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Figure delle realtà ultime nell’Antico Testamento

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=131

Figure delle realtà ultime nell’Antico Testamento

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris

Verbania Pallanza, 19 dicembre 1998

Gli ebrei fino al secondo secolo a.C., al tempo dei martiri a causa della fede, non si interessarono molto dell’aldilà, oltre la morte. Il futuro, tanto del singolo individuo che dell’intera umanità e del mondo, non va oltre la storia.
La speranza di un futuro ultimo si fa strada su un terreno fecondato da elementi religiosi e culturali che occorre prendere in considerazione.
Innanzitutto la fede in Dio creatore del mondo e signore della storia favorirà il formarsi della prospettiva di una nuova creazione e la fede in un Dio fedele agli impegni dell’alleanza farà sorgere l’idea di resurrezione per chi è ucciso a causa della fede. Così pure favorirà la speranza in futuro oltre la storia la fede in un Dio giusto e l’esperienza di persone che non hanno avuto giustizia in questo mondo.
La cultura dell’antico medio oriente poi, in particolare quella mesopotamica e egiziana, fornirà materiali per l’elaborazione della speranza ebraica nell’aldilà.

1. La speranza escatologica
Momento fondamentale è l’esperienza traumatica dell’esilio, epoca nella quale sorge una nuova coscienza individuale, prima assorbita in quella collettiva.
Nei profeti, anzitutto, l’azione salvifica di Dio, il vivente, è garanzia di vita e di resurrezione. In particolare Osea nel 7° secolo (« al terzo giorno ci farà rialzare noi vivremo alla sua presenza ») e Ezechiele nel 6° secolo preparano il linguaggio della resurrezione sia individuale che collettiva, anche se impiegano un linguaggio metaforico per annunciare il ritorno nella terra o per scongiurare la minaccia dell’invasione.
Nei libri sapienziali emerge il problema di coniugare la fedeltà del Dio vivente e il destino dell’essere umano, che per Giobbe è totalmente circoscritto entro la vita presente. Giobbe vuole avere giustizia in questa vita e spera in un Dio riscattatore, salvatore
Nel 2 Maccabei si giunge a enunciare il tema della resurrezione non più come metafora, ma come realtà, come risposta alla morte del resistente, conseguenza della fedeltà a Dio. La madre e i suoi sette figli martiri esprimono la speranza in un futuro oltre la morte. La resurrezione viene vista come un nuovo atto creatore di Dio. Il Nuovo Testamento non aggiungerà nulla di nuovo, se non la resurrezione di Gesù, all’idea di resurrezione come nuova creazione da parte di Dio. Non c’è attesa di un giudizio finale, ma passaggio immediato alla nuova vita. La resurrezione è vista come reintegrazione di tutto l’essere umano.
Nel libro della Sapienza si parla di anime dei giusti, di immortalità. Il linguaggio platonico utilizzato (immortalità, incorrutibilità) deve essere letto, a differenza di quanto solitamente si fa, secondo la prospettiva della cultura ebraica: l’immortalità non è una qualità dell’anima rispetto al corpo mortale. L’essere umano muore e la potenza di Dio creatore lo fa vivere nella sua interezza.

2. Giudizio di Dio e giorno del Signore
Giudizio di Dio e giorno del Signore sono categorie fondamentali riguardanti la realtà ultima.
Anzitutto è bene sottolineare che il giudizio di Dio è l’azione a difesa dell’indifeso, del povero, del debole, di chi non ha giustizia. I Profeti utilizzano la categoria del giudizio per denunciare l’infedeltà del popolo all’alleanza. Il giudizio di condanna è la conseguenza del rifiuto alla conversione.
« Il giorno del Signore » è una espressione impiegata per parlare del giudizio di Dio. Anche l’ira di Dio è legata al giudizio: indica la dimensione affettiva, emotiva, passionale del rapporto tra Dio e il suo popolo. Dio si adira come un padre, o una madre o uno sposo di fronte al tradimento. Restiamo talvolta scandalizzati di fronte ad un Dio che non corrisponde al Dio aristotelico impassibile o al modello dell’uomo che controlla e gela le proprie emozioni. L’esperienza religiosa deve coinvolgere integralmente l’essere umano, anche con le sue passioni.
La categoria del giudizio appare già con Amos, in cui il giorno del Signore appare come giorno di tenebre e di oscurità, immagine ripresa dai profeti successivi, fino ai vangeli sinottici quando parlano dell’oscurità che avvolge la terra nel momento della morte di Gesù, giorno decisivo del giudizio.
Anche Isaia (2,10-22) presenta il giorno del Signore come giorno del giudizio, come intervento di Dio nei confronti di Israele che ha abbandonato il rapporto di fedeltà all’alleanza e ha riposto la propria fiducia nei prodotti delle proprie mani, negli idoli o nelle potenza politica e militare. L’intervento di Dio, presentato con l’immagine del terremoto, porta allo scoperto il male per eliminarlo.
Per Sofonia il giorno del Signore (Dies irae) è un giorno di strage, con lo scopo ultimo di salvare il giusto che si affida a Dio. Per Gioele (2,1-2.10-11) il giorno del Signore è vicino, è incombente come una invasione straniera, come una distruzione che minaccia la città. Questo modo di parlare sarà ripreso nel Nuovo Testamento. Non si tratta di incutere terrore o paura, ma di invitare alla conversione.
Rimane il problema di una insufficiente distinzione tra male e persone che commette il male.

3. Testi apocalittici
In Isaia (24-27) si parla di resurrezione, ma in termini metaforici, indicando il ritorno nella terra al popolo deportato.
Ezechiele (38-39) parla della guerra escatologica: Dio farà giustizia contro le nazioni prepotenti, contro Gog re di Magog. Il testo fornirà materiale all’unico testo interamente apocalittico della Bibbia: l’Apocalisse.

Conclusioni
Quello che conta, al di là del linguaggio utilizzato, è la fedeltà di Dio, del Dio della creazione, dell’esodo, dell’alleanza. L’intervento efficace di Dio porterà alla piena rivelazione delle sua fedeltà e nello stesso tempo fa appello alla fedeltà del giusto: l’alleanza implica una duplice fedeltà.
Tutta la terra e il cosmo sono sconvolti dall’intervento di Dio. Nel momento finale si ha lo stesso respiro universale ed ecumenico del momento iniziale, quello della creazione. La storia di Israele è parabola rappresentativa della storia dell’intera umanità.
La fede nel Dio creatore consente di pensare alla fine non come distruzione, ma come salvezza, come creazione di « cieli e terra nuova ».

Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo – udienza 12 novembre 2008

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-16105?l=italian

Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 12 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro. Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione riguardo alla seconda venuta del Signore.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell’attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dallevento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti.

Probabilmente nellanno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l’Apostolo scrive così: « Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti » (4,14). E continua: « Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore » (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è « essere con il Signore »; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata.Nella seconda

Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare dice come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: « Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo! » (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dellarrivo del Signore vi sarà l’apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato uomo iniquo, il figlio della perdizione (2,3), che la tradizione chiamerà poi lAnticristo. Ma lintenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: « Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità » (3, 10-12). In altre parole, lattesa della parusia di Gesù non dispensa dallimpegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi lattesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo.

La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia ritorno del Giudice/Salvatore e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: « Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi » (1, 21-26).Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perci

ò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.

E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell’attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro.In secondo luogo, la certezza che Cristo

è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c’è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.

Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna è giudice e salvatore insieme ci ha lasciato limpegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.Un ulteriore dato dell

insegnamento paolino riguardo all’escatologia è quello delluniversalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9).

Infine, un ultimo punto che forse appare un po’ difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell’area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa « Signore nostro, vieni! » (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si chiude con questa preghiera: « Signore, vieni! ». Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: « Vieni, Signore Gesù! ». Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c’è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! « Vieni, Signore Gesù! », e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.

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