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PAPA FRANCESCO – Il consiglio di Paolo (2015)

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PAPA FRANCESCO – Il consiglio di Paolo

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 1° settembre 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.198, 02/09/2015)

La testimonianza di Giobbe e l’affresco del Giudizio universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina sono due icone che possono ravvivare la nostra certezza dell’incontro personale con il Signore. Le ha riproposte il Papa rilanciando a ciascuno il consiglio, rivolto da Paolo ai cristiani di Tessalonica, di «confortarsi a vicenda», e cioè di «parlare della venuta del Signore», l’unica cosa che conta, senza perdere tempo in chiacchiere da sagrestia. Nella messa celebrata martedì mattina 1º settembre, nella cappella della Casa Santa Marta, il Pontefice ha suggerito anche una serie di domande per un esame di coscienza su come stiamo vivendo l’attesa del Signore.
Francesco ha preso le mosse per la sua meditazione proprio del passo liturgico della prima lettera che «l’apostolo Paolo scrive alla comunità di Tessalonica» (5, 1-6. 9-11). Forse, ha fatto notare, «questa lettera è la prima che lui ha scritto» e l’ha indirizzata a «una comunità un po’ inquieta» perché preoccupata di «come e quando» sarebbe stato e sarebbe venuto il giorno del ritorno del Signore. Tanto che già nel brano letto il giorno prima, ha precisato il Papa, san Paolo è costretto a raccomandare di non essere «tristi come quelli che non hanno speranza». Infatti la comunità si chiedeva: «Cosa succede ai morti, dove vanno i morti?». E ancora: «Quando viene il Signore?». E qualcuno rispondeva: «No, viene subito! E se viene subito, non lavoriamo!».
Così Paolo, uomo «concreto», deve rivolgersi ai cristiani di Tessalonica con un’espressione forte: «Ma, chi non lavora, che non mangi». Insomma, ha affermato il Papa, a questa «comunità un po’ così» l’apostolo «deve insegnare la strada della pace». E sempre il passo dell’epistola del giorno precedente ammoniva di non essere «tristi perché il Signore verrà e i vostri morti sono con lui». Ma Paolo va poi anche oltre: «E così per sempre saremo con il Signore». Questa affermazione, ha detto Francesco, «è una consolazione grande» ed «è quello che ci aspetta, tutti noi». Inoltre, ha aggiunto, «il brano di ieri finiva con un consiglio: confortatevi, dunque, a vicenda con queste parole».
Ma «anche oggi — ha detto il Papa — il brano che abbiamo letto finisce con lo stesso verbo: confortatevi a vicenda». È infatti «proprio il conforto che dà la speranza: il Signore verrà, e verrà quando lui vorrà venire, quando lui vedrà che sarà giunto il tempo». Nessuno può dire quando sarà: Paolo scrive addirittura che il Signore «verrà come un ladro, come le doglie a una donna incinta: viene!». E in questa prospettiva «noi cosa dobbiamo fare?». Paolo suggerisce, appunto, questo consiglio: «Confortatevi, confortatevi a vicenda». Invita cioè a parlarne insieme. «Ma io — ha chiesto Francesco — vi domando: noi parliamo del fatto che il Signore verrà, che noi incontreremo lui?». Oppure «parliamo di tante cose, anche di teologie, di cose di Chiesa, di preti, di suore, di monsignori, tutto questo?». E, ha aggiunto, «il nostro conforto, è questa speranza?».
Il consiglio di Paolo è quello di confortarsi a vicenda, confortarsi in comunità. E sulla questione Francesco ha proposto un vero esame di coscienza: «Nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie, si parla del fatto che siamo in attesa del Signore che viene o si chiacchiera di questo, di quello, di quella, per passare un po’ il tempo e non annoiarsi troppo? Qual è il mio conforto? È questa speranza? Io sono sicuro che il Signore verrà a cercarmi e a portarmi con lui? Ho questa certezza?».
Il Papa ha poi ripetuto le parole del salmo responsoriale (26): «Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi». E ha subito proposto un’altra domanda: «Ma tu hai quella certezza di contemplare il Signore?». A questo proposito Francesco ha voluto far riferimento a «quel finale tanto bello del capitolo 19 del Libro di Giobbe», spiegando che «Giobbe soffriva tanto», eppure «in mezzo ai suoi dolori, alle sue piaghe, alle sue incomprensioni, alla sofferenza di non capire perché gli accadeva questo, diceva: ma io sono certo, io so che il mio Redentore è vivo; io so che Dio è vivo e io lo vedrò, e lo vedrò con questi occhi».
Una testimonianza che interpella ciascuno di noi. E così il Papa ha proposto ancora una riflessione diretta: «Io ci credo, a questo? O meglio non pensare? Pensiamo a un’altra cosa, perché questa certezza che il Signore verrà a trovarmi, a portarmi con lui… E questa è la nostra pace, questo è il nostro conforto, questa è la nostra speranza».
«È vero, lui verrà a giudicare — ha aggiunto — e quando andiamo alla Sistina vediamo quella bella scena del Giudizio finale: è vero!». Ma «pensiamo anche che lui verrà a trovarmi perché io lo veda con questi occhi, lo abbracci e sia sempre con lui. Questa è la speranza che l’apostolo Pietro ci dice di spiegare con la nostra vita agli altri, di dare testimonianza di speranza».
Dunque questo è il vero conforto: «Sono certo — questa è la vera certezza — di contemplare la bontà del Signore». Perciò, ha proseguito il Papa rilanciando il consiglio di Paolo, «confortatevi a vicenda con le buone opere e siate d’aiuto gli uni agli altri. E così andremo avanti». Del resto, proprio «nella preghiera all’inizio della messa — ha ricordato — abbiamo chiesto al Signore che lui sviluppi il germe che ha seminato in noi, quel seme di bontà, quel seme di grazia».
Francesco ha proseguito l’omelia chiedendo «al Signore la grazia che quel seme di speranza che ha seminato nel nostro cuore si sviluppi, cresca fino all’incontro definitivo con lui», per poter affermare: «Io sono certo che vedrò il Signore»; «io sono certo che il Signore vive»; «io sono certo che il Signore verrà a trovarmi». È questo «l’orizzonte della nostra vita». Dunque, ha concluso, «chiediamo questa grazia al Signore e confortiamoci gli uni gli altri con le buone opere e le buone parole, su questa strada».

 

PAPA FRANCESCO – 13 giugno 2014 – In una brezza leggera

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PAPA FRANCESCO – 13 giugno 2014 – In una brezza leggera

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.134, Sab. 14/06/2014)

Prima di affidarci una missione il Signore ci prepara, mettendoci alla prova con un processo di purificazione e di discernimento. È la storia del profeta Elia ad aver suggerito al Papa, durante la messa celebrata venerdì mattina 13 giugno nella cappella della Casa Santa Marta, la riflessione su questa regola fondamentale della vita cristiana.
«Nella prima lettura — ha detto il Pontefice riferendosi al passo tratto dal primo libro dei Re (19, 9.11-16) — abbiamo sentito la storia di Elia: come il Signore prepara un profeta, come lavora nel suo cuore perché quest’uomo sia fedele alla sua parola e faccia quello che lui vuole».
Il profeta Elia «era una persona forte, di grande fede. Aveva rimproverato al popolo di adorare Dio e adorare gli idoli: ma se adorava gli idoli, adorava male Dio! E se adorava Dio, adorava male agli idoli!». Per questo Elia diceva che il popolo zoppicava «con i due piedi», non aveva stabilità e non era saldo nella fede. Nella sua missione «è stato coraggioso» e, alla fine, ha lanciato una sfida ai sacerdoti di Baal, sul monte Carmelo, e li ha vinti. «E per finire la storia li ha uccisi tutti», mettendo così termine all’idolatria «in quella parte del popolo di Israele». Dunque Elia «era contento perché la forza del Signore era con lui».
Però, ha proseguito il Papa, «il giorno dopo, la regina Gezabele — era la moglie del re ma era lei che governava — lo ha minacciato e gli ha detto che lo avrebbe ucciso». Davanti a questa minaccia Elia «ha avuto tanta paura che si è depresso: se n’è andato e voleva morire». Proprio quel profeta che il giorno precedente «era stato tanto coraggioso e aveva vinto» contro i sacerdoti di Baal, «oggi è giù, non vuole mangiare e vuole morire, tanta era la depressione che aveva». E tutto questo, ha spiegato il Pontefice, «per la minaccia di una donna». Perciò «i quattrocento sacerdoti dell’idolo Baal non lo avevano spaventato, ma questa donna sì!».
È una storia che «ci fa vedere come il Signore prepara» alla missione. Infatti Elia «con quella depressione è andato nel deserto per morire e si è coricato aspettando la morte. Ma il Signore lo chiama» e lo invita a mangiare un po’ di pane e a bere perché, gli dice, «tu devi ancora camminare tanto». E così Elia «mangia, beve, ma poi si corica un’altra volta per morire. E il Signore un’altra volta lo chiama: vai avanti, vai avanti!».
La questione è che Elia «non sapeva cosa fare, ma ha sentito che doveva salire sul monte per trovare Dio. È stato coraggioso ed è andato lì, con l’umiltà dell’obbedienza. Perché era obbediente». Pur in uno stato di sconforto e «con tanta paura», Elia «è salito sul monte per aspettare il messaggio di Dio, la rivelazione di Dio: pregava, perché era bravo, ma non sapeva cosa sarebbe successo. Non lo sapeva, era lì e aspettava il Signore».
Si legge nell’Antico testamento: «Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento». Elia, ha commentato il Papa, si «accorse che il Signore non era lì». Prosegue la Scrittura: «Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto». Dunque, ha continuato il Pontefice, Elia «ha saputo discernere che il Signore non era nel terremoto e non era nel vento». E ancora, racconta il primo Libro dei Re: «Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera». Ed ecco che «come l’udì, Elia si è accorto» che «era il Signore che passava, si coprì il volto con il mantello e adorò il Signore».
Infatti, ha affermato il vescovo di Roma, «il Signore non era nel vento, nel terremoto o nel fuoco, ma era in quel sussurro di una brezza leggera: nella pace». O «come dice proprio l’originale, un’espressione bellissima: il Signore era in un filo di silenzio sonoro».
Elia, dunque, «sa discernere dov’è il Signore e il Signore lo prepara con il dono del discernimento». Poi gli affida la sua missione: «Hai fatto la prova, ti sei messo alla prova della depressione», dello stare giù, «della fame; sei stato messo alla prova del discernimento» ma adesso — si legge nella Scrittura — «ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco, finché giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsì, come re su Israele e ungerai Elisèo».
Proprio questa è la missione che attende Elia, ha spiegato il Papa. E il Signore gli ha fatto fare quel lungo percorso per prepararlo alla missione. Forse, si potrebbe obiettare, sarebbe stato «molto più facile dire: tu sei stato tanto coraggioso da uccidere quei quattrocento, adesso vai e ungi questo!». Invece «il Signore prepara l’anima, prepara il cuore e lo prepara nella prova, lo prepara nell’obbedienza, lo prepara nella perseveranza».
E «così è la vita cristiana», ha puntualizzato il Pontefice. Infatti «quando il Signore vuole darci una missione, vuole darci un lavoro, ci prepara per farlo bene», proprio «come ha preparato Elia». Ciò che è importante «non è che lui abbia incontrato il Signore» ma «tutto il percorso per arrivare alla missione che il Signore affida». E proprio «questa è la differenza fra la missione apostolica che il Signore ci dà e un compito umano, onesto, buono». Dunque «quando il Signore dà una missione, fa sempre entrare noi in un processo di purificazione, un processo di discernimento, un processo di obbedienza, un processo di preghiera». Così, ha ribadito, «è la vita cristiana», cioè «la fedeltà a questo processo, a lasciarci condurre dal Signore».
Dalla vicenda di Elia scaturisce un grande insegnamento. Il profeta «ha avuto paura, e questo è tanto umano», perché Gezabele «era una regina cattiva che ammazzava i suoi nemici». Elia «ha paura, ma il Signore è più potente» e gli fa comprendere di aver «bisogno dell’aiuto del Signore nella preparazione alla missione». Così Elia «cammina, obbedisce, soffre, discerne, prega e trova il Signore». Papa Francesco ha concluso con una preghiera: «Il Signore ci dia la grazia di lasciarci preparare tutti i giorni nel cammino della nostra vita, perché possiamo testimoniare la salvezza di Gesù».

 

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – 16 maggio 2020 – « Cristo morto e risorto per noi: l’unica medicina contro lo spirito della mondanità »

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CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA
DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – 16 maggio 2020 – « Cristo morto e risorto per noi: l’unica medicina contro lo spirito della mondanità »

Introduzione

Preghiamo oggi per le persone che si occupano di seppellire i defunti in questa pandemia. È una delle opere di misericordia seppellire i defunti e non è una cosa gradevole, naturalmente. Preghiamo per loro, che rischiano la vita e di prendere il contagio.

Omelia

Gesù parecchie volte, e soprattutto nel suo congedo con gli apostoli, parla del mondo (cfr Gv 15, 18-21). E qui dice: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me» (v. 18). Chiaramente parla dell’odio che il mondo ha avuto verso Gesù e avrà verso di noi. E nella preghiera che fa a tavola con i discepoli nella Cena, chiede al Padre di non toglierli dal mondo, ma di difenderli dallo spirito del mondo (cfr Gv 17,15).
Credo che noi possiamo domandarci: qual è lo spirito del mondo? Cosa è questa mondanità, capace di odiare, di distruggere Gesù e i suoi discepoli, anzi di corromperli e di corrompere la Chiesa? Come è lo spirito del mondo, cosa sia questo, ci farà bene pensarlo. È una proposta di vita, la mondanità. Ma qualcuno pensa che mondanità è fare festa, vivere nelle feste… No, no. Mondanità può essere questo, ma non è questo fondamentalmente.
La mondanità è una cultura; è una cultura dell’effimero, una cultura dell’apparire, del maquillage, una cultura “dell’oggi sì domani no, domani sì e oggi no”. Ha dei valori superficiali. Una cultura che non conosce fedeltà, perché cambia secondo le circostanze, negozia tutto. Questa è la cultura mondana, la cultura della mondanità. E Gesù insiste a difenderci da questo e prega perché il Padre ci difenda da questa cultura della mondanità. È una cultura dell’usa e getta, secondo quello che convenga. È una cultura senza fedeltà, non ha delle radici. Ma è un modo di vivere, un modo di vivere anche di tanti che si dicono cristiani. Sono cristiani ma sono mondani.
Gesù, nella parabola del seme che cade in terra, dice che le preoccupazioni del mondo – cioè della mondanità – soffocano la Parola di Dio, non la lasciano crescere (cfr Lc 8,7). E Paolo ai Galati dice: “Voi eravate schiavi del mondo, della mondanità” (cfr Gal 4,3). A me sempre, sempre colpisce quando leggo le ultime pagine del libro del padre de Lubac: “Le meditazioni sulla Chiesa” (cfr Henri de Lubac, Meditazioni sulla Chiesa, Milano 1955), le ultime tre pagine, dove parla proprio della mondanità spirituale. E dice che è il peggiore dei mali che può accadere alla Chiesa; e non esagera, perché poi dice alcuni mali che sono terribili, e questo è il peggiore: la mondanità spirituale, perché è un’ermeneutica di vita, è un modo di vivere; anche un modo di vivere il cristianesimo. E per sopravvivere davanti alla predicazione del Vangelo, odia, uccide.
Quando si dice dei martiri che sono uccisi in odio alla fede, sì, davvero per alcuni l’odio era per un problema teologico; ma non erano la maggioranza. Nella maggioranza [dei casi] è la mondanità che odia la fede e li uccide, come ha fatto con Gesù.
È curioso: la mondanità, qualcuno può dirmi: “Ma padre, questa è una superficialità di vita…”. Non inganniamoci! La mondanità non è per niente superficiale! Ha delle radici profonde, delle radici profonde. È camaleontica, cambia, va e viene a seconda delle circostanze, ma la sostanza è la stessa: una proposta di vita che entra dappertutto, anche nella Chiesa. La mondanità, l’ermeneutica mondana, il maquillage, tutto si trucca per essere così.
L’apostolo Paolo venne ad Atene, ed è rimasto colpito quando ha visto nell’areopago tanti monumenti agli dei. E lui ha pensato di parlare di questo: “Voi siete un popolo religioso, io vedo questo… Mi attira l’attenzione quell’altare al ‘dio ignoto’. Questo io lo conosco e vengo a dirvi chi è”. E incominciò a predicare il Vangelo. Ma quando arrivò alla croce e alla risurrezione si scandalizzarono e se ne andarono via (cfr At 17,22-33). C’è una cosa che la mondanità non tollera: lo scandalo della Croce. Non lo tollera. E l’unica medicina contro lo spirito della mondanità è Cristo morto e risorto per noi, scandalo e stoltezza (cfr 1Cor 1,23).
È per questo che quando l’apostolo Giovanni nella sua prima Lettera tratta il tema del mondo dice: «È la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4). L’unica: la fede in Gesù Cristo, morto e risorto. E questo non significa essere fanatici. Questo non significa tralasciare di avere dialogo con tutte le persone, no, ma con la convinzione di fede, a partire dallo scandalo della Croce, dalla stoltezza di Cristo e anche dalla vittoria di Cristo. “Questa è la nostra vittoria”, dice Giovanni, “la nostra fede”.
Chiediamo allo Spirito Santo in questi ultimi giorni, anche nella novena dello Spirito Santo, negli ultimi giorni del tempo pasquale, la grazia di discernere cosa è mondanità e cosa è Vangelo, e non lasciarci ingannare, perché il mondo ci odia, il mondo ha odiato Gesù e Gesù ha pregato perché il Padre ci difendesse dallo spirito del mondo (cfr Gv 17,15).

Preghiera per la Comunione spirituale
Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a Te. Non permettere che mi abbia mai a separare da Te.

 

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « Il rimanere reciproco tra la vite e i tralci » – 13 maggio 2020

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CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA
DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « Il rimanere reciproco tra la vite e i tralci » – 13 maggio 2020

Introduzione

Preghiamo oggi per gli studenti, i ragazzi che studiano, e gli insegnanti che devono trovare nuove modalità per andare avanti nell’insegnamento: che il Signore li aiuti in questo cammino, dia loro coraggio e anche un bel successo.

Omelia

Il Signore torna sul “rimanere in Lui”, e ci dice: “La vita cristiana è rimanere in me”. Rimanere. E usa qui l’immagine della vite, come i tralci rimangono nella vite (cfr Gv 15,1-8). E questo rimanere non è un rimanere passivo, un addormentarsi nel Signore: questo sarebbe forse un “sonno beatifico”, ma non è questo. Questo rimanere è un rimanere attivo, e anche è un rimanere reciproco. Perché? Perché Lui dice: «Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Anche Lui rimane in noi, non solo noi in Lui. È un rimanere reciproco. In un’altra parte dice: Io e il Padre «verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Questo è un mistero, ma un mistero di vita, un mistero bellissimo. Questo rimanere reciproco. Anche con l’esempio dei tralci: è vero, i tralci senza la vite non possono fare nulla perché non arriva la linfa, hanno bisogno della linfa per crescere e per dar frutto; ma anche l’albero, la vite ha bisogno dei tralci, perché i frutti non vengono attaccati all’albero, alla vite. È un bisogno reciproco, è un rimanere reciproco per dar frutto.
E questa è la vita cristiana. È vero, la vita cristiana è compiere i comandamenti (cfr Es 20,1-11), questo si deve fare. La vita cristiana è andare sulla strada delle beatitudini (cfr Mt 5,1-13), questo si deve fare. La vita cristiana è portare avanti le opere di misericordia, come il Signore ci insegna nel Vangelo (cfr Mt 25,35-36), e questo si deve fare. Ma anche di più: è questo rimanere reciproco. Noi senza Gesù non possiamo fare nulla, come i tralci senza la vite. E Lui – mi permetta il Signore di dirlo – senza di noi sembra che non possa fare nulla, perché il frutto lo dà il tralcio, non l’albero, la vite. In questa comunità, in questa intimità del “rimanere” che è feconda, il Padre e Gesù rimangono in me e io rimango in Loro.
Qual è – mi viene in mente di dire – il “bisogno” che l’albero della vite ha dei tralci? È avere dei frutti. Qual è il “bisogno” – diciamo così, un po’ con audacia – qual è il “bisogno” che ha Gesù di noi? La testimonianza. Quando nel Vangelo dice che noi siamo luce, dice: “Siate luce, perché gli uomini «vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro» (Mt 5,16)”. Cioè la testimonianza è la necessità che ha Gesù di noi. Dare testimonianza del suo nome, perché la fede, il Vangelo cresce per testimonianza. Questo è un modo misterioso: Gesù anche glorificato in cielo, dopo aver passato la Passione, ha bisogno della nostra testimonianza per far crescere, per annunciare, perché la Chiesa cresca. E questo è il mistero reciproco del “rimanere”. Lui, il Padre e lo Spirito rimangono in noi, e noi rimaniamo in Gesù.
Ci farà bene pensare, riflettere su questo: rimanere in Gesù, e Gesù rimane in noi. Rimanere in Gesù per avere la linfa, la forza, per avere la giustificazione, la gratuità, per avere la fecondità. E Lui rimane in noi per darci la forza del [portare] frutto (cfr Gv 5,15), per darci la forza della testimonianza con la quale cresce la Chiesa.
E una domanda, mi faccio: come è il rapporto tra Gesù che rimane in me e io che rimango in Lui? È un rapporto di intimità, un rapporto mistico, un rapporto senza parole. “Ah Padre, ma questo, che lo facciano i mistici!”. No, questo è per tutti noi! Con piccoli pensieri: “Signore, io so che Tu sei qui [in me]: dammi la forza e io farò quello che Tu mi dirai”. Quel dialogo di intimità con il Signore. Il Signore è presente, il Signore è presente in noi, il Padre è presente in noi, lo Spirito è presente in noi; rimangono in noi. Ma io devo rimanere in Loro…
Che il Signore ci aiuti a capire, a sentire questa mistica del rimanere su cui Gesù insiste tanto, tanto, tanto. Tante volte noi, quando parliamo della vite e dei tralci, ci fermiamo alla figura, al mestiere dell’agricoltore, del Padre: che quello [il tralcio] che porta frutto lo pota, e quello che non lo porta lo taglia e lo porta via (cfr Gv 15,1-2). È vero, fa questo, ma non è tutto, no. C’è dell’altro. Questo è l’aiuto: le prove, le difficoltà della vita, anche le correzioni che ci fa il Signore. Ma non fermiamoci qui. Tra la vite e i tralci c’è questo rimanere intimo. I tralci, noi, abbiamo bisogno della linfa, e la vite ha bisogno dei frutti, della testimonianza.

Preghiera per fare la comunione spirituale
Le persone che non possono comunicarsi, fanno adesso la comunione spirituale:
Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a te. Non permettere che mi abbia mai a separare da te.

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « Avere il coraggio di vedere le nostre tenebre, perché la luce del Signore entri e ci salvi » – Mercoledì, 6 maggio 2020

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CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA
DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « Avere il coraggio di vedere le nostre tenebre,
perché la luce del Signore entri e ci salvi » – Mercoledì, 6 maggio 2020

Introduzione
Preghiamo oggi per gli uomini e le donne che lavorano nei mezzi di comunicazione. In questo tempo di pandemia rischiano tanto e il lavoro è tanto. Che il Signore li aiuti in questo lavoro di trasmissione, sempre, della verità.

Omelia
Questo passo del Vangelo di Giovanni (cfr 12,44-50) ci fa vedere l’intimità che c’era tra Gesù e il Padre. Gesù faceva quello che il Padre gli diceva di fare. E per questo dice: «Chi crede in me non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato» (v. 44). Poi precisa la sua missione: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (v. 46). Si presenta come luce. La missione di Gesù è illuminare: la luce. Lui stesso ha detto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). Il profeta Isaia aveva profetizzato questa luce: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (9, 1). La promessa della luce che illuminerà il popolo. E anche la missione degli apostoli è portare la luce. Paolo lo disse al re Agrippa: “Sono stato eletto per illuminare, per portare questa luce – che non è mia, è di un altro – ma per portare la luce” (cfr At 26,18). È la missione di Gesù: portare la luce. E la missione degli apostoli è portare la luce di Gesù. Illuminare. Perché il mondo era nelle tenebre.
Ma il dramma della luce di Gesù è che è stata respinta. Già all’inizio del Vangelo, Giovanni lo dice chiaramente: “È venuto dai suoi e i suoi non lo accolsero. Amavano più le tenebre che la luce” (cfr Gv 1,9-11). Abituarsi alle tenebre, vivere nelle tenebre: non sanno accettare la luce, non possono; sono schiavi delle tenebre. E questa sarà la lotta di Gesù, continua: illuminare, portare la luce che fa vedere le cose come stanno, come sono; fa vedere la libertà, fa vedere la verità, fa vedere il cammino su cui andare, con la luce di Gesù.
Paolo ha avuto questa esperienza del passaggio dalle tenebre alla luce, quando il Signore lo incontrò sulla strada di Damasco. È rimasto accecato. Cieco. La luce del Signore lo accecò. E poi, passati alcuni giorni, con il battesimo, riebbe la luce (cfr At 9,1-19). Lui ha avuto questa esperienza del passaggio dalle tenebre, nelle quali era, alla luce. È anche il nostro passaggio, che sacramentalmente abbiamo ricevuto nel Battesimo: per questo il Battesimo si chiamava, nei primi secoli, la Illuminazione (cfr San Giustino, Apologia I, 61, 12), perché ti dava la luce, ti “faceva entrare”. Per questo nella cerimonia del Battesimo diamo un cero acceso, una candela accesa al papà e alla mamma, perché il bambino, la bambina è illuminato, è illuminata.
Gesù porta la luce. Ma il popolo, la gente, il suo popolo l’ha respinto. È tanto abituato alle tenebre che la luce lo abbaglia, non sa andare… (cfr Gv 1,10-11). E questo è il dramma del nostro peccato: il peccato ci acceca e non possiamo tollerare la luce. Abbiamo gli occhi ammalati. E Gesù lo dice chiaramente, nel Vangelo di Matteo: “Se il tuo occhio è ammalato, tutto il tuo corpo sarà ammalato. Se il tuo occhio vede soltanto le tenebre, quante tenebre ci saranno dentro di te?” (cfr Mt 6,22-23). Le tenebre… E la conversione è passare dalle tenebre alla luce.
Ma quali sono le cose che ammalano gli occhi, gli occhi della fede? I nostri occhi sono malati: quali sono le cose che “li tirano giù”, che li accecano? I vizi, lo spirito mondano, la superbia. I vizi che “ti tirano giù” e anche, queste tre cose – i vizi, la superbia, lo spirito mondano – ti portano a fare società con gli altri per rimanere sicuri nelle tenebre. Noi parliamo spesso delle mafie: è questo. Ma ci sono delle “mafie spirituali”, ci sono delle “mafie domestiche”, sempre, cercare qualcun altro per coprirsi e rimanere nelle tenebre. Non è facile vivere nella luce. La luce ci fa vedere tante cose brutte dentro di noi che noi non vogliamo vedere: i vizi, i peccati… Pensiamo ai nostri vizi, pensiamo alla nostra superbia, pensiamo al nostro spirito mondano: queste cose ci accecano, ci allontanano dalla luce di Gesù.
Ma se noi iniziamo a pensare queste cose, non troveremo un muro, no, troveremo un’uscita, perché Gesù stesso dice che Lui è la luce, e anche: “Sono venuto al mondo non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (cfr Gv 12,46-47). Gesù stesso, la luce, dice: “Abbi coraggio: lasciati illuminare, lasciati vedere per quello che hai dentro, perché sono io a portarti avanti, a salvarti. Io non ti condanno. Io ti salvo” (cfr v. 47). Il Signore ci salva dalle tenebre che noi abbiamo dentro, dalle tenebre della vita quotidiana, della vita sociale, della vita politica, della vita nazionale, internazionale… Tante tenebre ci sono, dentro. E il Signore ci salva. Ma ci chiede di vederle, prima; avere il coraggio di vedere le nostre tenebre perché la luce del Signore entri e ci salvi.
Non abbiamo paura del Signore: è molto buono, è mite, è vicino a noi. È venuto per salvarci. Non abbiamo paura della luce di Gesù.

La preghiera per fare la comunione spirituale
Le persone che non possono comunicarsi, fanno adesso la comunione spirituale:
Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a te. Non permettere che mi abbia mai a separare da te.

« OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « La concretezza e la semplicità dei piccoli » 29.4.20

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CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA
DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

« OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « La concretezza e la semplicità dei piccoli » 29.4.20

Mercoledì, 29 aprile 2020

Introduzione

Oggi è la festa di Santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa, Patrona d’Europa. Preghiamo per l’Europa, per l’unità dell’Europa, per l’unità dell’Unione Europea: perché tutti insieme possiamo andare avanti come fratelli.

Omelia

Nella prima Lettera di San Giovanni apostolo ci sono tanti contrasti: fra luce e tenebre, tra bugia e verità, tra peccato e innocenza (cfr 1Gv 1,5-7). Ma sempre l’apostolo richiama alla concretezza, alla verità, e ci dice che non possiamo essere in comunione con Gesù e camminare nelle tenebre, perché Lui è luce. O una cosa o l’altra: il grigio è peggio ancora, perché il grigio ti fa credere che tu cammini nella luce, perché non sei nelle tenebre, e questo ti tranquillizza. È molto traditore, il grigio. O una cosa o l’altra.
L’apostolo continua: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è con noi» (1Gv 1,8), perché tutti abbiamo peccato, tutti siamo peccatori. E qui c’è una cosa che ci può ingannare: dicendo “tutti siamo peccatori”, come chi dice “buongiorno”, “buona giornata”, una cosa abituale, anche una cosa sociale, non abbiamo una vera coscienza del peccato. No: io sono peccatore per questo, questo, questo. La concretezza. La concretezza della verità: la verità è sempre concreta; le bugie sono eteree, sono come l’aria, tu non puoi prenderla. La verità è concreta. E tu non puoi andare a confessare i tuoi peccati in modo astratto: “Sì, io…, sì, una volta ho perso la pazienza, un’altra…”, e cose astratte. “Sono peccatore”. La concretezza: “Io ho fatto questo. Io ho pensato questo. Io ho detto questo”. La concretezza è quello che mi fa sentire peccatore sul serio e non “peccatore nell’aria”.
Gesù dice nel Vangelo: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). La concretezza dei piccoli. È bello ascoltare i piccoli quando vengono a confessarsi: non dicono cose strane, “nell’aria”; dicono cose concrete, e alle volte troppo concrete perché hanno quella semplicità che Dio dà ai piccoli. Ricordo sempre un bambino che una volta è venuto a dirmi che era triste perché aveva litigato con la zia. Ma poi è andato avanti. Io ho detto: “Ma cosa hai fatto?” – “Io ero a casa, volevo andare a giocare a calcio – un bambino –, ma la zia – ncretezza ti porta all’umiltà, perché l’umiltà è concreta. “Siamo tutti peccatori” è una cosa astratta. No: “Io sono peccatore per questo, questo e questo”. E questo mi porta alla vergogna di guardare a Gesù: “Perdonami”. Il vero atteggiamento del peccatore. «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8). E un modo di dire che siamo senza peccatomamma non c’era – dice: «No, tu non esci: tu prima devi fare i compiti». Parola va, parola viene, e alla fine l’ho mandata a quel paese”. Era un bambino di grande cultura geografica: mi ha detto anche il nome del paese al quale aveva mandato la zia! Sono così: semplici, concreti.
Anche noi dobbiamo essere semplici, concreti. La co è questo atteggiamento astratto: “Sì, siamo peccatori, sì, ho perso la pazienza una volta…”, ma tutto “nell’aria”. Non mi accorgo della realtà dei miei peccati. “Ma, sa, tutti, tutti facciamo queste cose, mi spiace, mi spiace…, mi dà dolore, non voglio farlo più, non voglio dirlo più, non voglio pensarlo più…”. È importante che dentro di noi diamo nomi ai nostri peccati. La concretezza. Perché se ci manteniamo “nell’aria”, finiremo nelle tenebre. Diventiamo come i piccoli, che dicono quello che sentono, quello che pensano: ancora non hanno imparato l’arte di dire le cose un po’ “incartate” perché si capiscano ma non si dicano. Questa è un’arte dei grandi, che tante volte non ci fa bene.
Ieri ho ricevuto una lettera di un ragazzo di Caravaggio. Si chiama Andrea. E mi raccontava cose sue. Le lettere dei ragazzi, dei bambini sono bellissime, per la concretezza. E mi diceva che aveva sentito la Messa per televisione e che doveva “rimproverarmi” una cosa: che io dico “la pace sia con voi”, “e tu non puoi dire questo perché con la pandemia noi non possiamo toccarci”. Non vede che voi [qui in chiesa] fate un inchino con la testa e non vi toccate. Ma ha la libertà di dire le cose come sono.
Anche noi, con il Signore, dobbiamo avere la libertà di dire le cose come sono: “Signore, io sono nel peccato, aiutami”. Come Pietro dopo la prima pesca miracolosa: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8). Avere questa saggezza della concretezza. Perché il diavolo vuole che noi viviamo nel tepore, tiepidi, nel grigio: né buoni né cattivi, né bianco né nero, grigio. Una vita che non piace al Signore. Al Signore non piacciono i tiepidi. Concretezza. Per non essere bugiardi. «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci» (1Gv 1,9). Ci perdona quando noi siamo concreti. È tanto semplice la vita spirituale, tanto semplice; ma noi la rendiamo complicata con queste sfumature, e alla fine non arriviamo mai…
Chiediamo al Signore la grazia della semplicità. Che Lui ci dia questa grazia che dà ai semplici, ai bambini, ai ragazzi che dicono quello che sentono, che non nascondono quello che sentono. Anche se è una cosa sbagliata, ma lo dicono. Anche con Lui, dire le cose: la trasparenza. E non vivere una vita che non è una cosa né l’altra. La grazia della libertà per dire queste cose; e anche la grazia di conoscere bene chi siamo noi davanti a Dio.

Preghiera per fare la comunione spirituale
Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a Te. Non permettere che mi abbia mai a separare da Te.

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « La nostra fedeltà è risposta alla fedeltà di Dio » (15.4.20)

http://www.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/papa-francesco-cotidie_20200415_lafedelta-didio.html

CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA
DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « La nostra fedeltà è risposta alla fedeltà di Dio » (15.4.20)

Mercoledì, 15 aprile 2020

Introduzione

Preghiamo oggi per gli anziani, specialmente per coloro che sono isolati o nelle case di riposo. Loro hanno paura, paura di morire da soli. Sentono questa pandemia come una cosa aggressiva per loro. Loro sono le nostre radici, la nostra storia. Loro ci hanno dato la fede, la tradizione, il senso di appartenenza a una patria. Preghiamo per loro perché il Signore sia loro vicino in questo momento.

Omelia

Ieri abbiamo riflettuto su Maria di Magdala come icona della fedeltà: la fedeltà a Dio. Ma come è questa fedeltà a Dio? A quale Dio? Proprio al Dio fedele.
La nostra fedeltà non è altro che una risposta alla fedeltà di Dio. Dio che è fedele alla sua parola, che è fedele alla sua promessa, che cammina con il suo popolo portando avanti la promessa vicino al suo popolo. Fedele alla promessa: Dio, che continuamente si fa sentire come Salvatore del popolo perché è fedele alla promessa. Dio, che è capace di ri-fare le cose, di ri-creare, come ha fatto con questo storpio dalla nascita a cui ha ri-creato i piedi, lo ha fatto guarire (cf. At 3,6-8), il Dio che guarisce, il Dio che sempre porta una consolazione al suo popolo. Il Dio che ri-crea. Una ri-creazione nuova: questa è la sua fedeltà con noi. Una ri-creazione che è più meravigliosa della creazione.
Un Dio che va avanti e che non si stanca di lavorare – diciamo “lavorare”, “ad instar laborantis” (cf. S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 236), come dicono i teologi – per portare avanti il popolo, e non ha paura di “stancarsi”, diciamo così … Come quel pastore che quando rientra a casa si accorge che gli manca una pecora e va, torna a cercare la pecora che si è perduta lì (cf. Mt 18,12-14). Il pastore che fa gli straordinari, ma per amore, per fedeltà … E il nostro Dio è un Dio che fa gli straordinari, ma non a pagamento: gratuitamente. È la fedeltà della gratuità, dell’abbondanza. E la fedeltà è quel padre che è capace di salire tante volte sul terrazzo per vedere se torna il figlio e non si stanca di salire: lo aspetta per fare festa (cf. Lc 15, 21-24). La fedeltà di Dio è festa, è gioia, è una gioia tale che ci fa fare come ha fatto questo storpio: entrò nel tempio camminando, saltando, lodando Dio (cf. At 3,8-9). La fedeltà di Dio è festa, è festa gratuita. E’ festa per tutti noi.
La fedeltà di Dio è una fedeltà paziente: ha pazienza con il suo popolo, lo ascolta, lo guida, gli spiega lentamente e gli riscalda il cuore, come ha fatto con questi due discepoli che andavano lontano da Gerusalemme: scalda loro il cuore perché tornino a casa (cf. Lc 24,32-33). La fedeltà di Dio, è quello che non sappiamo: cosa è successo in quel dialogo, ma è il Dio generoso che ha cercato Pietro che lo aveva rinnegato, che aveva rinnegato. Soltanto sappiamo che il Signore è risorto ed è apparso a Simone: cosa è successo in quel dialogo non lo sappiamo (cf. Lc 24,34). Ma sì, sappiamo che era la fedeltà di Dio a cercare Pietro. La fedeltà di Dio sempre ci precede e la nostra fedeltà sempre è risposta a quella fedeltà che ci precede. È il Dio che ci precede sempre. E il fiore del mandorlo, in primavera: fiorisce per primo.
Essere fedeli è lodare questa fedeltà, essere fedeli a questa fedeltà. È una risposta a questa fedeltà.

Preghiera per la comunione spirituale
Le persone che non possono fare la comunione, faranno adesso la comunione spirituale:
Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e Ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io Ti abbraccio e tutto mi unisco a Te. Non permettere che mi abbia mai a separare da Te.

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