4,18): « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ». Credette in un Dio « che rende vita ai morti e chiama all’essere le cose che ancora non sono » (versetto 17). La riflessione di Paolo è in chiave cristologica, perché Paolo ha presente la resurrezione di Cristo. Come Dio resuscitò dalla sterilità di Sara e dall’anzianità di Abramo il figlio Isacco, così Dio resuscitò da morte suo figlio Gesù. Dice Paolo: come ad Abramo fu computato a giustizia, così anche per noi. Abramo è il prototipo di colui che crede contro ogni speranza umana.

Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza in un Dio che resuscita e che chiama all’essere ciò che non esiste; è speranza contro ogni speranza umana. La speranza di Abramo (che rappresenta il tipo di ogni credente) non va confusa con il facile ottimismo. Non è un ottimismo che si basa sull’evoluzione positiva delle situazioni, ma è una speranza che si coniuga in termini di sfida alla situazione attuale. È una speranza nonostante. Questo deve far riflettere noi, che siamo i figli delle speranze facili, ottimistiche, a basso prezzo (quali le speranze del ’68: sembrava che i cambiamenti fossero dietro l’angolo). La speranza di Abramo (e perciò dei credenti) è ad altissimo prezzo.
- La speranza di Abramo è speranza in possibilità prodigiose, le quali sono promesse di vita, di resurrezione (in senso molto vasto). Prendiamo i discorsi sui miracoli della Bibbia: non vanno interpretati secondo la nostra sensibilità positivista. Il metro della realtà è il metro del prodigio, del miracolo, della possibilità di vita dove regna la morte, della resurrezione nella nostra storia nonostante tutto. La speranza è sotto il segno della contraddizione, si lega al prodigio, che è promessa.
- La promessa di Dio (promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione, promessa di una terra ad Abramo mentre ci sono altri possessori, di una discendenza dove non ci sono figli), che sfida lo status quo, non va interpretata in chiave trascendentalistica; al contrario, essa è incarnata nella promessa umana, si colloca in un orizzonte in cui giocano le promesse umane. La promessa di Dio, il dono di Dio, lo Spirito di Dio non sono una realtà che ci coglie direttamente: sono mediati (a cominciare da Cristo, che è il solo mediatore). Troviamo la promessa di Dio nelle promesse che ci scambiamo. Essa è lo sfondo della promessa di vita e resurrezione tra noi, la profondità escatologica finale delle promesse tra noi. Le promesse che ci scambiamo sono vere nella misura in cui riflettono la logica della promessa di Dio, che è promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione dove c’è cimitero.
- La speranza è affidarsi alla promessa, è appoggiarsi. Ma questo affidarsi alla promessa di Dio, questa fiducia, non vanno interpretate in termini di pigrizia storica. Abramo non si è affidato alla promessa di Dio in termini contemplativi: si è mosso, ha agito, è venuto nella terra che era sua per promessa, ma dei Cananei per titolo storico, giuridico. Affidarsi alla promessa significa uscire dalla situazione, dal passato e dal presente, che possediamo, e camminare verso. E’ un processo di sradicamento. Abramo è stato sradicato dalla sua situazione di possesso (« Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua parentela ») per un nuovo radicamento: nella terra promessa.
- La speranza di Abramo è speranza di nomade, di chi perde ciò che possiede. Abramo, ancorandosi alla promessa di Dio, ha abbandonato quello che possedeva. Venendo in Canaan, non ha ancora quello che avrà. La speranza di Abramo è la speranza dei poveri, di quelli senza alcun titolo di possesso, perché sono usciti dalla sicurezza, dal possesso, e non hanno ancora quello che è stato promesso. Possiedono solo la parola promissoria di Dio. In base ad essa si sono mossi, camminano. Il camminare, il muoversi ha valore simbolico. Nella lettera agli Ebrei (cap. 13, versetto 14) si parla dei credenti come di coloro che non hanno qui la loro città, stabile, ma sono in cerca di quella futura. Abramo è in cerca della terra futura.

2. la speranza durante l’esperienza dell’esilio del popolo di Israele
Nel 586 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, conquista Gerusalemme e la rade al suolo. Alcune migliaia di abitanti del regno di Giuda (gli strati più elevati) vengono deportati lungo i fiumi di Babilonia. Il salmo 137 è il canto nostalgico degli esuli che, lontani dalla loro patria, hanno appeso le cetre ai salici: non possono cantare un cantico del Signore in terra straniera. « Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te, se io non metterò Gerusalemme al di sopra di ogni mia allegrezza ».
C’è una grande nostalgia in questi esuli, anche perché Gerusalemme contava tutto per loro. Su una sponda del fiume di Babilonia cresce la pianta della rassegnazione, del disfattismo, della disperazione, poiché questi esuli sono coscienti di aver perduto tutto: terra, re, tempio, sacerdozio. Pensano che il progetto di Dio su di loro, popolo di Dio, sia finito, che sia la fine della storia dell’Alleanza. Dicono: siamo morti, come ossa aride, sparse nella valle tra i due fiumi; o si considerano dei cadaveri chiusi ermeticamente nei sepolcri. Sull’altra sponda del fiume di Babilonia si fa udire la voce profetica di Geremia e Ezechiele, in contraddizione con il disfattismo degli esuli.
Geremia abitava a Gerusalemme, ma seguiva da vicino gli esuli, col cuore era con loro, ritenendo che la rinascita del popolo di Israele partisse da loro. Quando a Gerusalemme la svalutazione delle proprietà terriere era al culmine, Geremia fece un gesto in contraddizione rispetto al processo inflazionistico, che spingeva tutti a vendere: comprò un campo e pubblicamente stese un atto notarile di compravendita (i profeti annunciavano la Parola di Dio non solo vocalmente, ma anche con azioni simboliche). Davanti alla meraviglia di tutti di fronte al suo gesto, Geremia disse: « Verrà quel giorno in cui si compreranno campi in questo paese, di cui voi dite: « È una desolazione, senza uomini e senza bestiame, abbandonato in potere dei Caldei. Si compreranno campi con denaro, si stenderanno dei contratti e si sigilleranno… » (32-43-44). Geremia annuncia la speranza in un momento di desolazione.
Ezechiele viveva con gli esuli, perché faceva parte della classe sacerdotale di Gerusalemme. La sua parola però risuonava in esilio. Ha una visione di una valle piena di ossa aride; da Dio riceve l’ordine di profetizzare su quelle ossa, cioè di dire la Parola di Dio. Sotto l’effetto della Parola di Dio pronunciata dal profeta, il popolo si rialza, ma non può ancora camminare. Allora Dio dà ad Ezechiele il secondo ordine, di dire a quelle ossa aride: « Io mando il mio Spirito che è soffio di vita ». La parola profetica di Ezechiele annuncia la rianimazione delle ossa aride e lo scoprimento dei sepolcri. Su questa sponda del fiume di Babilonia nasce la pianticella di speranza per bocca di Geremia ed Ezechiele.

Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza contro ogni motivo di disfattismo, di disperazione. Ancora una volta è una speranza contraddittoria rispetto allo status quo; è speranza di resurrezione di un popolo.
- Mentre la storia di Abramo è la storia di un credente (anche se il prototipo di tutti i credenti) la parola di Geremia ed Ezechiele presenta una speranza comunitaria, di popolo.
- È una speranza sostenuta sia dalla Parola di Dio (che rimette in piedi, ma non fa muovere), sia, in un secondo momento, dallo Spirito di Dio (che è il principio creativo). La speranza presentata dai profeti non equivale ad un programma per il futuro, da realizzare più o meno volontaristicamente, ma nasce in un campo di lotta tra forze di rassegnazione e forze vivificanti, dello Spirito. Speranza, nella bibbia, è sinonimo di dinamismo, di creazione, di movimento. La speranza è una bandiera puntata sul campo di lotta che in noi e intorno a noi. Le forze vivificanti sono forze donate da Dio, che è lo Spirito: perciò sono forze di vita, di resurrezione. La speranza si gioca nella lotta. Non è attendere comodamente che piova la manna dal cielo: è la speranza dei combattenti che si appoggiano alla forza della Parola di Dio. Questa è forza che produce fiducia, che fa passare alla speranza; è energia, è come una pioggia, che risale al cielo non senza aver fecondato il campo; è creatrice, suscitatrice di essere dove non c’è essere. Parola e Spirito di Dio nella bibbia sono sempre coniugate come forze operative, creatrici. Giovanni: la Parola è energia creatrice solo se animata dallo Spirito.
- La speranza, in quanto si appoggia allo Spirito di Dio, alle forze creatrici, è una forza creatrice del nuovo. La storia del popolo di Dio, così come viene interpretata dai profeti, è storia contraddittoria, perché da una parte c’è la speranza di Dio e dall’altra parte c’è la delusione, poiché la storia non realizza mai i grandi sogni di speranza. Tuttavia dalla delusione non nasce la rassegnazione, ma un rilancio di speranza. Poi subentrerà una nuova delusione, ma il rilancio di speranza continua. Isaia, in una situazione di delusione, rilancia la speranza. Promette in nome di Dio la creazione di qualcosa di nuovo. « Non abbiate nostalgia del passato: Io, Dio, sto per creare cose nuove ». Scrive Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (1, 20): « Tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate ‘sì’ « . Il rilancio della speranza dopo Cristo è un rilancio della speranza per coloro che solidarizzano con Cristo.
- Lo Spirito di Dio sostiene questa speranza che è forza creazionistica. Lo Spirito di Dio non va inteso in termini trascendentalistici: al contrario, è una realtà che ci è donata, che è in noi, che è operante in noi. Dio promette: Io darò il mio Spirito al popolo. La speranza assume il volto della disponibilità allo Spirito, del fare spazio all’azione dello Spirito che è in noi.

3. Paolo fa della speranza il tema specifico della sua teologia
Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 14-18)
Paolo risponde ai quesiti che gli pone la comunità di Tessalonica (che noi dobbiamo ricostruire sulla base della risposta di Paolo). È convinzione comune tra i cristiani, in questi primi anni dalla morte di Gesù (neanche vent’anni dopo la sua morte), che Cristo ritornerà a brevissima distanza di tempo a chiudere la storia. Il suo ritorno provocherà il rapimento dei credenti nel cielo. Questi non passeranno attraverso la morte perché, essendo risorto Cristo, non c’è più morte, si pensa, ma solo un passaggio da questo all’altro mondo. Accade che a Tessalonica avvengano alcuni decessi: si crede allora che queste persone morte siano ormai perdute, non possano essere più salvate. La comunità giace nella desolazione, nell’abbattimento, che nasce appunto dalla perdita di speranza nel destino dei morti. Ma i cristiani di Tessalonica sono nella desolazione anche per se stessi. Si chiedono infatti: « Se morissi anch’io prima del ritorno di Cristo? Anch’io avrei questo destino di perdizione. » Paolo dice loro che si comportano « come coloro che non hanno speranza », cioè come i pagani. Questa è la sua prima risposta: « Come crediamo che Gesù è morto e resuscitato, così anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li radunerà con Lui » (versetto 14). Paolo si appella alla fede cristiana nella resurrezione di Cristo: Dio ha resuscitato Cristo, cioè ha vinto la morte a favore di Cristo, ne consegue la speranza nella comunione nostra con Cristo. La speranza, cioè, nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo, nell’intervento di Dio che ha vinto la morte in Cristo. È una speranza che poggia sulla solidarietà nostra con Cristo. È Cristo risorto il motivo della nostra speranza. In questo solidarizziamo con Lui nella fede, possiamo sperare. Non più abbattimento, ma consolazione, o meglio incoraggiamento. Paolo entra poi nel problema di quelli che sono morti e di quelli che sono ancora vivi: « … noi, i vivi, non saremo avvantaggiati su quelli che si sono addormentati. Perché il Signore stesso, a un cenno, alla voce di arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole… »

Alcune riflessioni:
- Esiste un legame molto stretto tra fede e speranza. La speranza è una possibilità che nasce dalla fede, non da una visione ottimistica delle cose; la speranza cristiana si fonda sull’adesione al Cristo risorto, non su una concezione filosofica o antropologica della realtà. Ciò vuol dire che la speranza cristiana ha una dimensione cristologica, è speranza in Cristo come fonte di aggregazione (Cristo risorto che aggrega a sé i credenti nella resurrezione). La speranza cristiana è quel movimento per cui scopriamo, nella fede, la dimensione di promessa che ha l’Evento (la resurrezione di Cristo). È evento avvenuto, per Cristo e promessa di realizzazione per noi. La speranza scaturisce da un Evento, si compie unicamente nella fede.
- I contenuti obiettivi della speranza (in cosa speriamo). Paolo conclude: « e così saremo sempre con il Signore ». Questo è il contenuto: la comunione con il Signore. La speranza dona a questa comunione il carattere di indefettibilità: sarà comunione per sempre, totale. L’oggetto della speranza è una realtà interpersonale (Gesù). Il soggetto è il noi della comunità cristiana: noi saremo sempre con il Signore.

Prima lettera ai Corinzi (cap. 15).
A Corinto c’era una vivace minoranza di credenti, che interpretava la salvezza di Cristo in termini di attualismo e di spiritualismo. Non credeva nella resurrezione futura e corporea: la resurrezione è già avvenuta (attualismo) e riguarda l’io interiore (spiritualismo). Il legame con la storia, con il mondo, con il tempo, c’è ancora, ma esso non è determinante. Davanti a quest’interpretazione massimalistica, di « fuga in avanti », Paolo dice:
1) la salvezza, la resurrezione, non sono attuali, ma future. Non siamo ancora risorti.
2) la resurrezione che attendiamo è corporea.
Paolo fonda la resurrezione futura e corporea rifacendosi a Cristo: Cristo è risorto (lo crediamo e lo predichiamo), perciò i credenti resusciteranno. Pone un rapporto tra evento e promessa. Se i morti in Cristo non resuscitano, allora neppure Cristo è risuscitato. Perché questo legame tra Cristo e la resurrezione futura dei credenti? Perché Cristo è resuscitato non come caso sporadico ed eccezionale, ma come primizia; come primo, non come unico. Ci sono i secondi, e siamo noi i secondi. Ma l’immagine della primizia fa pensare ad una successione cronologica: al contrario, il legame tra Cristo e noi è più profondo di una successione cronologica. Infatti a questa immagine segue quella del Cristo risorto come nuovo Adamo. Adamo rappresenta un individuo e insieme il genere umano. Tre sono i rapporti tra Cristo (l’Evento) e l’evento promesso per noi:
- prima lui, poi noi;
- come lui, così noi (a sua immagine)
- noi in forza di lui (lui è il resuscitato che resuscita noi).
Cristo è risorto come primizia, immagine esemplare per noi, principio di resurrezione per noi, per cui l’evento della resurrezione di Cristo comporta la promessa di resurrezione per noi. La speranza nasce da questa solidarietà tra Cristo e noi. Da ciò comprendiamo come Cristo sia la nostra salvezza. Cristo è un individuo singolo, ma occupa nella storia della salvezza un posto unico: quella di avere una funzione per gli altri uomini. Cristo è il principio di una nuova umanità. Cristo, il nuovo Adamo, per l’umanità significa speranza. L’evento di Cristo è promessa per noi.
Da questa lettera di Paolo emerge anche il tema della resurrezione corporea. Per corpo qui si intende non la parte materiale contrapposta allo spirito, ma tutto l’uomo in quanto si apre, si relaziona a Dio, agli altri, al mondo. La resurrezione dei corpi interessa l’uomo come soggetto relazionale, comunicativo, in rapporto agli altri, a Dio, al mondo. Paolo declina i contenuti della speranza in chiave personalistica. La speranza riguarda l’uomo come persona, nella sua comunicatività, relazionalità. La solidarietà dell’uomo è il suo rapporto con gli altri, la sua mondanità è il suo rapporto nel mondo.
La speranza cristiana di Paolo è in antitesi con la speranza del mondo greco. Questa si basa sull’abbandono del mondo, sull’esilio dal mondo. In Paolo la mondanità è intensificata, è oggetto di speranza, nel senso della sua piena realizzazione. Dice Paolo che i corpi resuscitati saranno corpi spirituali: è la corporeità invasa e pervasa dallo Spirito di Dio, il principio della creatività. L’uomo spiritualizzato non è l’uomo tolto dalla storicità, ma è l’uomo in cui la mondanità raggiunge la sua pienezza e purezza in forza dello Spirito. L’uomo vive in questo mondo, è persona a questo mondo.

Lettera ai Romani (8, 18-25)
Al presente, l’intero mondo creato è in attesa del riscatto, della redenzione. Al presente, geme nella sofferenza « e soffre nelle doglie del parto »: sono i dolori che preparano una nuova nascita, dolori pieni di vita, di una nuova vita, anche se a caro prezzo. Anche noi credenti gemiamo come il mondo: i cristiani non rappresentano il piccolo numero degli arrivati, ma sono integrati perfettamente nel gemito. Gemono nell’attesa del riscatto della loro corporeità, mondanità. In questo testo c’è la negazione del tentativo di fare della comunità cristiana un luogo a parte, di privilegiati, di esseri in stato di possesso, mentre il resto dell’umanità è in stato di ricerca. I credenti sono solidali con il mondo nel gemito, nella sofferenza, nel dubbio, nella disperazione. Ma sono i dolori della nuova nascita. Allora speranza vuol dire « attendere con costanza ». La « upomoné » (pazienza) significa stare sotto senza piegare le ginocchia, sopportare un peso, ma senza arrendersi. Esige perciò la costanza, il tener duro, il non arrendersi nella lotta delle doglie. La speranza è un tener duro in un contesto di gemiti, di doglie del parto. La costanza è l’agire in condizioni difficilissime, senza cedere, è la resistenza. I credenti che sono quelli che sperano, in opposizione ai pagani, sono i resistenti nella storia, coloro che non si arrendono. Questa è la speranza. La speranza non è semplice: le pianticelle cresciute senza sforzo si rivelano speranze con frutti non buoni. L’unica speranza è la speranza dei crocefissi, la speranza che nasce all’ombra della croce.

4. la speranza di Gesù
a) nella sua vita, nella sua missione
Un dato certo è che Gesù ha incentrato la sua missione profetica nell’annuncio imminente del Regno di Dio. « Regno di Dio » è un’espressione peculiare della tradizione giudaica per dire che Dio si fa re. Il Regno di Dio è la regalità di Dio, non il territorio in cui Dio regna. L’antico Israele, come altri popoli, aveva una particolare ideologia regale: il re è anche l’istanza suprema di difesa, di giustizia nei confronti di coloro che non ne hanno nella società. La giustizia del re (da distinguere da quella della magistratura) è partigiana, sempre a favore dell’oppresso, del povero, dell’indifeso. La monarchia di Israele non soddisfece le attese dei poveri, perciò essi proiettarono la loro speranza in Dio re, nel Regno di Dio. Gesù si innesta in questo filone di attese dei poveri che Dio si faccia re e ne annuncia l’imminenza. Non è più un’attesa a lunga scadenza, ma ormai Dio bussa alla porta della storia. Gesù ha avuto coscienza di rappresentare nella storia questo momento in cui Dio re sta per entrare nella storia a rendere giustizia. Ma Gesù non si limita a proclamare quest’imminenza: egli proclama beati i beneficiari di Dio re.
« Beati gli umili, perché di loro è il Regno dei Cieli » (Matteo 5, 3). « Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli » (Luca, 6,20). La beatitudine è una proclamazione di felicità: fortunati voi. In questa proclamazione, Gesù si felicita con i poveri. È paradossale che Gesù si feliciti con i poveri, cioè con quelli che non hanno potere nella storia, gli emarginati, i disperati. Per quale motivo? Non perché gli emarginati sono i più disponibili al suo annuncio, al Regno di Dio, ma perché Dio sta per diventare re a loro favore. Sta per venire il giorno in cui i poveri non saranno più tali, perché Dio farà giustizia. Dio è a loro favore con la sua giustizia partigiana. Gesù si congratula per questo, c’è la sua partecipazione.
Ma Gesù non si limita a congratularsi, opera per la venuta del Regno, apre la porta attraverso la quale Dio entra nella storia come re. Nella missione di Gesù, una delle caratteristiche peculiari, è la guarigione degli indemoniati. Gli indemoniati erano persone con malattie psichiche, nella cultura di allora attribuite ad un possesso demoniaco, non potendo dare di esse una spiegazione scientifica. Gli avversari di Gesù attribuivano la sua attività sdemonizzatrice in senso malevolo, demoniaco. Rispondeva Gesù: « Ma se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora il Regno di Dio è già venuto fra voi » (Matteo 12, 28). La versione di Luca è più primitiva: « Ma se io scaccio i demoni col dito di Dio, è dunque venuto tra voi il Regno di Dio ». Il Regno di Dio comincia realmente a germinare nella storia attraverso l’azione di Gesù. Dio si fa re nella storia, è Lui che viene a rendere giustizia, ma non interviene immediatamente, bensì mediante l’azione di un uomo. Il Regno di Dio è una svolta rivoluzionaria come appare nelle parabole di Gesù cosiddette della crisi (le parabole del seminatore, della zizzania, del grano di senape), raccontate da Gesù in un momento in cui la gente, dopo un grande entusiasmo iniziale, iniziò a dubitare della venuta del Regno, non vedendo quel cambiamento in cui aveva sperato. Gesù, con queste parabole, voleva recuperare credibilità nei suoi ascoltatori. La parabola del seminatore ci dice che la missione di Gesù è esposta allo scacco, alla frustrazione, ma alla fine un quarto del suo annuncio porta frutto. Il piccolissimo granello di senape rappresenta il Regno che comincia a germinare nella storia, mentre l’albero derivato da quel granello è il Regno nella sua esplosione ultima.
La speranza di Gesù è operativa. È una speranza che lo fa mediatore di questo anticipo reale, anche se parziale. La speranza di Gesù è una speranza riposta in Dio re. Se Dio è re, Gesù non è ancora quello che sarà, perché non è ancora diventato re, lo sarà alla fine, ma comincia ad essere nella storia quello che sarà rendendo giustizia. La speranza è speranza nella pienezza dell’essere degli uomini, correlativa alla speranza nella pienezza dell’essere di Dio. Speriamo di essere nella pienezza e speriamo che Dio sia anch’egli nella pienezza come re.
La missione di Cristo si prolunga nella missione della comunità dei discepoli di Cristo. La speranza di Dio divenuto re a favore dei poveri dipende da questa mediazione storica. Dio si è legato a Cristo per diventare Lui re a beneficio dei poveri. La speranza è finalizzata alla piena realizzazione della realtà finale, però questa realtà escatologica è connessa con la sua validità per la storia. La speranza nella sua profondità escatologica diventa credibile solo se riesce ad anticipare realmente questa esplosione ultima nella storia, se pure solo parzialmente. È proprio per questa anticipazione che si può sperare nella realtà finale. Bisogna far germinare il Regno, portare nella storia i segni del Regno.

b) nella sua morte in croce.
Gesù si accorse che lo stavano condannando a morte. Pensò anche che il suo destino fosse simile a quello del servo di Dio (Isaia, capitoli 52 e 53), che subisce passione e morte violenta e attraverso essa rende riscatto al popolo e che sarà glorificato da Dio nella morte. Gesù andò incontro alla morte nella speranza che Dio gli avrebbe reso giustizia. Si affidò a Dio (« Nelle tue mani consegno la mia vita »). Gesù morì in croce con la speranza in Dio.
La speranza cristiana è la speranza dei crocifissi, che nasce all’ombra della croce, nascosta nei fori dei chiodi che trafissero Gesù. La speranza dei crocifissi è una speranza nell’impotenza, nella frustrazione estrema. Ma la speranza all’ombra della croce non è la speranza di chi si dimette dai suoi compiti, di chi si rassegna nella storia, di chi si abbandona a Dio. La croce, al contrario, significa lotta, azione nella storia, ma lotta da poveri, da crocifissi. Gesù è morto in piedi sulla croce. Non è sceso a compromessi, ma si è battuto bene, fino alla fine; però si è battuto da povero, da uomo qualunque, non da forte, perché questa sarebbe stata una speranza satanica. Gesù non è venuto meno nel suo battersi, nel senso che è morto in piedi contestando le forze che lo stavano schiacciando. Non scendendo a compromesso, non gettando le armi, ha tolto la maschera a queste forze: sono forze violenti, più forti di Gesù, ma non onnipotenti, perché non riescono a firmare l’atto di resa. Finché ci sono i resistenti, le forze della morte sono battibili, la lotta va avanti. E’ una lotta tra forze non onnipotenti. La speranza è la lotta che continua, è il risorgere della lotta.
La Croce significa morte dei sogni di onnipotenza dell’uomo. Essa annulla la pretesa dell’uomo di giocare nella storia da superuomo. Chi più di Gesù poteva giocare da Figlio di Dio nella storia? C’è un modo demoniaco di confessare Gesù Figlio di Dio: quello che esce dalla bocca dei demoni. Al contrario il centurione confessa questo guardando la Croce. È l’ombra della Croce che rende vera la figliolanza di Dio. Guardando la Croce, non c’è più l’equivoco di costituirsi come comunità messianica potente nella storia. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che non risparmia la morte a suo figlio e quindi a noi, suoi figli. È speranza in un Dio neppure Lui onnipotente nella storia. Non è stato potente a liberare Gesù dai suoi nemici. Dio non ha liberato Gesù perché non ha potuto, non perché non ha voluto: sarebbe un Dio malvagio se, potendo liberare suo figlio, non lo facesse.
Gli uomini hanno sempre sognato l’onnipotenza; ma, di fronte alle frustrazioni, ammettono realisticamente di non essere onnipotenti. Tuttavia trasferiscono in Dio questo loro sogno di onnipotenza. « Se non sono io onnipotente, lo sia almeno Dio. Io lo prego e ho a disposizione un Dio onnipotente ». Il Dio di Gesù sconvolge questa immagine di Dio: sulla Croce di Gesù, con il Figlio di Dio che muore crocifisso, muore quest’immagine di Dio onnipotente. Dio si è battuto accanto a suo figlio, non da onnipotente, ma standogli accanto, morendo con Lui. Allo stesso modo, Dio si batte con noi nella storia, ma non ci rende più forti.
Ogni discorso su Dio parte da Gesù. In Gesù leggiamo il volto di Dio. Gesù è crocifisso: allora Dio è crocifisso. Se Dio non ha risparmiato la morte, ciò significa che è incapace di risparmiare la morte ai suoi. Dio è colui che resuscita, non colui che risparmia ai suoi, né colui che fa ai suoi sconti generosi di travaglio storico. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che resuscita. Non ha risparmiato la morte a Gesù, ma lo ha resuscitato. Questo Dio che resuscita è il modo di Dio di essere presente nella storia oggi. Dio non è vincente, perché se Cristo è battuto, Dio è battuto in Cristo. Ma Cristo resuscita, Dio resuscita in Cristo: cioè, la sconfitta non è definitiva, non è ultima. La lotta continua. Cristo resuscita, si batte di nuovo, esce vivo, più vivo di prima, anche se la vitalità di Dio nella storia è ancora debole. Quando l’ultimo nemico sarà vinto e anche la morte sarà vinta, allora Gesù sarà diventato re, anche lui si assoggetterà a Dio e Dio sarà il re. Davanti ai fallimenti storici diciamo: questo fallimento è una lotta perduta, ma non perduta totalmente, perché la lotta rinasce di nuovo. Le resurrezioni storiche sono la lotta che non cessa. Finché ci si rialza, nella storia questa è la resurrezione. La speranza nasce dal disfacimento. La vita che si crea nella storia è resurrezione, nasce dalla morte con resurrezione. È una vita a caro prezzo, una vita che scaturisce dalle doglie. I dolori del parto producono vita; ma, in quanto dolori, sono dolori. Cristo ha dato la sua vita perché noi abbiamo la vita. La vita scaturisce da questo dare la vita, non nel senso materiale del morire. Lottare fino all’estremo produce germi di resurrezione. Il Dio di Gesù benedisse « il maledetto » resuscitandolo. Quando gli apostoli si accorsero che Dio aveva resuscitato Gesù, dissero: il Dio di Gesù Cristo è colui che benedice i crocifissi, è il Dio che sale il Golgota insieme con i crocifissi. Dio è il custode, l’alleato dell’uomo, è colui che cammina con l’uomo, non rendendolo per questo più forte, ma stando accanto a lui. L’uomo, cosciente di avere Dio accanto, si batte e Dio si batte con l’uomo. I grandi sogni del ’68, le grandi speranze troppo facili coltivate in certe comunità cristiane, cedono il posto alla speranza all’ombra della Croce, che sta nei fori lasciati dai chiodi di Gesù. Questa speranza lascia un vuoto, ma è proprio in questo vuoto che si annida la speranza. Le altre speranze sono più comode, esaltanti. Il Cristo risorto porta i segni del crocifisso: non è trionfante; sarà vincente alla fine, ma allo stato attuale si batte con i suoi e la lotta si trova nei fori dei chiodi della Croce.

Le radici piantate sul Golgota – sulla speranza (di Luciano Manicardi monaco di Bose)

dal sito:

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=381

16/09/2006  

La speranza cristiana? Si fonda sul Crocefisso risorto

Le radici piantate sul Golgota

di Luciano Manicardi monaco di Bose

Oggi il futuro è avvertito come minaccia, non più una promessa. La fede è un appello ad alzare lo sguardo

Presentiamo ampi stralci della relazione tenuta da Luciano Manicardi all’assemblea diocesana missionaria, tenutasi a Milano il 13 maggio sul tema.

È quasi d’obbligo oggi, quando si parla di speranza, iniziare dicendo che si assiste a un’eclisse della speranza. Anche la traccia di riflessione in preparazione al convegno di Verona, proprio agli inizi (n. 1), dice che «non è cosa facile oggi la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa».
Il nostro tempo oggi non è sotto il segno della speranza, ma sotto quello della tristezza (cfr M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004). È come se il futuro avesse cambiato di segno e non suscitasse più l’idea di una promessa che ci sta davanti, ma ingenerasse in noi sentimenti di paura, di incertezza, di sfiducia. Insomma, il futuro oggi è sentito come minaccia piuttosto che come promessa; allora nascono angoscia, ripiegamento su di sé e sfiducia piuttosto che progettualità e slancio in avanti. La fiducia insita nel mito messianico secolarizzato, che ha dominato la cultura occidentale, ormai è venuta meno: oggi è sostituita dalla vittoria del mito autoreferenziale di Narciso. Ma a Narciso sono impossibili l’attesa e la speranza, mentre gli è congeniale l’autodistruttività.
Se pensiamo all’individualismo dominante, all’utilitarismo che soffoca la solidarietà, che conduce ad avere relazioni contrattuali e competitive piuttosto che gratuite, o all’economicismo come unico valore diffuso dalla società neoliberista, all’estinzione del desiderio in una società che fa l’apologia delle voglie, ecco… tutto questo crea tristezza e spegne la speranza. Il cambiamento di segno del futuro, da promessa a minaccia, ricrea un tipo antropologico nuovo, con poco spirito di iniziativa, di progettualità, piuttosto rinchiuso su di sé, demotivato, indeciso, diffidente, timoroso, con poco autostima.
La speranza poi ha una dimensione collettiva, comunitaria, nasce e vive in un contesto relazionale. Una società da cui scompare o si offusca l’orizzonte della speranza vede crescere fenomeni di violenza, di nichilismo, spinte distruttive oppure rassegnazione, omologazione, indifferenza.
Pochi anni fa abbiamo esultato per l’insorgere di grandi speranze; crollava un muro fra le due Germanie, ma la speranza sorta non ha avuto tempo di divenire storia, sono sorti tanti altri muri di separazione (e non solo simbolici, ma anche di cemento): muri del particolarismo etnico-razziale, confessionale, religioso. Oggi la speranza ha poco tempo, le speranze sono a breve termine, non riescono a diventare storia. Tutto questo rientra in quella fluidità che Zygmunt Baumann coglie oggi come cifra dell’inafferrabile modernità che stiamo vivendo.
Per noi, cattolici in Italia, va poi messa in conto anche la delusione per tante speranze nate attorno al Concilio Vaticano II. A distanza di quarant’anni, gli entusiasmi vissuti in quella stagione oggi appaiono molto raffreddati, se non congelati; probabilmente c’è stata impazienza, forse non abbiamo calcolato, in preda a un ingenuo ottimismo, che anche la ricezione di un Concilio richiede tempo e lungo periodo: le speranze di un rinnovamento della Chiesa, di una primavera che sembrava a un passo si sono arenate di fronte ai ghiacci di un inverno indesiderato e lungo.
Dobbiamo fare esempi? Possiamo pensare allo stato comatoso dell’ecumenismo; alle difficoltà e agli ostacoli che incontra la ricerca teologica, quando affronta temi come il dialogo con le altre religioni, ma lo smarrimento anche di un senso di sana laicità nel rapporto tra la Chiesa e la polis, tra la Chiesa e la società. Sono solo alcuni elementi di una lista che potrebbe essere più lunga, ma che fanno parte dello smarrimento, della delusione di speranze che erano sorte.
Se a questo aggiungiamo quello che spesso è uno dei grandi motivi di frustrazione negli ambienti cristiani, ovvero l’indifferenza – l’indifferenza con cui si scontrano gli sforzi di evangelizzazione, quasi che le parole della fede ormai suscitino, il più delle volte, una scrollatina di spalle – indubbiamente comprendiamo il senso di amarezza e di disillusione in cui spesso versiamo. Forse dobbiamo confessare di aver ingenuamente fatto nostro quel mito del progresso che denunciavamo come fallace. Forse anche noi abbiamo pensato che il Concilio avrebbe dato il via a un processo inarrestabile di riforma, di rinnovamento, e ora dobbiamo riconoscere che molte di quelle speranze sono morte; forse alcune erano solo illusioni ed è bene che siano morte.
Forse siamo come il popolo di Israele che ha iniziato un cammino di liberazione, ma questo cammino è di deserto, è un cammino molto lungo. Certamente c’è chi rimpiange il prima, la condizione di quando si era in Egitto. Ma forse tutto questo, biblicamente, altro non è che l’inizio, le doglie del parto, è la condizione del cristiano nella storia.
La speranza cristiana e le speranze. Dobbiamo distinguere tra la speranza e le speranze, tra l’affermazione assoluta «io spero» e l’affermazione relativa «io spero che». Dobbiamo distinguere – anche in ambito ecclesiale – tra l’assoluto «io spero», l’essere uomo di speranza, da un lato, e l’avere degli obiettivi, delle speranze al plurale. Il venir meno delle speranze può consentire alla speranza fondamentale di farsi luce. In altri termini, la delusione può essere dunque liberazione da illusioni: uno spogliamento che mette in luce, rende più pura la speranza. La speranza cristiana, nel suo nucleo perenne, non è in balìa di contingenze, non dipende da realizzazioni (nemmeno pastorali), ma è speranza fondata sulla morte e risurrezione di Cristo. Essa ha per oggetto (e anche soggetto che la suscita) il Cristo, il «Cristo nostra speranza». Così inizia la prima lettera di Paolo a Timoteo (1,1). Scrive Bonhoeffer dal carcere (da una situazione senza speranza): «Cristo nostra speranza, questa formula di Paolo, è la forza della nostra vita». La speranza è sempre rivolta a Cristo, a Dio, al Dio vivente, al Dio delle promesse che si sono manifestate in Cristo. In Cristo questa speranza è speranza della risurrezione dei morti (At 23,6), la speranza di fronte alla morte. Se infatti, dice Paolo, sperassimo in Cristo solo in questa vita, saremmo i più miserabili di tutti gli uomini (1 Cor 15,19).
La prima lettera di Pietro mostra chiaramente come l’evento pasquale dia forma e contenuto alla speranza cristiana. Questa è la speranza grande, la speranza donata da Dio ai credenti e, attraverso loro, agli uomini: è la speranza che i cristiani hanno il compito di annunciare e testimoniare al mondo, perché solo essa salva. Essa ha sempre – non solo in certe congiunture – carattere paradossale: sgorga infatti dalla croce e ne porta le stigmate. Come il Crocifisso, il Cristo appeso alla croce è la paradossale rivelazione di Dio, così la fede è il paradossale credere che il Crocifisso, quell’uomo condannato a morte, sia il Salvatore del mondo.
E la carità che cos’è se non il paradossale amare il nemico, e amarlo mentre mi è nemico? Questo amore nasce dalla croce, è l’amore paradossale reso visibile dalla croce. La speranza è il paradossale sperare al cuore stesso della morte, della croce. È significativo che si tratti di una speranza al cuore della morte, una speranza in desperatione verrebbe da dire: la speranza cristiana è sempre speranza contro ogni speranza. Sperare l’insperabile. Quell’uomo appeso alla croce, esibito nella sua nudità al disprezzo della gente, è il Salvatore del mondo. Ecco la speranza cristiana. Vi è una contiguità tra speranza e disperazione: anche il Risorto, dice Giovanni, porta i segni della trafittura.
Colpisce il fatto che il Ventesimo secolo abbia fatto emergere figure di testimoni e di santi che hanno abitato gli inferni storici. Nel secolo scorso è emersa la santità di chi sa abitare gli inferni dell’esistenza umana senza disperare, nutrendo lì una speranza e amando, continuando ad amare nell’orrore di un lager nazista, nel crogiuolo di una malattia estenuante, nella solitudine di un deserto, nella cella di un monastero, in situazioni di povertà, di oppressioni, di ingiustizia. Dietrich Bonhoeffer, Teresina di Lisieux, Charles De Foucauld, Silvano dell’Athos, Oscar Romero (e si potrebbe continuare) hanno vissuto la speranza nella disperazione, hanno vissuto una santità martiriale, testimoniale, che abita gli inferi dell’esistenza e che sa far abitare la grande speranza nella disperazione umana.
Se Cristo è la nostra speranza, per noi sperare è lasciare al Signore l’iniziativa su di noi, sulla nostra vita, non solo sulla vita personale, ma anche su quella comunitaria ed ecclesiale. La Chiesa spera, vive Cristo come sua speranza e testimonia agli altri Cristo come speranza, quando vive la povertà, l’umiltà, la libertà: o queste dimensioni contraddistinguono il «volto ecclesiale», o altrimenti la Chiesa potrà anche parlare di speranza, ma rischierà di farlo in modo retorico. Pensiamo alle condizioni attuali di minoranza e di spogliamento (di cui oggi abbiamo tanti segni nella Chiesa), dall’indifferenza che incontra la parola della fede, dal pluralismo che obbliga a un difficile incontro con persone appartenenti ad altre religioni e che ci rimette in discussione profondamente, da una cultura che a volte avversa il cristianesimo, da una diminuzione numerica all’interno delle Chiese: questo spogliamento è occasione per ritrovare quella povertà, quella piccolezza, quella libertà, quell’umiltà che sono le condizioni grazie a cui la Chiesa è profetica. Una Chiesa può porsi profetica non solamente quando denuncia le ingiustizie, ma se vive della Parola. È annunciando questa promessa che la Chiesa dà speranza: la speranza è che il futuro del mondo è Dio, il Regno. La profezia è allora apertura di futuro, dono di senso, attualizzazione della promessa di Dio. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Il concetto non biblico di senso è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama promessa».
Profezia è anche lotta contro gli idoli: vi sono certamente i grandi e perenni idoli che ci affascinano, ma vi sono anche idoli interni alla Chiesa. La profezia si declina allora come combattimento contro le tentazioni che, mentre sfigurano il volto ecclesiale, uccidono anche la capacità della Chiesa di dare speranza. Qui c’è il «caro prezzo della speranza». Poiché la speranza cristiana non coincide affatto con l’ottimismo, ma è sinonimo di responsabilità.
È la prima lettera di Pietro che l’afferma: «Santificate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi chieda ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Chiunque ha il diritto d’interpellare il cristiano sulla sua speranza e questi ha una diaconia, un compito, una responsabilità. La speranza è la sua risposta alla promessa di Dio, è responsabilità nei confronti degli altri uomini. Se non sono i cristiani che innervano il mondo e le relazioni con la speranza che sgorga dalla Pasqua, chi lo farà?
Sarebbe interessante rileggere le tentazioni di Cristo dove si narra come Gesù vinca la suggestione diabolica, sottomettendosi alla Parola di Dio e custodendo la propria umanità: situandosi tra questi due poli, Cristo vince la tentazione e apre la speranza di salvezza a ogni uomo. Sottomissione alla Parola di Dio: Gesù risponde al tentatore sempre citando la Scrittura, custodia della propria umanità e creaturalità; Gesù non esce mai dall’umano, non entra mai nel magico. Gesù sa discernere come tentazione il mutare le pietre in pane: egli non stravolge la natura, non si sottrae alla povertà creaturale dell’uomo, ma resta uomo. Non cede neppure alla seduzione del potere e del possesso, ma resta nella povertà tipica della creatura e custodisce il senso del limite della propria umanità; Gesù non fa del tempio, del religioso, del sacro, lo sgabello della propria affermazione. Non si getta giù per farsi salvare dagli angeli, dando compimento eclatante e miracolistico alla parola della Scrittura.
È importante saper vincere le tentazioni del potere, poiché il potere, sia politico che religioso, è sempre mondano: anche il potere religioso ha gli stessi movimenti del potere mondano, questo vincere le tentazioni avviene grazie all’abitare l’umano nell’obbedienza alla promessa di Dio. Gesù resta sottomesso alla Parola di Dio e, quando sarà sulla croce, mostrerà la piena e definitiva vittoria sulle tentazioni. Dalla croce scaturisce la salvezza e la speranza di salvezza per tutti gli uomini. Dalla croce discende a noi il compito di sperare per tutti e di narrare la speranza a ogni creatura.
Per sperare, occorre saper vedere. E la speranza è munita di un occhio particolare. Per dare speranza occorre discernere gli idoli che ci abitano e dare il nome, anche come Chiesa, agli idoli. Bisogna avere il coraggio di discernere e la forza di combattere.
Si dovrebbe uscire dalla logica del lamento per guardare alla realtà con occhi nuovi, con un altro sguardo. È vero: se guardiamo alle nostre situazioni ecclesiali, a volte può prenderci un senso di stanchezza e di scoramento e tuttavia questo non è un novum. L’episodio evangelico di Marco, dove si parla della prima moltiplicazione dei pani, mostra una situazione ecclesiale che sembra quella di oggi: i discepoli avevano talmente tanto da fare da non aver più tempo nemmeno per mangiare. Già allora la quantità delle cose da fare sopraffaceva gli apostoli e Gesù li invita ad andare in disparte per riposare un po’: è doveroso per il missionario, per il credente, andare in disparte, riposarsi, stare con il Signore, avere una propria interiorità. Ma ecco che Gesù sbarca e trova già la folla che lo aspetta, sicché Gesù accetta di essere contraddetto e, nella compassione, annuncia alle folle la parola e poi dà loro da mangiare. Lì nasce il problema: «Date loro voi stessi da mangiare…»
(Mc 6,37). «Non abbiamo che cinque pani e due pesci. Cosa è questo per tutta questa gente?» (Mc 6,39). Eppure, da quel poco Gesù farà sorgere l’abbondanza.
Per noi, oggi, questo dice che la Chiesa saprà dare testimonianza alla speranza accogliendo la propria fragilità, la propria debolezza, la propria infedeltà. È a partire da lì che siamo chiamati a dare speranza, non a mascherare, a rimuovere, ma a porci nella nostra attuale fragilità, debolezza, forse anche nelle nostre ferite attuali, nel nostro spogliamento attuale e assumerlo, accettando di perdere anche molte cose. E forse molte altre ne dovremo perdere nei prossimi anni, e dovremo accettare questo impoverimento, questa morte di molti sogni, ma custodendo l’umano che è in noi e obbedendo alla Parola e alla promessa di Dio.
Noi dobbiamo imparare questa speranza, liberata dall’impazienza di vedere subito i risultati, non vincolata ai nostri desideri, perché la speranza di cui parliamo non è una speranza qualsiasi o di qualche cosa, ma è un confidare nel Signore e in ciò che Lui vorrà darci e che noi non possiamo vedere né toccare. Questo sperare tende all’invisibile («le cose invisibili sono eterne»). Proust nella sua Recherche, scrive: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nell’andare in cerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi».
Ecco l’occhio nuovo della speranza che ci fa vedere l’invisibile, quello che pure si fa avanti nella storia tra le sue contraddizioni e opacità, ma che richiede un occhio allenato, evangelizzato dalla promessa di Dio. Di fronte alle tribolazioni storiche che precederanno la fine, quando accadranno sconvolgimenti quali terremoti, carestie, guerre… (Lc 21,28) Gesù invita a levare il capo, ad alzare gli occhi, perché la liberazione allora sarà vicina. Questa capacità dei cristiani di vedere, nella tragicità della storia, anche la luce che avanza, è la diaconia che il cristiano è chiamato a vivere. Il credente alza gli occhi e vede l’invisibile, vede ciò che si cela nella trama oscura e tragica degli eventi. Allora la speranza diventa ypomoné, perseveranza, capacità di rimanere, anche nelle situazioni difficili (e com’è importante la testimonianza di chi sa vivere una fedeltà nella propria scelta di vita, perché questo dà speranza anche agli altri, a chi viene dietro a lui). Tale perseveranza è la capacità che i cristiani hanno di sottomettersi agli altri, di sostenerli nella prova: la speranza diviene allora forza, pazienza, capacità di resistenza e di sopportazione nel senso più nobile del termine.
Scrive Peguy: «La piccola speranza avanza tra le due sorelle grandi [la fede e la carità] e non si nota neanche». Quasi invisibile, la «piccola» sorella sembra condotta per mano dalle due più grandi, ma col suo cuore di bimba vede ciò che le altre non vedono e trascina con la sua gioia fresca e innocente la fede e l’amore nel mattino di Pasqua. «È lei, quella piccina, che trascina tutto». È la speranza che vede il regno, che vede il Signore veniente, che vede l’invisibile, e che narra questo nell’oggi. 

Publié dans:temi - la speranza |on 8 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

“IL PRETE, MINISTRO E TESTIMONE DELLA SPERANZA” (alla scuola di san Paolo)

dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/s2magazine/objects/obj_14160/files/formazione/formazione_presbiterio_berranger.doc

Olivier de Berranger -   vescovo di Saint-Denis (Francia)

“IL PRETE, MINISTRO E TESTIMONE DELLA SPERANZA”  (alla scuola di san Paolo)

Mi è stato chiesto di meditare insieme con voi su “il prete, testimone della speranza nel suo ministero”. Nel mettermi in particolare alla scuola di san Paolo, attraverso le sue Lettere, sono giunto a riflettere direttamente sul “ministero della Speranza” che è il nostro. La formula, come tale, non vi si trova. L’Apostolo parla del ministero del Vangelo, del ministero dello Spirito, del ministero della Nuova Alleanza, del ministero della riconciliazione… ma non del ministero della Speranza in quanto tale, né, in un altro luogo, d’un ministero della Fede o della Carità. Eppure, la speranza è certamente al cuore della sua testimonianza apostolica. Essa è pure, forse, la questione fondamentale che si pongono i nostri contemporanei, e ciò di cui, come preti, abbiamo noi stessi il più grande bisogno. Per tale motivo m’applicherò a trattarne, considerando in primo luogo in san Paolo la speranza come il fondamento dell’itinerario cristiano nel mondo, dicendo poi, sempre alla scuola di Paolo, come il nostro ministero può  trovarvi rispettivamente una fonte di rinnovamento e l’oggetto stesso della sua testimonianza. In seguito, in una seconda parte, farò qualche suggerimento per un aggiornamento di questa dottrina nella nostra situazione attuale.

I.- La speranza in san Paolo

1. La speranza a fondamento dell’itinerario cristiano.        Con Paolo, nella Lettera ai Romani,
mettiamoci di fronte all’itinerario di Abramo. Ricordiamo come l’Apostolo invita a “camminare sulle orme della fede del nostro padre Abramo”, questa fede che in lui ebbe forza sufficiente per farlo partire verso una terra a lui sconosciuta ( cfr. Rm 4, 12). Per Paolo, in questa lettera, ciò che importa evidentemente è mostrare che la fede, avendo preceduto la circoncisione, resta decisiva oltre quella. C’è un “Vangelo nascosto” in tutta la storia giudaica, una sorte di preesistenza di Cristo nella fede di coloro che, nel corso dei secoli di attesa di Cristo, hanno camminato sulle orme di Abramo. Essi sono i profeti, i santi e gli anawim, i poveri di Yahvé. L’orizzonte che Paolo svolge nel suo ministero di Apostolo, questo ingresso delle “nazioni” nel Popolo di Dio di cui si tratta nel “primo concilio di Gerusalemme” (cfr. At 15, 14), lungi dall’essere allora, secondo lui,  un inizio assoluto, si riallaccia alle origini, In Abramo, Dio ha “giustificato” in anticipo la fede degli incirconcisi. Dio ha amato i pagani. Anche presso di loro esiste un “Vangelo nascosto”.
 Tutto il proposito di Paolo sarà di spiegare come Abramo, e l’universalità delle nazioni che
la sua fede genera, sono stati fatti “eredi del mondo” ad opera di questa fede (cfr. Rm 4, 13s). Fede nella remissione dei peccati per tutti gli uomini, fede assoluta in Dio che promette la nuova nascita  di un popolo impossibile da contare, anticipando già sulla buona novella della resurrezione dei morti intravista già dal profeta Ezechiele: “un esercito grande, sterminato!” (cfr. Ez 37, 10). Abramo, partendo alla chiamata del suo Dio, non aveva altro punto d’appoggio che la sua fede. Aveva camminato contra spem in spem, “sperando contro ogni speranza” (4, 18). Aveva creduto perché era stabilito su una speranza divina, una speranza che Dio gli aveva donato e alla quale egli aveva dato il suo assenso. Come ha scritto Gerhard von Rad nel suo magnifico commento al libro della Genesi (1972), quando Abramo parte verso il paese di Moria con il figlio Isacco, non è più soltanto al suo passato che egli rinuncia, la terra dei suoi padri, come quando aveva abbandonato Ur dei Caldei, è il suo stesso futuro che egli abbandona a Dio (cfr. Gen 22, 1-19). E ora, noi che ascoltiamo la lettura di questo brano durante la Veglia pasquale, noi vi scopriamo l’annuncio del mistero del Figlio unico offerto per la salvezza di tutti i popoli. La speranza di Abramo ha trovato il suo adempimento in Cristo. La nostra speranza per noi si fonda ormai  sulla Morte e la Risurrezione del Signore. E noi, preti, non è stato per esserne i ministri e i testimoni che abbiamo “lasciato tutto” e seguito Gesù (cfr. Mt 19, 27) ?
 Ma continuiamo con san Paolo: “Per suo mezzo (il Signore Gesù Cristo) abbiamo anche
ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo, e ci vantiamo nella speranza della Gloria di Dio. E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, e la pazienza una virtù provata e virtù provata la speranza. E la speranza non fa arrossire (cfr. Rm 10, 11; Sal 119, 6. 116) perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 2-5). La speranza di Abramo si manterrà viva  nei cristiani di ogni tempo e di tutte le latitudini. Per la grazia essa alimenta, in mezzo alle miserie e alle tribolazioni, una gioia e una forza interiori, frutto di questo amore personale (agàpe) diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato donato. Quando ci è stato donato? Ma al momento del nostro battesimo, della nostra cresima, della nostra ordinazione. Più fondamentalmente, questi avvenimenti sacramentali hanno inizio con la morte di Cristo, “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5, 8). Ma, ed è tutto lo sviluppo ulteriore della lettera che pone questa questione, se la sua Morte  ci ha permesso d’essere tanto largamente beneficiari di un così grande amore, che ne sarà della sua Vita? E’ grazie alla risurrezione di Cristo che tutto il nostro essere è riconciliato e salvato nella speranza! E questa speranza non delude. Ogni volta che celebriamo la Pasqua del Signore nell’eucaristia, ogni volta che accogliamo il perdono del Salvatore nella riconciliazione, noi lasciamo che di nuovo lo Spirito Santo “riversi” l’amore di Dio nei nostri cuori!

Tutta la Chiesa 

 A nostra volta; lasciamoci confermare nell’amore; stabilire nella speranza. Non è forse un invito a questa parrhèsia, cara a san Paolo, la certezza apostolica che non si lascia fuorviare dalle contraddizioni, pur in mezzo alle debolezze e alle tribolazioni “per le quali noi siamo fatti” (cfr. 1 Ts 3, 3, traduzione Osty)! Il “noi” di Paolo, nella lettera ai Romani, sembra dapprima che indichi lui, con i suoi collaboratori, ministri del Vangelo. Esso indica però in seguito o allo stesso tempo, come spesso negli  scritti apostolici, tutta la Chiesa  acquistata dal sangue di Cristo (cfr. Rm 3, 25; 5, 9; At 20, 28). Ma la testimonianza che questa deve  rendere al suo Signore nel mondo non può rimanere ristretta a coloro che lo hanno già ricevuto.  Come l’ha affermato in maniera così forte il Vaticano II – come il ministero di Giovanni Paolo II, quale è stato percepito nel vasto mondo, lo ha specialmente mostrato – il “noi” di Paolo ingloba   tutta l’umanità (= mentre noi eravamo senza forza… mentre noi eravamo ancora peccatori”, Rm 5, 6-8). O piuttosto, avrei voglia di dire, questo “noi” ingloba la Chiesa  nell’umanità, nel suo seno, perché, un po’ alla maniera del serpente ragno nel deserto, essa vi è presente come segno premonitore che la condizione ferita e lacerata degli uomini non è più definitivamente mortale. Questa condizione, Dio, “per il grande amore con il quale ci ha amati” (cfr. Ef 2, 4, propter nimiam charitatem suam), l’ha assunta “mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato” (Rm 8, 3). Ci ha liberati nella speranza dalla schiavitù del peccato e della morte. La Chiesa, secondo il Vaticano II, è “sacramento universale di salvezza”. Essa dunque è là per significare mediante tutto il suo essere, la sua prassi, la sua capacità d’inserzione nel cuore del mondo, e soprattutto mediante un amore coestensivo a questa umanità, ferita ma amata e ricca di grazie nascoste, che la riconciliazione operata da Cristo si attualizza di nuovo oggi  presso tutti i popoli della terra.
 Paolo c’invita ad andare ancora più lontano. Conosciamo questa specie di inno cosmico che egli inserisce nella stessa lettera sul tema dell’attesa della creazione: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui  che l’ha sottomessa – e nutre la speranza  di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione   geme e soffre  fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo…”. Paolo evoca il gemito della creazione tutta intera (8, 22), poi il nostro (8, 23) e in fine quello dello Spirito in noi (8, 26). Il più percepibile, dall’interno della storia, è il nostro, in quanto noi siamo membri di questa umanità attraversata dal male. Ma, secondo san Paolo, esso viene come eco a quello della creazione, presa “dalle doglie del parto”. Confrontato con questo gemito lacerante, il grido dello Spirito è “inesprimibile”, ma è esso che, nei nostri cuori, trasforma le grida dell’universo in preghiera. E’ lui che ci fa presentire che il parto nel dolore è quello dei “figli di Dio”.
Tra la tensione della creazione verso “la rivelazione dei figli di Dio” e “l’attesa impaziente della redenzione del corpo”, in noi che possediamo le primizie dello Spirito, si gioca una sorte di reciprocità. In effetti il corpo umano, sottomesso ai ritmi della natura e votato, come essa, all’inevitabile corruzione, è la garanzia  tangibile  della nostra appartenenza cosmica. Ma il gemito interore dello Spirito attesta una trasfigurazione escatologica della creazione, della quale la promessa glorificazione dei corpi è la garanzia. Nella sua bellezza e finitudine, i suoi ritmi e le sue rotture, la creazione tutta intera è tesa verso questa trasfigurazione futura. “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (8, 24-25).
2. Il ministero della speranza. Il Padre de Lubac, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, mi aveva fatto osservare un giorno, quando era ancora a Fourvière,  che i primissimi scritti cristiani cominciavano col citare preghiere di ringraziamento. Sono quelle dell’Apostolo Paolo, unite a quelle dei suoi compagni d’apostolato, secondo quanto leggiamo nelle prime righe delle sue lettere ai Tessalonicesi: “Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere… “ ( 1 Ts 1, 2s; cfr.  2 Ts 1, 3s). Del resto la maggior parte delle lettere di Paolo cominceranno così, mostrando quanto per lui la preghiera è al cuore del ministero. Amo in particolare quella che egli redige ancora al termine della sua vita, nella lettera agli Efesini: “ … il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi…” (Ef 1, 17-18).
 Mentre la lettera ai Romani, l’abbiamo appena richiamato, parlava della “speranza che non vede”, facendo piuttosto pensare a questo “specchio (con visione confusa)” del cantico della carità a proposito della fede (cfr.  1 Cor 13, 12), qui si parla della “speranza che ci attende nei cieli” (cfr. Col 1, 5), detto in altri termini, della speranza come oggetto della predicazione e del ministero. Non quindi una speranza provvisoria, fuggitiva, che deve scomparire, ma la speranza teologale propriamente detta, quella di cui Paolo ci dice giustamente, al termine dell’inno all’Agàpe, che essa non passa, che ella rimane per sempre con la fede e la carità, perché Dio è “sempre più grande”, perfino per i santi e per gli angeli! Ora è proprio di questa speranza che Paolo si sente ministro, una speranza fondata saldamente  su “Colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo di quanto possiamo domandare o pensare secondo la potenza che già opera in noi” (Ef 3, 20). Per lui questa speranza ha un nome, essa è personificata, è Gesù, il Cristo. Lo afferma nell’indirizzo che introduce la prima lettera a Timoteo: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio nostro Salvatore e di Cristo Gesù  nostra speranza” (1 Tim 1, 1). La “lettera di missione” che Paolo ha ricevuto direttamente da Dio non è dunque quella di un ministero di speranza che in qualche maniera sarebbe fondato su un’idea, una semplice formulazione o un sistema di valori, è quella del Dio vivente, quale si è rivelato nella nostra storia in Gesù il Cristo (cfr. 1 Tim 4, 10).
 “Vescovo per voi, cristiano con voi”: il celebre motto di sant’Agostino è vero di ogni ministero nella Chiesa. Quello dei preti, oggi più che mai, non si comprende che nel suo rapporto indissolubile al sacerdozio dei battezzati, come lo ha messo in luce la Costituzione Lumen gentium. Già in san Paolo, che non  esita a redigere, per esempio nel finale della lettera ai Romani, la lista dei suoi collaboratori nel servizio missionario, uomini e donne, giovani e coppie, questo legame appare  come attaccato sulla speranza che lo abita (cfr. Rm 16, 1-16). “La nostra speranza riguardo a voi è ferma, scrive egli ai Corinzi: sappiamo che, partecipando alle nostre sofferenze, voi parteciperete pure alla nostra consolazione” (2 Cor 1, 7). Se riprendiamo tutte le citazioni d’una preghiera costante per i  suoi corrispondenti, possiamo pure fare nostro, riguardo a tanti fedeli laici di oggi, quello che egli vi esprime  di riconoscenza: “…continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui” (1 Ts 1, 3-4).

Una lotta

 Ma noi sappiamo quanto un tale ministero fu egualmente fonte di tensioni per Paolo. Le
due lettere ai Corinzi sono eloquenti a questo proposito. Là intuiamo,  per esempio, la lotta che egli ha dovuto condurre  per non lasciare che questo ministero si lasciasse determinare da problemi di denaro. Confrontando le affermazioni delle sue lettere ai racconti degli Atti, possiamo notare che, tuttavia, questi problemi non furono secondari per lui. Se ne fece anche il testo d’un’ecclesiologia in prima gestazione, desiderando che la generosità verso i poveri della Chiesa-Madre di Gerusalemme da parte delle Chiese nate dai gentili, fosse segno di unità. Ma il ministero, esso, quali che fossero i suoi diritti, doveva restare libero, “per non recare intralcio al Vangelo di Cristo” (1 Cor 9, 12). Non è forse per noi un gran conforto vedere il lato appassionato di questo grande apostolo nella relazione che egli stringe, attraverso il suo  stesso ministero, con le diverse comunità che egli fonda o che aiuta a strutturarsi? Che ci può essere di più attuale che la sua focosa arringa davanti ai Corinzi, movendo dal conflitto che questi sembrano più o meno voler attizzare tra il ministero di Apollo e il suo? Fatte le debite proporzioni, credo che non sarebbe, senza dubbio, difficile  trasferire  alla situazione del ministero odierno ciò che egli scriveva  allora: “Già siete sazi, già siete diventati ricchi; senza di noi già siete diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi. Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all`ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi” (1 Cor 4, 8-13). Anche se questi ultimi tratti possono sembrare molto lontani (ma, per mia parte, penso al ministero di certi vescovi e sacerdoti cinesi, tra gli altri), l’insieme della descrizione mi sembra applicarsi mutatis mutandis alla nostra situazione.
 Per concludere provvisoriamente su questa tematica della speranza nel ministero in san Paolo, lasciatemi ritornare con voi sul “tesoro” che, egli ci dice, “noi portiamo in vasi di creta”. Ciò ci introdurrà del tutto naturalmente alla seconda parte di questo intervento. “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2 Cor 4, 8-10). L’attualità alla quale faccio allusione, per interpretare questi testi nel nostro presente, non è superficiale, essa si affonda nella carne della nostra esperienza di uomini e di preti. Senza pretendere di applicarci in maniera letterale o fondamentalista la parola di Paolo, è tempo di evocare alcune sfide cui noi siamo confrontati senz’altro qui e ora.

II. – La speranza per i preti di oggi

 Non so se voi avete letto la conferenza del Padre Timothy Radcliffe, l’anziano Maestro dell’Ordine dei Predicatori, su I preti e la crisi di disperazione nella Chiesa. L’aveva presentata negli Stati Uniti, per la federazione nazionale dei consigli presbiterali nell’aprile 2004. Questa conferenza, tradotta in francese,  è apparsa nella Documentation catholique nello stesso anno1. Merita la digressione. Noi parliamo del ministero della Speranza. Il Padre Radcliffe, lui, non teme di affrontare con una grande libertà le ragioni di una disperazione latente, che sembra ben oltrepassare i soli problemi del clero americano. Egli lo fa con il suo stile, il suo humour tutto inglese, ed è possibile che questa o quella osservazione da parte sua non ci piaccia. Ma questa conferenza ha per lo meno due meriti. Innanzitutto essa mette il dito sulle cause reali dello scoraggiamento più o meno larvato presso un grande numero di preti. Inoltre essa si sforza di proiettare su questa situazione la luce della speranza pasquale, specialmente a partire dall’Eucaristia.
Citiamo la sua costatazione di partenza: “Sono numerose le ragioni che spiegano  che noi possiamo essere demoralizzati… La maggior parte delle diocesi e degli ordini religiosi soffrono per mancanza di vocazioni. Numerosi sacerdoti sono partiti, senza parlare dei terribili scandali di pedofilia e del modo con cui questi sono stati trattati. Che voi siate demoralizzati  è dunque del tutto comprensibile”. Padre Radcliffe aggiunge che se è già imbarazzante essere demoralizzati per un autista di taxi, un  avvocato, un ragioniere o un barbiere, ciò non è necessariamente incompatibile con l’esercizio della loro professione. “Invece, egli aggiunge, un sacerdote che non è mai su di morale, è colpito nella sua capacità di adempiere la sua missione”.
 Per tentare di ridare il gusto della speranza, la sua argomentazione va quindi a posarsi sul racconto dell’Ultima Cena, non nella forma paolina (collocata già in un clima di crisi, quella della Chiesa di Corinto già divisa) ma nei Sinottici. Ascoltiamo ancora Padre Radcliffe: “Osservate l’Ultima Cena. Si  tratta della nostra storia fondante, la storia della Nuova Alleanza di Dio con noi. Il paradosso è che l’Ultima Cena ha luogo in un momento in cui i discepoli perdono il filo della storia. E’ chiaro ch’erano arrivati a Gerusalemme  pieni di speranza. Forse credevano che il Messia stava per mettersi alla testa d’una ribellione contro i Romani. Come l’hanno confessato i discepoli sulla via di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele!” (Lc 24, 21). Ma tutto crolla al momento della Ultima Cena. Giuda ha venduto il Cristo, Pietro è sul punto di tradirlo e il resto dei discepoli si prepara a fuggire… Il nostro sacramento della speranza ci racconta la storia della perdita d’ogni speranza”. Per concludere: “In quanto cristiani, non dobbiamo temere la crisi che la nostra comunità attraversa attualmente. Le crisi sono la “specialità della casa” (in francese nell’originale; cfr. più sopra: “le tribolazioni per le quali noi siamo fatti”, 1 Ts 3, 3). La Chiesa è nata da una di queste. Esse la rinnovano e la ringiovaniscono. Come questa crisi qui, si domanda egli alla fine, ringiovanirà la nostra Chiesa tanto amata?”.
E’ facile ritrovare questo testo e lavorarlo, se possibile in équipe, poiché, come lo ricorda Padre Radcliffe citando Pastores  dabo vobis, “il ministero ordinato è di natura  comunitaria” e non può essere adempiuto (e quindi neanche riflettuto) che come “opera collettiva” “Conservando nella  memoria questa conferenza, non ritornerò sui tre argomenti che tratta: distanza sperimentata così di frequente tra il discorso sull’ideale cristiano e l’esperienza reale  della gente (ivi compresa la nostra), problema – non assai nuovo, ma struggente a lungo andare – dei conflitti all’interno della Chiesa, infine il dramma degli “scandali che hanno mortificato la Chiesa  in questi ultimi anni”. Credo piuttosto di parlarvi brevemente di tre altre questioni:
1. Verità mediatica e verità della fede – 2. L’amore nel celibato sacerdotale – 3. Ministero dei preti e missione dei laici. Per restare, a proposito di questi temi di vita, alla trama che ci ha guidati fin qui, io mi riferirò ogni volta all’Eucarestia, ma nel racconto dell’ultima Cena in san Paolo.
1. Verità mediatica e verità della fede. Enunciandola così la contraddizione salta agli occhi. E’
quella che noi abbiamo provato recentemente al momento dell’agonia e della morte di Giovanni Paolo II e poi, poco dopo, al momento dell’elezione di Benedetto XVI. Quanti di quelli che avevano giudicato in maniera perentoria e da lungo tempo, che Giovanni Paolo avrebbe dovuto dare le dimissioni, sono stati costretti a rivedere le loro idee davanti alla marea umana che si è riversata, dappertutto nel mondo, al momento della sua morte  e davanti alla gratitudine espressa talvolta là dove la si sarebbe meno attesa? Come non rilevare questo sensus fidelium presente tra gli umili della terra e che si fa beffa perfettamente dei pregiudizi di ciò che si ritiene ecclesiasticamente corretto? Riguardo  alle prime reazioni suscitate nella stampa europea attorno alla personalità di Benedetto XVI, esse hanno semplicemente riflettuto un apprezzamento unilaterale, politico, del suo ministero anteriore, arrivando talvolta fino alla caricatura e alla calunnia, senza la comune misura  con la dimensione spirituale dell’avvenimento e della persona. Ma forse non lo potevano?
          Non è che un esempio, ma è emblematico, della questione della verità nel mondo mediaticizzato. Come superare la tentazione di stimare vero ciò di cui “si” parla  e come non dedurne che ciò di cui si parla non è “vero” che alla maniera con cui i media ne parlano? Non si tratta però per reazione di rigettare a priori  l’accostamento che fanno i media a un avvenimento. Giovanni Paolo nella enciclica Remptoris missio   (1990) ci ha insegnato a considerare il mondo della comunicazione come “il primo areopago dei tempi moderni”, e questa  espressione ci colloca nel solco dell’apostolo Paolo ad Atene. Ma per avanzare su questa via, noi dobbiamo, in un primo tempo, esercitare il nostro senso critico. Mi domando se, per noi preti in modo del tutto particolare, una nuova forma di digiuno non sarebbe di cercare di tanto in tanto di abbassare il sipario del piccolo schermo per consacrarci alla meditazione e alla preghiera. Così, saremo più disposti a “discernere”, nella massa delle informazioni, “tutto ciò che vi è di vero, tutto ciò che è nobile, giusto, puro, degno d’essere amato, d’essere onorato, ciò che si chiama virtù, ciò che merita lode “ (cfr. Fil 4, 8).
Adopero di proposito il termine “discernere” (diakrìnein)  nel senso che ha per san Paolo nel
racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: “Colui che mangia e beve senza discernere il Corpo del Signore mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29) Ciò non vuol dire che la fede che ci fa riconoscere questo Corpo santissimo nell’Eucarestia serve in maniera univoca per la valutazione che noi esercitiamo sull’attualità. Ma ciò indica una via per ricercare la verità dei fatti e delle persone, con l’intelligenza avvertita di coloro per i quali  tutto non è eguale. Nel racconto dell’Ultima Cena, l’Apostolo domanda di non banalizzare il Corpo consacrato. Analogicamente siamo chiamati a cercare la verità in mezzo al mondo come “uomini nuovi creati secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità” (cfr. Ef  4, 24).
2. L’amore nel celibato sacerdotale. Evocavo i numerosi passaggi delle lettere di san Paolo
che portano il segno d’un ministero apostolico vissuto in stretta relazione con vari collaboratori., uomini e donne, coppie, famiglie, comunità. Nell’attenzione che il mio proprio ministero di vescovo mi dà di fare al ministero dei preti della mia diocesi, sono stupito, nella loro esistenza concreta, per il posto di queste amicizie annodate nel corso della loro vita sacerdotale e delle responsabilità successive che hanno avuto. Questa dimensione sfugge, molto di frequente,  ancora là,  a coloro che pur sono assennati nel parlare nei media del celibato dei preti. Piacerebbe convocare certi giornalisti  ai funerali dei preti. Toccherebbero con mano ciò che vuol dire la fecondità d’una vita consacrata  a Gesù e alla Chiesa.
Certo, tutti siamo coscienti delle nostre fragilità. Dal clima di eroticizzazione delle nostre
società e a faccia della poca stima apparente di cui gode il prete, per lo meno in Francia, la castità dell’amore sacerdotale è diventata un mistero nascosto, perfino ai nostri occhi. Forse è là che l’amicizia tra preti, la partecipazione regolare delle gioie e delle sofferenze del ministero, meritano d’essere sostenute e vissute con una preoccupazione d’adattamento costante delle nostre diverse condizioni umane  della vita e della salute a situazioni pastorali esse stesse mutevoli. E’ uno dei ruoli del Consiglio presbiterale, tra i vari Consigli voluti dal Concilio, di farvi attenzione in comunione con il vescovo.
In fondo tuttavia questo problema non potrà trovare soluzione soddisfacente in una sorte di
vaso chiuso tra i preti. E’ tutta la Chiesa  cattolica  che deve sentirsi chiamata a ritrovare non già il senso del celibato solamente, ma una giusta stima dell’amore, sia esso coniugale nel matrimonio o altrimenti “nuziale”, oso dire, nel celibato consacrato. Se qualcuno ne ha reso testimonianza, nella sua vita d’uomo, di prete, di vescovo e di papa, è ben Giovanni Paolo II. Vi confesso d’essere stato io stesso rinvigorito, una sera a saint-Denis, dove mi è stato dato d’assistere in una antica officina abbandonata, al lavoro di teatro scritto da Karol Wojtyla “a” Cracovia a “su” Cracovia, intitolato La bottega dell’Orefice2. Accompagnata da un bel oratorio, secondo la tradizione del ”teatro rapsodico”, essa ha come sottotitolo Meditazioni sul sacramento del matrimonio che di tanto in tanto si trasforma in dramma. Come è successo che sono uscito da questa rappresentazione “rinvigorito”? Il lavoro non fa mai allusione al celibato come tale. Esso si svolge tutto interamente attorno all’amore coniugale, sulle modalità della più pura gioia  degli amanti o delle pene inerenti ai diversi conflitti della coppia, un po’ come ne L’Annonce à Marie di Paul Claudel. Ma giustamente, sono uscito di là impregnato da una coscienza ancora più viva che il celibato, donato per amore, è, esso pure, un bel mistero umano da vivere secondo la differenti tappe e le diverse età dell’esistenza, nell’umiltà e nel ringraziamento. Giovani Paolo II ha continuato con felicità la sua riflessione sull’amore nelle catechesi del mercoledì, dal 1979 al 1984. Non mi sembrerebbe troppo consigliarne la (ri)-lettura meditata, a piccole dosi 3. Al di là del teatro o di queste catechesi di Giovanni Paolo II, riconosciamo come la
dimensione eucaristica di tutto l’amore cristiano rimane ancora nascosta nel racconto  dell’Ultima Cena in Paolo e nei Sinottici. Ogni giorno noi preti ripetiamo queste parole, sotto una forma simile, in persona  Christi: “Questo calice è la nuova Alleanza nel mio sangue…” (1 Cor 11,  25). Il sacramento del matrimonio lega gli sposi a questa “alleanza”, e “questo mistero è grande” (cfr. Ef 5, 32). Quanto al nostro sacerdozio, offrendoci noi stessi ogni volta che celebriamo la Messa insieme con l’unico Prete, noi rinnoviamo la nostra consacrazione al suo servizio”per la moltitudine”.
3. Ministero dei preti e missione dei laici. Sarà una scommessa volere dire qualcosa di nuovo
su questo vasto problema in poche parole. Se ho scelto di affrontarlo, quand’anche in conclusione di questa conferenza, è perché esso è al cuore  del nostro ministero della speranza nella quotidianità dei giorni. Quando penso alle 83 parrocchie della mia diocesi e alle altre “comunità cristiane di vicinanza” che tentiamo di farvi vivere, ho una doppia preoccupazione. Quella, costante, da una parte, di rianimare o di attìzzare la fiamma del Vangelo  che brucia in mezzo all’umanità polifonica  di questa grande regione. E, d’altra parte, quella di trasformare, per quanto possibile, il sentimento di reale povertà che ci stringe (ometto qui i dettagli d’ordine statistico) in una occasione di rinascita evangelica.
La fiamma del Vangelo, nel tessuto denso delle nostre 40 città (diversamente senza
dubbio dai comuni molto più numerosi e talvolta dispersi delle vostre diocesi), dipende innanzitutto dall’interiorità e dal vigore della fede dei laici o delle persone consacrate. Io, per esempio, constato che là dove una comunità religiosa, in un “quartiere sensibile” diffonde attenzione  assai vicino agli abitanti, la speranza  è pronta a rinascere, si risvegliano delle generosità. Si allacciano dialoghi di vita con credenti di differenti religioni o con “uomini di buona volontà”. Ma soprattutto là dove un uomo o una donna apostoli, un consacrato o una consacrata o un laico (laica), là dove un diacono, un prete ama Gesù e ama i suoi fratelli e sorelle nell’umanità, la sua testimonianza ne guadagna altre, da vicino a vicino, e la viva fiamma del Vangelo  cresce, incerta agli inizi, poi di più in più chiara e pura. Spetta a noi scoprire  questi testimoni, sostenerli, accompagnarli incoraggiandoli perché portino un frutto di vita. Con essi, forse noi scopriremo dei talenti sommersi fino ad ora. Voglio dire: prima di  lamentarsi di non aver nessuno formato sul territorio, noi sapremo “discernere” i  battezzati pronti ad agire secondo le loro possibilità, posto che li si chiami.
Finalmente, la fonte di un’autentica rinascita per il ministero, nel suo rapporto con la
missione dei laici, è ancora e sempre da ricercare nel paradigma eucaristico. “Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver rese grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me” (1 Cor 11, 23b-24). Dopo il Concilio amiamo dire che l’Eucaristia  è “fonte e vertice della vita cristiana”. Ciò vale dunque anche della relazione tra preti e laici nei compiti ordinari della Chiesa. Sono vissuti sul modello del dono di sé, nell’amore e nella speranza? Il “fate questo in memoria di me” ha un’applicazione liturgica e sacramentale che si attua nella celebrazione del “mistero della fede”, dove ognuno trova il suo posto proprio in unione con l’unico sacrificio di Cristo. Ma questo “fate… “ trova ugualmente la sua applicazione nella divisione dei compiti al servizio della “moltitudine” per la quale questo sacrificio è offerto. Secondo l’antica formula del rito dell’ordinazione: Imitate quod tractatis, “imitate ciò che celebrate”. Allora il memoriale del Signore diventa veramente vertice di tutta la vita e fonte di speranza nella pratica del ministero.
        
+ Olivier  de Berranger  -  vescovo di Saint-Denis (Francia)

da (Prêtres Diocésaines 12/2005)
traduzione di don Antonio Dusini

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1) Documentation catholique N. 2322, 17.10.2004, p. 888-895.
2) Karol Wojtyla, La bottega dell’Orefice, e altri drammi, p. 5-91, Ed. Club della Famiglia,  1991      
     Milano.
3) Karol Wojtyla, Uomo e donna lo creò, catechesi sull’amore umano, Ed. Città Nuova,  1985
   Roma

JÜRGEN MOLTMANN: CHIAMATI ALLA SPERANZA

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/moltmann_esperienzedidio2.htm

JÜRGEN MOLTMANN

CHIAMATI ALLA SPERANZA

1. IL COMANDO DELLA SPERANZA

Gli uomini vengono chiamati ad una speranza duratura. La vera speranza non si fonda sul fluttuare dei nostri sentimenti e nemmeno sul successo della nostra vita. La vera speranza, cioè quella permanente e fondante, ha la sua base nell’appello e comando di Dio. Noi siamo chiamati alla speranza! Essa è un comando, un comando di resistere contro la morte. È un appello, l’appello alla vita di Dio.
La speranza permanente non ce la portiamo dietro dalla nascita, né l’acquisiamo dall’esperienza, e quindi dovremo apprenderla. Noi impariamo a sperare quando seguiamo l’appello. Impariamo a sperare nelle esperienze del nostro vivere. Impariamo a conoscere la sua verità quando veniamo costretti ad affermarci contro la disperazione. Impariamo la sua forza quando vediamo che essa ci sostiene in vita in mezzo alla morte.
Ma si dà una vocazione alla speranza? Si può essere comandati a sperare? La speranza è un obbligo?
Ciò suonerà strano per tutti coloro che considerano la speranza come un’ affezione del cuore od un’esuberanza giovanile. Ed anche per quelli che hanno riposto la speranza nell’esperienza o nelle previsioni di una storia. Ciò che personalmente io ho imparato dall’esperienza, fatta con la speranza, è che la speranza è più di un sentimento, più di un’esperienza. La speranza è anche più di una previsione. La speranza è un comando. E seguirlo significa vivere, sopravvivere, perseverare, mantenersi in vita finché la morte non sia inghiottita nella vittoria. Obbedire a tale comando significa: non essere mai rassegnati, né concedere mai rabbiosamente spazio alla distruzione.
Crisostomo, un Padre della chiesa, diceva: «Ciò che ci porta alla sventura non sono tanto i nostri peccati quanto la disperazione». Oggi diremmo: la frustrazione. Il comando della speranza è invece la forza, la forza di tutti i comandamenti che ci mantengono in vita e ci portano alla libertà. Questo imperativo suona: «lo vivo ed anche voi dovete vivere», «chi persevererà fino alla fine sarà salvo».
E che cosa esige da noi, oggi, il comando della speranza? Che cos’è che ci dà la forza della speranza?
Parlerò innanzitutto della nostra perdita di speranza e indicherò i luoghi nei quali la speranza viene affossata, indicherò per nome le situazioni nelle quali la speranza si stravolge in ansia per il futuro. Parlerò poi della fede che rende possibile la conversione e della prassi di una speranza da ricuperare. Infine mostrerò in che modo) attraverso il futuro di Gesù Cristo, la nostra speranza venga ridonata, ricuperata e rigenerata.

2. NELLA CONTRADDIZIONE APERTI ALLA SPERANZA

«Chiamati alla speranza» è una locuzione biblica. Sta ad esprimere la vita della comunità di speranza del Nuovo Testamento. Chi crede sa di essere rigenerato ad una speranza vitale. Per mezzo della risurrezione di Cristo dai morti gli è stato dischiuso un futuro incomparabile, perché non destinato a scomparire. Il regno della libertà e della pace di Dio, per il rinnovamento del cielo e della terra, si pone come una realtà indistruttibile e certa. Chi crede è disposto a render conto a ciascuno «della speranza che è in noi»: sia di fronte ai giudici che condannano alla prigionia, come di fronte alle masse prigioniere. Dalla speranza di Cristo vien generato il nuovo popolo di Dio, costituito di giudei e pagani, servi e padroni, uomini e donne, umanità e creazione. In effetti la Bibbia dell’Antico e Nuovo Testamento è il libro delle promesse di Dio e speranze degli uomini.
Chiamati alla speranza: questo motto del Sinodo evangelico del ’79 non esprime, invece, il sentimento del cristianesimo borghese e della religione amministrata nella Repubblica Federale di Germania. Al contrario, il nostro modo di sentire è piuttosto quello dell’angoscia, di un atteggiamento d’attesa indeterminato, cupo, che s’aspetta sempre il peggio, quello di una mestizia che non riconosce qualcosa di positivo né a se stessi né ad altri. Nel ’78 sono state condotte due complesse analisi sulla Germania, una negli USA, l’altra in Inghilterra. Entrambe hanno rilevato un tratto tipico dei tedeschi, che non è più quello della smania del lavoro né quello più accreditato del miracolo economico e neppure quello della straordinaria stabilità del marco, ma quello dell’angoscia dei tedeschi. Indubbiamente questa dipende anche dall’esecrabile ondata di terrore che si è riversata sulla Repubblica Federale, spesso con la reazione isterica da parte dell’opinione pubblica. Ma l’angoscia dei tedeschi non ha origine soltanto dal terrore. Le sue radici sono più profonde. Spiega perché tanti individui vedano il futuro soltanto come una minaccia del loro presente e non più come possibilità per il nuovo. Spiega perché tanti giovani non abbiano soltanto paura della morte ma già della vita stessa. E spiega ancora perché alcuni non capiscano più il mondo e cerchino i grandi colpevoli. Quest’angoscia generalizzata ci rende ricattabili e quindi pure aggressivi, rabbiosi. Ciò che di meglio parecchi s’attendono dal futuro e che vien loro promesso nei discorsi di Capodanno è la continuazione del presente che già possiedono, è la sicurezza dei ritmi di crescita anno per anno. Non vogliamo condannarli ma concretamente ci chiediamo quando abbiamo distrutto il nostro futuro, dove abbiamo seppellito la nostra speranza. Mi sia consentito di elencare in tutta franchezza tre cose per mezzo delle quali ritengo abbiamo distrutto il nostro futuro e tramutato la nostra speranza in angoscia:

a. Sulla terra esiste soltanto un popolo della speranza. È il popolo di Dio dell’antica e della nuova alleanza. Avendo gli ebrei e cristiani una comune speranza nel Messia, in ‘Colui che viene’, si trovano pure insieme sulla strada che conduce al regno ed al futuro di Dio, per cui vengono insieme perseguitati e insieme dovranno soffrire. Quando Israele è condotto al macello, se la causa è giusta è la chiesa stessa che lo accompagna. Però quando ciò si verificò nell’olocausto del Terzo Reich le chiese di Germania non erano presenti. Stipulavano concordati, lottavano per la propria sopravvivenza e cercavano di salvare se stesse. Certo, alcuni camminarono a fianco degli ebrei e con loro condivisero fedelmente l’unica speranza. Ed è vero anche che alcuni individui aprirono le porte ai perseguitati, furono loro stessi perseguitati e di fronte al pubblico odio conservarono l’amore. Questi sono i rappresentanti della speranza fino ai giorni nostri. Ma le chiese nel loro complesso furono troppo chiese di stato e s’affidarono troppo all’autorità per cercare ancora in Israele la propria speranza. Là, ad Auschwitz e Maidanek e negli altri lager di morte, con il loro silenzio e loro avversione per gli ebrei, i cristiani hanno tradito il proprio futuro ed affossato la propria speranza. Dove venne annientato il popolo ebraico della speranza, qui venne annientata anche la speranza cristiana. E penso che dobbiamo vederlo in tutta chiarezza: dal silenzio sull’annientamento della speranza ebraica è nato in noi lo stravolgimento della nostra speranza in angoscia, una angoscia di colpa. La chiave per la rinascita della nostra speranza sta ad Auschwitz!

b. Nelle società del benessere si diffonde ovunque lo scoraggiamento di massa. C’è un nesso tra angoscia e benessere? Di per sé no, ma concretamente molto stretto quando si tratta di un benessere ingiusto, conseguito a spese di altri uomini e popoli. E noi nella Repubbica Federale viviamo a spese delle popolazioni povere? I portavoce di quelle popolazioni lo affermano:
la vostra speranza – essi dicono – è la nostra disperazione! Gli esponenti dell’economia tedesca e della nostra politica lo negano. Ma ce lo attesta la nostra angoscia di fronte al futuro: non si può essere felici e non aver speranza. Ed è ciò che si verifica quando si vive in un’isola del benessere, in mezzo ad un mare sempre più vasto di povertà. Ci si può difendere da questo mare di gente affamata rifiutandosi di aprire gli occhi, aumentando le restrizioni doganali per le importazioni, elevando il prezzo delle esportazioni e attingendo il ricavato per versarlo come elemosina sotto forma di aiuti destinati allo sviluppo (che non raggiungono comunque nemmeno lo 0,7 % del prodotto sociale lordo). Ma allora non avremo nemmeno più un futuro nel quale poter sperare. Se le nazioni ricche garantiscono i loro patrimoni di fronte alle rivendicazioni delle nazioni povere, annullano anche il loro proprio futuro ed affossano la propria speranza. Sintomatici a tale proposito sono la crescente perplessità, la diffusa tristezza, anzi il cinismo. La chiave per la rigenerazione della nostra speranza sta colà ove l’abbiamo sepolta: nei popoli sfruttati ed oppressi e nella loro liberazione!

c. Infine, le speranze che le nostre società hanno investito nell’edificazione del loro potere industriale hanno da tempo ormai cozzato contro i limiti dello sviluppo. La degradazione dell’ambiente, la distruzione della natura ed i rischi mortali delle centrali atomiche stanno ad indicarci la fine di un cammino. Certo, la nostra fede nei ritmi di crescita è rimasta ancora intatta, tanto che siamo ancora disposti a sacrificarci per essa. Ma è anche vero che lentamente, e sicuramente, una simile superstizione si tramuterà in pena. Alle ‘crisi’ economiche rispondono le crisi spirituali sempre più diffuse, dato che molti avvertono come stiamo costruendo dei palazzi ma scavando la fossa per la creazione e per noi stessi. Su questa via non realizziamo la speranza ma l’affossiamo. Non otteniamo alcun futuro contro la natura nella quale viviamo. E se la natura verrà irrimediabilmente distrutta, con essa conoscerà la fine pure il nostro futuro. La chiave per la rigenerazione della nostra speranza sta colà ove noi minacciamo di annientare il futuro della creazione!

Finché il nostro futuro porterà altri uomini alla disperazione,
finché il nostro benessere significherà povertà per altri,
finché la nostra ‘crescita’ distruggerà la natura,
chi quotidianamente ci accompagnerà non sarà la speranza ma l’angoscia.

3. FEDE CHE RENDE POSSIBILE LA CONVERSIONE

«La fede che apre al futuro» è innanzi tutto una fede che rende possibile la conversione. E la conversione è la prassi della speranza vitale. Chi non ha speranza, chi non vede avanti a sé un futuro, non può convertirsi. Prima, invece che di conversione, si parlava di penitenza. Ma nella nostra lingua questo termine ha un sapore di punizione: chi fa penitenza si punisce finché non ha rimediato agli errori del passato. Per la Bibbia, invece, penitenza è conversione, e conversione è conversione al futuro: conversione al Dio vivente e quindi avversione dalla morte e da tutte le potenze che distruggono la vita. La speranza nel futuro è possibile soltanto quando si riconosce onestamente il passato e lo si accetta senza autogiustificarsi. Senza dubbio ogni av-versione, anche quella dalle vie che portano alla morte, è dolorosa, perché significa congedarsi da abitudini ormai inveterate, diventateci familiari. Ma la gioia per il futuro della vita è incomparabilmente maggiore. Conversione è gioia di Dio e degli uomini, come ci attesta il vangelo di Luca (cap. 15,10). Con il moto della conversione la speranza ritorna alla nostra vita. Soltanto attraverso la conversione noi siamo nuovamente certi del futuro.
La conversione afferra la nostra vita intera. Non le basta un cambiamento del modo di sentire ma esige una nuova prassi di vita. Né sono sufficienti le buone intenzioni. Tutto ciò che viene inserito nel movimento della conversione diventa ricolmo di speranza. Tutto ciò che le rimane al di fuori resta morto e privo di senso. Per questo esiste anche una conversione politica ed economica al futuro. Chi nel movimento della conversione vuol fermarsi a mezza strada e la comprende in modo puramente interiore, religioso o spirituale, blocca il suo futuro e distrugge la sua speranza. E lo devono capire anche le istituzioni teologiche ed ecclesiastiche: le ideologie borghesi e le religioni amministrate non aprono al futuro né rendono possibile la conversione. Esse vivono di paure e diffondono soltanto fallaci sentimenti di sicurezza.
Dove diventa oggi attuale quella fede che rende possibile la conversione?

La fede che rende possibile la conversione si rende attuale

a. nella conversione dei cristiani agli ebrei e della chiesa ad Israele. «Vivere da ebreo dopo Auschwitz è un comando della speranza», scriveva il filosofo ebraico Emil Fackenheim. Dopo Auschwitz essere tedeschi e vivere da cristiani è prima di tutto un ordine a ricordare, contro ogni desiderio di dimenticare. Soltanto se siamo risoluti a non dimenticare mai ritroveremo pure la nostra speranza e ci sarà un futuro anche dopo Auschwitz. Chi reprime questo passato o si scoraggia di fronte al peso che esso gli impone, dà a Hitler una vittoria postuma. La disponibilità ad essere sempre veri senza condizioni, deve accompagnarsi alla rinuncia alla propria giustificazione. E questo non vale soltanto per i singoli ma soprattutto per le istituzioni, ad esempio le chiese. Nella misura in cui accettiamo dolorosamente il nostro passato, disporremo anche della speranza che ci libera ad un nuovo futuro. Ed allora ci sentiremo pure felici nel constatare che i cristiani e gli ebrei, come giustamente Martin Buber osservava, hanno due cose in comune: un libro ed una speranza. La comunione degli ebrei e cristiani in questa speranza oggi implica pure la partecipazione alla storia ed anche alla storia del paese e stato d’Israele.

La fede che rende possibile la conversione si rende attuale

b. nella comunione conviviale con le genti povere ed oppresse e nella condivisione dei loro pesi. L’azione ‘Pane per il Mondo’ e gli aiuti allo sviluppo sono necessari, ché altrimenti molti uomini morirebbero di fame. Ma nel periodo storico che stiamo attraversando ciò che ha una priorità assoluta è l’edificazione di un ordine economico mondiale fondato sulla giustizia. Il problema non è ciò che noi possiamo dar loro ma quando cesseremo di prendere da loro. Le popolazioni povere non sono il nostro ‘problema’, ma siamo noi, popoli ricchi e industrializzati, il loro problema. E questo loro problema viene qui, da noi e attraverso noi, risolto od acutizzato. I più anziani si ricorderanno della ‘ripartizione di pesi’ del ’45. Benché tale ripartizione fosse imperfetta, l’idea era giusta: ripartire diversi pesi non è un problema di aiuto ma di giustizia. Noi dobbiamo sopportare insieme la sofferenza della fame, della mortalità infantile e della disoccupazione che regnano nel mondo. E questo non è un problema che si potrebbe risolvere aumentando le elargizioni. A queste miserie di massa si potrà rispondere soltanto con un nuovo tipo di comunione. L’ecumene e la solidarietà hanno inizio con una ripartizione della sofferenza. Una ricchezza ingiustamente acquisita rende i poveri ancor più poveri e i ricchi soli e tristi. Ripartendo i diversi pesi anche noi guadagniamo qualcosa: la fiducia degli altri popoli e la comunione con gli altri uomini. Tale comunione non ha forse più valore dei ritmi di crescita del nostro benessere?
La speranza esiste soltanto attorno al desco comune. Secondo un vecchio detto giudaico sulla speranza, il Messia verrà quando tutti gli ospiti avranno preso posto a mensa. E per i cristiani il Messia Gesù non è forse venuto perché tutti gli ospiti si sedessero attorno ad una tavola? E noi perché lo impediamo?

La fede che rende possibile la conversione diventa attuale

c. nella comunione con r ambiente naturale. Dallo sfruttamento – delle ricchezze del sottosuolo – al potere: è stata questa la via fin qui seguìta dall’umanità nel suo cammino verso la libertà. Modo di procedere comprensibile in un tempo in cui l’uomo si trovava esposto alle forze oscure della natura. Con lo sfruttamento, da schiavo egli si rese padrone della natura. Ma questa via è ormai giunta alla meta. Essa non ci conduce ad una maggior libertà ma si capovolge in una nuova dipendenza, perché in ultima analisi è l’uomo stesso che in quanto fattore di insicurezza deve venir superato per rendere possibile l’accesso all’era atomica. I rischi derivanti dall’impiego della forza nucleare e il controllo elettronico della popolazione sono i primi sintomi della distruzione della salute e dignità degli uomini. Dobbiamo cambiar rotta prima che gli uomini stessi, presi dal panico, non giungano all’autodistruzione collettiva. La nostra speranza sta in un nuovo patto con la natura. L’antica concezione della natura era fondata sullo sfruttamento rapace di un ‘bene senza padrone’. Come dice il profeta, si trattava di un patto con la morte, la morte della natura. Il nuovo patto sarà un patto di cooperazione, di simbiosi e di riconoscimento del diritto vitale dell’ambiente della natura. Solo questo patto ci condurrà alla vita. Solo esso c’infonderà nuovamente la speranza nel futuro. Soltanto questa via ci porterà alla libertà, se vera libertà non significa potere ma amicizia.

4. LA CONVERSIONE CHE TROVA IL FUTURO

Chi prova angoscia per il futuro non può convertirsi, anche se lo vuole. Chi crede in una fine catastrofica del mondo non si convertirà, perché non avrebbe senso. Chi davanti a sé non vede alcun futuro continua ad andare avanti come sempre, finché cadrà all’indietro, nella buca che lui stesso si è scavato. Per convertirsi bisognerà avere la forza di una speranza che trasforma la vita e vince il modo. Ma noi scopriamo la forza di una simile speranza soltanto quando troviamo e riconosciamo chiaramente il fondamento della speranza stessa. Qui non intendo riferirmi a delle argomentazioni che – pesate e ripesate  – ci conformerebbero la speranza. Intendo invece la sorgente vitale da cui questa forza promana. E la sorgente vitale della speranza sta in un futuro dal quale ci vengono continuamente un nuovo tempo, una nuova possibilità ed una nuova libertà. È il futuro che troviamo in Gesù Cristo.
È lui il nostro futuro. È lui la nostra speranza. Nella conversione che la fede ci rende possibile noi troviamo lui, il nostro futuro e la nostra speranza. Che cosa significa? Vorrei precisarlo illustrando tre punti di orientazione:

a. Rigenerati ad una speranza vitale per mezzo della risurrezione di Cristo dai morti.
La risurrezione di Cristo e la nostra rinascita sono strettamente congiunte (1 Pt 1,3). Non si dà l’una senza l’altra. L’inizio della nuova vita di speranza in noi è la risposta che diamo a questa grande svolta di tutte le cose che va sotto il nome di ‘risurrezione di Cristo dai morti’. Al tempo stesso la sua risurrezione dai morti mira alla nostra rinascita dall’angoscia alla speranza e tramite essa alla rigenerazione di tutte le cose.
Chi ha capito la Pasqua ha trovato una speranza permanente. Ed è vero. Chi avendo accettato la Pasqua è ripieno di questa speranza permanente, non trova indifferenti le speranze a corta scadenza che si profilano nella vita di ogni giorno. Al contrario, le nostre speranze quotidiane attingono da quella speranza permanente e questa opera su di esse come un fuoco purificatore: brucia i germi della presunzione e il marciume della rassegnazione. Le indirizza e le eleva.
Questo però non significa prendere la risurrezione di Cristo alla lettera e concepirla in modo corporeo? Non si dovrebbero addurre delle prove storiche? Mi sia consentito dire in tutta brevità che per me le prove storiche, per ciò che nella storia è comprovabile, sono estremamente utili. Provare qualcosa significa sempre inquadrarlo come nuovo nel sistema di ciò che già si conosce. Ma la nostra storia è dominata dalla colpa, dalla sofferenza e dalla morte. La risurrezione di Cristo dai morti pone in questione proprio questa storia e questo sistema di colpa, sofferenza e morte. Per questo essa non è comprovabile in questo sistema. Il nostro mondo, si diceva in passato, non può sopportare la giustizia di Dio. Per tale motivo la giustizia futura di Dio trasformerà il mondo dalle fondamenta e farà nuova ogni cosa. Se trovassimo delle prove storiche, se disponessimo di testimonianze autenticate in forma notarile, se riuscissimo a produrre delle argomentazioni di tipo archeologico che ci assicurassero l’esistenza di un sepolcro vuoto, forse che sorgerebbe la fede? Verremmo forse rigenerati ad una speranza vita:le? È molto più probabile che ci limiteremmo a dire: ‘Ah, ecco!  » a registrare un fatto che non conoscevamo, per poi continuare a vivere come prima.
Ben diversamente andranno le cose se non continueremo a vedere la risurrezione di Cristo nella prospettiva della storia ma la storia nella prospettiva della risurrezione. Allora ci accorgeremo che la costrizione esercitata dal male è stata piegata, che la vita è più forte della morte. Ora il corso ormai noto delle cose ci riesce incomprensibile, ci fa soffrire, ci fa sperare nella sua definitiva conversione. Credere non significa prendere conoscenza di un fatto che chiamiamo risurrezione, credere significa fare esperienza di quel potere creatore di Dio che realizza ciò che è impossibile. Credere significa risollevarsi dall’indolenza e tristezza e prendere parte al processo della risurrezione. La risurrezione di Cristo è il mezzo di cui Dio si serve per donarci la vita nuova. La rigenerazione alla speranza è il modo in cui noi conosciamo Cristo.
Se vediamo la storia nella prospettiva della risurrezione di Cristo, dobbiamo riprendere la parola della rigenerazione, un termine da tempo dimenticato nel protestantesimo delle chiese territoriali, dove come è noto ci si trova già bell’e nati. Nel Nuovo Testamento si usa di rado il termine ‘rinascita’, il cui contenuto però è presente ogni qualvolta si accenna al battesimo. Mt 19,28 parla innanzi tutto della rinascita – palingenesi – dell’intero cosmo quando il Figlio dell’Uomo verrà con il regno della sua gloria. La speranza di rinascita assume quindi delle proporzioni mondiali e cosmiche. Per la prima volta nella lettera di Tito (3,5) si parla della rinascita dei credenti secondo la misericordia di Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Fin d’ora e già qui essi diventano eredi della vita eterna secondo la speranza. Secondo Matteo, poi, l’aspettativa universale della rinascita del cosmo viene già sperimentata dai credenti nella loro stessa vita. Nella rigenerazione dell’uomo singolo viene anticipata addirittura la rinascita della creazione intera. È questo il motivo permanente del fatto che anche la nuova vita dei credenti risulta caratterizzata da una speranza invitante, inclusiva ed aperta all’intera creazione. La nuova vita della speranza non assume i connotati dell’esclusione, quasi che uno potesse salvare solo se stesso e i suoi simili lasciando che il resto del mondo vada in perdizione. Chi è rinato alla speranza vede il futuro per il mondo intero e non soltanto per se stesso. Per questo egli non potrà rinunciare a nessun uomo ed a nessun settore della nostra vita.
«Se io dovessi rinunciare alla speranza anche per un sol uomo ed un solo brano della creazione, per me Cristo non sarebbe risorto» (Chr. Blumhardt).
Questa rinascita congiunge quindi la nostra vita di uomini, cosi misera ed insignificante, con il futuro di Dio per la creazione intera. Essa dà alla nostra vita, cosi caduca, un senso permanente. Il nostro vivere diventa segno della speranza per il futuro del mondo intero. Noi stessi diventiamo cosi una speranza, la speranza di Dio in questo mondo. E chi lo capisce non è più martoriato dal problema del senso. Ora è ricolmo di gioia e tutto impegnato nel comunicare e diffondere questa sua speranza.

b. Vivere nella libertà del Cristo risorto
La fede cristiana è essenzialmente fede di risurrezione. La fede di risurrezione è la rinascita alla speranza. A Taizé la vita vissuta in questa fede la si chiamava una ‘festa senza fine’. «lI Cristo risuscitato rende la vita una festa continua, una festa che non ha fine» (Atanasio).
Per il Natale del ’78 un mio amico argentino mi scriveva ponendomi la domanda: «Si può celebrare la vita in mezzo alla morte?». E aggiungeva: «Per noi, che viviamo nel continente latino-americano, non si tratta di un interrogativo vuoto. Qui la morte non s’incontra nella sfera di un potere sovversivo e delle contromisure repressive che esigono ogni giorno delle vittime. È più subdola e crudele, perché si manifesta nella forma della disoccupazione crescente, della diminuzione dei salari reali per i più poveri e in una mortalità infantile in continua crescita». Si può davvero, in un simile mondo, celebrare la vittoria di Cristo e vivere festosamente la vita? Per tanti uomini questa vittoria sembra essere inghiottita nella morte, dove chi trionfa è l’inferno.
La fede della résurrezione non prescinde affatto dalla morte per indirizzarsi esclusivamente all’eternità. Né si limita a piangere in questa valle di lacrime. Nella risurrezione del Figlio dell’Uomo, percosso e crocifisso, essa vede la grande protesta di Dio contro la morte e contro tutti quelli che favoriscono la morte e minacciano la vita. Nell’avvenimento del sacrificio e risurrezione di Cristo essa scopre infatti la passione infinita di Dio per la vita, la salvezza e libertà della sua creazione. E partecipa di questa passione. S’inserisce anch’essa in questa protesta elevandosi sull’apatia della miseria e soprattutto sul cinismo de’l benessere, per combattere contro la morte in mezzo alla vita. La morte, infatti, è il potere malvagio che si trova già nella vita stessa e non soltanto alla sua fine: qui la morte economica degli affamati, là morte politica degli oppressi; qui la morte sociale degli handicappati, là la morte fragorosa delle bombe o quella silenziosa delle anime indurite. La prova della risurrezione ce la offre il coraggio di sollevarci contro la morte. E non è un gioco di parole! Nella protesta contro le diverse morti che si verificano nella vita noi indichiamo la speranza in quella vita che trionfa sulla morte. Solo nella passione per la vita e dedizione per tutto ciò che la rende libera dimostriamo la nostra piena fiducia in quel Dio che risuscita i morti.
La fede della risurrezione è umanamente vitale nella protesta contro la morte, ma vive di qualcosa d’altro: dell’esuberanza del futuro che Dio ci ha promesso. Essa mostra la propria forza nella resistenza, ma vive dello stupore immotivato che su noi esercita il futuro, cioè della gioia infinita per il nuovo cielo e la nuova terra, dove abita la giustizia, e per la beatitudine eterna. «Tanto più» dice l’apostolo Paolo quando non parla della liberazione dal peccato, legge e morte, bensì della libertà alla vita eterna. È il plusvalore della speranza, l’eccedenza della promessa su questa nostra vita. Il tuttavia del nostro opporci alla morte ed all’indolenza è soltanto il lato oscuro di questo di più della speranza che ci anima.
Se la protesta di Dio contro la morte la si sperimenta nella battaglia contro le potenze letali, in che modo e dove sperimenteremo questo plusvalore della speranza? Nella festa! La Pasqua è una festa e viene celebrata come festa della libertà. Con la Pasqua i redenti incominciano a ridere, i liberati a danzare e la fantasia intreccia i suoi giochi creativi. Fin dall’antichità i riti pasquali celebravano la vittoria della vita, dileggiando la morte, deridendo l’inferno e mettendo in ridicolo i grandi signori di questo mondo. La Pasqua è la protesta di Dio contro la morte, è la festa della libertà dalla morte. Ma non dimentichiamolo: la resistenza è la protesta di coloro che sperano e la speranza è la festa di coloro che resistono.

c. Nell’ aspettativa della parusìa di Cristo
Cristo è la nostra speranza perché è il nostro futuro. Ciò significa che noi lo aspettiamo, speriamo nel suo ritorno e preghiamo: Vieni, Signore Gesù, vieni nel mondo, vieni da noi! Come la fede della risurrezione fonda la speranza, cosi il ritorno di Cristo determina l’orizzonte di questa speranza. Senza l’aspettativa del ritorno di Cristo non si dà alcuna speranza cristiana, perché senza di essa la speranza non può attendersi un’alternativa radicale nelle condizioni di questo mondo.
Non è forse un segno dell’imborghesimento del cristianesimo il fatto che l’aspettativa della parusia si è resa inefficace, è stata rimossa e ‘chiarita’, costretta ad emigrare nelle cosiddette sètte del sottosuolo religioso della società borghese? Chi non cerca una reale conversione, o crede di non averne bisogno, può anche rinunciare al futuro alternativo che ci si apre nella figura del Cristo che ritorna. Lui non ne ha bisogno. Chi invece si ‘lascia convertire incondizionatamente, considera importante il ritorno di Cristo e il suo regno messianico. Egli ha bisogno del sostegno di questo futuro per sganciarsi dal presente ed essere in grado di opporvisi in tutta libertà. Per lui il futuro di Cristo è più importante del presente del mondo. Per questo prega dicendo: Venga il tuo regno e passi questo mondo!
Certo, a caratterizzare l’aspettativa della parusia di Cristo e del suo regno il termine ‘ritorno’ suona infelice. Suppone infatti che ora Cristo sia assente e che poi ritorni. Il che non risponde all’esperienza della sua presenza nello Spirito. Trovo dunque migliore la vecchia traduzione di Lutero e Paul Gerhardt, che parlavano del futuro di Gesù Cristo. Ciò suppone la sua presenza.
Attorno all’aspettativa del futuro di Cristo nella storia e in diversi gruppi cristiani del presente si catalizzano i motivi più diversi. Certamente l’avvento di Cristo non risponde ai sogni di vedetta degli esclusi: «Verrà il giorno della vendetta…». Né risponde ai sogni d’onnipotenza degli impotenti: «Allora saremo noi a dominare e giustiziare i nostri nemici». Infine, non avrà il significato di compensare le nostre delusioni: «In Paradiso le cose andranno meglio». Nell’aspettativa e invocazione del futuro di Cristo si compie invece quella speranza che è nata dalla sua risurrezione. Il Risorto «deve regnare» finché tutti i suoi nemici non siano posti ai suoi piedi. È su questo che l’Apostolo fonda la sua speranza nella parusia (1 Coro 15,25). Ma se Cristo è stato risuscitato per la nostra risurrezione e regna con la libertà con la quale ci ha liberati, allora dal suo futuro non dovremo attenderei niente di più e niente di meno del compimento della giustificazione e un regno della libertà che coinvolga pure la ‘creatura che geme’. Certo, con la venuta di Cristo nella gloria si attende anche il giudizio: «Egli verrà per giudicare i vivi e i morti». La salvezza, per essere completa, deve segnare pure la fine della sventura. Al regno di Dio appartiene anche il suo giudizio. Non esiste alcuna ragione per dimenticarlo, occultarlo e demitizzarlo come apocalittica arcaica. Ma esistono ancor minori ragioni per lasciarsi prendere dal panico di fronte all’ ‘ultimo giudizio’ e dipingerlo con le orrende visioni medievali dell’inferno. Anche il futuro giudizio sui vivi e sui morti è un oggetto della speranza, della brama e dell’invocazione: «Signore, vieni presto!». Infatti chi è il giudice? È lo stesso Cristo che si è sacrificato fino alla morte per i nostri peccati e che ha sopportato i nostri dolori e malattie. Come non attendere con gioia il suo giudizio?! In base a che cosa il Crocifisso giudicherà? In base alla Legge od al suo Vangelo? Secondo le nostre opere o secondo la sua sofferenza per noi? Come non accogliere con gioia questo giudice del mondo che per noi è il Crocifisso? Ed infine, a quale scopo egli giudicherà? Per punire i malvagi e ricompensare i buoni, o per imporre la sua giustizia su tutti e tutto? Giudicherà per condannare o per risollevare? La giustizia dell’ultimo giudizio sarà diversa da quella che noi ora sperimentiamo nell’avvenimento della giustificazione dei peccatori? L’attesa dell’ultimo giudizio non deve tramutarsi in una proiezione delle nostre colpe e angosce represse, né potrà diventare una proiezione della nostra palese autogiustificazione. Se si fonda sul ricordo e attuale esperienza di Cristo, essa s’indirizzerà anche verso il suo futuro: la sua giustizia trionferà! È lui, il Crocifisso che giudicherà, e giudicherà secondo il suo Vangelo. L’annuncio del giudizio venturo è un messaggio lieto e liberatorio, non una minaccia che c’incute terrore. Per questo cantiamo gli inni dell’avvento. Nel giudizio di Cristo noi possiamo sperare con la stessa letizia che accompagna la nostra speranza del suo regno. Anche se non sappiamo precisamente che cosa avverrà e che cosa noi diventeremo, una cosa è certa: Il nostro Signore viene. Sia ringraziato Dio!

5. CHIAMATI ALLA SPERANZA

In un vecchio racconto del Talmud si narra che un rabbi un giorno provò a riflettere su quali domande un giudeo sarebbe chiamato a rispondere nell’ultimo giudizio. Che cosa chiederà il Giudice del mondo? Il rabbi s’attenne innanzitutto a ciò che è più ovvio e noto: Ti sei comportato correttamente negli affari, hai cercato la sapienza, osservato i comandamenti, ecc.? Alla fine gli sorse una domanda che lo colse di sorpresa: riguardava il Messia. La domanda che il Giudice del mondo porrà suona: Hai sperato nel mio Messia? L’aspettativa messianica, infatti, rientra essenzialmente nell’esperienza giudaica della fede.
Se la fede cristiana è essenzialmente speranza, anche i cristiani dovranno tener presente che il Signore, quando verrà, chiederà loro: Avete sperato in me? Avete conservato la speranza? Siete rimasti nella speranza quando eravate tentati d’abbandonarla? Avete perseverato fino alla fine? Le sue domande sulla nostra speranza e nostro permanere in essa sono importanti, tanto importanti che la nostra salvezza eterna dipende dalla risposta: chi ha perseverato fino alla fine sarà salvo! Nella speranza permanente conserviamo anche noi stessi e non siamo costretti a scomparire. Nella speranza che permane noi ci affidiamo alla vittoria di Cristo, una vittoria che non abbandoniamo all’afflizione né al male.

Noi siamo chiamati alla speranza!
Usciamo dalle nostre angosce
e impariamo a sperare dalla Bibbia!
Andiamo oltre i nostri limiti
per scoprire il futuro nella conversione!
Non attendiamo più ad alcun confine
ma soltanto a Colui che ce li ha aperti!
Egli è risorto.
Cristo è davvero risorto.
Lui è il nostro futuro

Romani 5,1-5 – commento: La speranza cristiana

dal  sito:

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Romani%205,1-5

Romani 5,1-5

Fratelli, 1 giustificati per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.

3 E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato. 
 
COMMENTO
Romani 5,1-5

La speranza cristiana

L’appartenenza del c. 5 o almeno dei vv. 1-11 alla prima parte della lettera (cc. 1-4), in cui si tratta il grande tema della giustificazione mediante la fede è molto probabile. Sembra infatti che l’apostolo porti qui a termine il discorso riguardante appunto la giustificazione, riservando ai capitoli seguenti la soluzione di alcuni problemi che questa dottrina solleva. In 5,1-11 l’apostolo mette in luce la prospettiva escatologica della giustificazione, nei successivi vv. 12-21 tratta il tema della vittoria sul peccato che essa comporta. nel primo di questi due brani egli sostiene anzitutto che di fronte alle dolorose tribolazioni della vita il credente è sostenuto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore (vv. 1-5). In un secondo momento mostra come l’esperienza attuale della riconciliazione con Dio sia garanzia della salvezza finale (vv. 6-11).

La giustificazione mediante la fede non è una semplice teoria, ma ha un profondo impatto nella vita di coloro che l’hanno ottenuta: «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v. 1). La frase inizia con il participio aoristo passivo «giustificati» (dikaiôthentes), con cui si indica chiaramente un evento avvenuto nel passato e ormai acquisito: per i destinatari della lettera, così come per lo stesso Paolo, la giustificazione mediante la fede rappresenta ormai un dato di fatto che ha cambiato radicalmente la loro vita. Egli prosegue perciò affermando che ormai «siamo in pace» (eirênên echomen, abbiamo pace) nei confronti di (pros) Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. Questa frase potrebbe anche essere intesa come un’esortazione: ma da tutto il contesto risulta che con essa si vuole semplicemente sottolineare la nuova realtà che si è verificata nel credente.

Il termine «pace» indica l’esatto opposto della situazione che precede la giustificazione, quella cioè caratterizzata dalla manifestazione dell’ira di Dio. Nel linguaggio biblico la pace rappresenta un’armonia profonda dell’uomo con Dio, che comporta la pienezza di tutti i beni materiali e spirituali. Alla fine dei tempi il pellegrinaggio di tutti i popoli al monte del tempio del Signore alla ricerca della parola di JHWH comporterà l’eliminazione della guerra e una pace universale (Is 2,2-5). Questa pace viene presentata come opera di un discendente di Davide, il quale verrà a consolidare e rafforzare il regno con il diritto e la giustizia (Is 9,5-6). Non solo l’umanità, ma anche tutto il cosmo sarà coinvolto in essa (Is 11,6). Infine è significativo che la pace, strettamente collegata con la giustizia, sia presentata come un dono dello Spirito (Is 32,15-17). Per l’apostolo questa pace è il dono più grande di Cristo.

La pace che i credenti hanno ottenuto porta con sé altri doni: «Per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (v. 2). La grazia (charis) a cui hanno accesso i credenti è Dio stesso in quanto si è donato pienamente a loro in Cristo. A differenza di quanto accadeva al sommo sacerdote, il quale solo una volta all’anno poteva venire a contatto con Dio quando entrava nel Santo dei santi in occasione della festa dell’Espiazione (Kippur), essi sono sempre al cospetto di Dio. La giustificazione, è vero, non ha ancora conferito il pieno possesso di quella «gloria di Dio», di cui l’umanità era stata privata a causa dei suoi peccati (cfr. Rm 3,23), ma dà la «speranza» (elpis) di poterla conseguire un giorno. Di questa speranza possono «vantarsi» (kauchaomai), perché si tratta di un dono di Dio, mentre non possono vantarsi delle opere della legge intese come mezzo per diventare giusti (cfr. 3,27; 4,2). Il «già» e il «non ancora» caratterizzano dunque l’esistenza terrena del credente.

Il credente si vanta non solo della sua speranza, ma anche di altre realtà che solitamente non sono collegate con essa: «E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (vv. 3-4). Paolo si riferisce alle «tribolazioni» (thlipseis) della vita, che ora non sono più ostacoli da evitare, ma momenti di crescita e di maturazione nella fede. La tribolazione volontariamente accettata produce infatti la «pazienza» (ypomonê), cioè la capacità di resistere coraggiosamente ai colpi destabilizzanti della prova; questa pazienza si trasforma in una «virtù provata» (dokimê), la quale non è altro che la capacità ormai consolidata di far fronte alle difficoltà della vita, senza perdere l’orientamento verso la meta finale. Da questa virtù provata, o meglio in sintonia con essa, si sviluppa una «speranza» ancora più forte. Il venir meno dei puntelli umani fa sì che il credente riponga sempre più la sua speranza in Dio.

La speranza comporta ulteriori sviluppi nella vita del credente: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (v. 5). La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’esercizio dell’«amore» (agapê) che lo Spirito santo  «riversa» (ekcheô) nei loro cuori. Nella Bibbia l’amore è anzitutto un attributo di Dio in forza del quale egli sceglie Israele come suo popolo, liberandolo dai suoi nemici e introducendolo nella terra promessa (cfr. Os 11,1; Dt 7,7-8); in forza dell’alleanza Dio esige che Israele lo ami con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5), lasciandosi così coinvolgere pienamente nel suo progetto di salvezza (clausola fondamentale). Ciò comporta che ogni israelita sia disposto ad «amare il prossimo suo come se stesso» (Lv 19,18), osservando i comandamenti del decalogo che riguardano la pratica della giustizia nei rapporti vicendevoli.

Ma siccome il cuore degli israeliti si è indurito, diventando incapace di amare, Dio promette di intervenire su di esso per trasformarlo e rinnovarlo. Secondo le profezie escatologiche Dio scriverà su di esso la sua legge (Ger 31,33), sostituirà il cuore di pietra con un cuore di carne e porrà dentro di esso il suo Spirito affinché possano osservare le sue leggi (Ez 36,27); infine applicherà sul loro cuore il segno della circoncisione affinché possano amare il loro Dio (Dt 30,6).

L’apostolo si serve di queste profezie, fondendo insieme soprattutto Ez 36,27 e Dt 30,6, per delineare una prerogativa essenziale dei credenti. L’«amore di Dio» che lo Spirito Santo effonde nei cuori è l’amore con cui Dio ama, operando nel cuore del credente la risposta dell’amore, che necessariamente avrà come termine Dio stesso e il prossimo. In questo brano l’espressione «amore di Dio» è dunque molto ricca, perché indica un amore che, una volta donato e ricevuto, non può che diventare il principio di una vita vissuta nell’amore. Il ruolo che in questo processo compete allo Spirito verrà illustrato successivamente (cfr. 8,1-27).

La giustificazione dunque, eliminando il peccato dell’uomo, lo pone in un rapporto nuovo con Dio, caratterizzato da un dinamismo interiore che si manifesta come fede vissuta, che genera speranza e amore. Con questa ricca dotazione il credente può camminare spedito verso il compimento finale, senza perdersi d’animo a motivo delle tribolazioni che ancora lo aspettano.

Linee interpretative

Dio poteva pretendere una pesante riparazione da parte dell’uomo peccatore, invece è intervenuto lui stesso per riconciliarlo gratuitamente con sé, trasformandolo da nemico in amico. Il dono più grande che la giustificazione comporta è proprio questa trasformazione interiore, che pone l’uomo in un rapporto nuovo non solo con Dio, ma anche con i suoi simili. Su ciò si basa la fiducia che deve accompagnare il credente nella sua nuova vita: egli infatti può ormai vantarsi non solo in Dio, ma anche nelle tribolazioni che lo attendono, in quanto già fin d’ora assapora in modo anticipato la gloria stessa che un giorno Dio gli conferirà in modo pieno.

La forza del messaggio cristiano sta per Paolo soprattutto nella sua capacità di toccare il cuore dei credenti, trasformando i loro sentimenti, desideri e aspirazioni, in pratica tutta la loro visione del mondo e della vita. L’uomo non diventa giusto per una costrizione esterna o per una decisione personale, ma perché è trasformato interiormente dalla grazia di Dio. I suoi doni non presuppongono la buona volontà dell’uomo che per definizione è peccatore, ma la creano, dandogli così la possibilità di vivere spontaneamente secondo la sua volontà. Colui che è stato giustificato va verso una pienezza di gioia e di realizzazione personale di cui fin d’ora percepisce i segni anticipatori. La speranza cristiana non si basa infatti su un fideismo cieco, ma sulla gioia interiore che emerge quotidianamente nel confronto con le tribolazioni e nell’esercizio di un amore che sgorga spontaneamente dal cuore.

In questo brano appare chiaramente che il cristianesimo non consiste in un complesso di dogmi o di norme morali da accettarsi ciecamente, ma è piuttosto una scuola di vita in cui l’uomo è educato, mediante la fede, all’amore e alla speranza. Il titolo più grande che compete a Gesù è dunque quello di «Maestro». Un Maestro che, sebbene fisicamente assente, porta continuamente a termine la sua opera mediante lo Spirito santo, che rappresenta la personificazione di quella potenza divina che sgorga dal suo esempio e porta i discepoli ad immedesimarsi con lui.

I morti e i vivi al momento della venuta del Signore (1Ts 4,13-18) (sulla speranza cristiana)

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/Paolo/tess2.htm

I morti e i vivi al momento della venuta del Signore

(Arcidiocesi di Sassari,  Cappellanìa universitaria Santa Caterina)

(1Ts 4,13-18)

   Il brano è tipico e ben si presta a sostenere la speranza cristiana, se viene letto nella Liturgia della Parola  in occasione di un funerale.

4,13 :“Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli…”. S. Paolo inizia con una frase tipica ed è sua ferma intenzione spiegare la sua dottrina escatologica affinché i destinatari la capiscano a fondo. Forse non hanno capito o hanno dubbi o lui ha detto qualcosa ed ora deve aggiungere altro.

“Fratelli” significa figli dello stesso utero perché Paolo e gli abitanti di Tessalonica sono legati da un nuovo rapporto: Dio è Padre di Gesù e Padre di coloro che credono in Cristo: dunque chi crede sono fratelli  e sorelle. Abbiamo un’ecclesiologia implicita: la Chiesa è comunità fraterna e i credenti sono figli di Dio e coeredi di Cristo. I cristiani sono figli di Dio.

“Circa quelli che sono morti” cioè “riguardo ai dormienti”. Forse Paolo risponde alle domande dei Tessalonicesi ed usa un linguaggio metaforico per parlare dei defunti. Il verbo greco usato è originale non tanto per la scelta quanto invece per l’indicazione durativa del participio: essi stanno soltanto dormendo. E’ la speranza della Resurrezione e il dormire è morte solo apparente e presuppone il concetto di risveglio alla luce della Resurrezione. I cristiani si sono addormentati nella speranza di risorgere (koimenon).

“Perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”, cioè “Affinché non siate tristi come i restanti che non hanno la speranza”. “Affinché”  (ina) introduce lo scopo del discorso di Paolo, del suo insegnamento ed è parola chiave: Paolo esorta a non avere dolore come i pagani che non credono in Cristo. La differenza tra credenti e non è che questi non hanno speranza nella vita risorta. Per Paolo la speranza (elpis) è un concetto importante nella morale cristiana perché da ai cristiani la fiducia a vivere il presente e i problemi con pazienza, perseveranza, gioia, sperando nel ritorno del Signore.    

4,14: “Noi crediamo infatti che Gesù è morto e resuscitato”, cioè “se noi infatti crediamo che Gesù morì e resuscitò”. Si tratta di una costruzione ipotetica con due proposizioni collegate logicamente: “se questo allora quello” con valore dichiarativo: “noi crediamo che…”. Cosa? Gesù morì e resuscitò: c’è tutto il nucleo della nostra fede nei due verbi. La base della nostra fede è l’evento Cristo e Paolo accorda la prima proposizione con l’insegnamento dei defunti in Cristo, formula del Credo primitivo che i cristiani hanno professato fin da principio.

Ciò che segue si collega alla formula precedente: ciò che Dio fa al Figlio, lo farà ai defunti in Gesù: “Così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui”, cioè “Dio per mezzo di Gesù condurrà con lui quelli che si sono addormentati con lui”. Si specifica la mediazione di Gesù (“di Gesù” e “con lui”). Ecco come interpretare “con lui”: 1)teologica. Dio per mezzo di Gesù conduce i defunti con lui, cioè con Dio stesso. Dio è il soggetto del verbo, autore principale di ogni azione salvifica. Gesù è mediatore di Dio che mette in luce il ruolo di Dio. 2) cristologica. Dio è sempre l’autore ma la mediazione di Gesù è sempre sottolineata: lui è mediatore di Dio e anche dei credenti e tale interpretazione è più corretta sintatticamente: “Dio per mezzo di Gesù condurrà i defunti con lui, cioè con Gesù stesso”. “Con lui” mette in relazione Dio con Gesù ed i cristiani. I destinatari perciò sono costretti a riflettere per capire chi è questo “lui” e quale sia il rapporto tra Dio e Gesù e tra Gesù e i credenti. La duplice natura di Gesù, uomo e Dio,  qui viene esplicitata: Gesù sfuma in Dio e Dio sfuma in Lui. Paolo esprime in modo sublime un concetto difficile: la divinità di Gesù: Dio guiderà tutti a sé  con Gesù. Gesù e i defunti sono compagni di viaggio nell’esperienza della comunione, sottolineata dai termini in greco che indicano questa ricchezza. 

4,15: “Questo vi diciamo sulla Parola del Signore”, cioè “Ciò infatti vi diciamo sulla Parola del Signore”. Cosa significa e a cosa si riferisce “questo”, “ciò”? Alcuni dicono si riferisca a ciò che precede, mentre altri a ciò che seguirà. Il termine greco usato fa da collegamento, in ogni caso, con ciò che precede e da transizione con ciò che seguirà. Inoltre, c’è una altro verbo greco, “diciamo” (legomen) che tecnicamente viene definito un hapax, cioè lo troviamo presente solo in questo testo relativamente al Nuovo Testamento. “Sulla Parola”, viene composto con un preposizione greca che ha valore temporale, strumentale, modale (en), ed è ricca di significati, perché in unione con il dativo del termine “parola”, mette in moto potenzialità inaspettate. Si vuole alludere alla Parola di Dio che gli evangelisti chiamano Verbo. La dottrina di Paolo perciò si basa su Gesù e su tutta la sua autorità.

“Noi che viviamo”, cioè “noi i rimanenti”. Nel testo greco, viene usata una congiunzione ad inizio proposizione, che si collega con la frase precedente e introduce quella successiva. Si amplia il soggetto della prima persona plurale: noi, i viventi, i rimanenti. Paolo vuole trasmettere un concetto base legato alla Resurrezione dei morti in Cristo. Il participio “viventi” ha un significato più profondo del senso fisico, ed anche metaforico, che ci proietta in un’altra dimensione: chi condivide la vita di Dio, per mezzo di Gesù. Ciò ha un senso fisico ed anche teologico, perché significa anche “coloro che sopravvivono e scampano alla morte eterna, i rimanenti, che tramite Gesù, con il Battesimo, hanno accesso alla Vita Eterna. Il soggetto, “i viventi” abbraccia tutti i cristiani e non solo i Tessalonicesi e risuona come affermazione globale riferita a tutta la Chiesa. Vengono usati due participi in greco, preceduti dal medesimo articolo plurale, per indicare i viventi, i rimanenti, estendendo così il campo semantico, e l’idea dell’eternità è raddoppiata.       

“Per la venuta del Signore” cioè “fino alla venuta del Signore”. Il testo è suggestivo e trasmette il dramma presente nell’uomo: cosa succede dopo la morte? Paolo fuga le incertezze e le angosce, aprendo prospettive di speranza, gioia, felicità: è la venuta del Signore alla fine dei tempi.

“Non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti”. Per Paolo i vivi non hanno nessun vantaggio sui defunti. Il suo linguaggio pone tutti in condizioni di parità, essendo consapevole di rivolgersi non solo ai Tessalonicesi ma, in qualità di apostolo sa che la buona notizia oltrepassa i confini di tempo e spazio: il vangelo è per tutti gli uomini.

4,16: “Perché il Signore stesso”. Il pronome greco “stesso” (autos) ha valore rafforzativo e sottolinea il ruolo del Signore nel suo atto salvifico. Paolo sottolinea il nome “Cristo Signore” per diversificare la sua dottrina da quella giudaica: a Damasco ha visto il Risorto e il Signore è già venuto, perché Gesù è il Signore, il Messia.

“A un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio”. C’è una preposizione greca che si ripete per tre volte, che traduciamo con “a” (en), che è riferita al Signore stesso e descrive i segni del suo ritorno in maniera apocalittica, descrivendo circostanze concomitanti con azioni apocalittiche, secondo il linguaggio apocalittico tipico della letteratura ebraica. Ma chi impartisce l’ordine? Dio o Gesù? E’ l’incrocio in Paolo tra teologia e cristologia. Visto il soggetto, il Signore si riferisce a Dio, ma i cristiani hanno dato il titolo a Gesù. Sarebbe meglio interpretare l’azione di Gesù in questi tre segni, senza però escludere Dio.

“A un  ordine” è un sostantivo che non troviamo altrove (hapax). Nel greco classico ci si vuole riferire a un ordine nel linguaggio tecnico-militare, riferito alla battaglia. C’è di fatto una guerra tra Dio e i nemici, tra cui vi è la morte. Ma il sostantivo può anche esprimere un ordine divino degli dei greci o un grido. E’ un ordine del Signore celeste che sottolinea l’autorità del comando nella battaglia.     

“Alla voce di un arcangelo”: è la spiegazione del secondo segno apocalittico (Isaia 6: la voce degli angeli fa scuotere il tempio divino), che altro non è che la voce del Signore. Si tratta di un segnale per tutti, vivi e defunti.

“Al suono della tromba di Dio”: è un segno che si pone in continuità con la vecchia Alleanza. Nella letteratura classica la tromba veniva usata per annunciare una battaglia, mentre nel giudaismo riceve una connotazione religiosa perché descrive teofanie, cioè manifestazioni di Dio, come in Es 19,10, relativo all’Alleanza tra il Signore e Mosé: “Il Signore scenderà”. Nel nostro testo c’è un legame tra la teofania e la tromba che annuncia l’arrivo del Signore ed è il segno dell’ultimo giorno per eccellenza, quello del giudizio. La tromba è tromba di Dio e pertanto l’arcangelo agisce con autorità divina. Si sottolinea l’arrivo del Signore e della fine dei tempi. Anche in Nm 10,4-segg. si sottolinea l’uso delle trombe, poiché ha un suo linguaggio per impartire ordini; anche in Gs 6,1-segg  viene menzionato il suo uso. La tromba ha la sua importanza dal punto di vista archeologico: nell’arco di Tito, sui bassorilievi spicca il candelabro a sette braccia con le trombe d’argento del tempio di Gerusalemme, segno di conquista dei romani, insieme alle tavole della legge. Sembra che Paolo descriva una scena istantanea smontandola in tre dimensioni: la simultaneità dell’obbedienza ottenuta a un cenno di comando. L’ordine è seguito da un intervento vocale dell’arcangelo ed infine la tromba carica di potenza energica auditiva: il suono viene udito ma si vedono anche i colori dell’argento metallico della tromba e il suono va in tutte le direzioni. Si potrebbe trattare di tante trombe che annunciano la venuta del Signore, le quali sono talmente in armonia che sembra una sola e l’effetto musicale e avvolgente e coinvolgente per le creature spettatrici e partecipi. Nel 50-51 d.C. il tempio accoglieva il sommo sacerdote facendo squillare la tromba come per l’arrivo del Signore: è un legame con la liturgia degli ebrei.

“Discenderà dal cielo”: è il ruolo unico di Gesù nel suo ritorno ed il verbo usato ricorre per indicare in genere la discesa nell’altro mondo. Nell’Antico Testamento il discendere indica un ispezionare e giudicare e ciò vale anche per Gesù che scenderà come giudice.

“E prima risorgeranno i morti in Cristo” cioè “E come condizione primaria risorgeranno i morti in Cristo”: Paolo usa un  pronome che ha funzione di avverbio: ”prima” (panton), che indica una priorità ordinata di condizioni necessarie: condizione prima è la Resurrezione dai morti. Solo così i credenti vanno incontro al Signore. Paolo sottolinea che i morti non saranno più tali ma resuscitando si pongono nelle giusta direzione di incontrare il Signore che è la vita e il Risorto. Sarà il trionfo della vita sulla morte: Dio vincerà l’ultima battaglia. La scena è emozionante non solo per l’intervento divino dall’alto in basso, ma anche per l’elevazione degli uomini all’ordine del capo: dal basso all’alto. Ricordiamo Ez 37,1-segg. con l’episodio delle ossa aride e pensiamo alla valle di Giosafat che in ebraico significa “Dio ha giudicato” ed è la valle del giudizio. Anche in Gl 4,1-segg. si dice: “Signore fa scendere i tuoi eroi”: è il momento del giudizio.

4,17: “Quindi noi, i vivi, i superstiti” cioè “Poi noi, i viventi, i rimasti”: il versetto si aggancia al v. 15 per sottolineare che nel giorno del Signore i vivi non hanno vantaggio rispetto ai morti: sono tutti pronti e tutti uguali. C’è un avverbio greco ad inizio versetto (epeita) per indicare ciò che segue come condizione: i morti non saranno più tali.

“Saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole” cioè “Insieme con loro saremo rapiti sulle nubi”: Paolo vuole evidenziare la simultaneità dell’azione e le stretta unione con un avverbio particolare (ama sun), per dire che come i morti obbediscono  al comando, così tutti, con i vivi, saremo attirati dall’alto come razzi e frecce. Un verbo al futuro, in greco, (arpaghezometa) vuole indicare che i morti devono essere purificati prima di essere rapiti in cielo.

“Per andare incontro al Signore nell’aria”: lo scopo di Paolo è l’incontro col Signore nell’aria, elemento tra terra e cielo, spazio intermedio tra umano e divino, in cui il Signore, intermediario tra Dio e gli uomini, incontra i suoi. Il termine greco usato da Paolo (aera) fa pensare anche allo Spirito.

“E così saremo sempre con il Signore” cioè “E tutti staremo col Signore”: è la conclusione per cui staremo tutti con il Signore. L’avverbio usato (pantote), significa per ogni tempo, per sempre, in senso totalizzante.

4,18: “Confortatevi” cioè “Consolatevi”: tale versetto conclude ed è il punto essenziale e la consolazione vicendevole dei fratelli. Il verbo “consolatevi” appare molte volte ed è ugualmente usato in Isaia 40,1-segg. per consolare Israele in Babilonia.

“Dunque a vicenda con queste parole”: in Isaia 40,1-segg. si dice: “… allora si rivelerà la Gloria del Signore e ognuno la vedrà”. Ora Paolo conforta il suo popolo nel momento di persecuzione, lutto e sofferenza. Il pronome greco che conclude il versetto (tutois) fa da inclusione con il pronome all’inizio del vers. 15 (tuto) chiudendo all’interno il percorso sviluppato da Paolo attorno ai termini “diciamo”, “parole”, “Parola”. Ciò che Paolo dice, lo dice a nome degli apostoli e i Tessalonicesi conoscono le parole degli apostoli e quindi del Signore.  

Note finali

Al v. 14 Gesù è indicato due volte come uomo uguale agli altri, mentre al v. 16 viene definito come Cristo, l’unto di Dio, il Messia scelto: è un titolo del Signore. Cosa fa? Salva il suo popolo.

Paolo ci parla di Dio (teologia), di Gesù il Cristo (cristologia), dell’ultimo giorno del Signore (escatologia) quando i morti non saranno più tali; di pienezza della salvezza attraverso il nostro corpo mortale, per cui attendiamo la Resurrezione (soteriologia) in quanto non siamo nella pienezza della salvezza; dell’uomo mortale che condivide la Vita Divina (antropologia); della consolazione vicendevole in attesa del Signore (teologia morale); di cielo, terra, aria (cosmologia).  

Papa Bendetto, Ospedale Romano, 1 domenica di Avvento 2007 – tema della speranza

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20071202_ospedale-smom_it.html

VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
ALL’OSPEDALE ROMANO « SAN GIOVANNI BATTISTA »
DEL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

I Domenica di Avvento, 2 dicembre 2007

Cari fratelli e sorelle!

« Andiamo con gioia incontro al Signore ». Queste parole, che abbiamo ripetuto nel ritornello del Salmo responsoriale, interpretano bene i sentimenti che occupano il nostro cuore quest’oggi, prima domenica di Avvento. La ragione per cui possiamo andare avanti con gioia, come ci ha esortato a fare l’apostolo Paolo, sta nel fatto che è ormai vicina la nostra salvezza. Il Signore viene! Con questa consapevolezza intraprendiamo l’itinerario dell’Avvento, preparandoci a celebrare con fede l’evento straordinario del Natale del Signore. Durante le prossime settimane, giorno dopo giorno, la liturgia offrirà alla nostra riflessione testi dell’Antico Testamento, che richiamano quel vivo e costante desiderio che tenne desta nel popolo ebraico l’attesa della venuta del Messia. Vigili nella preghiera, cerchiamo anche noi di preparare il nostro cuore ad accogliere il Salvatore che verrà a mostrarci la sua misericordia e a donarci la sua salvezza.

Proprio perché tempo di attesa, l’Avvento è tempo di speranza ed alla speranza cristiana ho voluto dedicare la mia seconda Enciclica presentata l’altro ieri ufficialmente: essa inizia con le parole rivolte da san Paolo ai cristiani di Roma: « Spe salvi facti sumus – nella speranza siamo stati salvati » (8,24). Nell’Enciclica scrivo tra l’altro che « noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere » (n. 31). La certezza che solo Dio può essere la nostra salda speranza animi tutti noi, raccolti stamane in questa casa nella quale si lotta contro la malattia, sorretti dalla solidarietà. E vorrei profittare della mia visita al vostro ospedale, gestito dall’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta, per consegnare idealmente l’Enciclica alla comunità cristiana di Roma e, in particolare, a coloro che, come voi, sono a diretto contatto con la sofferenza e la malattia. È un testo che vi invito ad approfondire, per trovarvi le ragioni di quella « speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: … anche un presente faticoso » (n. 1).

Cari fratelli e sorelle, « il Dio della speranza che ci riempie di ogni gioia e pace nella fede per la potenza dello Spirito Santo, sia con tutti voi! ». Con quest’augurio che il sacerdote rivolge all’assemblea all’inizio della Santa Messa, vi saluto cordialmente. Saluto, in primo luogo, il Cardinale Vicario Camillo Ruini e il Cardinale Pio Laghi, Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, i Presuli e i sacerdoti presenti, i cappellani e le suore che qui prestano il loro servizio. Saluto con deferenza Sua Altezza Eminentissima Frà Andrew Bertie, Principe e Gran maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta, che ringrazio per i sentimenti espressi a nome della Direzione, del personale amministrativo, sanitario e infermieristico e di quanti prestano in diversi modi la loro opera nell’ospedale. Estendo il mio saluto alle distinte Autorità, con un particolare pensiero per il Dirigente sanitario, come anche per il Rappresentante dei malati, ai quali va il mio ringraziamento per le parole che mi hanno rivolto all’inizio della Celebrazione.

Ma il saluto più affettuoso è per voi, cari malati e per i vostri familiari, che con voi condividono ansie e speranze. Il Papa vi è spiritualmente vicino e vi assicura la sua quotidiana preghiera; vi invita a trovare in Gesù sostegno e conforto e a non perdere mai la fiducia. La liturgia dell’Avvento ci ripeterà lungo le prossime settimane di non stancarci d’invocarlo; ci esorterà ad andargli incontro, sapendo che Egli stesso costantemente viene a visitarci. Nella prova e nella malattia Dio ci visita misteriosamente e, se ci abbandoniamo alla sua volontà, possiamo sperimentare la potenza del suo amore. Gli ospedali e le case di cura, proprio perché abitati da persone provate dal dolore, possono diventare luoghi privilegiati dove testimoniare l’amore cristiano che alimenta la speranza e suscita propositi di fraterna solidarietà. Nella Colletta abbiamo così pregato: « O Dio, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene ». Sì! Apriamo il cuore ad ogni persona, specialmente se in difficoltà, perché facendo del bene a quanti sono nel bisogno ci disponiamo ad accogliere Gesù che in essi viene a visitarci.

E’ quanto voi, cari fratelli e sorelle, cercate di fare in quest’ospedale dove al centro delle preoccupazioni di tutti sta l’accoglienza amorevole e qualificata dei pazienti, la tutela della loro dignità e l’impegno a migliorarne la qualità della vita. La Chiesa, attraverso i secoli, si è resa particolarmente « prossima » a coloro che soffrono. Di questo spirito s’è fatto partecipe il vostro benemerito Sovrano Militare Ordine di Malta, che fin dagli inizi si è dedicato all’assistenza dei pellegrini in Terra Santa mediante un Ospizio-Infermeria. Mentre perseguiva il fine della difesa della cristianità, il Sovrano Ordine di Malta si prodigava nel curare i malati, specialmente quelli poveri ed emarginati. Testimonianza di quest’amore fraterno è anche quest’ospedale che, sorto intorno agli anni 70 del secolo scorso, è diventato oggi un presidio di alto livello tecnologico e una casa di solidarietà, dove accanto al personale sanitario operano con generosa dedizione numerosi volontari.

Cari Cavalieri del Sovrano Militare Ordine di Malta, cari medici, infermieri e quanti qui lavorate, voi tutti siete chiamati a rendere un importante servizio agli ammalati e alla società, un servizio che esige abnegazione e spirito di sacrificio. In ogni malato, chiunque esso sia, sappiate riconoscere e servire Cristo stesso; fategli percepire, con i vostri gesti e le vostre parole, i segni del suo amore misericordioso. Per compiere bene questa « missione », cercate, come ci ricorda san Paolo nella seconda Lettura, di « indossare le armi della luce » (Rm 13, 12), che sono la Parola di Dio, i doni dello Spirito, la grazia dei Sacramenti, le virtù teologali e cardinali; lottate contro il male ed abbandonate il peccato che rende tenebrosa la nostra esistenza. All’inizio di un nuovo anno liturgico, rinnoviamo i nostri buoni propositi di vita evangelica. « E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno » (Rm 13,11), esorta l’Apostolo; è tempo cioè di convertirsi, di destarsi dal letargo del peccato, per disporsi fiduciosi ad accogliere « il Signore che viene ». Per questo, l’Avvento è tempo di preghiera e di vigile attesa.

Alla « vigilanza », che tra l’altro è la parola chiave di tutto questo periodo liturgico, ci esorta la pagina evangelica proclamata poco fa: « Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà » (Mt 24,42). Gesù, che nel Natale è venuto tra noi e tornerà glorioso alla fine dei tempi, non si stanca di visitarci continuamente, negli eventi di ogni giorno. Ci chiede e ci avverte di attenderlo vegliando, poiché la sua venuta non può essere programmata o pronosticata, ma sarà improvvisa e imprevedibile. Solo chi è desto non è colto alla sprovvista. Che non vi succeda, Egli avverte, quel che avvenne al tempo di Noè, quando gli uomini mangiavano e bevevano spensieratamente, e furono colti impreparati dal diluvio (cfr Mt 24,37-38). Che cosa il Signore vuole farci comprendere con questo ammonimento, se non che non dobbiamo lasciarci assorbire dalle realtà e preoccupazioni materiali sino al punto da restarne irretiti?

« Vegliate dunque… ». Ascoltiamo l’invito di Gesù nel Vangelo e prepariamoci a rivivere con fede il mistero della nascita del Redentore, che ha riempito l’universo di gioia; prepariamoci ad accogliere il Signore nel suo incessante venirci incontro negli eventi della vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; prepariamoci ad incontrarlo nell’ultima sua definitiva venuta. Il suo passaggio è sempre fonte di pace e, se la sofferenza, retaggio dell’umana natura, diventa talora quasi insopportabile, con l’avvento del Salvatore « la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode » (Enc. Spe salvi, 37). Confortati da questa parola, proseguiamo la Celebrazione eucaristica, invocando sui malati, sui familiari e su quanti lavorano in quest’ospedale e sull’intero Ordine dei Cavalieri di Malta la materna protezione di Maria, Vergine dell’attesa e della speranza. 

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