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Giovanni Calvino (1509–1564): La Parola Nostra Sola Regola

http://www.cprf.co.uk/languages/italian_calvinsermontitus1v15.htm

Giovanni Calvino (1509–1564): La Parola Nostra Sola Regola

Sermone su Tito 1:15-16

(da Protestant Reformed Church,  la traduzione in italiano è del sito)

Ben è ogni cosa pura a’ puri; ma a’ contaminati ed infedeli, niente è puro; anzi e la mente e la coscienza loro è contaminata. Fanno professione di conoscere Iddio, ma lo rinnegano con le opere, essendo abbominevoli e ribelli, e riprovati ad ogni buona opera (Tito 1:15-16—Versione Diodati).
S. Paolo ci ha mostrato che dobbiamo essere governati dalla Parola di Dio, e considerare i comandamenti degli uomini come vani e sciocchi; perché la santità e la perfezione della vita non appartiene a loro. Egli ha condannato alcuni loro comandamenti, come quando essi proibivano certe carni, e non tolleravano che noi usassimo quella libertà che Dio dà ai fedeli. Quelli che turbavano la chiesa all’epoca di S. Paolo, stabilendo certe tradizioni, usavano i comandamenti della legge come scudo. Queste non erano che invenzioni d’uomini: perché il tempio doveva essere abolito alla venuta di nostro Signore Gesù Cristo. Quelli nella chiesa di Cristo che mantengono questa superstizione di considerare proibite alcune carni, non hanno l’autorità di Dio, perché era contro la Sua intenzione e proposito che i Cristiani dovessero essere soggetti a tali cerimonie.
Per farla breve, S. Paolo ci informa in questo passo che in questi giorni noi abbiamo la libertà di mangiare ogni genere di carne senza eccezione. Per quanto riguarda la salute del corpo, qui non se ne parla; ma la questione qui esposta è che gli uomini non dovranno proporsi come padroni, per fare leggi per noi contrarie alla Parola di Dio. Visto che è così, che Dio non ha posto alcuna differenza tra le carni, usiamole pure; e non investighiamo mai cosa gradiscono gli uomini, o cosa ritengono bene. Ciò nonostante, dobbiamo usare i benefici che Dio ci ha concesso con sobrietà e moderazione. Dobbiamo ricordare che Dio ha creato le carni per noi, non perché noi ci saziassimo come maiali, ma perché le usassimo per il nostro sostentamento: quindi, accontentiamoci di questa misura che Dio ci ha mostrato nella Sua Parola.
Se non abbiamo il nutrimento che desidereremmo, sopportiamo con pazienza la nostra povertà e pratichiamo la dottrina di S. Paolo; e sapremo come sostenere tanto la povertà quanto le ricchezze. Se nostro Signore ci dà più di quanto avremmo desiderato, nondimeno dobbiamo moderare i nostri appetiti. D’altra parte, se Egli si compiace di toglierci il nostro boccone, e di non nutrirci che miseramente, dobbiamo esserne contenti, e pregarlo di darci la pazienza quando non abbiamo ciò che i nostri appetiti desiderano. In breve, dobbiamo fare riferimento a quanto viene detto in Romani 13: « siate rivestiti del Signor Gesù Cristo, e non abbiate cura della carne a concupiscenze. » Accontentiamoci di avere ciò di cui abbiamo bisogno, e che Dio sa essere appropriato a noi; in questo modo ogni cosa sarà pura per noi, se noi siamo in quel modo purificati.
Tuttavia è vero che sebbene noi siamo così impuri, le carni che Dio ha creato sono buone; ma la questione che dobbiamo considerarne è il loro uso. Quando S. Paolo dice che tutte le cose sono pure, egli non intende che esse lo sono di per sé, ma in relazione a chi le riceve; come abbiamo notato prima, dove egli dice a Timoteo, tutte le cose sono da noi santificate per fede e rendimento di grazie. Dio ha colmato il mondo di tale abbondanza che possiamo meravigliarci di vedere quale cura paterna Egli abbia per noi: perché quale fine o proposito hanno tutte le ricchezze sulla terra, se non per mostrare quanto liberale Egli sia verso l’uomo?
Se non sappiamo che Egli è nostro Padre, e che agisce come un genitore verso di noi, se noi non riceviamo dalla Sua mano ciò che Egli ci dà, tanto che quando mangiamo, non siamo convinti che è Dio a nutrirci, Egli non può essere glorificato come merita; nè possiamo mangiare un solo pezzo di pane senza commettere un sacrilegio di cui dobbiamo rendere conto. Affinché possiamo godere legittimamente di questi benefici, che ci sono stati concessi, dobbiamo essere risoluti su questo punto (come ho detto prima), che è Dio che ci nutre e ci sostenta.
Questa è la purezza di cui qui parla l’apostolo, quando dice, tutte le cose sono pure, specialmente quando abbiamo in noi una tale onestà da non disprezzare i benefici concessi agli altri, ma desideriamo il nostro pane quotidiano dalla mano di Dio, essendo persuasi di non averne diritto, ma di riceverlo solo come la misericordia di Dio. Ora, vediamo da dove proviene questa purezza. Non la troveremo in noi stessi, perché ci è data per fede. S. Pietro dice, il cuore degli antichi padri fu purificato in questo modo, ovvero, quando Dio diede loro la fede (Atti 15).
È vero che qui egli si riferiva alla salvezza eterna, perché noi eravamo completamente impuri finché Dio non si fece conoscere da noi nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, il quale, essendo stato reso nostro Redentore, recò il prezzo e il riscatto delle nostre anime. Ma questa dottrina può, e dovrebbe essere applicata a ciò che concerne questa vita presente; perché finché non conosciamo che, essendo adottati in Gesù Cristo, siamo figli di Dio, e che di conseguenza l’eredità di questo mondo è nostra, se tocchiamo anche un solo boccone di carne noi non siamo che dei ladri; perché a causa del peccato di Adamo siamo privati e banditi da tutte le benedizioni che Dio ha fatto, finché non le possediamo nel nostro Signore Gesù Cristo.
Dunque, è la fede che deve purificarci. Allora tutte le carni saranno pure per noi: ovvero, potremo usarle liberamente senza esitazione. Se gli uomini ci prescrivono leggi spirituali, non dobbiamo osservarle, sicuri che tale obbedienza non può piacere a Dio, perché così facendo noi stabiliamo dei governanti per dominarci, rendendoli uguali a Dio, il quale riserva tutto il potere per sé. Così, il governo dell’anima deve essere mantenuto sicuro e saldo nelle mani di Dio. Dunque, se consentiamo tanta superiorità agli uomini da tollerare che le nostre anime siano imbrigliate dalle loro stesse mani, altrettanto riduciamo e sminuiamo il potere e il dominio che Dio ha sopra di noi.
E quindi l’umiltà che noi potremmo avere nell’obbedire alle tradizioni degli uomini sarebbe peggiore di tutta la ribellione del mondo; perché significherebbe derubare Dio del Suo onore, e consegnarlo, come spoglie, a uomini mortali. S. Paolo parla della superstizione di alcuni dei Giudei, i quali volevano che gli uomini osservassero ancora le ombre e le figure della legge; ma lo Spirito Santo ha pronunciato una sentenza che deve essere osservata fino alla fine del mondo: che Dio oggi non ci ha vincolati a quel fardello che fu sostenuto dagli antichi padri; ma ha tagliato via quella parte che aveva comandato, relativa all’astensione dalle carni; perché essa fu legge solo per un’epoca.
Visto che Iddio ci ha così liberati, quale sconsideratezza è per dei vermi della terra il fare nuove leggi; come se Dio non fosse stato abbastanza saggio. Quando accusiamo di questo i papisti, essi rispondono che S. Paolo parlava dei Giudei, e delle carni che erano vietate dalla legge. Questo è vero, ma vediamo se questa risposta ha una qualche ragione, o se sia degna di essere accettata. S. Paolo non ha detto solamente che ci è lecito usare ciò che era vietato, ma ha parlato in termini generali, dicendo, tutte le cose sono pure. Così, vediamo che Dio ci ha qui dato la libertà riguardo all’uso delle carni, in modo tale da non tenerci in soggezione, com’erano gli antichi padri.
Dunque, poiché Dio ha abrogato quella legge che era stata da Lui stabilita, e non la impone più, che cosa penseremo quando vediamo che gli uomini inventano proprie tradizioni e non si accontentano di ciò che Dio ha mostrato loro? In primo luogo, essi cercano di mantenere ancora la chiesa di Cristo sotto le restrizioni dell’Antico Testamento. Ma Dio vuole che noi siamo governati come uomini adulti e dotati di discernimento, che non hanno alcun bisogno di istruzioni adatte ai bambini. Essi stabiliscono norme umane, e dicono che dobbiamo osservarle dietro la pena del peccato mortale; mentre invece Dio non vuole che la Sua stessa legge, relativamente ai tipi e alle figure, sia osservata da noi fino ad oggi, perché tutto ebbe fine alla venuta di nostro Signore Gesù Cristo.
Sarà quindi lecito osservare ciò che gli uomini hanno concepito nella loro sapienza? Non vediamo che è una questione che va direttamente contro Dio? S. Paolo si contrappone a questi mistificatori: contro quelli che volevano vincolare i Cristiani ad astenersi dalle carni come Dio aveva comandato nella Sua legge. Se qualcuno dice che non è che una piccola questione l’astenersi dalle carni il Venerdì, o in Quaresima, consideriamo se sia una piccola questione il corrompere e l’imbastardire il servizio di Dio! Perché sicuramente, coloro che si danno tanto da fare a promulgare e stabilire le tradizioni degli uomini, pongono sé stessi contro ciò che Dio ha ordinato nella Sua Parola, e quindi commettono sacrilegio.
Poiché Dio vuole essere servito con obbedienza, facciamo attenzione e manteniamoci entro quei confini che Dio ha posto, e non consentiamo che gli uomini vi aggiungano alcuna cosa di loro invenzione. In questo vi è qualcosa di peggiore di tutto il resto: perché essi pensano che astenersi dal mangiare le carni sia un servizio che merita qualcosa da Dio. Pensano che sia una grande santità; e quindi il servizio di Dio, che dovrebbe essere spirituale, viene bandito, come dire, mentre gli uomini si occupano di sciocche inezie. Come nel detto comune, lasciano la mela per la buccia.
Dobbiamo essere fedeli, e rimanere saldi nella nostra libertà; dobbiamo seguire la regola che ci è data nella Parola di Dio, e non consentire alla nostra anima di essere condotta in schiavitù da nuove leggi, forgiate dagli uomini. Perché è una tirannia infernale quella che abbassa l’autorità di Dio e confonde la verità del vangelo con le figure della legge; e perverte e corrompe il vero servizio di Dio, che dovrebbe essere spirituale. Quindi, consideriamo quale prezioso privilegio sia il rendere grazie a Dio con la quiete della coscienza, essendo rassicurati che è la Sua volontà e beneplacito che noi godiamo delle Sue benedizioni: e affinché possiamo farlo, non imprigioniamoci nelle superstizioni degli uomini, ma siamo appagati di ciò che è contenuto nella pura semplicità del vangelo. Allora, come abbiamo mostrato riguardo alla prima parte del testo, ogni cosa sarà pura, per coloro che sono puri.
Quando accogliamo il Signore Gesù Cristo, noi sappiamo di essere purificati dalla nostre lordure e falli, perché per la Sua grazia noi siamo resi partecipi dei benefici di Dio, e considerati come Suoi figli, sebbene in noi non vi sia altro che vanità. « Ma ai contaminati e agli infedeli, niente è puro ». Con questo S. Paolo intende che tutto ciò che procede da coloro che sono contaminati e non credenti non è gradito a Dio, ma è pieno di corruzione. Finché sono non credenti, essi sono ripugnanti e impuri; e finché hanno in loro tale lordura, tutto ciò che toccano diviene contaminato dalla loro infamia.
Quindi, tutte le regole e le leggi che possono produrre non saranno altro che vanità: perché Iddio non gradisce nulla di ciò che essi fanno, anzi, lo aborrisce completamente. Anche se gli uomini possono tormentarsi con cerimonie e pratiche esteriori, tuttavia tutte queste cose sono vane finché essi non divengono retti nel cuore: perché in questo ha inizio il vero servizio di Dio. Finché dunque noi non abbiamo fede, siamo immondi innanzi a Dio. Queste cose dovrebbero essere evidenti per noi; ma l’ipocrisia è così radicata in noi che siamo inclini a trascurarle. Sarà prontamente confessato che noi non possiamo compiacere Dio servendolo finché il nostro cuore non è spogliato della malvagità.
Dio contese con il popolo dei tempi antichi per la stessa dottrina, come vediamo specialmente nel secondo capitolo del profeta Aggeo: in esso egli chiese ai sacerdoti se un uomo che tocca una cosa santa sia reso santo oppure no, e i sacerdoti risposero di no. Al contrario, se un uomo impuro tocca una cosa, questa diviene impura oppure no, e i sacerdoti risposero dicendo, essa sarà impura; così è questa nazione, dice il Signore, e così sono le opere delle loro mani. Notiamo ora che cosa contengono le figure e le ombre della legge. Se un uomo impuro toccava qualcosa, questa diveniva impura, e doveva quindi essere purificata. Nostro Signore dice, considerate cosa siete, perché non avete altro che impurità e lordura; e tuttavia, voi potete appagarmi con i vostri sacrifici, offerte e simile cose. Ma Egli ha detto, finché le vostre menti sono prigioniere di malvagia concupiscenza, finché alcuni di voi sono libertini, adulteri, blasfemi e spergiuri, finché siete pieni di inganno, crudeltà, malignità, le vostre vite saranno completamente illecite, e piene di ogni impurità, io non posso tollerarlo, per quanto possa sembrare giusto davanti agli uomini.
Vediamo dunque che tutti i servizi che possiamo compiere, finché non siamo veramente riformati nel nostro cuore, non sono che parodie, che Iddio condanna e respinge completamente. Ma chi crede che queste cose siano così? Quando i malvagi, che sono presi nella loro malvagità, sentono un qualche rimorso di coscienza, si impegnano con qualche mezzo o altro a legarsi a Dio compiendo alcune cerimonie: ritengono questo sufficiente per soddisfare la mente degli uomini, credendo che Dio allo stesso modo debba esserne soddisfatto. Questa è un’abitudine che è prevalsa in ogni epoca.
Non è solo in questo testo del profeta Aggeo che Dio rimprovera gli uomini per la loro ipocrisia, e perché pensano di poter ottenere il Suo favore con sciocchezze, ma è stata una continua contesa quella che tutti i profeti hanno avuto con i Giudei. Viene detto in Isa. 1:13-15: « Non continuate più a portare offerte da nulla; i profumi mi son cosa abbominevole; quant’è alle calendi, a’ sabati, al bandir raunanze, io non posso portare iniquità, e festa solenne insieme. L’anima mio odia le vostre calendi, e le vostre solennità; mi son di gravezza; io sono stanco di portarle. Perciò, quando voi spiegherete le palme delle mani, io nasconderò gli occhi miei da voi; eziandio, quando moltiplicherete le orazioni, io non le esaudirò; le vostre mani son piene di sangue. »
E ancora viene detto, « Che se mi offerite olocausti, e le vostre offerte, io non le gradirò; e non riguarderò a’ sacrificii da render grazie, fatti delle vostre bestie grasse » (Amos 5:22). Dio qui ci mostra che le cose che Egli Stesso aveva comandato erano lorde e immonde quando venivano osservate e abusate da ipocriti. Quindi, impariamo che quando gli uomini servono Dio secondo le loro maniere, essi illudono e ingannano loro stessi. Viene detto in un altro testo di Isaia, « chi ha richiesto questo di man vostra? » (Isa. 1:12). In cui è evidenziato che se vogliamo che Iddio approvi le nostre opere, queste devono essere secondo la Sua divina Parola.
Vediamo così cosa intende S. Paolo quando dice che non vi è nulla di puro per coloro che sono impuri. E perché? Perché anche la loro mente e coscienza sono contaminate. Con questo egli mostra (come ho osservato prima) che fin quando non avremo imparato a servire Dio correttamente, nella maniera appropriata, noi non faremo alcun bene con le nostre opere; sebbene possiamo lusingare noi stessi ritenendo che esse siano di grande importanza, e in questo modo cullarci nel sonno.
Vediamo ora quali sono le tradizione del papismo. Il loro primo fine è di fare un accordo con Dio, mediante le opere di supererogazione, come le denominano; ovvero, le loro opere in eccesso, che sono tali quando essi compiono più di quanto Dio abbia loro comandato. Secondo le loro concezioni, essi assolvono al loro dovere verso Lui e Lo soddisfano con il pagamento reso dalle loro opere, e con il quale essi saldano il loro conto. Quando hanno digiunato nei loro giorni santi, quando si sono astenuti dal mangiare carne il Venerdì, quando hanno frequentato devotamente la messa, quando hanno preso l’acqua santa, essi pensano che Dio non debba esigere più nulla da loro e che non manchi nulla in loro.
Ma allo stesso tempo, essi non cessano di indulgere nella fornicazione, nell’indecenza, nello spergiuro, nella blasfemia, ecc.: ognuno di loro si abbandona a quei vizi; e tuttavia essi pensano che nonostante questo Dio debba ritenersi ben pagato dalle opere che loro Gli offrono; come, per esempio, quando hanno preso l’acqua santa, venerato immagini, vagato di altare in altare, e fatto cose simili, essi immaginano di aver reso sufficiente pagamento e retribuzione per i loro peccati. Ma noi ascoltiamo la dottrina dello Spirito Santo riguardante coloro che sono corrotti, la quale è che non vi è nulla di puro nè di mondo in tutte le loro azioni.
Ma mettiamo il caso, e supponiamo che tutte le abominazioni dei papisti non siano malvagie per loro propria natura; tuttavia, secondo questa dottrina di S. Paolo, non può esservi null’altro che impurità in esse, perché loro stessi sono peccatori e impuri. La santità di questi uomini consiste in sciocchezze e inezie. Essi si affaticano a servire Dio nelle cose che Egli non richiede, e allo stesso tempo lasciano non realizzate le cose che Egli ha comandato nella Sua legge.
È accaduto in ogni epoca che gli uomini abbiano disprezzato la legge di Dio in favore delle loro tradizioni. Nostro Signore Gesù Cristo condannò i Farisei quando disse, « E voi, perchè trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione? » (Matteo 15:3). Così fu nei tempi passati, nei giorni dei profeti. Isaia gridava, « Perciocché questo popolo, accostandosi, mi onora con la sua bocca, e con le sue labbra, e il suo cuore è lungi da me; e il timore, del quale egli mi teme, è un comandamento degli uomini, che è stato loro insegnato; perciò, ecco, io continuerò a fare inverso questo popolo maraviglie grandi, e stupende; e la sapienza de’ suoi savi perirà, e l’intendimento de’ suoi intendenti si nasconderà » (Isa. 29:13-14). Mentre gli uomini si occupano delle loro tradizioni, essi tralasciano le cose che Dio ha comandato nella Sua Parola.
Questo è ciò che indusse Isaia a protestare contro coloro che affermavano le tradizioni degli uomini, dicendo loro chiaramente che Dio minacciava di accecare i più saggi tra loro, perché essi si erano allontanati dalla pura regola della Sua Parola per seguire le loro stolte invenzioni. Parimenti S. Paolo allude alla medesima cosa, quando dice che essi non hanno timor di Dio nei loro occhi. Non inganniamoci, perché noi sappiamo che Dio esige che l’uomo viva rettamente, e si astenga da ogni violenza, crudeltà, malizia e falsità; che nessuna di queste cose compaia nella nostra vita. Ma coloro che non hanno timore di Dio davanti ai loro occhi, è evidente che sono in errore e che non vi è che corruzione in tutta la loro vita.
Se vogliamo sapere come dovrebbe essere regolata la nostra vita, esaminiamo il contenuto della Parola di Dio; perché non possiamo essere santificati dall’esibizione e dalla pomposità, sebbene queste siano così stimate tra gli uomini. Dobbiamo rivolgerci a Dio con sincerità, e riporre tutta la nostra fiducia in Lui; dobbiamo abbandonare l’orgoglio e la presunzione, e confidare in Lui con vera umiltà di pensieri affinché non siamo dominati dai sentimenti carnali. Dobbiamo sforzarci di mantenerci in riverenza, nella soggezione di Dio, e di fuggire la golosità, la lussuria, gli eccessi, il furto, la blasfemia, e gli altri mali. Così vediamo che Iddio vorrebbe che facessimo, affinché abbiamo la nostra vita ben regolata.
Quando gli uomini vogliono giustificarsi mediante le opere esteriori, è come coprire un cumulo di lordume con un telo di lino puro. Quindi, mettiamo da parte la lordura che è nascosta nei nostri cuori; io dico, allontaniamo il male da noi, e allora il Signore accetterà la nostra vita; così possiamo vedere in cosa consiste la vera conoscenza di Dio! Comprendere correttamente questo ci condurrà a vivere in obbedienza alla Sua volontà. Gli uomini non si sono così abbrutiti da non comprendere che esiste un Dio che li ha creati. Ma questa conoscenza, se essi non si sottomettono alle Sue richieste, serve come condanna per loro, perché i loro occhi sono accecati da Satana, tanto che sebbene il vangelo sia loro predicato, essi non lo comprendono; al giorno d’oggi vediamo molti in questa situazione. Quanti sono nel mondo quelli a cui è stata insegnata la dottrina del vangelo, e tuttavia continuano nella brutale ignoranza!
Questo è avvenuto perché Satana ha così posseduto la mente degli uomini con malvagi sentimenti che sebbene la luce possa splendere luminosa quanto mai, essi rimangono ciechi, e non vedono nulla. Impariamo, quindi, che la vera conoscenza di Dio ha una tale natura da mostrarsi da sé, e produrre frutti per tutta la nostra vita. Quindi, per conoscere Dio, come S. Paolo dice ai Corinzi, noi dobbiamo essere trasformati nella Sua immagine. Perché se fingiamo di conoscerlo, e allo stesso tempo la nostra vita è disordinata e malvagia, non servono testimoni per dimostrarci dei bugiardi; la nostra stessa vita produce sufficienti prove del fatto che siamo ipocriti e falsi, e che abusiamo del nome di Dio.
S. Paolo dice in un altro passo, se conoscete Gesù Cristo, dovete disfarvi dell’uomo vecchio; come se dicesse, non possiamo dichiarare di conoscere Gesù Cristo, solo riconoscendolo come nostro capo, e perché Egli ci accoglie come Suoi membri; questo non può avvenire se non ci disfiamo dell’uomo vecchio e diveniamo nuove creature. Il mondo ha in ogni epoca abusato scelleratamente del nome di Dio, come fa ancora oggi; quindi, riconosciamo la vera conoscenza della Parola di Dio, di cui parla S. Paolo.
In conclusione, non posiamo le nostre opere sulla bilancia, dicendo che sono buone e che ne abbiamo una buona opinione; ma comprendiamo che le buone opere sono quelle che Dio ha comandato nella Sua legge e che tutto ciò che possiamo fare oltre a quelle è nulla. Quindi, impariamo a plasmare la nostra vita secondo ciò che Iddio ha comandato; a confidare in Lui, ad invocarlo, a rendergli grazie, e ad accettare con pazienza qualunque cosa Gli piaccia di mandarci; a comportarci correttamente con il nostro prossimo, e a vivere onestamente davanti a tutti gli uomini. Queste sono le opere che Dio richiede dalle nostre mani.
Se non fossimo così perversi per natura, non ci sarebbe nessuno di noi che non saprebbe discernere queste cose: anche i bambini saprebbero discernerle. Le opere che Dio non ha comandato non sono che stoltezza e abominio, con le quali il puro servizio di Dio viene deturpato. Se desideriamo conoscere che cosa costituisce le buone opere di cui parla S. Paolo, dobbiamo mettere da parte tutte le invenzioni degli uomini, e semplicemente seguire le istruzioni contenute nella Parola di Dio, perché non abbiamo alcun’altra regola che quella data da Lui; che è quella che Egli accetterà quando ne renderemo conto nell’ultimo giorno, quando Egli soltanto sarà il giudice di tutta l’umanità.
Inginocchiamoci ora innanzi al volto del nostro buon Dio, riconoscendo i nostri falli, pregandolo di farceli percepire più distintamente, e di donarci un fiducia nel nome del nostro Signore Gesù Cristo tale che possiamo accostarci a Lui ed essere rassicurati che i nostri peccati sono perdonati e che Egli ci rende partecipi di una fede salda, con la quale ogni lordura possa essere eliminata.

(Da: http://www.federiformata.it/biblioteca/vita_cristiana/calvino_laparolasolaregola.html)

La lettera agli Ebrei – Studio Biblico

dal sito:

http://www.parma.chiesavaldese.org/Documents/Ebrei_Pr_Pc.pdf

Studio biblico 2007-08

La lettera agli Ebrei

Parma – Piacenza

Bibliografia

LONG, Thomas G., Ebrei, Torino, Claudiana, 2005.

VOUGA, François, Teologia del Nuovo Testamento, Torino, Claudiana, 2007.

1. Introduzione generale

1. Introduzione al testo

Perché scegliere un testo come la lettera agli Ebrei? Innanzitutto perché è un testo biblico poco conosciuto, almeno nella tradizione protestante. Sulla scia dello studio di testi biblici come la lettera di Giacomo o il libro di Qohelet proseguiamo quest’anno con la lettura della lettera agli Ebrei, segno del nostro sforzo di incontrare testi meno noti. Questa lettura dovrebbe aiutarci a rinnovare la lettura dei testi più familiari e forse anche più famosi come i vangeli o le lettere autentiche di Paolo.

1.1 Struttura e contenuto della lettera agli Ebrei
La prima cosa da dire è che la lettera agli Ebrei non è una… lettera! Quando avevamo letto alcuni brani del libro dell’Apocalisse avevamo notato che il libro iniziava come una lettera ma in realtà l’insieme del testo non era una lettera. Invece qui abbiamo un titolo, ovviamente secondario, che indica il genere letterario “lettera”, ma il testo non è una lettera! Solo alla fine, precisamente al capitolo 13, 22-25, lo scritto si presenta come una lettera, esso assomiglia anche a una lettera di Paolo, ma questa fine è probabilmente tardiva e avrà influenzato il titolo del libro. Questa fine così simile ad alcune lettere paoline ha anche spinto diverse generazioni ad attribuire lo scritto all’apostolo Paolo. L’esegesi moderna ha dimostrato poi l’impossibilità storica, teologica ma soprattutto letteraria e linguistica di questo legame.
Per quanto riguarda la struttura e il contenuto possiamo dire che è un aspetto complesso della
lettera. Diverse proposte sono state fatte, ne ritengo per il momento una classica. La lettera si può dividere in tre parti principali:

1.
1,1 – 4,13: superiorità della rivelazione di Dio nel Figlio Gesù Cristo su qualsiasi altra rivelazione
2.
4,14 – 10,18: Gesù viene descritto come il sommo sacerdote perfetto
3. 10,19 – 13,22: parte della parenesi (esortazione)
Una delle caratteristiche più tipiche della lettera agli Ebrei è l’alternanza di paragrafi cristologici e di paragrafi parenetici. La parenesi, cioè l’esortazione, viene sempre presentata come conseguenza delle parti cristologiche. C’è un legame stretto tra l’una e l’altra, sembra dunque inutile chiedersi, come fanno alcuni commentatori, se l’accento porti sulla parenesi o sulla cristologia perché per l’autore sono collegate e indissociabili. Alcuni esegeti protestanti hanno proposto la struttura simmetrica seguente:

Prologo 1, 1-4 13, 20-25 Epilogo
I. Cristo primogenito 1, 5-2, 18 12, 14-13, 19 Primogeniti nei cieli V
IIa la fede di Gesù 3, 1-4, 14 12, 1-13 Perseveranza crist. IVb
IIb perseveranza di Gesù 4, 15-5, 10 11, 1-40 la fede degli anziani Iva
Esortazione 5, 11-6, 20 10, 19-39 Esortazione
IIIa ordine sacerd. di Melchis. 7, 1-28 10, 1-18 sacrificio unico IIIc

IIIb Compimento della salvezza
8,1 – 9,28

Abbiamo già detto che la lettera agli Ebrei non è formalmente una lettera. Si tratta piuttosto di
un’omelia, di un sermone nel senso latino della parola, ossia di un discorso. Questo discorso presenta una forte connotazione parenetica e cristologica. La lingua e lo stile dell’autore sono
i migliori di tutto il Nuovo Testamento.

1.2 Il problema dei destinatari
Di nuovo qui il titolo del libro è ingannevole: infatti, sembra che questo testo non si rivolga né
a ebrei, né a giudeocristiani ma piuttosto a pagano cristiani o a cristiani tout court, cioè a destinatari imprecisati. La lettera agli Ebrei potrebbe quindi essere inclusa nel gruppo delle lettere cattoliche, cioè queste lettere che si rivolgono alla chiesa cattolica, universale e non a
una comunità particolare. Ricordiamo che le cosiddette lettere cattoliche sono: Giacomo, Pietro 1 e 2 e Giuda. Da questo punto di vista Long pensa che la lettera sia chiaramente indirizzata a una comunità cristiana in crisi, a persone prese da dubbi, dalla stanchezza persino di Gesù! Un elemento colpisce molto alla lettura della lettera agli Ebrei: i riferimenti costanti all’Antico Testamento. Nello stesso tempo e paradossalmente la relazione tra pagani ed ebrei, o tra ebrei e cristiani non è un tema esplicito. C’è una discussione con la tradizione ebraica “biblica” (soprattutto, come vedremo, nell’antagonismo tra antica e nuova alleanza), ma questo discorso rimane teorico e letterario e non sembra collegato a una realtà concreta. Non ci sono elementi rilevanti per riuscire a capire chi sono i destinatari della lettera. Forse si tratta di una comunità fragile, o che rischia l’apostasia? O si tratta di combattere alcune false dottrine come in qualche lettera dell’apostolo Paolo? Il tutto rimane un mistero.

1.3 La questione dell’autore, la lingua
Ritroviamo lo stesso mistero per quanto riguarda la paternità letteraria della lettera agli Ebrei.
Il primo cristianesimo, nonostante la contestazione di Origene, attribuisce la lettera a Paolo e
di conseguenza il testo entra presto nel canone. Durante la Riforma Lutero e poi Calvino
hanno discusso la canonicità della lettera agli Ebrei. Molto serenamente possiamo dire oggi che lo stile e il contenuto teologico escludono la possibilità di fare risalire il testo a Paolo. Forse fin dall’inizio la lettera è stata concepita come uno scritto anonimo rivolto a lettori indeterminati.
Il greco della lettera è il migliore del Nuovo Testamento. L’autore usa parole ricercate. Un esegeta ha stabilito un paragone interessante. L’autore della lettera agli Ebrei usa in totale 4950 parole che rappresentano un vocabolario di 1038 parole; l’autore del vangelo di Giovanni usa 1011 parole per un testo più o meno tre volte più lungo del nostro. In conclusione possiamo dire che lo stile, il vocabolario, le espressioni e la matrice culturale della lettera agli Ebrei rispecchiano una certa erudizione di tipo ebraico ellenistico, comune ad Alessandria d’Egitto e conosciuta soprattutto tramite l’opera di Filone.

1.4 Data e luogo di redazione
Sembra che la lettera agli Ebrei sia stata citata e quindi conosciuta a Roma negli anni 90.  Anche se l’autore della lettera descrive pratiche cultuali del tempio di Gerusalemme, che quindi risalgono all’epoca precedente alla sua distruzione (70), egli non fa riferimento a eventi contemporanei ma si concentra su l’aspetto cultuale e non storico. Sembra anche che il testo risalga al periodo posteriore a quello apostolico. Gli specialisti parlano di una redazione intorno agli anni 80 del primo secolo d.C.
Il luogo di redazione potrebbe essere Roma (cf. 13, 24) ma un altro luogo può anche essere proposto come per esempio una città dell’Asia minore (cf. menzione di una persecuzione in 10,32). Comunque i criteri mancano per una risposta sicura.

1.5 Teologia della lettera agli Ebrei
Una delle caratteristiche della lettera consiste nel fatto che essa contiene forme tradizionali di
esegesi biblica ebraica che non si ritrovano altrove nel NT. Per esempio, Ebr 3, 7-4.10 è un midrash del Salmo 95, 7-11. Molti elementi avvicinano l’autore della lettera a Filone, anche se quest’ultimo non ha mai scritto teologia. La loro metodologia, il loro modo di pensare sono molto simili. La teologia della lettera è segnata dall’immagine del “popolo in cammino”, un po’ come se la nuova chiesa cristiana fosse il nuovo popolo di Dio. Questa immagine ha anche un significato escatologico: i pellegrini sono invitati a fidarsi del presente, che significa comunque un progresso e un superamento dell’alleanza antica. L’immagine del popolo in cammino introduce diversi concetti essenziali: la fede, il peccato, la caduta e la speranza. Da una parte la promessa è già compiuta poiché il popolo è in cammino, ma d’altra parte la meta non è stata raggiunta e il popolo deve ancora essere confortato e accompagnato. La speranza si concretizza nell’opera della salvezza, cioè nel sacrificio unico di Cristo che è il sommo sacerdote.
La tipologia molto curata del sacerdote e del sacrificio costituisce il tema cristologico centrale
della lettera. In questo quadro la figura di Melchisedec, re sacerdote di Salem (Gen 14, 1820),
gioca un ruolo decisivo, ruolo che possiamo ritrovare nell’ebraismo del tempo, a Qumran o nel movimento gnostico. Cristo è il sommo sacerdote nel modo di Melchisedec. Ma ciò che li contraddistingue è che il sacerdozio di Cristo non è limitato nel tempo ma dura per l’eternità; Cristo non ha bisogno di offrire un sacrificio per il proprio peccato perché egli è senza peccato; Cristo non offre più il sangue degli animali ma il suo; e infine Cristo non svolge il sacrificio diverse volte ma in una sola che vale per sempre.
La relazione tra la vecchia e la nuova alleanza è caratterizzata nello stesso modo. La nuova
sostituisce la vecchia superandola. Possiamo dire che la cristologia della lettera agli Ebrei è
determinata in maggior parte dalla soteriologia (salvezza). Al contrario della cristologia di
Paolo concentrata sulla risurrezione di Cristo, la cristologia della lettera agli Ebrei si concentra sull’elevazione. Inoltre vedremo che la problematica, centrale nella teologia di Paolo del legame tra legge e grazia, e tra legge e peccato, non appare mai nella lettera agli Ebrei.

2.1. Lettura di Ebrei 1, 1-4
Siamo di fronte a un bellissimo prologo. Per certi versi il testo assomiglia al prologo del vangelo di Giovanni. Si vede subito l’impostazione cristologica dell’autore ma nello stesso tempo il suo legame con la tradizione dei padri, la tradizione ebraica. In questi primi versetti possiamo anche vedere una risonanza con l’inno proto cristiano della lettera ai Filippesi (2, 511). Il testo inizia con la questione della Parola di Dio, trasmessa prima ai padri per mezzo dei profeti e poi, ultimamente, rivolta alla generazione contemporanea per mezzo del Figlio, Gesù Cristo. Il primo versetto indica due elementi riguardo al parlare di Dio: da una parte Dio ha parlato “molto volte”, cioè parla in maniera discontinua; la sua parola è spezzata. I momenti di parola alternano con momenti di silenzio. Il secondo elemento che riguarda il parlare di Dio è quello che dice “in molte maniere”, o in molti modi. Questa espressione indica la mediazione della Parola: per essere capita, la parola di Dio va mediata, trasmessa, spiegata, illuminata da profeti, inviati, messaggeri. In ultima analisi la Parola di Dio si farà addirittura vita umana nell’incarnazione. E allora questa parola diventerà radicalmente nuova. Sempre al versetto 2, possiamo sottolineare questa idea: sembra che Cristo sia il creatore dei mondi. Nella cristologia espressa dall’autore della lettera agli Ebrei, Gesù Cristo è davvero Dio, ne è la vera incarnazione. In un certo senso potremmo dire che il Figlio è il Padre, ne riveste tutti i ruoli, anche quello di creatore. Il versetto 3 riprende uno stile sapienziale, tipico dell’ebraismo ellenizzato dell’epoca. L’insistenza viene posta sull’elevazione di Cristo. Si tratta di una lettura particolare della risurrezione e dell’ascensione di Cristo. E’ molto importante questa elevazione di Cristo che va a sedersi proprio alla destra del Padre. Il versetto 4 prosegue: Cristo diventa più importante degli angeli, si trova a un livello gerarchico superiore. Con il versetto 4 si conclude questa dossologia (per certi versi molto simile all’inno di Filippesi 2). Il movimento dell’incarnazione, l’elevazione ma anche l’esaltazione di Cristo, sono elementi cristologici significativi. Nella lettera ai Filippesi gli specialisti parlano di movimento di “kenosi”, cioè di discesa e poi di risalita. Ritroviamo questo motivo qui, e sappiamo che l’intera struttura della lettera agli Ebrei segue questo schema: discesa dell’incarnazione nel mondo – sacrificio – salita, elevazione.

2.2. Lettura di Ebrei 1, 5-14
Questo brano è abbastanza difficile da capire ma nello stesso tempo illustra bene lo stile e il modo di articolare il pensiero dell’autore della lettera. Abbiamo qui un esempio di commento del testo biblico, o di uso del testo biblico (soprattutto i salmi) per elaborare il proprio ragionamento. Iniziamo con la lettura dei versetti da 5 a 14 del primo capitolo. E’ quasi un gioco retorico che inizia con la domanda dell’autore: “A quale degli angeli Dio ha mai detto?”, per indicare la superiorità di Cristo sugli angeli (vedi v. 4). In realtà la citazione dei salmi è quasi una presentazione di Gesù Cristo. Il primo capitolo si conclude con questo lungo confronto tra Cristo e gli angeli. Perché l’autore della lettera agli Ebrei impiega così tanta energia per questo confronto? Perché descrive Gesù con tante citazioni dei salmi? Si potrebbe pensare che l’autore risponda a un’eresia della sua epoca, cioè di una comunità che avrebbe adorato gli angeli anziché Gesù. Ma l’ipotesi va esclusa perché dopo questi versetti iniziali il tema degli angeli sparisce del tutto. Gli esegeti pensano piuttosto che questa insistenza sul confronto tra Cristo e gli angeli non sia dovuta tanto agli angeli quanto a Cristo! I primi cristiani, quelli cui si rivolge l’autore della lettera, non adoravano gli angeli ma forse davano troppo poco peso a Cristo. La debolezza apparente di Gesù, la sua sofferenza sulla croce ed altri racconti (comunque di seconda mano) erano troppo deprimenti per la seconda generazione di cristiani. Long dice che i credenti si sono stancati di questo Gesù debole, umiliato, morto sulla croce. L’autore della lettera agli Ebrei cerca di incoraggiarli e tutta la struttura del testo dimostra la cristologia elaborata: una kenosi di Gesù, per poi insistere sulla
sua elevazione nel cielo.


3. In cammino verso il cuore della lettera: letture varie
3.1. Ebrei 2, 1-18
La lettura prosegue: capitolo 2, v. 1-4. Passiamo dalla cristologia della fine del primo capitolo all’etica. Con questi versetti ci ritroviamo nel paradosso della lettera agli Ebrei, cioè in questo costante alternare tra etica e cristologia, tra la dottrina su Cristo e i richiami alla condotta retta del cristiano. Importanza della Parola annunciata, del giudizio di Dio al quale nessuno può
scappare. Versetti 5-9: citazione del salmo 8 che l’autore usa per affrontarlo in chiave cristologica. Ma Cristo è inferiore o superiore agli angeli? Ovviamente è superiore a loro in quanto Cristo ma è loro inferiore nel senso che egli è venuto a condividere la condizione umana. Si può leggere il salmo 8. La cosa sorprendente è che l’autore usi il salmo 8 non per meravigliarsi dell’altezza dell’umanità ma, in chiave di kenosi, dell’abbassamento di Cristo. C’è anche già un accenno al tema del sacrificio unico. Versetti 10-18: qual è la relazione tra la passione di Gesù e le sofferenze dell’umanità? In questo brano l’autore usa tre tipi di immagini: l’immagine dell’eroe, del liberatore (v. 14-15), del sommo sacerdote che diventerà l’immagine chiave di tutto il testo. Il v. 10 insiste sulla perfezione di Gesù, cioè sul fatto che Gesù abbia reso giustizia a suo Padre tramite la sua sofferenza e abbia nello stesso tempo giustificato il peccatore per sempre. I v. 11-18 riprendono tre citazioni bibliche che richiamano il Cristo glorioso, il Cristo sofferente e il Cristo trionfale. Il testo poi si ferma sul Gesù umano che ha partecipato alla nostra esistenza nella sofferenza e il sacrificio. In tutto il brano c’è una tensione tra Gesù umano e Gesù glorioso. L’autore sta elaborando una cristologia per i primi credenti, per quelli che non erano stati testimoni e ai quali bisognava spiegare l’identità divina di Gesù. Possiamo dire che ci troviamo, in questa lettera, agli inizi del dibattito cristologico dei primi secoli.

3.2. Ebrei 3, 1-6
L’argomento: Cristo superiore a Mosè. Prosegue il tentativo dell’autore della lettera di dare una definizione di Cristo. Il primo testimone della fede al quale Cristo viene paragonato è Mosè. Il paragone si conclude con la prevedibile superiorità di Gesù e l’immagine scelta per illustrare il paragone è quella della casa. E’ più importante quello che costruisce la casa della casa stessa. Gesù è, come il Padre, il costruttore mentre Mosè, come tutti i credenti, è la casa. Dietro questa immagine della casa si può anche vedere la chiesa… (ma non sono convinta di questa interpretazione!).

3.3. Ebrei 4, 14-5, 10
Dopo aver definito Cristo come superiore agli angeli (1, 4-2, 18) e anche a Mosè, l’autore della lettera si concentra adesso su una definizione propria di Cristo e usa l’immagine e la figura del sommo sacerdote. Il sommo sacerdote nella religione ebraica è la figura più alta della gerarchia sacerdotale che si costituisce a Gerusalemme dopo la ricostruzione del Tempio (dal 515 a.C. in poi). La sua entrata in funzione è l’oggetto di una festa che dura sette giorni. Il sommo sacerdote riceve gli strumenti del suo ministero come pure l’unzione (= re d’Israele). Di solito il sommo sacerdote fa parte della famiglia di Aaronne e dei suoi discendenti, non può essere un semplice levita. C’è una casta sacerdotale chiusa a Gerusalemme. Il sommo sacerdote, come gli altri sacerdoti del Tempio, porta vestiti speciali e deve svolgere tutte le funzioni religiose (sabato e feste) e i riti di purificazione. Un’altra funzione importante è quella delle offerte e dei sacrifici (animali). Il principale sacrificio si chiama sacrificio costante (tamid): due agnelli puri vengono offerti quotidianamente (uno la mattina, uno la sera). Sono gli olocausti. Il sommo sacerdote svolge anche il sacrificio dei sacrifici il giorno del perdono (yom kippur): è l’unico a poter penetrare nella parte più santa del Tempio di Gerusalemme e questo avviene solo una volta all’anno. Nel giorno di kippur, il sommo sacerdote entra nel santissimo e sacrifica un animale il cui sangue serve di espiazione per i peccati di tutti. Riprenderemo più avanti il significato della figura di Melchisedec. Ciò che possiamo dire è che, in questo brano, Gesù Cristo viene paragonato alla figura del sommo sacerdote, anzi il titolo gli viene attribuito ma con un significato nuovo, cioè Cristo come sommo sacerdote ultimo e unico (colui che ha svolto un solo sacrificio, il suo). Anche qui vediamo l’opposizione tra il vecchio, il passato, l’antico patto e il nuovo, il futuro, il nuovo (secondo) patto. I brani dell’Antico Testamento che hanno a che vedere con il sommo sacerdote, o con l’ordine dei sacerdoti in generale o con le leggi di culto si trovano in Esodo cap. 28 e 29 e in Levitico cap. 8 e 16.

Il mistero della figura di Melchisedec, un legame con Qumran?
E’ interessante notare che l’ordine di Melchisedec non significa molto oltre al riferimento a Genesi 14, 18. Non sembra che Melchisedec fondi un ordine; nello stesso tempo è il primo sacerdote citato nella Bibbia, cade un po’ dal nulla, non ha ascendenza né discendenza, ma sembra comunque grande e importante. Per certi versi, questa sua unicità e originalità lo accomunano con Gesù. A questo proposito possiamo aggiungere che tra i manoscritti ritrovati a Qumran (11 rotoli) c’è una specie di targum (traduzione, interpretazione) che riguarda la figura di Melchisedec (11QMelch). Melchisedec vi viene dipinto come una figura messianica assai simile a Gesù. E’ difficile dire se l’autore della lettera agli Ebrei fosse un familiare della comunità di Qumran o se egli conoscesse i suoi scritti, ma in ogni caso vediamo che nell’ambito dell’ebraismo del I secolo d.C. la figura di Melchisedec ha avuto una sua rilevanza.

Il cuore del testo: Ebrei 7, 1-10, 18
4. Ebrei 7, 1-8, 13
In tutta questa sezione centrale (7, 1-10, 18) l’autore della lettera agli Ebrei si concentra su
un’immagine particolare e oppone antico e nuovo patto. Di nuovo qui, all’inizio del capitolo 7, ritroviamo la figura misteriosa di Melchisedec, malak tsedek, re di giustizia e nello stesso tempo, re di Salem (cf. Gen 14, 18), cioè re di pace. Il punto che accomuna forse di più il sommo sacerdote Melchisedec e Gesù è il fatto di essere senza genealogia (Ebr 7, 3) e anche “immortale” (cf. v. 8 “uno di cui si attesta che vive”). Invece in questa presentazione Abraamo è presentato come inferiore al sommo sacerdote Melchisedec. La stirpe di Abraamo, pur estremamente importante per la storia di Israele, rappresenta nello stesso tempo la discendenza e quindi la mortalità di questa successione, come del resto accade per la stirpe di Levi (confronto interno tra Melchisedec e i leviti una delle dodici tribù d’Israele, sacerdoti al posto dei primogeniti, …). La figura del sommo sacerdote Melchisedec, figura messianica dal sacerdozio puro ed eterno, viene usata da alcuni altri scritti, non canonici, ma che risalgono alla tradizione cristiana e ebraica (Filone, Giuseppe Flavio). Ma comunque all’interno del canone delle Scritture, l’autore della lettera agli Ebrei è l’unico a sviluppare una cristologia sacerdotale.
La seconda parte del capitolo 7 (11-28) riprende la questione della perfezione di Gesù Cristo come sommo sacerdote, il superamento della legge e l’avvento della potenza di “una vita indistruttibile” (v. 16). Importanza della speranza.

Un breve excursus sul significato della speranza nella lettera. E’ un tema molto legato a quello del patto e alla comprensione cristologica dell’autore. In Ebr 7, 19 troviamo scritto: “… ma vi è altresì l’introduzione di una migliore speranza, mediante la quale ci accostiamo a Dio”. Per il teologo François Vouga, la speranza viene in una maniera specifica, che contraddistingue Ebrei e la teologia di Paolo (per es. Romani 8). Nella nostra lettera la speranza indica non tanto la speranza in senso assoluto quanto come il suo “oggetto, ossia i benefici della salvezza promessi alla fede nell’adempimento finale” (Vouga, p. 198). La speranza non è una convinzione soggettiva ma l’offerta di una prospettiva di salvezza (data dalla promessa e dal giuramento fatto da Dio ad Abraamo (cap. 6). La speranza, nella teologia della lettera agli Ebrei, non si fonda sulla fedeltà del soggetto a una verità rivelata, ma sulla fedeltà di colui che ha fatto le promesse (Dio stesso). “In qesta linea di fedeltà a un adempimento futuro, la lettera agli Ebrei vede i patriarchi, Mosè e i profeti come gli eroi della fede. (…) Sono modelli della fede.” Tutto questo discorso sulla speranza è direttamente collegato alla definizione che la lettera agli Ebrei dà alla fede (Ebr 11, 1). La fede è la condizione per ottenere la pace escatologica, è la visione del mondo e per questa ragione è anche la conoscenza su cui si basa la speranza. Ma nonostante la fede e la speranza dei padri antichi (per l’autore della lettera agli Ebrei essi appartengono al passato), questi ultimi non hanno ottenuto i frutti della salvezza perché non sono vissuti abbastanza a lungo per vedere il nuovo patto, il salvatore veritiero, Cristo, che invece è offerto alla generazione presente. Questo dovrebbe essere un motivo di incoraggiamento per la generazione forse un po’ titubante alla quale si rivolge l’autore della lettera agli Ebrei. Tutto questo passo si concentra sull’idea dell’autore che “Gesù è divenuto garante di un patto migliore del primo” (v. 22). La legge viene anche confrontata alla “parola del giuramento” (v. 28). Nella polemica con i leviti spunta forse anche un’accusa contro un certo legalismo/ritualismo, in favore dell’incredibile novità di Gesù Cristo che distrugge tutti i ritualismi. Un altro tema che viene affrontato in questi versetti è quello del superamento dei sacrifici (v. 26-27) che si iscrive nell’economia generale della lettera. Si veda lo schema di François Vouga (op. cit. p. 105-107 e p. 472): . ..Gesù è il Figlio di Dio, superiore agli angeli (Ebr 1,1-2,18) …egli porta agli esseri umani il riposo della promessa (Ebr 3,1-4,13) …egli è il sommo sacerdote fedele e misericordioso (Ebr 4,14-5,10). A questo, dice sempre Vouga, il discorso passa dai temi elementari e dai dati fondamentali della fede cristiana all’insegnamento per i perfetti (Ebr 5,11-6,20).  Gesù è sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec …in quanto sommo sacerdote celeste e unico è il mediatore del nuovo patto (Ebr 9,15 che apre ai credenti l’accesso al mondo del Padre (Ebr 7,1-10,18). Per Vouga, l’autore dell’epistola agli Ebrei non contrappone due culti: uno dell’antico patto e uno del nuovo ma cerca il senso autentico delle disposizioni veterotestamentarie. Tuttavia, secondo Vouga, il punto di partenza dell’autore della lettera è il testo biblico dei LXX (Bibbia della diaspora ebraica, traduzione in greco della Bibbia ebraica), usato dagli ebrei della diaspora che hanno riconosciuto in Cristo il Messia. Vouga insiste molto sul fatto che l’autore della lettera agli Ebrei non presuppone una pratica ebraica o un legame diretto con la religione ebraica ma la conoscenza della Bibbia ebraica tradotta in greco. Perciò Vouga dice che il punto di partenza è il testo biblico e che quindi il lavoro dell’autore è un vero lavoro di esegesi e di omiletica e non una difesa di una pratica rituale. Vouga sottolinea lo sforzo di interpretazione e di esegesi allegorica dell’autore che rispecchia perfettamente il modo di lavorare sui testi delle scuole filosofiche ellenistiche (neoplatonici, stoici) dell’epoca e del giudaismo ellenistico. Le conseguenze di questa lettura allegorica del testo biblico sono due: da una parte la dimensione temporale sparisce per lasciare il posto a una dimensione “ideale” e atemporale introdotta dalla morte e dalla risurrezione di Gesù. Siamo in presenza di un superamento del tempo storico. Il Tempio diventa Tempio dello Spirito per l’eternità e non necessita più la fisicità e la presenza concreta a Gerusalemme (elemento che parla a favore di uno scritto posteriore alla distruzione del Tempio). La seconda conseguenza di questa lettura allegorica dei testi biblici è un’interpretazione radicalmente antisacrificale della morte di Gesù: il nuovo patto è sancito una volta per tutte, in modo definitivo o perfetto, e così è la proclamazione della fine del primo patto, ormai concluso, che era quello dei riti sacrificali (Ebr 8,13). Vouga riassume la lettera agli Ebrei: “il Figlio è il Mosè celeste che conduce gli uomini suoi fratelli verso il riposo promesso ed è il sommo sacerdote celeste che conduce i credenti dalla terra abitata verso la presenza celeste di Dio. (…) I temi veterotestamentarii dell’entrata nella terra promessa e della purificazione mediante il sacrificio per la festa del gran perdono sono riletti allegoricamente in modo tale che il “sangue” di Gesù, ossia la sua morte e il suo innalzamento presso il Padre, vengono intesi come l’attraversamento di un velo la cui funzione è di separare l’ambito della creazione dal mondo divino. Pertanto la salvezza consiste appunto in quell’attraversamento del velo; esso, infatti, dischiude la possibilità dell’incontro e della comunione perfetta con Dio (op. cit. p. 106-7). Il capitolo 8 prosegue con la presentazione di Cristo come sommo sacerdote perfetto. Cristo viene presentato come il mediatore (v. 6). Poi l’autore cita un passo molto noto del libro del profeta Geremia che affronta il tema dell’antico patto e della sua sostituzione con il nuovo. Ritroviamo qui la metodologia dell’autore che parte proprio da un’interpretazione della Scrittura nel senso della venuta di Cristo e la usa come prova irrefutabile della verità. La parte centrale della lettera (8,1-9,28) è iniziata: essa parla della salvezza di Cristo, un sacrificio unico ma le cui categorie sacrificali vengono rielaborate dall’autore in modo antisacrificale.

5. Ebrei 9, 1-28
Si può anche leggere Esodo 40,17-33 per la costruzione del tabernacolo e Esodo 24,3-8 per il
paragone con il sacrificio di Mosè. Nei primi versetti di questo capitolo si conferma l’immagine centrale della cortina del Tempio/tabernacolo che Gesù attraversa una volta per tutte. In questo brano viene anche richiamato il sacrificio di yom kippur per il perdono dei peccati (il sommo sacerdote entra nella parte dietro la seconda cortina, nel santissimo, e compie il sacrificio, una volta all’anno). Per quanto riguarda l’immagine della cortina, Vouga vi vede un elemento fondamentale della cristologia dell’autore della lettera. Scrive (p. 267): “Ciò che caratterizza il sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, e che lo distingue dai sacerdoti levitici del primo patto, sta nel fatto che la funzione del sommo sacerdote del nuovo patto non è quella di offrire un nuovo sacrificio, bensì quella di attraversare il santuario celeste, di aprire e di far passare i credenti fedeli attraverso la cortina che li separa da Dio”. Il testo prosegue e descrive l’unico sacrificio di Gesù Cristo (v. 11ss). Il sangue di Cristo non è visto come il sangue del sacrificio rituale ma come la redenzione per tutto il popolo credente (cf. ruolo fondamentale dello Spirito eterno). Nei versetti 15ss l’autore prosegue il suo discorso e la sua descrizione del sacrificio di Cristo. Il tema del testamento/patto viene collegato in modo particolare con la morte e con il sangue della morte. Una morte imperfetta nell’antico patto perché il sangue è quello di animali, invece nel nuovo patto, Cristo sacrifica se stesso, versa il proprio sangue per la redenzione di tutti, il suo sacrificio unico è anche perfetto. I versetti 23ss presentano le realtà celesti confrontate alle realtà di questo mondo. Qui la lettura ideale/celeste di cui si è parlato è molto evidente. Tutta l’interpretazione della Scrittura
compiuta dall’autore della lettera agli Ebrei si articola intorno a questa lettura allegorica e ideale del testo della legge. Il versetto 28 ricorda anche la speranza cristiana del ritorno di Cristo. Non è solo morto e risorto per la nostra redenzione ma tornerà per la salvezza definitiva. La prospettiva escatologica è molto chiara e sembra assolutamente evidente all’autore. La logica per gli esseri umani implica la morte seguita dal giudizio. Per Cristo, che è senza peccato, la morte significa già la redenzione, seguita non da un giudizio (Cristo è senza peccato) ma da un ritorno per la salvezza. Mi sembra che questa prospettiva escatologica originale andrebbe ripresa, forse anche all’interno della liturgia (per esempio durante il tempo di Avvento).

6. Ebrei 10, 1-18
Nei versetti 1-4 viene sottolineata l’inutilità dei sacrifici (dopo essere servito, il sacrificio è stato immediatamente abolito). L’assurdità del sacrificio viene messa in luce dall’insistenza sulla vanità di versare il sangue di animali. E’ forse anche una condanna implicita alla violenza del sacrificare in generale. Il testo prosegue con il richiamo del libro di Geremia per spiegare l’offerta del corpo (non solo il sangue, interessante lo “spostamento”) come compimento della volontà di Dio. I versetti seguenti (11-18) denunciano in modo chiaro e forte gli eccessi e l’inutilità della religione come pratica di riti, sacrifici, legalismo. Sembra quasi di leggere una pesante condanna protestante della messa cattolica!

Una protesta contro il ritualismo?
La lettera comprende elementi critici rispetto alle prassi religiose ebraiche. L’inizio del capitolo 10 ne fornisce un esempio. La critica rimane ma comporta un significato diverso se la lettera agli Ebrei è stata scritta prima del 70 o dopo (70 = distruzione del Tempio di Gerusalemme che non sarà mai ricostruito). Il versetto 1 tende a fare pensare che la lettera risale a prima del 70: l’autore osserva il fenomeno del sacrificio in tutta la sua ritualità e regolarità (il verbo è al presente, tutti possono osservare la stessa cosa dell’autore). Ma nello stesso tempo altri indizi fanno piuttosto pensare che la lettera sia stata scritta intorno all’anno 100, quindi la prospettiva critica dell’autore non ha più lo stesso significato. a) se la lettera è stata scritta prima del 70, la critica alle prassi rituali può essere interpretata come un tentativo di riformare l’ebraismo del I secolo, riconoscendo pienamente Gesù come il Messia, venuto a riscattare i peccati abolendo la legge mosaica. b) se la lettera è stata scritta dopo il 70 la critica alle prassi rituali non è più tanto una critica quanto un invito a vivere la celebrazione religiosa (ebraica) in un altro modo, più flessibile, più semplice, un modo che corrisponda pienamente alle nuove esigenze dopo la distruzione del Tempio. Gli elementi che colpiscono di più sono l’assenza della risurrezione ma l’insistenza sulla morte, sulla redenzione e soprattutto sull’ascensione/elevazione di Cristo. L’immagine e la realtà della croce e della tomba vuota non vengono neanche accennati. La teologia non è per niente una teologia della croce (Paolo, Lutero), né una teologia della gloria, ma una teologia del sacrificio ultimo e unico, dell’elevazione e della promessa del ritorno. Nella lettera agli Ebrei, la figura del Gesù “storico” ha poca risonanza, Gesù è Cristo, figlio di Dio, morto, alzato, colui che tornerà. La morte e l’innalzamento di Gesù vanno compresi come un passaggio attraverso la cortina del Tempio, dal terreno degli esseri umani a quello di Dio. Mediante tale passaggio, il sommo sacerdote salva se stesso e salva i suoi (Vouga). Importanza della metafora del Tempio terrestre come immagine del Tempio celeste (8,1-5/9, 11-12.23) e di quella del cosmo come Tempio (6,19-20/9,24/10,19-20). Per l’autore della lettera, ciò che sta davanti alla cortina del Tempio è il mondo terrestre, accessibile agli esseri umani; invece tutto ciò che sta dietro (santissimo) è il mondo celeste, quello della presenza di Dio e del riposo escatologico (cf. cap. 3-4). E Gesù Cristo, con la sua morte e il suo sacrificio, conduce i credenti dall’una all’altra parte della cortina. Il secondo elemento che abbiamo già incontrato più volte è quello dello Spirito Santo che qui sembra giocare un ruolo importante e che sostituisce il mediatore Gesù. Cristo è mediatore tra gli esseri umani e Dio mentre deve ancora compiere il suo sacrificio; dopo la sua morte, il mediatore è lo Spirito santo (cf. Giovanni 14,15ss).

7. La seconda parte (esortazioni) e la fine della lettera
7.1. Ebrei 10, 19-39
A partire dal versetto 19 del capitolo 10 l’autore della lettera agli Ebrei ritorna ai credenti. Ha concluso la parte centrale cristologica, ha presentato un ritratto e una visione precisa di chi è
Cristo, adesso i credenti devono fare la loro parte. Questi versetti si rivolgono proprio ai membri delle prime comunità cristiane. L’autore sottolinea l’importanza del culto, ma un culto semplice al quale è stata tolta la pesantezza della ritualità, della gerarchia, del sacrificio “sempre da rifare”. Insomma l’autore della lettera difende una visione cultuale cristiana, anche se probabilmente la sua visione era quella di un ebreo che ha accettato la predicazione e il sacrificio di Gesù ma non considera di appartenere a una nuova religione. Il discorso cambia un po’ dopo il versetto 25. Il tema è quello del rischio dell’apostasia e l’appello alla costanza e alla perseveranza perché comunque il tempo del ritorno e della salvezza è vicino. L’autore incoraggia i fedeli a non rinunciare alla loro fede, anche in situazioni di pressione o di minacce. La prospettiva in questo brano è molto simile a quella della lettera di Giacomo. Ultima osservazione: ai versetti 37-38 l’autore della lettera agli Ebrei usa la citazione del libro di Abacuq che usa anche Paolo nel primo capitolo della lettera ai Romani (1, 17), quando l’apostolo inizia la sua dimostrazione riguardo alla giustificazione per fede. Il capitolo 11 descrive una storia dei testimoni fedeli (ritorna l’espressione “per fede”) dell’antico patto. L’autore li presenta come veri testimoni della fede ma purtroppo essi non hanno visto il nuovo patto e la promessa legatavi. Questo è anche un modo per attirare l’attenzione dei credenti sull’incredibile privilegio loro: essi sono in grado di vedere e di vivere la promessa e la speranza. Non c’è nessuna scusa per allontanarsene.

7.2. Ebrei 12, 1- 13
Il capitolo inizia con l’immagine dell’atleta che usa anche Paolo (1 Co 9). Gesù viene presentato come quello che ha sofferto e resistito e quindi anche come un modello per tutti i cristiani stanchi, scoraggiati, forse perseguitati. In un secondo tempo l’autore della lettera agli Ebrei riprende l’immagine di Dio come Padre supremo, cioè come quello che deve correggere, rimettere sulla strada giusta, instancabilmente. Potremmo chiederci se questo linguaggio altamente simbolico e moralizzante vale ancora per oggi. La stessa immagine del padre, fino a che punto possiamo ancora usarla in un senso così classico e scontato di un padre che ama ma corregge, cura ma rimprovera, quando sappiamo che molti ragazzi crescono senza padre (o madre, o figure genitoriali di riferimento)?

7.3. Ebrei 13, 1-25
L’ultimo brano sul quale ci fermiamo è l’ultimo capitolo della lettera e si divide in due parti: i
versetti 1-21 formano la prima parte, i versetti 22-25 la seconda. Questo ultimo capitolo inizia con un serie di raccomandazioni: l’ospitalità, la cura dei carcerati, il matrimonio. Dal versetto 7 in poi appare il discorso sulla leadership delle comunità, sull’ortodossia e l’eresia, sui veri e i falsi predicatori del vangelo (temi simili a quelli di Paolo e comuni a tutte le prime comunità cristiane). I versetti 11 a 16 affrontano di nuovo il tema del sacrificio di Cristo con un paragone con gli animali sacrificati nel Tempio di Gerusalemme, il cui sangue veniva bevuto nel Tempio ma la cui carne veniva bruciata fuori dell’accampamento. L’autore della lettera usa questa immagine per evocare la morte di Gesù sul Golgota, cioè fuori dalla città di Gerusalemme. La città che i cristiani aspettano non è comunque Gerusalemme, ma una città futura (discorso escatologico).

Il testo si conclude con uno stile epistolare che aveva perso durante gli altri capitoli. La menzione dell’Italia potrebbe far pensare o che l’autore della lettera si trovi in Italia, o che egli abbia legami stretti con la comunità presente in Italia (o entrambi).

Past. Janique Perrin, 21 novembre 2007.

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