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TUTTI I SANTI – FAR VIVERE DIO NEL MONDO

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TUTTI I SANTI – FAR VIVERE DIO NEL MONDO

don Maurizio Prandi

Bella la festa di oggi: Tutti i Santi. Ricordo che qualche tempo fa, cercando una definizione di « santo » che potesse parlare al nostro cuore e al cuore delle persone perché di queste sia rispettosa (relegare il santo nel mondo della perfezione o del miracoloso o dell’eroicità non mi sembra rispettoso dell’intelligenza dell’uomo), ci eravamo detti che: i santi sono coloro che nei modi più belli e diversi hanno fatto vivere Dio nel mondo. Mi piace davvero tanto questa definizione di santo, mi piace perché la sento alla portata di tutti. Il santo quindi non è colui che è perfetto, non è colui che ha fatto cose così difficili, impossibili, tanto da guadagnarsi la santità! Ci toccherebbe dire, riconoscere che quasi quasi non è umano uno così! No, è tutto il contrario invece: il santo ha vissuto in pieno la sua umanità, il santo vive in pieno la sua umanità! Lo ripeto, perdonatemi: il santo è colui che, attraverso la sua vita, ha fatto vivere Dio nel mondo.
Quindi è certamente attraverso la storia di Abramo, di Mosè, di Elia, di Giovanni Battista, di Francesco d’Assisi, di Massimiliano Kolbe che io conosco qualcosa di più di Dio, del suo mondo, del suo volto, ma è anche attraverso la storia degli uomini e delle donne che incontro che capisco qualcosa di più di Dio. È soltanto attraverso le storie concrete che viviamo, che conosciamo, che « sappiamo », che possiamo balbettare qualcosa di Dio. Provo a spiegarmi: sarà san Francesco certamente a parlarmi di Dio e della sua povertà, ma anche chi sa vivere nella semplicità e fa dell’essenzialità un valore fa vivere e risplendere la povertà di Dio. Sarà madre Teresa di Calcutta a parlarmi di un Dio che si china sui poveri e si prende cura di loro, vede e raccoglie i malati che nessuno vuol vedere e raccogliere, ma anche un infermiere/a che vivono il loro lavoro come una vocazione a servire il povero e il debole fanno vivere nel nostro mondo di oggi Dio che si prende cura degli ultimi. Don Angelo Casati, questo sacerdote così illuminato della Diocesi di Milano afferma che i racconti più belli di Dio sono legati a storie concrete di uomini e di donne. Il salmo responsoriale infatti, ci dice che per varcare la porta del tempio, per entrare nel luogo sacro, per stare al cospetto di Dio sono necessarie due cose: mani innocenti e un cuore puro; non per fare facili processi di beatificazione ma mi viene in mente quello che dicevo alcuni giorni fa celebrando il funerale di Giuseppe dove dicevo così: meno male che Giuseppe, secondo il libro dell’Apocalisse viene giudicato secondo le sue opere. Le mani, il segno dell’operatività umana, di un amore che diventa un operare concretamente il servizio ai nostri fratelli e sorelle e poi il coltivare un cuore puro (ne parla anche il vangelo che abbiamo ascoltato), ovvero un’interiorità tanto cristallina da potervi leggere ogni parola della legge di Dio che lì viene custodita.
Desiderare di diventare santi allora non può ridursi al sogno di avere il nostro posto in Paradiso. Diventare santi deve coincidere con il desiderio di far vivere Dio nel mondo, altrimenti il mondo diventa muto, muto di Dio (A. Casati). Sono i nostri volti a far parlare a far viver Dio nell’oggi, è la nostra storia che lo fa vivere nel presente.
Ho già detto queste cose ma le ripeto volentieri:
- è la storia di Roberto, che due anni fa abbiamo conosciuto alla casa della carità di Milano; è la storia di un uomo redento, cambiato, che ha ritrovato la sua dignità e vive la sua dignità. Ama ripetere che ognuno, a modo suo, può sognare il Paradiso e pertanto ha ancora il tempo qui, di mettersi in riga e di non restare fuori. Roberto, fa vivere Dio!
- Ma è la storia anche di Enrico. Lo abbiamo conosciuto a sant’Anna di Stazzema insieme ai giovani che nel 2012 cominciavano un percorso, è la storia di un uomo che ha i tedeschi entrare in casa sua ed uccidere suo papà, sua mamma, le sue sorelline e ogni anno, nel giorno anniversario della strage invita alla sua tavola italiani e tedeschi, perché possano parlare, stare insieme, costruire e vivere relazioni nuove. Anche Enrico, fa vivere Dio!
- È la storia di Consuelo, che ha quasi smesso di vivere una vita sua quando ha scoperto che sua madre si era ammalata prendendosi cura di lei dall’età di dieci anni, non lasciandola mai, anzi, accompagnandola, certo, facendosi tante domande sul senso della vita ma aprendo in continuazione squarci in un cielo che qualsiasi persona avrebbe considerato tenebra. Squarci di azzurro, di sereno, di luce: da più di quindici anni la mamma di Consuelo non c’è più, ma c’è un marito, ci sono tre figli bellissimi. Una vita che non è più soltanto una domanda ma che poco a poco è diventata speranza. Anche Consuelo, fa vivere Dio!
Ecco cos’è la festa dei Santi, una festa che in ascolto di chi fa vivere Dio nella nostra vita diventa la festa della speranza! È la festa di tutti quelli che sono segnati sulla fronte ci dice la prima lettura. Che bella la prima lettura! Parla di angeli che hanno il compito di devastare la terra e il mare. Ma vengono « stoppati »: non devastate, perché prima dobbiamo segnare la fronte, il volto di ognuno dei suoi servi. Crediamo in un Dio che desidera proprio questo: segnare uno a uno sulla fronte i suoi servi; prima centoquarantaquattromila e poi una moltitudine immensa! Non una massa indistinta, non un gregge senza volto, ma uomini e donne il cui volto dice un gesto di Dio, un’appartenenza, un riconoscimento, un chinarsi di Dio sui suoi servi. Un nome, il mio, il vostro, quello di ognuno di noi, pronunciato da Dio.
Ecco chi sono i santi: non eroi perfetti e specialisti dell’impossibile, ma uomini e donne che hanno fatto vivere Dio nel mondo perché Dio ha legato la sua vita alla loro; credo proprio questo: Dio si è legato ai nostri nomi, ai nostri volti, alle nostre povere, semplici vite.
Concludo riprendendo un passaggio già fatto lo scorso anno e che mi è caro perché nasce da un momento di preghiera vissuto insieme ad alcune persone che quest’anno si è allargato in modo credo molto significativo. Ascoltando proprio il brano di vangelo delle Beatitudini, qualcuno ha condiviso questo pensiero: questo brano di Vangelo mi commuove sempre. Pensavo allora questa cosa, che personalmente mi piace: forse queste parole che Gesù ha voluto dare ai suoi discepoli, vengono proprio dalla commozione che Gesù prova vedendo le folle. Per questo ha chiesto ai discepoli di andare con lui sul monte:
- voleva avere un momento solo con loro per dirgli che aveva visto, in quella folla, poveri in Spirito, ovvero persone così abbandonate da poter contare solamente su Dio e sul suo sostegno;
- ma aveva visto anche uomini e donne nel pianto, capaci cioè di provare dei sentimenti, capaci di amare, perché il lutto è intimamente legato all’intensità delle relazioni. Gesù è commosso da chi ha investito tutto nell’amore senza temere di esporsi alla vulnerabilità, Gesù si commuove di fronte a chi ama senza paura di perdere;
- aveva visto persone capaci di farsi carico delle miserie degli altri, o tanto semplici da essere trasparenza di un cuore limpido, altre sommamente miti, ovvero salde nei loro principi ed ideali (seminano serenità, amano e pregano per i propri nemici, testimoniano il vangelo senza fare crociate ma dialogando e cercando un incontro) e incapaci di qualsiasi gesto di violenza o di prevaricazione.
Ha detto ai suoi discepoli che queste persone sono beate e proprio in questi giorni leggevo in Servizio della Parola qualcosa di affascinante e che bene si inserisce nel cammino che stiamo facendo: beato è colui che marcia nella giusta direzione. Che bello allora per la nostra chiesa, per le nostre comunità potersi dire beate perché camminano nella giusta direzione, poter stare a fianco e fare lo stesso cammino di chi è povero in spirito, di chi piange, di chi è misericordioso, di chi è mite, puro, opera la pace, è perseguitato.

Publié dans:TUTTI I SANTI - FESTA |on 30 octobre, 2018 |Pas de commentaires »

PERCHÉ GRANDE È LA VOSTRA RICOMPENSA NEI CIELI – OMELIA

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PERCHÉ GRANDE È LA VOSTRA RICOMPENSA NEI CIELI.

Movimento Apostolico – rito romano

Tutti i Santi (01/11/2016)

Gesù sale sul monte, cioè entra nel cuore di Dio, nel cuore di Dio porta anche i suoi discepoli, dal cuore di Dio dona la nuova legge, le Beatitudini. Esse però sono per l’uomo più incomprensibili dei geroglifici dell’antica scrittura. Anche se una persona è riuscita a decifrare qualcosa di esse, la sua decriptazione non serve a nessuno. Vale solo per essa. Ogni altro ha bisogno della sua personale interpretazione e della sua attuale, momentanea, odierna traduzione. Nessuno può leggerle per un altro e neanche le può vivere come le ha vissute o comprese un altro.
Maestro capace di interpretare i geroglifici delle Beatitudini, che le può decriptare, tradurre, adattarle ad ogni anima è lo Spirito Santo. Lui viene, legge ogni beatitudine e con saggezza eterna indica ad ogni cuore come viverle nell’attualità del tempo, nelle mutate circostanze storiche, nella variabilità dei luoghi, nelle situazioni concrete in cui esso verrà a trovarsi. Ogni beatitudine ogni giorno dallo Spirito Santo va letta e ogni giorno applicata all’anima secondo perfetta attualità, nel rispetto della purissima volontà di Dio, dal cui cuore esse sono sgorgate.
Come unico è il cuore, unica la vita, unico il carisma, unica la persona, così unica sarà la lettura e l’applicazione che lo Spirito del Signore farà per ogni anima. La storia attesta che nessuno di quanti sono stati condotti, guidati, ammaestrati dallo Spirito di Dio ha vissuto le Beatitudini uguale ad un altro. Attesta altresì che anche quanti hanno deciso di seguire le orme tracciate dal loro maestro umano, questo o quell’altro santo, ognuno ha vissuto, vive e vivrà le beatitudini donando ad esse sempre una modalità personale. L’imitazione nella forma è solo per quanti non sono condotti e guidati dallo Spirito Santo. Non vi è alcuna ripetizione nella vita secondo le Beatitudini.
Il primo che ha decriptato le Beatitudini è stato lo stesso Gesù, con il Discorso della Montagna. Esso però non risolse il nostro problema della quotidiana decriptazione. Al negativo esso è chiaro. Quando però si tratta di superare la giustizia degli scribi e dei farisei, allora solo lo Spirito di Dio può farci da maestro. Nessuno potrà da solo leggere, spiegare, applicare alla sua vita questa nuova legge di Gesù Signore. Essa è troppo alta da essere consegnata allo spirito dell’uomo e alla sua intelligenza. Troppo profonda perché vi si possa immergere lo sguardo. Troppo divina per essere spiegata da un cuore umano. Noi siamo fatti di terra e per di più di terra di peccato. Sempre dovrà essere invocato lo Spirito Santo perché illumini gli occhi a vedere il visibile per noi. La personalizzazione delle Beatitudini è la sua opera perenne.
Le Beatitudini non proibiscono qualcosa perché non la si faccia. Manifestano invece un nuovo modo di essere. Si tratta di una modalità senza modalità, di un limite senza limite, di un’opera senza alcuna opera, perché è l’essere stesso che è chiamato a vivere, ad esprimersi, manifestarsi, rivelarsi in tutto il suo nuovo splendore. Quali opere deve compiere il povero in spirito, il mite, quelli che sono nel pianto? Le Beatitudini portano l’uomo dal mondo della carne a quello dello spirito, dal mondo dell’uomo al mondo di Dio, dalla terra lo portano nel cielo. La vita nuova delle Beatitudini è vita che inizia ma che mai potrà giungere ad un termine, perché il termine è infinito. Le Beatitudini ci chiedono di essere perfetti in tutto come Dio è perfetto e misericordioso.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, fateci miti e umili come Gesù.

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO (2013)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-francesco_20131101_omelia-ognissanti.html

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cimitero del Verano

Venerdì, 1° novembre 2013

A quest’ora, prima del tramonto, in questo cimitero ci raccogliamo e pensiamo al nostro futuro, pensiamo a tutti quelli che se ne sono andati, che ci hanno preceduto nella vita e sono nel Signore. E’ tanto bella quella visione del Cielo che abbiamo sentito nella prima Lettura: il Signore Dio, la bellezza, la bontà, la verità, la tenerezza, l’amore pieno. Ci aspetta tutto questo. Quelli che ci hanno preceduto e sono morti nel Signore sono là. Essi proclamano che sono stati salvati non per le loro opere – hanno fatto anche opere buone – ma sono stati salvati dal Signore: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7, 10). È Lui che ci salva, è Lui che alla fine della nostra vita ci porta per mano come un papà, proprio in quel Cielo dove sono i nostri antenati. Uno degli anziani fa una domanda: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?» (v.13). Chi sono questi giusti, questi santi che sono in Cielo? La risposta: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v.14). Possiamo entrare nel Cielo soltanto grazie al sangue dell’Agnello, grazie al sangue di Cristo. È proprio il sangue di Cristo che ci ha giustificati, che ci ha aperto le porte del Cielo. E se oggi ricordiamo questi nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto nella vita e sono in Cielo, è perché essi sono stati lavati dal sangue di Cristo. Questa è la nostra speranza: la speranza del sangue di Cristo! Una speranza che non delude. Se camminiamo nella vita con il Signore, Lui non delude mai! Abbiamo sentito nella seconda Lettura quello che l’Apostolo Giovanni diceva ai suoi discepoli: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce. … Siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» (1 Gv 3,1-2). Vedere Dio, essere simili a Dio: questa è la nostra speranza. E oggi, proprio nel giorno dei Santi e prima del giorno dei Morti, è necessario pensare un po’ alla speranza: questa speranza che ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è  una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i nostri antenati, dove sono i Santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude; oggi e domani sono giorni di speranza. La speranza è un po’ come il lievito, che ti fa allargare l’anima; ci sono momenti difficili nella vita, ma con la speranza l’anima va avanti e guarda a ciò che ci aspetta. Oggi è un giorno di speranza. I nostri fratelli e sorelle sono alla presenza di Dio e anche noi saremo lì, per pura grazia del Signore, se cammineremo sulla strada di Gesù. Conclude l’Apostolo Giovanni: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso» (v.3). Anche la speranza ci purifica, ci alleggerisce; questa purificazione nella speranza in Gesù Cristo ci fa andare in fretta, prontamente. In questo pre-tramonto d’oggi, ognuno di noi può pensare al tramonto della sua vita: “Come sarà il mio tramonto?”. Tutti noi avremo un tramonto, tutti! Lo guardo con speranza? Lo guardo con quella gioia di essere accolto dal Signore? Questo è un pensiero cristiano, che ci da pace. Oggi è un giorno di gioia, ma di una gioia serena, tranquilla, della gioia della pace. Pensiamo al tramonto di tanti fratelli e sorelle che ci hanno preceduto, pensiamo al nostro tramonto, quando verrà. E pensiamo al nostro cuore e domandiamoci: “Dove è ancorato il mio cuore?”. Se non fosse ancorato bene, ancoriamolo là, in quella riva, sapendo che la speranza non delude perché il Signore Gesù non delude.  

1 NOVEMBRE FESTA DI TUTTI I SANTI – OMELIA : « DOPO CIÒ APPARVE UNA MOLTITUDINE IMMENSA CHE NESSUNO POTEVA CONTARE… »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/30a-Tutti-i-Santi-A/12-30a-Tutti-i-Santi-A-2014-SC.htm

1 NOVEMBRE 2014 | 30A / FESTA: TUTTI I SANTI A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« DOPO CIÒ APPARVE UNA MOLTITUDINE IMMENSA CHE NESSUNO POTEVA CONTARE… »

C’è una sola tristezza al mondo, « quella di non essere santi » (Léon Bloy, La femme pauvre). Se questo è vero, è altrettanto vero che la festa di oggi è fatta apposta per fugare tale tristezza, mostrandoci appunto come tanti nostri fratelli e tante nostre sorelle la santità l’hanno raggiunta. E se loro questo itinerario l’hanno percorso, perché non potremmo e non dovremmo percorrerlo anche noi?
La tristezza allora diventa gioia, esaltazione dello spirito, fiducia nell’amore benevolente del Padre, impegno generoso di fedeltà a Cristo, volontà di imitazione, sicurezza di aiuto e di intercessione non di uno solo ma di « tutti i Santi », piccoli e grandi, di ieri e di oggi, perché anche noi realizziamo fino in fondo il « disegno » di Dio sulla nostra vita. Perché, in realtà, questa è la « santità »: permettere a Dio di portare a compimento in noi il suo progetto di amore.
Una festa, dunque, quella di oggi, dai molti significati: un richiamo pressante alla santità, un invito alla gioia come per una festa di famiglia, una nostalgia verso la città celeste, un bisogno di supplica presso chi può aiutarci a raggiungere la mèta altissima della nostra assimilazione a Cristo, un desiderio di contemplare e di imitare dei « modelli » in cui Dio stesso sembra essersi rispecchiato ed anche compiaciuto.
È quanto, almeno in parte, mette in evidenza il bellissimo Prefazio odierno: « Oggi ci dài la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre, dove l’assemblea festosa dei nostri fratelli glorifica in eterno il tuo nome. Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino, lieti per la sorte gloriosa di questi nostri membri eletti della Chiesa, che ci hai dato come amici e modelli di vita ».
Anche la orazione dopo la comunione riecheggia tutti questi motivi, collegandoli con il mistero dell’Eucaristia quale « fonte » di ogni santità: « O Padre, unica fonte di ogni santità, mirabile in tutti i tuoi santi, fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa mensa eucaristica, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo ».

« Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo »
Particolarmente significative sono poi le letture bibliche, che chiariscono ciascuna aspetti, contenuti, motivazioni e anche itinerari della santità.
Prendiamo, ad esempio, la prima lettura, che costituisce l’intermezzo della sezione così detta dei « sette sigilli », la quale dà come l’avvio a tutto il dramma divino-umano, storico ed escatologico, nello stesso tempo, descrittoci dall’Apocalisse. Prima che l’Agnello « immolato » apra l’ultimo sigillo, simbolo della collera e della « giustizia » di Dio, vincitore e dominatore della storia, vengono « segnati » gli eletti, i « servi » del Signore, coloro che otterranno in maniera definitiva la « salvezza ».
È San Giovanni che ci descrive in prima persona la grande visione: « Vidi allora un angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: « Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi ». Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila da ogni tribù dei figli di Israele » (Ap 7,2-4).
Il « sigillo » sta ad esprimere la speciale appartenenza a Dio dell’Israele ideale, composto dai numerosi membri delle dodici tribù: il numero 144.000, infatti, si ottiene moltiplicando « dodici », elevato al quadrato, per mille. Dunque un numero immenso di « eletti » facenti parte ormai della Chiesa, nuovo Israele, che Dio preserverà dalla perdizione ultima, di cui gli esecutori saranno i suoi « angeli ».
Questo numero, già così grande, si infittisce ancora nella visione successiva di Giovanni: « Dopo ciò apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: « La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello »" (vv. 9-10).
Le « palme » sono segno di trionfo dopo una grande « lotta »: quella lotta, che verrà evocata esplicitamenle verso la fine della visione, quando uno dei 24 vegliardi, che circondano il trono dell’Altissimo, domanderà all’Evangelista: «  »Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? ». Gli risposi: « Signore mio, tu lo sai ». E lui: « Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello »" (vv. 13-14).
In questa visione fantastica, così ricca di simboli e di allegorie, mi sembra che siano individuabili alcuni « elementi » rappresentativi e costitutivi della santità.
Prima di tutto, essa non è il risultato dei soli sforzi umani, sia pur nobili e generosi. È Dio che la dona e la porta a maturazione per mezzo di Cristo, come una manifestazione gratuita della sua bontà e del suo amore. È per questo che la moltitudine immensa dei salvati grida con voce possente: « La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello » (v. 10). E ad essa fanno coro gli angeli, i vegliardi e i quattro esseri viventi: « Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen! » (v. 12). E del resto, il « sigillo » impresso sui salvati, per preservarli dalla grande « devastazione », sta a dire in forma anche più plastica che la salvezza è opera esclusiva dell’Altissimo, come già abbiamo accennato.
La via, però, attraverso la quale passa la salvezza, non è facile: è la via della « grande tribolazione » (v. 14), che non designa soltanto la « persecuzione », ma tutte le prove che i fedeli devono affrontare per entrare nel regno. La santità vera è sempre una forma di martirio!
Per questo uno dei vegliardi risponde che i redenti « hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello » (v. 14). Il « sangue » sta a rappresentare l’efficacia della « morte » di Gesù, che ogni cristiano deve « portare » e come riprodurre nel proprio corpo, per essere degno del suo Maestro. E questa è la parte che tutti noi dobbiamo saper mettere nell’opera della santità: in questa neppure Dio può sostituirsi a noi!

« Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio »
La seconda lettura, ripresa dalla prima lettera di Giovanni (3,1-3), ci insegna che la santità non è una realtà da attendere per la fine della vita, quasi che essa rappresenti un traguardo sempre al di là di noi. È vero anche questo: e ciò crea un continuo « dinamismo » nel nostro vivere cristiano, che non ci lascia mai tregua.
Ma se fosse solo questo, la santità sarebbe più frutto dei nostri sforzi, che non « dono » dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, come abbiamo detto sopra. Essa è piuttosto una realtà già presente ed operante nella nostra vita, nella nostra mente, nel nostro cuore, nel nostro stesso corpo, perché si identifica con il fatto di essere noi, fin dal presente, « figli di Dio ».
È l’annunzio giubilante che ci dà San Giovanni nei brevi, ma stupendi versetti della Liturgia odierna: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!… » (1 Gv 3,1).
Per San Giovanni, dunque, la nostra santità si identifica con la stessa « filiazione » divina, che è una realtà già presente ed operante, anche se in continuo sviluppo. Più che dalla immagine di un traguardo perciò essa può essere rappresentata dalla immagine della vita, o, se si vuole, del « seme »: qualcosa che già è, ma, nello stesso tempo, deve ancora crescere, dilatarsi, arricchirsi, maturarsi.
E questo è collegato con il pieno rivelarsi di Dio: « Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è » (v. 2). D’altra parte, Dio ci si svelerà nella misura in cui noi ci saremo resi sempre più « somiglianti » a lui.
La santità è un reciproco « rincorrersi » di Dio e dell’uomo per rendere sempre più trasparente la presenza del divino nella nostra vita. Proprio per questo essa è un impegno di sempre, e non il fortunato accadere di certi gesti eroici durante l’arco della nostra esistenza. Mi sembra che sia questo il significato delle ultime parole dell’Apostolo: « Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso come egli è puro » (v. 3).

« Beati i poveri in spirito… »
Un discorso anche più lungo dovremmo farlo sulla bellissima pagina del Vangelo di Matteo, che ci ripropone lo stupefacente annuncio delle « beatitudini ». Ma non ne abbiamo più il tempo e, d’altra parte, l’abbiamo già commentato (4ª Domenica del Tempo Ordinario A). Ci preme piuttosto di cogliere alcune indicazioni di un « itinerario » di santità, che qui è ridotto alle cose veramente essenziali.
E prima di tutto questa: la santità si realizza soltanto là dove l’uomo non ha nulla da far valere davanti a Dio, se non la propria debolezza e l’estremo « bisogno » che ha di lui. È questo il significato fondamentale di tutte e nove le « beatitudini » riportateci da San Matteo (le ultime due, però, sono parzialmente identiche).
Ad esempio, « i poveri in spirito » non solo non confidano nelle ricchezze, ma neppure in se stessi, nelle loro capacità, nella loro intelligenza e neppure nella loro bontà; i « miti » non cercano di far valere i loro diritti con la prepotenza o con la forza; gli « operatori di pace » non la costruiscono con la guerra, ma con la benevolenza, l’amore e il perdono; i « perseguitati per causa della giustizia » affidano soltanto a Dio la difesa della loro innocenza.
Questo affidarsi totalmente a Dio è espresso soprattutto nella quarta beatitudine: « Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati » (v. 6). Non basta « desiderare » il regno di Dio e la sua giustizia, bisogna addirittura « averne fame e sete », cioè sentirne il bisogno vitale. Come senza cibo l’uomo muore, così senza la « ricerca » ansiosa e spasimante di Dio egli è nella delusione e nella tristezza, e non può realizzarsi neppure come uomo. È per questo che gli unici uomini « veri » sono i santi!
Una seconda indicazione la cercherei in quest’alternarsi di tempo presente e di tempo futuro per esprimere le diverse motivazioni della « beatitudine », che fondamentalmente è unica, ed è la « gioia » di sapersi protetti e come vigilati dal Signore: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli; beati gli afflitti, perché saranno consolati… ».
Non è priva di significato questa variazione grammaticale: essa sta a dire che la santità, pur attendendo il premio « futuro », è già premio a se stessa. È rinunciando a me stesso e ad ogni desiderio di ricchezza, che già possiedo « il regno dei cieli »: anzi, esso sta proprio in questa rinuncia! Se gli uomini vivessero lo spirito delle « beatitudini », il mondo già sarebbe diventato un « paradiso », cioè la patria dei santi.

La « universale » vocazione alla santità
Un’ultima segnalazione, infine, vorrei fare: dal testo di Matteo è chiaro che Gesù propone l’ideale delle beatitudini, cioè l’ideale della santità, a tutti i suoi discepoli indistintamente: « Gesù, vedendo le folle, salì sulla montagna… Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo… » (Mt 5,1-2).
Anche se nella Chiesa c’è diversità di compiti e di missione, c’è però « identica » chiamata alla santità. A ragione perciò il Concilio Vaticano II dedica l’intero capitolo V della Costituzione Lumen Gentium a trattare della « universale vocazione alla santità nella Chiesa »: « Tutti i fedeli quindi sono invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato. Perciò tutti si sforzino di rettamente dirigere i propri affetti, affinché dall’uso delle cose di questo mondo e dall’attaccamento alle ricchezze, contrariamente allo spirito della povertà evangelica, non siano impediti di tendere alla carità perfetta; ammonisce infatti l’Apostolo: « Quelli che si servono di questo mondo, lo facciano come se non ne godessero; poiché passa la scena di questo mondo » (cf 1 Cor 7,31) ».
È quello che diceva in altre e più sferzanti parole un grintoso nostro grande scrittore nella prefazione ad un arditissimo libro, uscito postumo a 21 anni dalla morte (1956): « Questo libro è il poema dell’occhio chiaro e della speranza disperata. Far manifesto che tutti siamo bestie e colpevoli, ma nello stesso tempo che c’è in ognuno di noi un genio intristito, un santo soffocato, un angelo prigioniero e che da noi soltanto dipende risuscitarli e liberarli ».

Da: CIPRIANI S.

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