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L’INNO DELL’APOSTOLO PAOLO ALLA CARITÀ ATTUALIZZATO DA UN GIORNALISTA

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L’INNO DELL’APOSTOLO PAOLO ALLA CARITÀ ATTUALIZZATO DA UN GIORNALISTA

(ANCORA L’INNO ALLA CARITÀ NELLA SECONDA LETTURA DI  DOMENICA, IO NON MI STANCO MAI DI LEGGERLO)

CASTELVENERE – SABATO 7 FEBBRAIO 2009

1 CORINTI 13, 1-13

(DAL BLOG  DI LUIGI ACCATTOLI)

-1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto. 13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
Non faremo una lettura esegetica: non è affar mio. Faremo una lettura da cristiani comuni. Qui abbiamo il vescovo e il parroco, che potrebbero dirci di più. Noi cristiani comuni facciamo una lettura dal punto di vista dell’uomo d’oggi, nella sua lingua media e nella sua media cultura. Ci chiediamo a che cosa penserebbe oggi l’apostolo Paolo dicendo “la carità è paziente, è benigna”. Allora ammaestrava i cristiani di Corinto che si cavavano gli occhi animatamente gareggiando per la leadership della comunità, oggi magari sarebbe colpito dalla sfida tra cristiani che si vituperano con altrettanta animazione a invettive in crociate: “voi di destra, voi di sinistra…”. Sarebbe colpito da questo e da molto altro. Proviamo a chiederci da cosa, seguendo l’inno parola per parola. Per gente semplice quale noi siamo l’inno alla carità è un testo centrale del Nuovo Testamento, come il Simposio di Platone, con il suo elogio dell’eros, è un testo centrale dell’umanesimo greco. E come l’enciclica Deus caritas est di papa Benedetto è un testo centrale per il cristianesimo di oggi. E come le parole di Teresa di Lisieux “Nel cuore della Chiesa mia madre io voglio essere l’amore” sono un dono capitale per ognuno di noi. Teresa e Benedetto ci dicono insieme l’attualità dell’inno di Paolo.
L’inno, come si dice a scuola, lo possiamo dividere in tre parti. E’ detto “inno” perchè ha l’afflato di un canto, di una poesia. E’ uno dei testi in cui Paolo si fa poeta.
Chiameremo la prima parte: il primato della carità, versetti 1-3.
La seconda la chiameremo: natura e opere della carità, versetti 4-7.
La terza: la carità dura per sempre, ovvero l’eternità dell’amore, versetti 8-13.
Siamo probabilmente nel 53 dopo Cristo quando Paolo scrive la Prima lettera ai Corinti: cioè appena venti o quindici anni dopo che i primi cristiani hanno fatto l’esperienza della morte e della resurrezione di Cristo. Prima della redazione dei Vangeli. In questa lettera è la narrazione dell’ultima cena, la prima che sia giunta a noi (capitolo 11).
Incredibile tempismo di Paolo. L’Anno Paolino ci provoca a riflettere sulla posizione principe di Paolo nel Nuovo Testamento.
In questa lettera Paolo parla a una comunità cristiana con forti divisioni interne, simile alla Chiesa di oggi; inserita in una società libertaria, che amava ostentare l’attrazione dei corpi, proprio come la nostra. Tra i cristiani di Corinto c’è “uno che convive con la moglie di suo padre” (5, 1). E’ in questa lettera che Paolo dice: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (4, 15). E’ qui che leggiamo le parole consolanti per ogni coppia cristiana: “Il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (7, 14). Qui ancora leggiamo: “Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (9, 22). E’ qui il motto “Se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione” (15, 14). Nel vasto mondo di questa lettera vi è come un culmine, che è il nostro inno alla carità. Esso sgorga dal cuore di Paolo in risposta alla diatriba di quella rissosa comunità, lacerata dalla contesa tra i portatori dei carismi di maggiore richiamo: il dono delle lingue, quello delle guarigioni, quello dei miracoli, quello della conoscenza, quello della profezia. Di fronte a tale contesa Paolo dice: “desiderate i carismi più grandi” e subito aggiunge che il più grande è l’amore, “la via più sublime” (12, 31).
1 SE ANCHE PARLASSI LE LINGUE DEGLI UOMINI E DEGLI ANGELI, MA NON AVESSI LA CARITÀ, SONO COME UN BRONZO CHE RISUONA O UN CEMBALO CHE TINTINNA.
Che cos’è questa “carità” di cui parla, dopo aver detto “vi mostrerò la via più sublime”? E’ un dono, è una via, ma è anche molto di più: è l’amore, è Dio. Il Dio di Gesù Cristo che un’altra “lettera” del Nuovo Testamento, la Prima di Giovanni, qualifica come “amore”: “Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (4, 16).
Dobbiamo dunque dire “carità”, o dobbiamo dire “amore”? La parola dei testi originali greci è la stessa: “agape”. Noi useremo ambedue le parole italiane, ma diciamo subito che per sentire la forza piena di questo inno, il trasporto con cui esso erompe dal cuore di Paolo, è utile provare a leggerlo mettendo la parola “amore” dove la traduzione della CEI mette “carità”. Perchè nella cultura nostra “carità” e “amore” non sono la stessa cosa.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli”: cioè ogni linguaggio, anche quelli sconosciuti agli umani. Mi viene in mente Tolkien, l’autore de Il Signore degli anelli, che fa parlare stregoni e orchetti, hobbit e nani, elfi e kent, uomini selvaggi e troll e ha la bellissima espressione: “Tutte le stirpi dotate di parola”. Ecco dunque, in linguaggio d’oggi, “le lingue degli uomini e degli angeli”.
2 E SE AVESSI IL DONO DELLA PROFEZIA E CONOSCESSI TUTTI I MISTERI E TUTTA LA SCIENZA, E POSSEDESSI LA PIENEZZA DELLA FEDE COSÌ DA TRASPORTARE LE MONTAGNE, MA NON AVESSI LA CARITÀ, NON SONO NULLA.
La carità vale più della profezia, più della conoscenza e più della fede, addirittura più dei miracoli. Qui per certo occorre sostare. Per capire bene.
La fede non è al di sopra di tutto? No, ci dice Paolo, al di sopra c’è la carità, cioè l’amore, cioè Dio. E se anche la fede fosse clamorosamente grande, da operare segni straordinari, non eguaglierebbe comunque l’amore.
Perché la fede mi porta a Dio, mi congiunge al Signore; l’amore invece è Dio: ecco perché è più in alto.
Ed ecco perché è meglio leggere “amore” dove è scritto “carità”.
Ma possiamo usare la stessa parola per dire Dio (Dio è amore) e per dire il dono che ci viene da Dio (Dio ci dona il suo amore) e per dire infine che quel dono siamo chiamati a trasmetterlo ai fratelli (amare gli altri come Dio li ha amati)? Possiamo: questa è la meraviglia cristiana!
C’è come un’attrazione, una calamita che ci destina, ci chiama, ci attrae verso Dio per questa via “sublime”: egli che è amore viene a noi con il suo amore e ci insegna ad amare. Purchè noi accettiamo di aprirgli il cuore, di fargli spazio. Di obbedire all’amore. L’amore obbedisce all’amore.
3 E SE ANCHE DISTRIBUISSI TUTTE LE MIE SOSTANZE E DESSI IL MIO CORPO PER ESSER BRUCIATO, MA NON AVESSI LA CARITÀ, NIENTE MI GIOVA.
E’ forse il versetto più importante per noi, la chiave a noi dedicata per permetterci di entrare in questo grande testo cristiano. Una chiave dedicata a noi uomini e donne dell’inizio del terzo millennio, che siamo sensibilissimi all’amore e sensibili alla carità ma tendiamo a ridurla alla beneficienza. Attenzione dunque: la carità non è la Caritas! Non la possiamo ridurre al solo soccorso del bisognoso.
Qui più che mai diviene chiaro che non basta tradurre “carità”, ma bisogna arrivare a tradurre “amore”.
Ecco come il papa nell’enciclica “Deus Caritas est” segnala questo punto decisivo: “San Paolo, nel suo inno alla carità (cfr 1Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: ‘Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova’. Questo inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che nel corso di questa Lettera enciclica, ho svolto sull’amore” (34).
Chiediamoci – proviamo a chiederci – che cosa mancherebbe, che cosa potrebbe mancare in una donazione di tutte le proprie sostanze e addirittura della propria vita fatta senza “la carità”. Ci riesce difficile intenderlo, ed è naturale perché si sta parlando indirettamente di Dio e Dio è pur sempre di suo inconoscibile, nonostante la conoscenza “per speculum” che ce ne ha fornita il Cristo. Qui – come in altri passi dell’inno – avvertiamo che Paolo ci parla per paradossi, per iperboli. Per dirci qualcosa che propriamente non si può dire.
Per un tentativo di comprensione ascoltiamo ancora il papa: “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (ivi).
4 LA CARITÀ È PAZIENTE, È BENIGNA LA CARITÀ; NON È INVIDIOSA LA CARITÀ, NON SI VANTA, NON SI GONFIA, 5 NON MANCA DI RISPETTO, NON CERCA IL SUO INTERESSE, NON SI ADIRA, NON TIENE CONTO DEL MALE RICEVUTO, 6 NON GODE DELL`INGIUSTIZIA, MA SI COMPIACE DELLA VERITÀ.
Nella seconda parte dell’inno Paolo con linguaggio discorsivo e quasi narrativo – non definitorio: Dio non può essere definito – ci indica 15 note o caratteristiche dell’amore: è come una cascata di attributi di crescente intensità, a indicare qualcosa che supera ogni immaginazione – appunto perché è Dio, in definitiva, al centro dell’inno e non semplicemente un carisma o una virtù. Osserva il cardinale Martini (nel volume L’Utopia alla prova di una comunità, Piemme 1998, p. 129) che sette delle note sono positive e otto negative e anche le positive “richiedono un patire più che un agire”. Forse – ipotizza Martini – Paolo vuole segnalarci che “amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono” (ivi). “Sopportare” dice, ma io direi accettare, accogliere: un poco come fanno i genitori con i figli, che non li sopportano ma li accolgono. Torneremo su questa pietra di paragone dell’amore oblativo che è quello materno-paterno.
Il modello in questa elencazione è la figura di Gesù che tutto sopporta – per amore – fino alla croce. E a sua volta il comportamento di Cristo rinvia al Padre “ricco di misericordia”.
La carità è paziente come l’amore dei genitori che si alzano anche dieci volte la notte per il bambino che piange;
è benigna la carità: cioè benevola e benefica secondo l’insegnamento di Cristo che passa beneficando quanti incontra – dunque fa festa se viene ritirata una scomunica;
non è invidiosa la carità: per esempio non dice al papa da sinistra “ma quante concessioni stai facendo ai tradizionalisti” – ovvero, da destra: “stai sopportando troppo gli abusi dei novatori”;
non si vanta: qui faccio un esempio in positivo: gli italiani hanno molto operato durante l’occupazione nazista per salvare gli ebrei; mi sono occupato a lungo della materia e non ho mai trovato uno dei salvatori che abbia menato vanto del gesto compiuto;
non si gonfia: si gonfia invece chi giudica gli altri cristiani con commiserazione: “voi di sinistra” non siete a difesa della vita, “voi di destra” non volete l’accoglienza dello straniero; e chi è di centro si gonfia magari due volte: “ma che cristiani siete voi di sinistra e voi di destra, che dimenticate questo e quello? Noi di centro invece…”;
non manca di rispetto: possiamo dire che non siamo d’accordo con il papà di Eluana senza mancargli di rispetto come fa per esempio chi lo definisce “assassino”;
non cerca il suo interesse: perché cerca l’interesse di Cristo e di tutti in Cristo, evitando ogni movimento teso a occupare i primi posti nella vita della comunità;
non si adira come chi dice “ha esagerato e ora gliela facciamo pagare”, parole che vengono lanciate a chi si azzarda a uscire dal coro, in ogni direzione;
non tiene conto del male ricevuto: il comportamento di “misericordia” del papa verso i vescovi lefebvriani, due dei quali l’avevano persino accusato di eresia;
non gode dell`ingiustizia: quando vediamo un ladruncolo che viene ucciso per “eccesso di difesa” – ecco quella è un’ingiustizia – di essa non possiamo compiacerci;
ma si compiace della verità: anche quando non coincide con la nostra opinione, perché Dio è verità e chi dice la verità parla a nome di tutti (avesse anche a toccare argomenti spinosi, come il comportamento dei cattolici in tangentopoli o quello dei preti pedofili).
7 TUTTO COPRE, TUTTO CREDE, TUTTO SPERA, TUTTO SOPPORTA.
Tutto copre: anche la mancanza di documenti dell’immigrato clandestino, come certamente faranno i medici cristiani nonostante la norma che è stata introdotta con il pacchetto sicurezza e che li autorizza alla delazione.
Tutto crede: anche le giustificazioni di comportamenti apparentemente ingiustificabili, proprio come fanno i genitori con i figli, tanto che la loro testimonianza non vale in tribunale.
Tutto spera: anche il risveglio di Eluana, per la quale proprio oggi è stato interrotto il sostentamento nutrizionale.
Tutto sopporta: nella 2Timoteo 2, 10 Paolo dice “tutto sopporto per amore degli eletti” – pensate a una donna abbandonata dal marito che non sparla di lui con i figli: che cioè sopporta il tradimento per non trasmettere veleno ai figli che ama.
Queste quattro assolutizzazioni o “totalità” ci dicono quanto sia esigente l’amore cristiano. Ecco una considerazione di papa Benedetto che ci ha proposto il 26 novembre scorso, in una delle catechesi dedicate all’Anno paolino, con riferimento al nostro inno: “L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per ‘Colui che è morto e risorto per noi’ (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa”.
Attualizzo per chi è padre o madre: essere cristiani vuol dire tendere ad avere con ogni persona che incontriamo la stessa “benevolenza” che abbiamo verso i nostri figli.
8 LA CARITÀ NON AVRÀ MAI FINE. LE PROFEZIE SCOMPARIRANNO; IL DONO DELLE LINGUE CESSERÀ E LA SCIENZA SVANIRÀ. 9 LA NOSTRA CONOSCENZA È IMPERFETTA E IMPERFETTA LA NOSTRA PROFEZIA. 10 MA QUANDO VERRÀ CIÒ CHE È PERFETTO, QUELLO CHE È IMPERFETTO SCOMPARIRÀ.
Poiché l’amore è divino, anzi è Dio stesso, esso non avrà mai fine: non può finire e resterà quando ogni altra realtà sarà finita. Cioè avrà raggiunto il suo fine. Cioè sarà ricapitolata in Dio. Insomma, alla fine ci sarà solo l’amore. Dio sarà tutto in tutti e tutto sarà in Dio. Cioè tutto sarà amore.
Io qui vedrei un argomento per la salvezza finale d’ogni creatura. Ma lasciamo questo ai teologi.
L’intenzione di Paolo è di indurre i litigiosi cristiani di Corinto a mirare in alto, lasciando le dispute su che cosa valga di più, la profezia o le lingue. Egli dice: badate che tutto questo per cui vi combattete finirà e intanto nella vostra diatriba sacrificate l’amore, che mai finirà!
Potremmo applicare il richiamo di Paolo alla grande disputa che divide oggi i cristiani: se privilegiare la solidarietà sociale, la pace, l’accoglienza degli stranieri; o la difesa della famiglia, della vita e della libertà educativa. Paolo ci direbbe: tutto questo finisce, cercate piuttosto l’amore che “non avrà mai fine”.
Non è lo stare a sinistra o a destra che fa la differenza, ma il fatto che vi si stia o non vi si stia in nome dell’amore, cioè per amare. Gli schieramenti politici sono modalità per prendersi cura della costruzione della società, ragionevolmente tutte valide, purché perseguite nell’amore! E c’è una riprova per sapere se lo si fa con amore o no: non ci muove l’amore se il richiamo ai valori cristiani lo svolgiamo per prevalere sui cristiani di altri schieramenti invece che per convincere della loro bontà chi cristiano non è.
11 QUAND`ERO BAMBINO, PARLAVO DA BAMBINO, PENSAVO DA BAMBINO, RAGIONAVO DA BAMBINO. MA, DIVENUTO UOMO, CIÒ CHE ERA DA BAMBINO L`HO ABBANDONATO. 12 ORA VEDIAMO COME IN UNO SPECCHIO, IN MANIERA CONFUSA; MA ALLORA VEDREMO A FACCIA A FACCIA. ORA CONOSCO IN MODO IMPERFETTO, MA ALLORA CONOSCERÒ PERFETTAMENTE, COME ANCH`IO SONO CONOSCIUTO.
Qui Paolo ci invita a guardare alla nostra vita cristiana come a una crescita nell’avvicinamento al Signore, fino a quando lo vedremo “faccia a faccia”. E ci incoraggia anche, a non perderci d’animo di fronte alle difficoltà che incontriamo nella politica, nelle professioni, nell’educazione dei figli, nella partecipazione alla vita della Chiesa, perché in un certo senso l’amore non può essere sconfitto, essendo eterno. Esso “vince sempre anche se al momento questo non appare: ciò che si è fatto con amore e per amore non avrà mai fine, anche se in questo mondo non viene riconosciuto” (Carlo Maria Martini, l.c., p. 131).
Potremmo applicare questo spunto sull’amore che non va mai perduto, che capitalizza in Dio, alla fatica e anche ai fallimenti di noi genitori: quanto avremo dato ai figli in denaro e case e libri e fatica e libertà e severità, tutto finirà, ma resterà solo l’amore che gli avremo trasmesso; e quello resterà oltre ogni fallimento nostro e oltre ogni ribellione loro.
Lo possiamo applicare – questo spunto dell’amore che non si perde – anche alle persone che amano senza essere riamate, o che continuano ad amare chi non è più sulla terra: il loro amore non va perduto.
13 QUESTE DUNQUE LE TRE COSE CHE RIMANGONO: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ; MA DI TUTTE PIÙ GRANDE È LA CARITÀ!
E’ come se Paolo dai tumultuosi e petulanti cristiani di Corinto sentisse venire l’obiezione che anche la fede e la speranza non si perdono e durano. Ed ecco la sua risposta: quando saremo in Dio cesseranno anche la fede e la speranza, ma sempre resterà l’amore e dunque esso è più grande. Perché viene da Dio, perché è Dio. E perché Dio è all’inizio e alla fine, alfa e omega.
In conclusione di nuovo ci affidiamo all’insegnamento del papa e in particolare a queste parole dell’enciclica Deus caritas est che dovremmo memorizzare: “L’amore è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine e somiglianza di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente enciclica” (n. 39).
Ogni uomo è capace di amore, anche il non credente. E l’amore è frequente e lo Spirito lo suscita dove vuole. A noi il compito di accompagnare quel soffio, di accoglierlo in noi, di risvegliarne la percezione nei nostri contemporanei e di affidarci con fiducia alla sua pedagogia. “L’amore cresce attraverso l’amore” dice ancora Benedetto nella sua enciclica (n. 18) fino alla pienezza finale in Dio.

MARTINI, L’INQUIETUDINE DEL COMUNICARE ( di Aldo maria Valli)

http://www.zenit.org/article-32804?l=italian

MARTINI, L'INQUIETUDINE DEL COMUNICARE

Un ricordo del cardinale Carlo Maria Martini di un vaticanista del Tg1

di Aldo Maria Valli  

ROMA, mercoledì, 26 settembre 2012 (ZENIT.org) – Ricordo che in occasione delle interviste (e sono state tante) mi chiedeva sempre: “Di quanti secondi hai bisogno?”. Poiché conosceva l’importanza della sintesi per la comunicazione televisiva, si metteva nei panni del giornalista e cercava di semplificargli il compito. Non voleva ricevere le domande in anticipo e non chiedeva mai di rileggere le risposte. Si fidava. Aveva totale rispetto dell’autonomia del giornalista. D’altra parte quella del giornalismo era una passione che lui stesso aveva coltivato da ragazzo. Poi fu l’altra chiamata a prevalere, ma per lui quella del giornalista restò sempre una missione.
Studioso della Bibbia e uomo della Parola, Martini ebbe una considerazione altissima della comunicazione. All’inizio degli anni Novanta, quando era arcivescovo a Milano, dedicò al comunicare due celebri lettere pastorali, Il lembo del mantello ed Effatà! Apriti! Due documenti che per me e, credo, per tanti altri giornalisti sono stati fondamentali. Perché ci hanno ricordato che la comunicazione, prima di essere problema tecnico, è questione morale. Questione che riguarda il senso profondo del rapporto con l’altro.
Martini non parlava mai tanto per parlare, non girava attorno, non svicolava. Non si lasciava condizionare dalle preoccupazioni di opportunità politica o ecclesiale. Ogni sua parola era come una luce. Andava dritta al cuore e alla mente dell’interlocutore. A dispetto del tono, pacato e perfino monocorde, il suo linguaggio inquietava e metteva letteralmente in crisi, nel senso che obbligava a scegliere, a pensare. Il verbo “inquietare” gli piaceva molto. Diceva che il cristiano non è e non può essere un uomo comodo, per se stesso e per gli altri. Quando istituì la cattedra dei non credenti disse che la sua speranza era di inquietare e lasciarsi inquietare. Perché in ogni credente c’è qualcosa del non credente, e viceversa. Celebre è anche la sua distinzione tra pensanti e non pensanti, l’unica, diceva, davvero importante.
L’altissima considerazione che aveva del comunicare non era il frutto di un suo pallino intellettuale o conseguenza del suo essere studioso delle sacre scritture. Era frutto della sua fede. Lo vediamo bene nel testo raccolto nel bel libroColti da stupore, là dove, occupandosi della misteriosa comunicazione avvenuta nel sepolcro di Gesù, spiega che proprio in quel luogo, nella notte di Pasqua, ci fu la comunicazione più radicale di ogni tempo. Lo Spirito Santo si comunica e ridona il soffio della vita a Gesù. Si può immaginare qualcosa di più sconvolgente? La morte sconfitta, per sempre, attraverso la comunicazione. Attraverso la comunicazione del Padre che dona se stesso, per amore.
Il Dio dei cristiani è un Dio che parla, ma non solo e non tanto per ordinare. È un Dio che ascolta e chiede ascolto, che interpella, che si mette in relazione, che inquieta, che consola, che indica la strada, che sta vicino. È un Dio comunicatore. Un Dio che raggiunge il vertice della comunicazione divenendo esso stesso Parola viva, incarnata. Ecco dove nasce la passione di Martini per il comunicare. Ed ecco dove nasce la sua preoccupazione per una comunicazione che tanto spesso può essere formale, vuota, debole, priva di autentico coinvolgimento.
Quando comunichiamo, noi sempre doniamo noi stessi, o almeno qualcosa di noi stessi. E ascoltando ci mettiamo nella condizione di accogliere il dono dell’altro. Senza questa predisposizione non c’è comunicazione degna di tale nome. Ci potrà essere, al più, un’informazione, magari anche accurata. Ma comunicare è un’altra cosa. Il comunicare riguarda la comunità, l’essere in comunione. Comprensibile dunque l’attenzione dedicata dal cardinale Martini ai nuovi strumenti del comunicare e alle nuove frontiere.
In lui non ci fu mai rifiuto preventivo. Prevalse sempre la fiducia. Come Pio XII, come Giovanni Paolo II, vedeva nei moderni mezzi di comunicazione autentici doni di Dio, messi a disposizione della libertà dell’uomo. Non gli piaceva scagliare anatemi. Preferiva raccomandare la vigilanza e il senso di responsabilità. Della televisione, per esempio, non sopportava la naturale invadenza e la tendenza a ridurre la parola a un rumore di fondo, indistinto e senza significato. Però ne capiva l’importanza per la tempestività e per la capacità di entrare nelle case di tutti, indipendentemente dalla condizione sociale e dallo status culturale.
Quando poi ci fu l’avvento dell’informatica accolse la novità con disponibilità e, ancora una volta, con fiducia. Vedeva bene i rischi, ma gli interessava di più mettere in luce le potenzialità positive. Vide nella rivoluzione del web il pericolo di una comunicazione ancora più spersonalizzata, ma mise l’accento soprattutto sulla possibilità di accrescere il tasso di fraternità attraverso la conoscenza reciproca.
Fino agli ultimi giorni usò il computer e la posta elettronica con riconoscenza, perché gli permettevano di restare in contatto con tante persone nonostante la perdita della voce. Sempre curioso e interessato a tutto, gli piaceva ricevere notizie e rispondeva sempre. Messaggi semplici, per forza di cose, ma mai banali.
Ricordo che quando un mio servizio televisivo su di lui faticò non poco per andare in onda (perché il direttore del Tg1 di allora decretò che gli italiani non erano interessati alle vicende di un vecchio cardinale, e i vicedirettori si dissero d’accordo con lui), gli scrissi una mail per chiedergli scusa. Ero mortificato nei suoi confronti e sbigottito davanti a un tale miscuglio di ignoranza e arroganza da parte dei miei superiori. Lui mi rispose: “È un bene essere respinti”. Cinque parole che conservo gelosamente e che sono preziosissime nel mio lavoro.
Il Parkinson gli tolse la parola e lo limitò nei movimenti. Per battere sui tasti del computer o semplicemente per vergare la sua firma doveva fare una gran fatica, ma considerava quelle difficoltà una benedizione, perché lo obbligavano ad andare ancora di più al cuore della comunicazione, togliendo ogni orpello, ogni fronzolo inutile.
Anche Pietro e Paolo, come Gesù, sono stati uomini della comunicazione. E con le loro diversità, così marcate, ci dicono che il cristianesimo è religione plurale, che ama le differenze. Il cristiano non è mai per l’uniformità. La Parola è chiamata a incarnarsi ovunque, in contesti diversissimi. In quanto gesuita, Martini amava la complessità e stare sulla frontiera. Per questo capiva bene le difficoltà dei Papi e pregava per loro.
Quando lo dipingevano come un anti-Papa sorrideva e diceva che lui, semmai, era un ante-Papa, uno che, da pastore in mezzo al popolo, percorreva in anticipo le strade che il Papa avrebbe dovuto a sua volta affrontare. Non dimentichiamo che, nonostante la malattia, negli ultimi mesi della sua vita terrena chiese di poter incontrare il suo coetaneo Benedetto XVI, prima a Roma e poi di nuovo a Milano. Per guardarsi negli occhi. Per comunicare davvero.

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