http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/08a-Domenica-A/12-8aDomenica-A-2014-SC.htm
mi piace molto una Omelia in inglese che ho letto poco fa, vi metto il link:
http://christdesert.org/About_Us/Abbot_s_and_Cellarer_s_Pages/Abbot_s_Homily/index.html
2 MARZO 2014 | 8A DOMENICA A | TEMPO ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
« GUARDATE GLI UCCELLI DEL CIELO… OSSERVATE I GIGLI DEL CAMPO »
Contrariamente a certi sogni utopistici di un nuovo progetto di società in cui molti, soprattutto giovani, hanno creduto, specialmente alla fine degli anni ’60, oggi gli uomini sono di nuovo afferrati dalla paura per il loro presente e soprattutto per il futuro. Alla fiducia nelle possibilità quasi infinite dell’uomo di autocostruirsi e di ridurre tutte le ricchezze dell’universo, anche quelle inesplorate, sotto il suo controllo, allo scopo di rendere più sicuro il « suo » regno, è subentrato un senso di sfiducia, addirittura di pessimismo circa la sua stessa sopravvivenza.
Le « paure » dell’uomo La cosa più tragica, poi, è che è l’uomo stesso la causa della sua paura. « L’uomo d’oggi sembra essere minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, dalle tendenze della sua volontà… L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire ».1 Così l’uomo, abbandonato alle sole sue forze, sia pure spettacolari, ha paura di se stesso e guarda con diffidenza al proprio avvenire. Proprio in una situazione del genere acquista rilevanza l’invito della Liturgia ad avere « fiducia », perché l’uomo non è solo lungo il suo cammino: Dio lo previene, l’accompagna e lo segue perché non si smarrisca nelle piste insidiose della storia. L’uomo sarà « più uomo » se si appoggerà meno a se stesso e più a Dio. Questo messaggio scardina certi modi di pensare che sembrano aver permeato di sé la cultura contemporanea, sia a Occidente che a Oriente; ma è l’unico modo che abbiamo ancora a disposizione per salvare noi stessi e la creazione, fatalmente legata al nostro destino. Se l’uomo non si affida di nuovo a Dio e alla sua Provvidenza, è perduto!
Dio ci ama come una « madre » Questo messaggio di fiducia e di speranza ci è trasmesso, oltre che dallo stupendo brano di Vangelo, dalla prima lettura, breve ma carica di tenerezza materna (Is 49,14-15). Il brano è ripreso da un contesto in cui Jahvè promette al popolo di Israele la liberazione dalla schiavitù babilonese. Davanti alla diffidenza di alcuni e alla disperazione di altri, che ritenevano impossibile un tale evento (v. 14), il Profeta ricorda la forza infrangibile dell’amore di Dio, che è più grande dello stesso amore materno. Infatti, si possono purtroppo verificare gravi eccezioni nell’amore delle madri verso le loro creature: si pensi solo ai mostruosi e frequenti casi di aborto! Dio, però, non tradirà mai il suo amore verso Israele: « Anche se vi fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (v. 15). L’amore di Dio verso il suo popolo (cf Is 54,8) altrove viene paragonato all’amore di un padre verso i suoi figli (Os 11,1-11), o a quello di uno sposo per la sua sposa.2 Il confronto con l’amore « materno » è anche più commovente perché ci riporta a qualcosa di completamente gratuito e che esprime anche il massimo di tenerezza. È importante poi sottolineare che il quadro ci richiama non a una « provvidenza » generica, ma storica, legata a certe situazioni concrete, da cui Israele sembrava non avere altre vie di scampo che la disperazione o la rassegnazione fatalistica. Eppure Dio interviene e capovolge le più normali previsioni umane: la storia non è mai bloccata in vicoli ciechi, non appena gli uomini lascino spazio a Dio per costruirla insieme a lui.
« Solo in Dio riposa l’anima mia » Anche il Salmo responsoriale è un grido gioioso di fiducia in Dio, perché a lui soltanto appartengono il « potere » e la « grazia » (Sal 62,12): con il primo egli garantisce l’esito positivo di ogni suo intervento; con la « grazia » ci assicura il suo amore per sempre. Il suo, infatti, non è un amore debole e fragile, ma un amore « potente » (62,2-3.9-12). Anche qui è importante notare che non è solo a livello personale, ma comunitario e collettivo che dobbiamo aver fiducia in Dio: è il « popolo » d’Israele in quanto tale che è invitato dal Salmista a confidare nel Signore. Proprio perché i destini degli uomini si giocano insieme, è l’umanità in quanto tale che deve riscoprire la sua dipendenza da Dio: senza di lui la storia è condannata al fallimento! È quanto chiediamo nella Colletta: « Concedi, o Signore, che il corso degli eventi nel mondo si svolga secondo la tua volontà, nella giustizia e nella pace, e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio ». Con la sua serena fiducia in Dio, la Chiesa è un segno di speranza per tutti gli uomini. Tutto è « Provvidenza » Nel brano di Vangelo Gesù approfondisce il senso di fiducia in Dio e lo cala nella realtà di ogni giorno con immagini fresche e piene di poesia. Non è necessario che vengano i grandi momenti della storia per affidarsi a Dio e sfuggire così alla disperazione o alla paura che ci soffoca: giorno per giorno dobbiamo costruire la nostra fiducia nella Provvidenza, proprio perché essa è presente in ogni momento della nostra vita. Non è forse dono del suo amore l’aria che respiriamo, il sole che ci illumina e ci scalda, l’acqua che zampilla dalle viscere della terra per dissetarci, l’erba che cresce nei campi per nutrirci, la legge della gravitazione universale per cui rimaniamo attaccati alla piccola parte di superficie terrestre che ci sorregge senza essere scaraventati nell’immenso spazio cosmico che ci disintegrerebbe? Se il nostro cuore batte regolarmente e il nostro sangue circola nell’organismo, dilatando e conservando la nostra energia vitale, non è forse perché la Provvidenza vigila ad ogni attimo sopra di noi? Sono cose molto semplici, a cui forse non pensiamo neppure, proprio perché le riteniamo scontate. Eppure la Provvidenza è tutto questo e noi viviamo in questo immenso respiro di amore, che tiene in piedi l’universo intero. Proprio a queste cose semplici ci richiama il brano evangelico odierno: Gesù ci aiuta a guardare con occhio limpido tutta la creazione, per cogliervi i segni e la espressione dell’amore del Padre e avere così fiducia per il domani.
« Nessuno può servire a due padroni » Gli occhi limpidi, però, li possiamo avere a condizione di non appoggiarci agli « idoli » costruiti dalle nostre mani, che poi diventano i nostri tiranni e « padroni ». Si pensi alla tirannia del denaro, che inganna l’uomo proprio perché gli dà un senso di falsa sicurezza: con il denaro si pensa di poter ottenere tutto; ci dà quasi un senso di onnipotenza. Lo stesso si dica del potere, del prestigio sociale, della cultura, della scienza, del fascino della bellezza, del piacere, del sesso, ecc. Perciò Gesù incomincia subito con lo spazzare via le false sicurezze, che soffocano ed emarginano la fiducia nella Provvidenza: « Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potere servire a Dio e a mammona » (v. 24). « Esiste un’impossibilità concreta di servizio a due padroni. Indubbiamente si suppone una totalità di dedizione. Si potrebbe pensare allo schiavo: non può appartenere che a un solo padrone, essendo tutto suo. Infatti la cura degli interessi dell’uno è inconciliabile con la cura degli affari dell’altro. Avvicinarsi al primo vuol dire allontanarsi dal secondo, aderire a quello equivale a distaccarsi da questo. Ciò vale di Dio e del denaro. Le esigenze divine contrastano con quelle della ricchezza. Servire Dio vuol dire fare la sua volontà, cioè obbedire al suo comandamento di amare concretamente il prossimo. Servire il denaro, invece, significa chiudersi egoisticamente al bisogno del fratello e accumulare ricchezze per se stessi. Implicito appare l’invito a scegliere con decisione il servizio di Dio, cioè la libertà dall’asservimento egoistico al denaro. L’idolo va frantumato, amando fattivamente gli altri, donando perciò ai bisognosi ».3 « Non affannatevi di quello che mangerete o berrete » Liberati dalle false sicurezze, costruite con le nostre stesse mani, potremo abbandonarci fiduciosamente, come fanciulli, nelle mani del Padre celeste, che non ci farà mancare nulla di quello che ci serve per vivere nella serenità e nella gioia. Gesù porta qui due esempi, ripresi dalla esperienza quotidiana, per rafforzare quello che viene dicendo: l’esempio degli uccelli dell’aria (vv. 26-27) e quello dei gigli4 del campo (vv. 28-30). Se Dio pensa a delle creature così piccole e quasi insignificanti, non provvederà del necessario i suoi figli? Come si vede, sono due argomenti a fortiori molto efficaci. Gesù non fa l’apologia della pigrizia o della imprevidenza, quasi che il credente sia invitato a disertare gli impegni del lavoro quotidiano: condanna soltanto la « preoccupazione » e l’affanno per le cose materiali, quasi che queste fossero le più importanti nella vita e l’uomo bastasse da solo a garantire il proprio futuro. In tal modo Dio viene completamente emarginato dalla coscienza dell’uomo, che si sente arbitro del suo destino. Proprio perché si appoggia esclusivamente a se stesso, egli perde la dimensione della « fede ». Perciò Gesù ci chiama « gente di poca fede » (v. 30). D’altra parte, il non aver più fede in Dio porta a una effettiva « paura » e preoccupazione per il domani. L’invito a « non affannarsi » viene ripetuto in questo brano per ben quattro volte (vv. 25.28.31.34): il termine greco corrisponde (merimnáo) significa appunto « essere ansiosi » e anche « fare sforzi affannosi ». La mancanza di fede genera, dunque, l’affanno; l’affanno poi avvelena e intristisce la vita, che viene così a ricadere tutta sulle fragili spalle dell’uomo, il quale, oltre tutto, non può prolungarla di un’ »ora sola » (v. 27), né proteggerla, pur con tutte le cure mediche, da un male inguaribile che ci potesse eventualmente colpire. A che serve allora tutto il nostro « affannarci » per assicurarci il domani, quando questo appartiene solo a Dio? « Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena » (v. 34). Non è forse più saggio vivere serenamente la « pena » dell’oggi, senza aggravarla con la « pena » del domani?
« Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia » Come conclusione di questo accorato invito a riscoprire il senso della Provvidenza, che ci avvolge e ci si rivela ad ogni momento, Gesù propone ai suoi discepoli una regola di condotta che riepiloga tutto il Vangelo e riequilibra tutte le dimensioni e i valori della vita: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta » (v. 33). C’è dunque una gerarchia tra le cose. Prima di tutto viene « il regno di Dio », che sta a designare la « sovranità » di Dio nella nostra vita: « sovranità », che in concreto si manifesta nell’accettare e nel fare sempre la sua « volontà ». Questo significa in Matteo (cf 5,10-20; 6,1; ecc.) il termine « giustizia » (dikaios´yne), e non un mero rapporto di dare e avere. Al secondo posto vengono « tutte le altre cose », cioè i beni materiali, necessari per vivere nella serenità, giorno per giorno. Gesù ci assicura che essi non ci mancheranno, se però « cercheremo » prima i beni celesti. Ecco una prospettiva di fede, capace di risolvere anche i problemi della fame, o del sottosviluppo, o della cattiva distribuzione delle ricchezze. Se i cristiani prendessero sul serio queste parole del Vangelo, come pur sarebbe loro dovere, non scomparirebbe forse la empia « fame » dell’oro, che porta individui e nazioni ad ammassare ricchezze per il domani, riducendo in povertà e miseria tanti altri? Una maggiore « fiducia » nella Provvidenza insegnerebbe ad essere più giusti verso i fratelli e ci libererebbe dalle angosce per il nostro futuro, che è minacciato, oltre tutto quello che abbiamo detto all’inizio, anche dalla « collera dei poveri » (Paolo VI) e dalle tensioni che l’ingiusto accumulo delle ricchezze provoca nel mondo. Il « non preoccuparsi per il domani » significa vivere bene « l’oggi »; ma il vivere bene « l’oggi » significa credere che Dio pensa a noi più di quello che noi potremmo pensare a noi stessi. È così che tutti potremo vincere le nostre « paure » e riacquistare fiducia nell’avvenire e in una società più giusta: solo la fede rende possibile quella « utopia » che gli sforzi umani, anche i più giganteschi, non riusciranno mai a realizzare.
« Ognuno ci consideri come ministri di Cristo » Al di là dei meri calcoli umani, ad affidarsi unicamente a Dio esorta anche la seconda lettura, ripresa da san Paolo. Ai cristiani di Corinto, che parteggiavano chi per Paolo, chi per Apollo, chi per Cefa (cf 1 Cor 1,12), egli ricorda che tutto questo è sbagliato, perché ognuno di loro è portatore di un messaggio e di un « ministero » non « proprio », ma derivato da Dio, datogli come « in economia »: « Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio » (1 Cor 4,1). Perciò è a lui soltanto che devono rendere conto i suoi « ministri », al di là di quello che i Corinzi molto approssimativamente possono presumere di valutare: « A me poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore… » (4,3-5). Tutto è Provvidenza, anche all’interno del « servizio » ecclesiale. Perché non ringraziare allora Dio per tutti i « doni » che egli concede alla sua Chiesa, evitando meschine divisioni, rivalità, contrapposizioni? Anche nella Chiesa quello che importa è « cercare prima di tutto il regno di Dio ». Il resto ci sarà certamente « dato in aggiunta » (Mt 6,33).
Da: CIPRIANI S.,