Archive pour février, 2014

Paolo Veronese, God the Father

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Publié dans:immagini sacre |on 28 février, 2014 |Pas de commentaires »

1 CORINZI 4,1-5

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1 CORINZI 4,1-5

1 Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. 2 Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele. 3 A me però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, 4 perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! 5 Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio.   COMMENTO 1 Corinzi 4,1-5

I ministri di Dio e della comunità Il primo problema che Paolo affronta nella 1Corinzi è quello delle lacerazione presenti nella comunità. Egli afferma anzitutto che esse dipendono dalla ricerca di una sapienza puramente umana (1,18 – 3,4), ma sottolinea anche che un’altra causa sono i rapporti sbagliati che i membri della comunità hanno stabilito con i diversi predicatori che hanno annunziato loro il vangelo (3,5 – 4,21). È quindi importante precisare i rapporti che i corinzi devono avere con essi. Dopo aver delineato il loro ruolo nella comunità (cfr. 3,5-23), Paolo passa a indicare quali sono le condizioni perché questa abbia con loro un rapporto corretto (4,1-13). Egli torna qui a parlare in prima persona plurale, poi passa al singolare e infine ritorna al plurale: di fatto egli parla di se stesso e in una certa misura anche di Apollo, sempre però con l’intenzione di dare indicazioni di carattere più generale. La liturgia riprende la prima parte dell’argomentazione di Paolo, in cui egli sottolinea che i ministri della comunità possono sbagliare ma in forza del loro ruolo, non possono venire giudicati da essa (4,1-5). Anzitutto l’Apostolo ricorda che egli deve essere considerato come «servo (hypêretê, lavoratore sottoposto a un padrone) di Cristo e amministratore (oikonomos) dei misteri (mystêria) di Dio» (v. 1): questi misteri, che gli sono stati conferiti e che egli deve mettere a disposizione della comunità, si identificano con la sapienza di Dio, che è misteriosa, in quanto è nascosta agli occhi dei sapienti di questo mondo ma si è resa visibile in Cristo crocifisso (cfr. 2,1.6-7). Pur parlando di se stesso egli si esprime in prima persona plurale, in quanto intende fare un’affermazione di carattere generale. Da questo principio ricava una conseguenza di carattere generale: dagli amministratori, in quanto prestatori d’opera, non si richiede se non di essere fedeli a colui per il quale lavorano (v. 2). Dopo queste premesse l’apostolo passa a parlare di se stesso in prima persone singolare: per lui ha ben poca importanza il fatto di essere giudicato dai corinzi o anche da un qualsiasi altro tribunale (hêmêra, giorno, in senso traslato) umano, anzi neppure lui si sente autorizzato a giudicare se stesso (v. 3). Il «giudicare» è designato qui con il verbo anakrinô, che significa «sottoporre a inchiesta giudiziaria». Egli rifiuta una procedura di questo tipo non solo se è compiuta da altri, ma ritiene di non essere autorizzato neppure lui ad applicarla a se stesso. Infatti, anche se non si sente consapevole (synoida, da cui deriva syneidêsis, coscienza) di qualcosa, cioè di aver commesso qualche sbaglio nel suo ministero presso di loro, non per questo si ritiene giustificato (dedikaiômai): il verbo dikaioô, che nelle lettere ai Galati e Romani verrà utilizzato per indicare la liberazione dal peccato e il ritorno a Dio mediante la fede (cfr. Gal 2,16, Rm 3,28), qui significa semplicemente (come in Rm 2,13) «essere riconosciuto innocente». Nessun tribunale umano è dunque competente nei suoi confronti: solo Dio è il giudice che, nel momento finale della storia umana, dovrà emettere una sentenza definitiva nei confronti di ogni uomo, e in modo speciale dei suoi ministri (v. 4). Di conseguenza Paolo invita i corinzi a evitare qualunque pre-giudizio: «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode» (v. 5). Solo Dio potrà giudicare in modo veramente oggettivo, perché è l’unico che possa scrutare l’uomo nel profondo del suo cuore: di fronte a lui infatti non contano le opere esterne, ma le intenzioni più profonde. È significativo però che, parlando del giudizio divino, l’Apostolo menzioni solo il verdetto positivo: a ciascuno verrà la lode (epainos, come in Rm 2,29) da parte di Dio.

Linee interpretative Paolo si mette al riparo da eventuali critiche da parte dei corinzi appellandosi al giudizio finale di Dio. Egli però non intende sottrarre il suo operato a ogni tipo di controllo o a una critica costruttiva da parte della comunità. Ciò che esclude tassativamente è l’atteggiamento di chi, ponendosi al di fuori di una dinamica di partecipazione e di solidarietà, vorrebbe giudicarlo e condannarlo in base a criteri o attese che non hanno nulla a che vedere con quelli che sono i fondamenti e le finalità della comunità stessa. L’annunzio del vangelo dà origine a un’aggregazione di persone che fondano la loro unione esclusivamente su Cristo e sulla salvezza da lui realizzata nella debolezza e nella sofferenza della croce. Su questo punto nessuno può giudicare l’apostolo, ma chiaramente non può neppure giudicare gli altri membri della stessa comunità. In altre parole nessuno deve giudicare gli altri in base alle proprie idee, ai propri interessi personali o di gruppo, alla propria interpretazione del cristianesimo. Questo meccanismo, oltre che tradire la dinamica della salvezza, è la causa principale dei contrasti e delle divisioni che emergono in seno a una comunità. Le molteplici eresie che punteggiano la storia della chiesa lo dimostrano ampiamente. Questo non significa naturalmente che i capi e i singoli membri della comunità siano sottratti al controllo di tutti gli altri. In una comunità questo controllo avviene attraverso la solidarietà reciproca, in forza della quale ciascuno è accolto per quello che è ed è ascoltato fino in fondo, sentendosi così libero di esprimere senza reticenze il proprio punto di vista. Proprio questa possibilità di «dire tutto» (parresia) aiuta le persone a rendersi conto di ciò che portano in sé e in ultima analisi a correggere se stesse. In questo processo un’autorità che viene da Dio e a lui deve rispondere si manifesta essenzialmente nella capacità di creare l’unità di tutti in ciò che riguarda il cammino di fede, salvaguardando al tempo stesso il pluralismo delle forme in cui tale messaggio viene incarnato nella vita di ciascuno. Se ciò non si verifica, la comunità cade inevitabilmente, come si è verificato a Corinto, nella logica dei partiti che si contrappongono e alla fine si escludono a vicenda.

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2 MARZO 2014 – 8A DOMENICA A: « GUARDATE GLI UCCELLI DEL CIELO… OSSERVATE I GIGLI DEL CAMPO »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/08a-Domenica-A/12-8aDomenica-A-2014-SC.htm

mi piace molto una Omelia in inglese che ho letto poco fa, vi metto il link:

http://christdesert.org/About_Us/Abbot_s_and_Cellarer_s_Pages/Abbot_s_Homily/index.html

2  MARZO 2014 | 8A DOMENICA A | TEMPO ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« GUARDATE GLI UCCELLI DEL CIELO… OSSERVATE I GIGLI DEL CAMPO »

Contrariamente a certi sogni utopistici di un nuovo progetto di società in cui molti, soprattutto giovani, hanno creduto, specialmente alla fine degli anni ’60, oggi gli uomini sono di nuovo afferrati dalla paura per il loro presente e soprattutto per il futuro. Alla fiducia nelle possibilità quasi infinite dell’uomo di autocostruirsi e di ridurre tutte le ricchezze dell’universo, anche quelle inesplorate, sotto il suo controllo, allo scopo di rendere più sicuro il « suo » regno, è subentrato un senso di sfiducia, addirittura di pessimismo circa la sua stessa sopravvivenza.

Le « paure » dell’uomo La cosa più tragica, poi, è che è l’uomo stesso la causa della sua paura. « L’uomo d’oggi sembra essere minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, dalle tendenze della sua volontà… L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire ».1 Così l’uomo, abbandonato alle sole sue forze, sia pure spettacolari, ha paura di se stesso e guarda con diffidenza al proprio avvenire. Proprio in una situazione del genere acquista rilevanza l’invito della Liturgia ad avere « fiducia », perché l’uomo non è solo lungo il suo cammino: Dio lo previene, l’accompagna e lo segue perché non si smarrisca nelle piste insidiose della storia. L’uomo sarà « più uomo » se si appoggerà meno a se stesso e più a Dio. Questo messaggio scardina certi modi di pensare che sembrano aver permeato di sé la cultura contemporanea, sia a Occidente che a Oriente; ma è l’unico modo che abbiamo ancora a disposizione per salvare noi stessi e la creazione, fatalmente legata al nostro destino. Se l’uomo non si affida di nuovo a Dio e alla sua Provvidenza, è perduto!

Dio ci ama come una « madre » Questo messaggio di fiducia e di speranza ci è trasmesso, oltre che dallo stupendo brano di Vangelo, dalla prima lettura, breve ma carica di tenerezza materna (Is 49,14-15). Il brano è ripreso da un contesto in cui Jahvè promette al popolo di Israele la liberazione dalla schiavitù babilonese. Davanti alla diffidenza di alcuni e alla disperazione di altri, che ritenevano impossibile un tale evento (v. 14), il Profeta ricorda la forza infrangibile dell’amore di Dio, che è più grande dello stesso amore materno. Infatti, si possono purtroppo verificare gravi eccezioni nell’amore delle madri verso le loro creature: si pensi solo ai mostruosi e frequenti casi di aborto! Dio, però, non tradirà mai il suo amore verso Israele: « Anche se vi fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (v. 15). L’amore di Dio verso il suo popolo (cf Is 54,8) altrove viene paragonato all’amore di un padre verso i suoi figli (Os 11,1-11), o a quello di uno sposo per la sua sposa.2 Il confronto con l’amore « materno » è anche più commovente perché ci riporta a qualcosa di completamente gratuito e che esprime anche il massimo di tenerezza. È importante poi sottolineare che il quadro ci richiama non a una « provvidenza » generica, ma storica, legata a certe situazioni concrete, da cui Israele sembrava non avere altre vie di scampo che la disperazione o la rassegnazione fatalistica. Eppure Dio interviene e capovolge le più normali previsioni umane: la storia non è mai bloccata in vicoli ciechi, non appena gli uomini lascino spazio a Dio per costruirla insieme a lui.

« Solo in Dio riposa l’anima mia » Anche il Salmo responsoriale è un grido gioioso di fiducia in Dio, perché a lui soltanto appartengono il « potere » e la « grazia » (Sal 62,12): con il primo egli garantisce l’esito positivo di ogni suo intervento; con la « grazia » ci assicura il suo amore per sempre. Il suo, infatti, non è un amore debole e fragile, ma un amore « potente » (62,2-3.9-12). Anche qui è importante notare che non è solo a livello personale, ma comunitario e collettivo che dobbiamo aver fiducia in Dio: è il « popolo » d’Israele in quanto tale che è invitato dal Salmista a confidare nel Signore. Proprio perché i destini degli uomini si giocano insieme, è l’umanità in quanto tale che deve riscoprire la sua dipendenza da Dio: senza di lui la storia è condannata al fallimento! È quanto chiediamo nella Colletta: « Concedi, o Signore, che il corso degli eventi nel mondo si svolga secondo la tua volontà, nella giustizia e nella pace, e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio ». Con la sua serena fiducia in Dio, la Chiesa è un segno di speranza per tutti gli uomini. Tutto è « Provvidenza » Nel brano di Vangelo Gesù approfondisce il senso di fiducia in Dio e lo cala nella realtà di ogni giorno con immagini fresche e piene di poesia. Non è necessario che vengano i grandi momenti della storia per affidarsi a Dio e sfuggire così alla disperazione o alla paura che ci soffoca: giorno per giorno dobbiamo costruire la nostra fiducia nella Provvidenza, proprio perché essa è presente in ogni momento della nostra vita. Non è forse dono del suo amore l’aria che respiriamo, il sole che ci illumina e ci scalda, l’acqua che zampilla dalle viscere della terra per dissetarci, l’erba che cresce nei campi per nutrirci, la legge della gravitazione universale per cui rimaniamo attaccati alla piccola parte di superficie terrestre che ci sorregge senza essere scaraventati nell’immenso spazio cosmico che ci disintegrerebbe? Se il nostro cuore batte regolarmente e il nostro sangue circola nell’organismo, dilatando e conservando la nostra energia vitale, non è forse perché la Provvidenza vigila ad ogni attimo sopra di noi? Sono cose molto semplici, a cui forse non pensiamo neppure, proprio perché le riteniamo scontate. Eppure la Provvidenza è tutto questo e noi viviamo in questo immenso respiro di amore, che tiene in piedi l’universo intero. Proprio a queste cose semplici ci richiama il brano evangelico odierno: Gesù ci aiuta a guardare con occhio limpido tutta la creazione, per cogliervi i segni e la espressione dell’amore del Padre e avere così fiducia per il domani.

« Nessuno può servire a due padroni » Gli occhi limpidi, però, li possiamo avere a condizione di non appoggiarci agli « idoli » costruiti dalle nostre mani, che poi diventano i nostri tiranni e « padroni ». Si pensi alla tirannia del denaro, che inganna l’uomo proprio perché gli dà un senso di falsa sicurezza: con il denaro si pensa di poter ottenere tutto; ci dà quasi un senso di onnipotenza. Lo stesso si dica del potere, del prestigio sociale, della cultura, della scienza, del fascino della bellezza, del piacere, del sesso, ecc. Perciò Gesù incomincia subito con lo spazzare via le false sicurezze, che soffocano ed emarginano la fiducia nella Provvidenza: « Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potere servire a Dio e a mammona » (v. 24). « Esiste un’impossibilità concreta di servizio a due padroni. Indubbiamente si suppone una totalità di dedizione. Si potrebbe pensare allo schiavo: non può appartenere che a un solo padrone, essendo tutto suo. Infatti la cura degli interessi dell’uno è inconciliabile con la cura degli affari dell’altro. Avvicinarsi al primo vuol dire allontanarsi dal secondo, aderire a quello equivale a distaccarsi da questo. Ciò vale di Dio e del denaro. Le esigenze divine contrastano con quelle della ricchezza. Servire Dio vuol dire fare la sua volontà, cioè obbedire al suo comandamento di amare concretamente il prossimo. Servire il denaro, invece, significa chiudersi egoisticamente al bisogno del fratello e accumulare ricchezze per se stessi. Implicito appare l’invito a scegliere con decisione il servizio di Dio, cioè la libertà dall’asservimento egoistico al denaro. L’idolo va frantumato, amando fattivamente gli altri, donando perciò ai bisognosi ».3 « Non affannatevi di quello che mangerete o berrete » Liberati dalle false sicurezze, costruite con le nostre stesse mani, potremo abbandonarci fiduciosamente, come fanciulli, nelle mani del Padre celeste, che non ci farà mancare nulla di quello che ci serve per vivere nella serenità e nella gioia. Gesù porta qui due esempi, ripresi dalla esperienza quotidiana, per rafforzare quello che viene dicendo: l’esempio degli uccelli dell’aria (vv. 26-27) e quello dei gigli4 del campo (vv. 28-30). Se Dio pensa a delle creature così piccole e quasi insignificanti, non provvederà del necessario i suoi figli? Come si vede, sono due argomenti a fortiori molto efficaci. Gesù non fa l’apologia della pigrizia o della imprevidenza, quasi che il credente sia invitato a disertare gli impegni del lavoro quotidiano: condanna soltanto la « preoccupazione » e l’affanno per le cose materiali, quasi che queste fossero le più importanti nella vita e l’uomo bastasse da solo a garantire il proprio futuro. In tal modo Dio viene completamente emarginato dalla coscienza dell’uomo, che si sente arbitro del suo destino. Proprio perché si appoggia esclusivamente a se stesso, egli perde la dimensione della « fede ». Perciò Gesù ci chiama « gente di poca fede » (v. 30). D’altra parte, il non aver più fede in Dio porta a una effettiva « paura » e preoccupazione per il domani. L’invito a « non affannarsi » viene ripetuto in questo brano per ben quattro volte (vv. 25.28.31.34): il termine greco corrisponde (merimnáo) significa appunto « essere ansiosi » e anche « fare sforzi affannosi ». La mancanza di fede genera, dunque, l’affanno; l’affanno poi avvelena e intristisce la vita, che viene così a ricadere tutta sulle fragili spalle dell’uomo, il quale, oltre tutto, non può prolungarla di un’ »ora sola » (v. 27), né proteggerla, pur con tutte le cure mediche, da un male inguaribile che ci potesse eventualmente colpire. A che serve allora tutto il nostro « affannarci » per assicurarci il domani, quando questo appartiene solo a Dio? « Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena » (v. 34). Non è forse più saggio vivere serenamente la « pena » dell’oggi, senza aggravarla con la « pena » del domani?

« Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia » Come conclusione di questo accorato invito a riscoprire il senso della Provvidenza, che ci avvolge e ci si rivela ad ogni momento, Gesù propone ai suoi discepoli una regola di condotta che riepiloga tutto il Vangelo e riequilibra tutte le dimensioni e i valori della vita: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta » (v. 33). C’è dunque una gerarchia tra le cose. Prima di tutto viene « il regno di Dio », che sta a designare la « sovranità » di Dio nella nostra vita: « sovranità », che in concreto si manifesta nell’accettare e nel fare sempre la sua « volontà ». Questo significa in Matteo (cf 5,10-20; 6,1; ecc.) il termine « giustizia » (dikaios´yne), e non un mero rapporto di dare e avere. Al secondo posto vengono « tutte le altre cose », cioè i beni materiali, necessari per vivere nella serenità, giorno per giorno. Gesù ci assicura che essi non ci mancheranno, se però « cercheremo » prima i beni celesti. Ecco una prospettiva di fede, capace di risolvere anche i problemi della fame, o del sottosviluppo, o della cattiva distribuzione delle ricchezze. Se i cristiani prendessero sul serio queste parole del Vangelo, come pur sarebbe loro dovere, non scomparirebbe forse la empia « fame » dell’oro, che porta individui e nazioni ad ammassare ricchezze per il domani, riducendo in povertà e miseria tanti altri? Una maggiore « fiducia » nella Provvidenza insegnerebbe ad essere più giusti verso i fratelli e ci libererebbe dalle angosce per il nostro futuro, che è minacciato, oltre tutto quello che abbiamo detto all’inizio, anche dalla « collera dei poveri » (Paolo VI) e dalle tensioni che l’ingiusto accumulo delle ricchezze provoca nel mondo. Il « non preoccuparsi per il domani » significa vivere bene « l’oggi »; ma il vivere bene « l’oggi » significa credere che Dio pensa a noi più di quello che noi potremmo pensare a noi stessi. È così che tutti potremo vincere le nostre « paure » e riacquistare fiducia nell’avvenire e in una società più giusta: solo la fede rende possibile quella « utopia » che gli sforzi umani, anche i più giganteschi, non riusciranno mai a realizzare.

« Ognuno ci consideri come ministri di Cristo » Al di là dei meri calcoli umani, ad affidarsi unicamente a Dio esorta anche la seconda lettura, ripresa da san Paolo. Ai cristiani di Corinto, che parteggiavano chi per Paolo, chi per Apollo, chi per Cefa (cf 1 Cor 1,12), egli ricorda che tutto questo è sbagliato, perché ognuno di loro è portatore di un messaggio e di un « ministero » non « proprio », ma derivato da Dio, datogli come « in economia »: « Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio » (1 Cor 4,1). Perciò è a lui soltanto che devono rendere conto i suoi « ministri », al di là di quello che i Corinzi molto approssimativamente possono presumere di valutare: « A me poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore… » (4,3-5). Tutto è Provvidenza, anche all’interno del « servizio » ecclesiale. Perché non ringraziare allora Dio per tutti i « doni » che egli concede alla sua Chiesa, evitando meschine divisioni, rivalità, contrapposizioni? Anche nella Chiesa quello che importa è « cercare prima di tutto il regno di Dio ». Il resto ci sarà certamente « dato in aggiunta » (Mt 6,33).

Da: CIPRIANI S.,

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 28 février, 2014 |Pas de commentaires »

Adam Elsheimer – Saint Paul

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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

Nel capitolo 22mo degli ATTI degli Apostoli, Paolo ricorda il suo incontro con il Signore Gesù sulla via di Damasco e così racconta:   “Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città, istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come lo siete voi tutti oggi. Io ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettano in prigione uomini e donne, come me ne fa testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da essi avevo anzi ricevuto lettere per i fratelli di Damasco e stavo andando per condurvi incatenati a Gerusalemme anche quelli che si trovavano là, perché vi fossero puniti. Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce venuta dal cielo mi sfolgorò tutt’intorno. Io caddi a terra e udii una voce che mi diceva. ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ Io rsposi:’Chi sei, o Signore?’ E mi disse: ‘Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti’. Quelli che mi accompagnavano videro la luce, ma non udirono la voce di colui che parlava. Io ripresi: ‘Che debbo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ‘Alzati, và a Damasco e là ti sarà detto tutto ciò che è stabilito che tu faccia’. Ma poiché non potevo più vedere per lo splendore di quella luce, fui condotto per mano dai miei compagni di viaggio e giunsi a Damasco. Un certo Anania… mi disse: ‘ Saulo, fratello mio, torna a vedere!’ E io nella stessa ora riuscii a vederlo. Egli disse:‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e a udire una parola dalla sua bocca, poiché tu renderai testimonianza a suo favore presso tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito’. (At 22,3-15)  Comincio la mia presentazione con un’affermazione che risuona fortemente nella mia mente e più ancora nel mio cuore. Eccola: La ‘carta vincente’ della nostra vita è la conversione. Conversione: una parola che da diversi anni a questa parte, molti hanno avuto paura di pronunciare, forse perché è stata spesso confusa col proselitismo, o con il lasciare una religione per un’altra, o forse perché é stata intesa come un rinnegare, uno sconfessare necessariamente tutto il passato di una vita. Anche in occasione dell’Anno Paolino (2008-2009), mentre Benedetto XVI parlò così tanto della conversione di San Paolo, alcuni studiosi non vollero per nulla parlare di questa realtà. Ad ogni modo questa è la realtà su cui noi ci soffermeremo insieme: la conversione di Paolo e nostra. Perché?  Perché sono convinto che a fondamento della vita di ogni persona impegnata nella costruzione del Regno, a fondamento della vita di ogni apostolo e di ogni suo rinnovamento, c’è sempre una grande svolta, una profonda trasformazione nell’intimo della persona; c’è una conversione causata da una chiara illuminazione da parte dello Spirito di Dio e dall’azione di Cristo che attira a sé la persona. Nella vita dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, vediamo in modo meraviglioso quanto ciò sia vero. E Paolo ci ispira e ci dice: Volete essere apostoli di Cristo? Volete rinascere come apostoli per avere un entusiasmo tutto nuovo? Se sì, lasciatevi afferrare da Lui, lasciatevi convertire, cioè trasformare da Cristo. E’ così che il grande vescovo Mariano Magrassi a cui ero legato da amicizia, descriveva la conversione: come un essere afferrati da Cristo, come una illuminazione da parte dello Spirito, che poi diventa un processo di crescita; attraverso di esso il rivestirsi di Cristo diventa sempre più intenso e tende al compimento. Notiamo che l’illuminazione, inizio della conversione, può essere istantanea, la ‘crescita nella conversione’, richiede tempo.  Due autori che, oltre a Mons. Magrassi mi hanno ispirato tanto per quanto riguarda il significato del termine conversione in San Paolo e in noi, sono: il benedettino tedesco Anselm Grun e il gesuita italiano Francesco Rossi de Gasperi. E naturalmente, ho preso ispirazione anche da Papa Benedetto XVI.  Nel suo libro intitolato ‘Paolo e l’esperienza religiosa cristiana’, Anselm Grun dice: “ Quando Paolo non vide più nulla, allora vide Dio… si aprì al vero Dio, al Padre di Gesù Cristo… fece l’esperienza decisiva della sua vita…quella di Gesù Cristo crocifisso e risorto… fece l’esperienza della morte e risurrezione di Gesù come capovolgimento di tutti i criteri umani…fece l’esperienza dell’iniziazione a una vita nuova… l’esperienza dell’invio in missione… l’esperienza mistica…” Se tutto ciò non è conversione. che cos’è la conversione?  Nel suo libro intitolato ‘Paolo di Tarso evangelo di Gesù’, il Gesuita Francesco Rossi de Gasperi, che si interessa alle radici ebraiche della fede cristiana e parla con maestria e concretezza di “continuità trasfigurata” tra Prima e Ultima Alleanza ( nel nostro linguaggio tradizionale: Vecchio e Nuovo Testamento ), parla della trasfigurazione operata in Paolo dalla sua ‘ora di Damasco’. Paolo viene presentato come il grande testimone di Cristo che ha colto luminosamente la continuità trasfigurata tra Prima e Nuova Alleanza e, allo stesso tempo, la novità di quest’ultima, mediante la “rottura” significata dalla croce di Cristo Gesù crocifisso e risorto. Apprezzo molto la precisione e la delicatezza di P. Rossi de Gasperi nelle sue presentazioni che fanno capire la conversione come una realtà completamente nuova e come le radici ebraiche del Cristianesimo dovrebbero portare a estirpare ogni radice di antigiudaismo in ambiente cristiano.   E veniamo al Papa.  Papa Benedetto XVI ha descritto la conversione di Paolo così: “Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo.”  Citerò ancora il Papa. Intanto però a quanto di mio ho detto sopra, aggiungo questo pensiero: Il fatto che Paolo sia rimasto ebreo, lo prendo, per così dire, per scontato. Infatti la Grazia non distrugge il bene che trova nella persona, ma costruisce sulla realtà che trova, purificandola e facendola crescere. Su di essa poi costruisce una realtà che si presenta come completamente nuova e gratuita, come fu l’incontro di Paolo con Cristo Gesù. In comunione con questo grande apostolo e con tutta la Chiesa, mettiamoci in cammino per un processo di crescita rinnovato, perché, lungo la strada, anche noi abbiamo a fare un’esperienza profonda del Cristo e abbiamo ad essere conquistati dal suo amore e veramente trasformati da Lui. Ma Cristo deve diventare un’esperienza per noi, con i tre aspetti costitutivi di questa esperienza:  - la convinzione che Cristo non è soltanto un grande personaggio del passato, come lo è per molti. Cristo è vivo. E’ questa la nostra grande benedizione proclamata da Paolo in modo così forte: 1Cor 15:12-22  - la convinzione che la presenza di Cristo non è passiva. Cristo agisce per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo: Rm 8,31-39  - l’ospitalità, cioè l’accoglienza di Cristo e della sua azione salvifica a livello mentale, di cuore e viscerale: Fil 2,5-11   ALCUNE CONSEGUENZE FORTI DELL’INCONTRO CON CRISTO – Una grande umiltà che si traduce in obbedienza a Cristo Gesù nella consapevolezza che è Lui che dà la vita, è Lui che ci sostiene, è soltanto in Lui che troviamo salvezza. L’unica cosa che noi possiamo fare per la salvezza nostra e degli altri, è lasciarci amare da Lui ed è collaborare con Lui, mettendo tutta la nostra fiducia nella potenza dello Spirito.  - La contemplazione di Cristo per rivestirci di Lui. Nel nostro ordine di valori e di realtà importanti, abbiamo tre elementi che presento secondo la loro importanza: la mistica (l’esperienza spirituale del lasciarci amare da Dio); l’etica (che indica ciò che è per la gloria di Dio e ciò che è bene per noi e per gli altri. A me piace mettere l’etica nel contesto di Mi 6,8: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare teneramente e camminare umilmente con il tuo Dio”; l’ascetica (disciplina spirituale, cammino di vita nello Spirito del Signore).  - Il passaggio dalla prospettiva dell’autoreferenzialità, alla prospettiva ‘aperta’ che ci fa considerare prima di tutto Cristo e l’altro. Siamo strumenti vivi di salvezza nelle mani di Cristo Gesù per gli altri e con gli altri.  - Il bisogno di evitare ogni estraneità, ogni stile ‘assente’ nel relazionarci agli altri, valorizzando così il Vangelo e considerando le persone che incontriamo, come grandi doni di Dio e nelle situazioni concrete della loro vita. Ciò significa comunicazione e comunione. – Il passaggio dall’atteggiamento di chi “lavora per Dio” – che presenta il pericolo dell’attivismo e dell’amare più la vigna del Signore che il Signore della vigna – a quello di chi “fa il lavoro di Dio” – che implica discernimento – e poi a quello di chi ha questo grande desiderio: lasciare che “Dio lavori in lui e per mezzo di lui”.  E’ quest’ultimo l’atteggiamento che ci fa essere contemplativi in azione e che fa sì che il nostro apostolato sia un condividere con gli altri ciò che Dio ci dona nella contemplazione (l’unico apostolato che è efficace!).   Paolo, apostolo per vocazione! E anche noi chiamati come lui. La vocazione di ogni apostolo: un dono di grazia e un impegno esigente. Ma niente paura! Ricordiamo la profonda convinzione di Paolo: Quando ci fidiamo del Signore, non possiamo essere delusi.   L’INCONTRO DI CRISTO CON PAOLO E IL NOSTRO INCONTRO CON LUI   (Da MISSIONE COME INCONTRO di Nicoletta Gatti in COMUNIONE E MISSIONE, della diocesi di Trento) Riporto questo testo perché, nella sua semplicità e chiarezza – così mi sembra -, fa sentire l’incontro di Cristo con Paolo non solo come missione, ma anche come conversione: «E avvenne che mentre era in viaggio e stava per avvi­cinarsi a Damasco all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”» (At 9,3-4). C’è un incontro nella vita di Paolo che costituisce un punto di non ritorno. Continuamente nelle sue lettere si riferisce a questo momento, come se la sua esistenza, la sua preghiera e il suo annuncio fossero una continua e crescente interiorizzazione dell’esperienza vissuta (Gal 1,15-17; Fil 3,7-13). Ma cosa accade lungo la strada? Paolo sperimenta la vicinanza di Dio, incontra il Messia a lungo atteso, l’Emmanuele annunciato dai profeti. Lo incontra come il Figlio crocifisso e Risorto, il Figlio dato per la salvezza del mondo. Da questo momento Paolo vive per Lui: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore manifestato nella croce diviene la forza trainante della sua esistenza: «…l’amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14). Nella lettera ai Romani (8,35-37), leggiamo parole che deve aver ripetuto a se stesso migliaia di volte: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la per­secuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati». Persecuzione e sofferenza sono accolte come partecipazione alla passione di Cristo (1Tes 2,8; 2Cor 4,10), come immersione nella sua morte (Rom 6,4-6), perché una cre­atura nuova possa venire alla luce: una persona che ha come proprio io, l’io di Gesù. In Lui, Paolo può vivere persino la prigio­nia e la morte come un’occasione per crescere nella «piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), ed imparare a condividere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): lo svuotamento, l’incarnazione, l’umiltà, l’obbedienza, il farsi «tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).  Dall’intimità con Gesù, nasce la missione. La passione bruciante per l’annuncio, la gelosia materna verso le Chiese da Lui fondate, i viaggi continui, i pericoli affrontati… tutto scaturisce dall’amore sovrabbondante che sperimenta nella relazione con Cristo. Da questa relazione parte ed a questa relazione vuole ricondurre le comunità da lui fondate.  Luca ha compreso bene questo: nel libro degli Atti, l’at­tività di Paolo è descritta come «testimonianza» (cfr. 18,5; 20,21.24; 23,11) e «servizio» (cfr. 20,19; 26,16). Afferrato e posseduto da Cristo è posto come segno della potenza di Dio dinanzi alle nazioni (cfr. 13,47):… Paolo è «servo del Dio Altissimo» (At 16,17), un Dio che lo ha conquistato (Fil 3,12), trasformando il suo cuore nel cuore di Cristo.  Credo che questo sia il segreto di Paolo. Egli ripete anche a noi che la Missione nasce, cresce e respira a tu per tu con una persona: Cristo…”   “O Dio che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi a noi di essere testimoni della tua verità e di camminare sempre nella via del Vangelo. Per Cristo nostro Signore.” (dalla liturgia)

IN SIMPLICITATE CORDIS

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IN SIMPLICITATE CORDIS (anche Paolo)

BUSSOLE PER LA FEDE

10 novembre 2013

di Don Giuseppe Liberto

Certi linguaggi popolari confondono la semplicità evangelica con la semplicioneria degli sciocchi. Semplicità cristiana non è puro atteggiamento psicologico ma luce in splendore di verità, purezza di cuore e di sguardo, umiltà di spirito. La semplicità è una delle qualità dello stesso Gesù il quale “svuotò se stesso” e, rinunciando alle prerogative divine, s’incarnò per diventare carne della nostra umana natura (cf Fil 2, 5-11). Come Gesù, anche il cristiano, vivendo la sua vita di fede in simplicitate cordis, è pienamente configurato al suo Signore e Maestro. Nel discorso della montagna, Gesù, al riguardo, dà alcune preziose indicazioni. Innanzitutto, istruisce che occorre avere l’occhio semplice che è riflesso e luminosità del cuore: La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il corpo sarà nella luce (Mt 6,22). Il Maestro esorta ancora a essere semplici come le colombe e furbi come i serpenti (Mt 10,16). Una semplicità, quindi, che è candore interiore, purezza di cuore, vivacità di spirito e incapacità di pensare e operare il male. In effetti, la furbizia, armonizzata con la semplicità, è prudenza e preveggenza. La sola furbizia senza semplicità è sottoprodotto dell’intelligenza, la usano soltanto il losco, il falso, il tenebroso, il contorto. La semplicità che vuole Gesù si oppone a complicazione, a doppiezza, a violenza, ad avidità di avere e di potere, al successo senza scrupoli, a manipolazioni disoneste. E’ illuminante la parabola, più che del fattore “infedele”, come spesso è qualificato, del fattore “furbo”, un impiegato di alto livello che, non amministrando bene, perde la fiducia del suo ricco padrone (cf Lc 16, 1-13). A Gesù non interessa l’infedeltà del fattore, evidentemente riprovevole, ma la risolutezza con cui mette al sicuro il proprio futuro. Gesù desidera che i figli della luce usassero la stessa furbizia pronta, decisa e radicale per operare il bene. Luca mette in evidenza il fatto che la ricchezza disonesta non è soltanto quella accumulata coi furti e gl’inganni, ma la ricchezza in se stessa. Per Gesù “farsi degli amici” che poi ci accoglieranno nelle “dimore eterne”, significa aiutare il mendicante, cioè “colui che non è accolto”. Il tesoro dell’accoglienza è comunione d’amore che resiste a ogni tempo. Il denaro e la ricchezza, abitualmente, dividono e isolano. L’amministratore “furbo” li userà per farsi aprire le porte accoglienti. Tutto si capovolge con lo stile dell’accoglienza. In questa terra, i beni devono servire per costruire la comunione fraterna (Atti 2, 42-45), solo così saranno vincoli d’amicizia che apriranno le dimore eterne del regno futuro.  Qui in terra, gli amici di Dio, che devono diventare nostri amici, sono i poveri. Il cristiano, nella semplicità di cuore e con l’evangelica furbizia dell’intelligenza, deve essere risoluto nello spendersi per gli altri. Con la morte, la ricchezza scompare; nell’eternità sopravviverà soltanto l’amore. San Paolo, scrivendo ai romani di allora, li esorta a essere semplici “di fronte al male”, cioè a vivere nella semplicità sia quando si riceve il male, che mai dev’essere ricambiato a nessuna condizione, sia nel non operare il male, presentandosi al mondo nella totale innocenza e trasparenza: Vi raccomando, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici. La fama della vostra obbedienza è giunta a tutti: mentre dunque mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male (Rm 16,17-19). Anche nella lettera ai Filippesi, l’apostolo insegna che la semplicità è la qualità propria dei figli di Dio che vivono in rapporto d’amore col Padre: Siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete risplendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita (Fil 2,15). Nella semplicità, la comunità si armonizza per vivere la comunione e realizzare l’unità nella verità. La Chiesa, uscita dal vortice d’amore della Pentecoste, viveva in concordia nella letizia e semplicità di cuore (cf Atti 2,46). La semplicità è totale carità, splendore di verità, amore di comunione, disinteresse nel donare, accortezza nel respingere il male e furbizia nell’operare il bene. Soltanto il sapiente possiede questa virtù evangelica. Lo sciocco, invece, è doppio, egoista, invidioso, ambiguo, malizioso e malevolo. La semplicità è sintesi armoniosa e feconda di perfezione. Dio è semplicità assoluta perché è sintesi di ogni perfezione. Il semplice è beato perché possiede il tesoro più prezioso e amato: la divina sapienza. La semplicità, come anche la chiarezza, è dono dello Spirito. Semplicità e chiarezza sono qualità che si integrano tra loro. Scaturiscono dalla verità e la costruiscono. Il semplice è l’asceta che tende a raggiungere l’essenziale delle cose e ne diffonde la luce e la fragranza. Il semplice, con la sua intelligenza intuitiva e chiara, opera in profondità più che in apparenza. La chiarezza gli dà uno sguardo limpido e trasparente, la verità lo immerge nella luminosità della trascendenza, egli scruta la realtà con gli occhi di Dio e la creazione con lo sguardo del Creatore. Sulla linea di Marta e Maria, il semplice ricerca, con tutte le forze, il valore irrinunciabile dell’unum necessarium che è, innanzitutto e soprattutto, la ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia, perché il resto sarà dato in sovrappiù (cf Mt 6,33). Sulla via della semplicità, il credente progredisce e porta frutti di bene e di bellezza, perché si mette sulla via della Provvidenza e dell’abbandono in Dio. La semplicità è l’atteggiamento dei miti delle Beatitudini, cioè di quelli che possederanno la terra. La ricerca della verità nella semplicità non è facile. Essa, infatti, proprio perché cerca e desidera soltanto la verità, non può che seguire l’itinerario della croce. È insieme scienza e sapienza della croce e conduce sempre al martirio. Non, però, a un martirio di fallimento e di disonore, ma al martirio di vittoria e di gloria. Dinanzi alle mille tensioni e alle innumerevoli questioni che ci investono drammaticamente giorno dopo giorno, si esigono risposte chiare che fanno emergere la verità in un contesto di chiarezza e di semplicità. Talvolta, però, le risposte non arrivano, e allora bisogna attendere pregando come Gesù al Getsemani. Il vero credente, che vive nella semplicità evangelica, sa attendere con spirito di pazienza e il cuore ricolmo d’amore. Solo allora le angosce, generate dalle torbide tortuosità diaboliche, si risolveranno in mistica profezia di semplicità evangelica come risposta luminosa offerta all’uomo spirituale che vive il suo impegno nella verità della carità, nella libertà di spirito e nell’umiltà di cuore.

Giuseppe Liberto

“El Señor Dios modeló al hombre de arcilla del suelo,sopló en su nariz un aliento de vida y el hombre se convirtió en ser vivo” –Gn 2,7-

“El Señor Dios modeló al hombre de arcilla del suelo,sopló en su nariz un aliento de vida y el hombre se convirtió en ser vivo” –Gn 2,7- dans immagini sacre Icono+Trinidad+1

http://espiritualidad-cotidiana.blogspot.it/2012/02/una-cita-con-la-vida-escrito-por.html

Publié dans:immagini sacre |on 26 février, 2014 |Pas de commentaires »
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