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LA PREGHIERA E LA LEGGE

dal sito:

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LA PREGHIERA E LA LEGGE

Mercoledì 26 marzo 2003  prof. Don Pierantonio Tremolada

La preghiera e la legge

Mc12, 28-34

Allora gli si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua  mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi». Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Meditiamo la legge del Signore e del suo rapporto con la preghiera. Lo facciamo a partire dal dialogo tra uno scriba e Gesù. Lo scriba chiede: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Il comandamento è la legge. Se fosse rivolta a noi la domanda che risponderemmo? Forse non uccidere, non rubare; a quei tempi forse avrebbero risposto di osservare il sabato. Invece Gesù dice che sono due e sono inseparabili i comandamenti importanti e sono collegati da un’unica parola, dal verbo amare. Amerai il Signore ed amerai il tuo prossimo. Così come sono, nessuno dei due comandamenti fa parte dei dieci comandamenti. E come se il Signore ne aggiungesse altri due. Noi sappiamo che i comandamenti più importanti sono tutti in negativo: «non uccidere, non rubare, non desiderare…» Gesù ne formula uno in positivo. E come se Dio dicesse che se tu volessi sapere che cosa Egli fondamentalmente più desidera, questo è che tu lo ami con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza. Il cuore sono gli affetti ed anche qualcosa di più; la mente è l’intelligenza; la forza  sono le energie. E poi il prossimo come te stesso. Nel discorso della montagna Gesù svilupperà meglio questo aspetto: tutto quello che desiderate che gli altri facciano a voi, fatelo voi a loro. Questo significa amare, non soltanto in negativo, ma in positivo.
Il primo insegnamento è che la sostanza di tutti i comandamenti sta nella capacità di amare Dio ed il Prossimo. Tutti i comandamenti si fondono sulla capacità di amare.
Una seconda riflessione: questa capacità di amare Dio ed il prossimo è preceduta dalla capacità di ascoltare. Gesù dice: «Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore. Tu dunque amerai il Signore». Prima c’è questo “Ascolta”. Per arrivare ad amare Dio bisogna ascoltarlo perché è l’unico modo per conoscerlo. Non si ama una persona sconosciuta. Nella misura invece che si conosce una persona che è buona, in quella misura la si amerà. Per osservare la legge di Dio che si riassume nel comandamento dell’amore, bisogna riconoscere che questa legge viene da Dio ed è espressione del suo amore; è Dio che ci parla. Nell’A.T. quando si presenta il decalogo vengono fornite le circostanza in cui Dio l’ha donato a Mosé. Alcuni particolari ci aiutano a capire: il Signore Dio parla a Mosé dicendo che è suo desiderio stringere un patto, legarsi con i figli di Israele; è suo desiderio che ci sia un legame profondo con loro; Lui non li abbandonerà mai e chiede a loro di non abbandonarlo mai, di aver fiducia in Lui. La legge risponde a tutto questo. Proprio perché il Signore ama i figli di Israele, dà loro la legge che permette loro di sentire la parola di quel Dio che li ama.
Una concezione sbagliata della legge ci porta a rifiutarla, soprattutto oggi. Se noi avessimo solo la legge in quanto tale senza sapere il rapporto tra la legge e Dio, d’istinto, la rifiuteremmo. Quando obblighiamo qualcuno a fare una cosa, tendenzialmente lui fa il contrario. Questa riflessione è sviluppata bene da San Paolo nella lettera ai Romani. L’assoluto è Dio, non la legge. Bisogna intuire questo straordinario rapporto tra la legge che Dio ci ha dato e la sua voce; allora si che accoglieremmo la sua legge.
Attraverso la legge Dio manifesta la sua bontà per noi. Dio non ci ordina nei comandamenti per il gusto di farsi obbedire e sentirsi più grande di noi, ma perché ci ama. Non bisogna obbedire per forza ai suoi comandi, altrimenti saremmo dei servi e non degli amati.
Nel Deuteronomio si parla di due strade: la strada della benedizione e la strada della maledizione. Dio che conosce il segreto della vita ci ha dato la legge per aiutarci a camminare sulla via che porta alla vita e ci ha messo in guardia da tutto quello che ci rovinerebbe.
Certo io posso decidere di uccidere, commettere adulterio, rubare, disonorare padre e madre, ma quando faccio questo io mi distruggo. La verità è che l’amore di Dio per me fa si che Egli desidera tutto quello che mi fa il bene e non quello che mi distrugge. I comandamenti vanno intesi come un’accorata raccomandazione: “mi raccomando, non uccidere; mi raccomando, non rubare; mi raccomando, non desiderare. Questi comandi diventano per noi autorevoli se non crediamo nella sua bontà. Il tono dei comandamenti è quello della persona che ama. Si può rispondergli: “che cosa ne sai tu?” pensando di conoscere dov’è la vita e dov’è la morte. Ciò appare nella Genesi dove i nostri progenitori vollero mangiare del frutto della conoscenza del bene e del male. E’ un modo simbolico per dire che pretesero in quella circostanza di sapere loro stessi che cosa fosse il bene e che cosa il male.
Dio solo sa che cosa è la vita; Lui ce la data. La scrittura dice che l’uomo deve essere sapiente, deve lasciarsi ammaestrare. Il dono della legge fa parte di questo ammaestramento. Occorre fidarsi di Lui. Intravedere dietro quei comandamenti il volto di Dio.
Alcuni farisei del tempo di Gesù invece adoravano la legge in quanto tale, per cui il sabato doveva essere rispettato e per cui di sabato non si poteva nemmeno fare del bene alle persone.
Terza osservazione; san Paolo, nella lettera ai Romani afferma che se uno ama veramente il prossimo, non ruba, non uccide, non dirà mai falsa testimonianza, ecc… Al contrario uno potrebbe dire: “io non fatto nulla di male”; gli si potrebbe però obiettare: “ma ami veramente il prossimo? Che cosa stai facendo per lui?”. Questi comandamenti sono il minimo richiesto ai fedeli. Amare il prossimo è molto di più del minimo; è perdonare settanta volte sette il prossimo. Questo è espresso non nella forma di un comandamento, ma di una esortazione: “ama il prossimo, prega per chi ti fa del male, benedici chi ti maledice, dona a chi ti chiede” Questa è l’esortazione di Dio. Non può la perfezione dell’amore diventare una legge. Gesù afferma: «Siate perfetti come è perfetto il Padre mio».
Gesù ci ha dato l’esempio più alto dell’amore; ha amato Dio ed il prossimo. Lo scriba del brano è vicino a questo modo di vivere a cui siamo chiamati.
Per noi cristiani la legge divina, oltre al volto di Dio, lascia intravedere anche il volto di Cristo crocifisso. Il comandamento più grande è la testimonianza di Gesù: perdona chi gli fa del male e gli apre la strada per la vita eterna. L’aggettivo divino è sinonimo di perfetto nell’amore. Tutto questo è impensabile per le nostre possibilità, ma è possibile per il torrente di grazie scaturito dalla passione e morte del Signore Gesù.

Come san Paolo interpretava la Legge

dal sito:

http://www.zammerumaskil.com/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/come-san-paolo-interpretava-la-legge.html

Come san Paolo interpretava la Legge       
 
venerdì 24 luglio 2009 

di Simone Venturini

In occasione dell’Anno paolino Antonio Pitta ha raccolto nel volume Paolo, la Scrittura e la Legge. Antiche e nuove prospettive (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2009, pagine 259, euro 27,40) i risultati della ricerca esegetica degli ultimi trent’anni in ambito angloamericano che, per le sue caratteristiche di originalità, è stata definita come new perspective.
Da fariseo Paolo era un seguace zelante delle tradizioni orali ebraiche; uno zelo che fece di lui un fiero persecutore della Chiesa nascente. Chiamato sulla via di Damasco a riconoscere e testimoniare Gesù Cristo, Paolo ricorda comunque con accenti positivi il suo passato, fatto che – ricorda Pitta – pone in risalto la gratuità della sua adesione a Cristo. Tema centrale del volume è lo studio del costante riferimento scritturale di Paolo. Questo – leggiamo – è riscontrabile non solo nelle citazioni dirette, ma anche nelle riprese terminologiche o tematiche della lettera ai Filippesi, dove Paolo è paragonato a Giobbe ingiustamente accusato (1, 19) o laddove il modello di Adamo è applicato a Gesù (2, 10-11).

Dando ampio risalto all’impiego delle antiche tecniche retoriche in alcune lettere di Paolo, la new perspective ha permesso di studiare il modo in cui egli faceva uso delle Scritture. In proposito, Pitta osserva che tale ricorso si evidenzia nei casi di « reperimento delle prove » (inventio) a sostegno di un apparato di accusa o di difesa, o ancora in quelli in cui l’autorità delle Scritture è invocata a sostegno delle principali « tesi generali » (propositiones) delle grandi lettere.
Per Paolo l’autorità delle Scritture è indiscussa. Essa si esprime come una persona vivente (Galati, 3, 8; Romani, 9, 27); è la « lettera » contrapposta alla « novità dello Spirito » (Romani, 7, 6), l’insieme della Legge e dei Profeti (Galati, 4, 21b; Romani, 3, 21). Paolo usava il testo greco dell’Antico Testamento e tra i libri da lui più citati figurano Isaia, Salmi, Genesi, Deuteronomio ed Esodo. Consultava la Scrittura non su scomodi rotoli biblici, ma ricorreva a testimonia od excerpta, ossia collazioni di testi da usare al momento opportuno e documentati anche presso gli scritti di Qumrân.
Sul piano metodologico, Paolo adottava alcune regole esegetiche giudaiche, mentre lo schema rovesciato « adempimento-promessa », soggiacente alle citazioni, evidenzia che il contesto dei destinatari prevaleva su quello originale dei brani dell’Antico Testamento. Uno schema – afferma Pitta – non solo rovesciato ma talmente sbilanciato sull’adempimento, da affermare che è possibile un adempimento senza promesse, poichè Cristo morto e risorto è il vero interprete della Scrittura. Perciò la funzione delle citazioni scritturali non è più « normativa », bensì primariamente « etica ».
Si apre così la discussione sulla complessa questione della Legge, che l’autore affronta nelle lettere ai Galati e ai Romani. La terminologia compare per la prima volta nella prima lettera ai Corinti (9, 8.9; 14, 21.34), dove si delinea la funzione negativa della Legge (1 Corinzi, 15, 56) che sarà sviluppata nella lettera ai Galati, i quali pur non avendo conosciuto il giudaismo si lasciano imporre alcune osservanze giudaiche. Giustificati per la fede (Galati, 3, 1-4, 7) di Cristo (2, 16), la Legge non ha più carattere fondativo; essa non è eterna, ma posteriore alla promessa di Dio ad Abramo. Cristo, pur essendo venuto dopo la Legge, si è sottomesso alla « maledizione » della Legge (4, 4), per donare a tutti la benedizione di Abramo (3, 13).
Non solo la Legge, ma anche le opere della Legge – quali, per esempio, le questioni di purità alimentare (Galati, 2, 11-14), sono in antinomia con la fede di e in Gesù Cristo (Galati, 2, 16). Il conflitto tra i « forti » e i « deboli » (Romani, 14, 1-15, 13) è il terreno di studio che Pitta sceglie per illustrare la questione della Legge nella lettera ai Romani.
Gli studi storici e sociologici tipici della new persepctive ci hanno restituito la fisionomia essenziale della comunità romana. I forti e deboli erano fratelli che aderirono a quel giudaismo centrato su Cristo, provenivano dagli strati più umili della società e si riunivano nelle chiese domestiche in mancanza di una sinagoga o chiesa centralizzata. Motivi dell’attrito erano le norme (halakot) di purità alimentare (Romani, 14, 14) e del calendario giudaico verso le quali Paolo raccomandava rispetto da parte di coloro per i quali tutto è puro. Di fronte ai « diffamatori » di Roma (3, 8), Paolo avrà il difficile compito di dimostrare che la Legge, pur non salvando, non è abrogata, sebbene non sia rilevante per la giustificazione.
La giustificazione in Cristo, che libera dal giudizio escatologico (1, 18-3, 20), non comporta un atteggiamento contro la Legge (i forti) e quelli che ancora l’osservano (i deboli) non sono per essa giustificati. Sia i forti che i deboli sono morti alla Legge per vivere e servire il Signore (5, 1-8, 39). Il conflitto tra i due gruppi rischiava invece di vanificare la morte di Cristo e la stessa morte alla Legge.
Perciò, sia pur abrogata, la Legge tornava ad imperare? È il problema di Romani, 7, 7-25 dove Paolo sembra fare delle concessioni alla Legge per il bene dei deboli. Paolo, in realtà, nulla sta « concedendo » alla Legge, poiché al centro del brano vi è l’impotenza dell’io (7, 19), il quale pur riconoscendo il bene della Legge, non riesce ad attuarlo elevando nel contempo una tragica domanda di liberazione (7, 24). Solo Dio per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro, (7, 25) che ci giustifica gratuitamente, può liberare l’umanità da questa situazione. La Legge è pervenuta al suo fine, che di per sé non comporta l’abrogazione, ma la consapevolezza che solo Dio giustifica in Cristo, per mezzo dello Spirito Santo (Romani, 3, 21-22; 8, 1-2).

(L’Osservatore Romano – 25 luglio 2009) 

Publié dans:Temi: La Legge |on 4 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

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