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Padre Marco Adinolfi: LA PASSIONE DI CRISTO IN SAN PAOLO

LA PASSIONE DI CRISTO IN SAN PAOLO

Padre Marco Adinolfi

corso di studi  anno 1993/94
Pontificia Università Antonianum – Roma

Paurosamente infame per gli antichi il supplizio della croce, che Cicerone chiama « il più crudele e il più tetro » (In Verrem 2 5,64,165) e Tacito « la morte più turpe » (Historiae 4,3,11). Una pena riservata di solito al ladro sacrilego, al disertore, al ribelle, al reo di alto tradimento. Una nefandezza che, secondo Cicerone, i cittadini romani non possono giuridicamente provare nella loro carne, e il cui solo nome deve essere lontano dal loro pensiero, dalla loro vista e dal loro udito (Pro Rabirio 5,6).
Nietzsche è dunque vicino al vero quando nel suo Al di là del bene e del male scrive: « Gli uomini moderni…non avvertono quanto di superlativamente orribile c’era, per un gusto antico, nel paradosso della formula del « dio crocifisso ».
Eppure Paolo ha il coraggio di incentrare proprio in Cristo crocifisso il suo messaggio, il suo vangelo.
Tre le parti della presente relazione. Dopo una esposizione preliminare sulla terminologia paolina della passione di Cristo (1), esaminerò in quali rapporti con la passione sono visti il Padre (2) poi Gesù stesso (3).

1. La terminologia della passione di Cristo

Paolo allude alla passione di Cristo parlando – oltre che della sua morte, su cui occorrerà tornare – della sua croce, del suo sangue, delle sue sofferenze, delle sue ferite.
È il crocifisso tutto quanto l’apostolo decide di sapere tra i Corinzi (1Cor 2,2), , che rappresenta al vivo  agli occhi dei Galati (Gal 3,1), che va predicando (1Cor 1,23).
Mediante il sangue della croce Dio ha tutto riconciliato a sé (Col 1,20) e, inchiodandolo alla croce, ha annullato il documento del nostro debito (2,14). Fino alla morte di croce Gesù è stato obbediente (Fil 2,8) e per mezzo della croce ha operato la riconciliazione con Dio di ebrei e pagani (Ef 2,16). Dal modo di accoglierla la parola della croce risulta stoltezza e potenza divina (1Cor 1,8) . Da nemici della croce si comportano i giudaizzanti, Paolo invece non vuol vanificare la croce con discorsi sapienti (1Cor 1,17) e rifiuta ogni vanto che non sia la croce (Gal 6,14).
Per mezzo del suo sangue Cristo è stato predestinato da Dio a servire di espiazione (Rm 3,25). Mediante il sangue di Cristo siamo stati giustificati e abbiamo la redenzione (Ef 1,7), così come i pagani convertiti sono stati avvicinati a Dio (2,13). Il sangue di Cristo è la nuova alleanza (1Cor 11,25): con questo sangue ci si mette in comunione bevendo il calice eucaristico (10,16), mentre saremo colpevoli verso questo sangue bevendo indegnamente il calice (11,27).
I patimenti subiti da Gesù nella sua vita mortale Paolo li sente rifluire copiosamente su di sé (2Cor 1,5). Altrove si augura di partecipare a tali patimenti (Fil 3,10), fino a sentirsi cosciente di supplire con le sue tribolazioni alla incompletezza che Gesù ha imposto alla sua sofferta attività terrena per via del limitato raggio di azione (la sola Palestina) e dei scarsi risultati (Col 1,24).
Le ferite di Cristo crocifisso, infine, sono visibili nelle cicatrici (stigmata) che l’apostolo perseguitato reca nel corpo e che indicano visibilmente la sua partecipazione alla passione del Maestro (Gal 6,17).

2. Il Padre e la passione di Cristo

Anche nella passione di Cristo l’iniziativa è del Padre.
È lui che lo ha dato, consegnato, il verbo paradidodòmi, consegno, tipico della passione, viene ripetute tre volte, di cui al passivo teologico.
Superando infinitamente il gesto di Abramo (Gen 22,16), Dio non ha avuto riguardi per suo Figlio, non lo ha risparmiato, ma lo ha consegnato (1Cor 11,23), lo ha consegnato « per tutti noi » (Rm 8,32), « per i nostri peccati » (4,21).
Mediante due « formule di invio », Paolo insegna che è stato Dio a mandare il proprio Figlio per « condannare » il peccato nella carne » (Rm 8,3), per riscattare coloro che erano sotto la legge e adottarli come figli (Gal 4,4-5).
È stato per l’agape, per amore di Dio verso di noi (Rm 5,8), « per il grande amore con cui egli ci ha amati » (Ef 2,4), è stato per la filantropia di Dio nostro Salvatore (Tt 3,4) che « Cristo è morto per noi quando eravamo ancora peccatori » (Rm 5,8), che Dio ci ha dato la vita con Cristo mentre eravamo morti a causa delle nostre colpe (Ef 2,4), che Dio ci ha salvati effondendo in abbondanza su di noi lo Spirito Santo per mezzo di Gesù Cristo (Tt 3,6) . Non ha torto dunque Paolo quando si dichiara convinto che da quest’amore di Dio manifestato in Gesù Cristo nulla e nessuno potrà mai separarci (Rm 8,32-39).
È stato Dio Padre che ha destinato suo Figlio a servire da espiazione per le nostre colpe (Rm 3,25), giungendo ad identificarlo con il peccato, a trattarlo da peccato (letteralmente, a farlo peccato) proprio Lui, Gesù Cristo, che non aveva commesso alcun peccato (2Cor 5,21).
È stato Dio che per mezzo di Cristo, per il suo sangue, ci ha fatto diventare giustizia (2Cor 5,25), ci ha giustificati (Rm 5,9). È stato Dio  che mediante Cristo (1Cor 5,18; Col 1,20), in Cristo (1Cor 1,19), per mezzo della morte del suo Figlio (Rm 5,10), ha riconciliato a sé noi (1Cor 5,18; Rm 5,10), il mondo (1Cor 5,19), tutte le cose (Col 1,20).
Col peccato gli uomini frapponevano un ostacolo alla loro comunione con Dio. Chiusi nel loro criminoso egoismo, erano diventati nemici di Dio. Dio allora è intervenuto. Mediante Cristo non ha più imputato a più a noi i peccati nostri, ce li ha perdonati. Ha ricomposto così il dissidio che ci teneva lontani da lui.
Ci ha offerto la giustificazione e la riconciliazione. Mente la giustificazione ritrae il lato piuttosto giuridico dei nuovi rapporti degli uomini con Dio, la riconciliazione ne esalta la componente affettiva. Reintegrati nella sua amicizia, gli uomini sono riammessi alla comunione con la  vita intima di Dio.
La medesima sovrumana iniziativa di Dio emerge dalla tematica della croce-stoltezza.
A dispetto delle sue note oscurità di dettagli, illuminante 1Cor 1,21: « Poiché infatti nel sapiente  disegno di Dio (nella sapienza di Dio) il mondo con (tutta) la (sua)  sapienza non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione ».
Sapienza e stoltezza si avvicendano nella economia della salvezza. Sapienza di Dio: sapienza autentica, che in pratica e in teoria può esser disprezzata come stoltezza. Sapienza degli uomini: sapienza autentica se aperta verso Dio; sapienza inautentica se ateisticamente autonoma, e dunque vera e propria stoltezza.
Dal punto di vista della dialettica sapienza divina-sapienza umana, si potrebbero distinguere quattro tempi nella storia della salvezza.
Il primo tempo è illuminato dalla sapienza di Dio. Dio si autorivela nel creato perché gli uomini in ciò che esiste si aprano a captare il riflesso del Creatore e a prendere coscienza del loro carattere creaturale, ritenendo Dio il fondamento universale dell’essere.
Il secondo tempo è reso opaco dallo scacco della sapienza umana. nella sua orgogliosa ingratitudine l’uomo storico, invece di porsi davanti a Dio, si ripiega su se stesso, si pone al posto di Dio come fondamento dell’essere, e tutto e tutti giudica col parametro della sua atea autosufficienza.
In terzo tempo riacquista la limpidezza della sapienza divina. Dando fondo ai tesori del suo amoroso piano di salvezza, Dio di autorivela nel Cristo crocifisso.
Il quarto tempo può essere oscurato o rischiarato dalla sapienza umana. Se si irretisce in una sapienza immanentistica l’uomo si ostina a non riconoscere Dio rigettandolo come somma stoltezza la croce di Cristo.  Se invece opera la sua liberazione  mediante una sapienza aperta alla trascendenza, l’uomo riconosce e serve il suo Dio accettando nella fede la croce di Cristo come sapienza superiore.
Insomma, mentre per coloro che accolgono la chiamata salvatrice di Dio, Cristo Crocifisso è potente sapienza di Dio (1.18: dynamis Theou; 1,24 Theou sophias), per quelli che si pongono sulla via della perdizione la croce non è che stoltezza (1,18).
In realtà « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti (…) perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio » (1Cor 1,27.29).

3. Cristo e la sua passione

Anche da parte di Gesù l’agape è il movente della passione.
Per tre volte il suo amore è collegato esplicitamente alla morte per l’umanità. « Il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20); « Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi » (Ef 5,2); « Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei » (5,25). È chiaro che nell’amore di Cristo occorre cogliere i palpiti dell’amore di Dio.
Il verbo della passione paradidômi (consegno, do) ricompare sei volte.
Quattro volte si esplicita a vantaggio di coloro ai quali Cristo si è dato, si è consegnato: « per me » (Gal 2,20), « per noi » (Ef 5,2; Tt 2,14), « per lei (la Chiesa) (Ef 5,25).
In Gal 2,20 la frase « ha dato se stesso per me » manca di qualsiasi specificazione che invece di trova in tutti gli altri casi. Così in Gal 1,4 al posto di « se stesso » (ha dato se stesso) si ha « per i nostri peccati ». Due volte viene aggiunto a « se stesso » un predicato di questo complemento oggetto: « (come) offerta e vittima a Dio in soave odore » (Ef 5,2): « (come) riscatto per tutti » (1Tim 2,6). E tre volte viene usata la congiunzione finale .ohina. affinché: « per renderla santa… » (Ef 5.25); « per riscattarci » (Tt 2,14) .o hopôs. affinché: « per strapparci a questo mondo perverso » (Gal 1,4).
La preposizione hyper, per, segue non di rado la menzione della morte di Cristo. Cristo è morto per noi (Rm 5,8; Ts 5,10), per il fratello spiritualmente debole (Rm 14,15;1Cor 8,11), « per gli empi » (Rm 5,6), per tutti (2Cor 5,14-15), « per i nostri peccati » (1Cor 15,3).
Molto ricca teologicamente l’affermazione di Rm 15,3: « Cristo non cercò di piacere a se stesso ma, come sta scritto: « gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me » (Sal 69, 10).
La vita di Cristo si svolse all’insegna della pro-esistenza. Cristo non ha perseguito egoisticamente il proprio vantaggio personale, ma si è preso cura sempre e solo degli interessi di Dio e degli uomini. Ha salvaguardato la gloria di Dio addossandosi – specie durante la passione – gli oltraggi degli uomini diretti contro il loro Creatore.
Riprendendo i brani presentati prima in chiave filologica, non è difficile confermare questa profonda intuizione paolina.
È l’amore che ha condotto Cristo a consegnarsi alla passione. La congiunzione che unisce « ha amato » a « ha dato se stesso » ha valore di « quindi ».
cristo ci ha amati e quindi ha dato se stesso, cioè si è lasciato uccidere.
La ragione di questa sua autoconsegna sono stati i nostri peccati (Gal 2,4). Molteplice lo scopo del suo darsi.
Lo ha fatto per strapparci da questo mondo perverso (Gal 1,4), per riscattarci dalla maledizione della legge (Gal 3,13), per riscattarci da ogni iniquità (Tt 2,14), per rendere santa ed immacolata la sua Chiesa (Ef 5,25-27), per formarsi un popolo puro (Tt 2,14).
Cristo ha ottenuto il conseguimento di questi fini perché si è donato « offerta e vittima a Dio in soave odore » (Ef 5,2). Ha trasformato la sua morte inflittagli dall’ingiustizia degli uomini, in un atto cultuale. E si è offerto a Dio come sacrificio di espiazione (cfr. la preposizione hyper. per. a favore di, così usata da Paolo per qualificare la morte e l’autoconsegna di Gesù). E Dio ha gradito il sacrificio del Figlio (« in soave odore »). E ne ha esaudito le più profonde aspirazioni dettate dal suo amore obbediente verso il padre e dal suo amore altruistico verso gli uomini.

***

Insistendo sull’intimo legame della sua esistenza apostolica con esistenza del Gesù storico, Paolo sottolinea la sua comunione non solo  alla passione ma anche alla risurrezione del Signore. Soffrendo nel suo peregrinare missionario e sopportando vittoriosamente ogni specie di tribolazioni, egli subisce una « mortificazione », riproduce  lo stato morente di Gesù ed anche l’energia vivificatrice del Risorto, esplicandola soprattutto a vantaggio dei fedeli « portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù mi manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita » (2Cor 4,10-12).

Padre Marco Adinolfi : Natale con Francesco

Natale con San Francesco

Marco Adinolfi ofm

Francesco d’Assisi, non c’è dubbio, è il santo del presepe. Ecco come uno dei suoi più antichi biografi, Tommaso da Celano, narra la scena, svoltasi nella valle reatina, a Greccio, nella notte del 25 dicembre 1223.

« C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: « Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello ». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.

E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.

Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.

Il Santo è li estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.

Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava « il Bambino di Betlemme », e quel nome « Betlemme » lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva « Bambino di Betlemme » o « Gesù », passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.

Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Banibinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia ».

Francesco d’Assisi è il santo del presepe. Ma non già di un presepe che è semplice teoria cangiante di frulli d’ali angeliche e di belati di pecorelle, di ingenui pastori adoranti e di solenni magi che si avviano in fantasmagorico corteo alla grotta del neonato re dei giudei. Per Francesco il presepe non si esaurisce nel ritmare i sogni innocenti dei bimbi o i rimpianti nostalgici degli adulti. Il presepe è per lui la drammatizzazione dell’amore che spinse il Figlio di Dio a farsi figlio dell’uomo a costo anche di venire al mondo e di vagire tra ragnatele e fieno e alito pesante di animali.

Il santo di Greccio, del resto, è anche il santo della Verna, che rivive nelle sue carni con le stimmate la passione redentrice di Cristo crocifisso.

Ma la spiritualità del Poverello d’Assisi non si restringe nei limiti sia pure amplissimi di Betlemme e del Calvario. Si dilata negli spazi senza confini della vita trinitaria di Dio. E adora Cristo proprio nel posto che il Padre gli ha assegnato nella storia della salvezza.

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23) (Padre Prof. Marco Adinolfi)

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

Stralcio dal libro: Il Verbo uscito dal silenzio, Edizioni Dehoniane, Roma 1992

Sento la necessità di giustificare la scelta di questo scritto del Prof. Adinolfi, essendo stato scritto diversi anni fa; riporto, a spiegazione, uno stralcio delle ultime righe di questo studio: “Cristo crocifisso è veramente “stoltezza per i pagani”! Per i pagani di ieri e per i pagani di sempre, per i quali la croce di Cristo è negazione del senso, della cultura, della sapienza, di cui tanto si gloria il mondo… Non ultima, né meno ambita, la sapienza autosufficiente, per la quale Dio è un non problema e il suo Cristo crocifisso un non senso”

metto le note solo quando sono interpretative del testo, e cito solo i libri dei Padri apostolici, dei Padri della Chiesa, Magistero, autori antichi anche non cristiani; gli altri citati, moderni, spesso in tedesco, non mi sembra utile metterli, almeno in questa sede…in questo Blog;

la traslitterazione dal greco è quella del docente;

Di padre Adinolfi ho già messo, a maggio, un commento a 2Cor 8,9, ora posto il capitolo IX; vorrei mettere, prima di iniziare, la breve sentenza che Padre Adinolfi ha posto all’inizio di questo libro e che è come una lettura globale di questo suo specifico studio:

“C’è un solo Dio,

il quale si è manifestato

per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio,

che è il suo Verbo uscito dal silenzio

e che in ogni cosa è stato di compiacimento a chi lo ha mandato.Sant’Ignazio, ai Magnesi 8,2”

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

Capitolo IX, pagg. 143-155

Paragonando la fede cristiana delle origini a un continuo suicidio della ragione perché imponeva l’autoumiliazione e il sacrificio di ogni orgoglio, Nietzsche nel suo Al di là del bene e del male scriveva: “Gli uomini moderni…non avvertono quanto di superlativamente orribile c’era, per un gusto antico, nel paradosso della formula del “dio crocifisso”.

Dopo un cenno alla dialettica sapienza-stoltezza, attraverso una rapida indagine del mondo pagano a cavallo del primo secolo cristiano, lo studio presente tenterà di captare e ritrasmettere alcuni degli accenti più paradossalmente stolti di cui appariva impregnato, all’uomo della strada e al filosofo, il kerygma di Cristo crocifisso.

1. SAPIENZA E STOLTEZZA NELL’ECONOMIA DELLA SALVEZZA

Stigmatizzando il primo dei disordini che turbano la giovane chiesa di Corinto (1Cor 1, 10-4,21), sa Paolo dichiara che a monte delle divisioni interne della comunità sta la nozione erronea che essa ha del cristianesimo.

No. Incentrato nella croce salvifica di cristo, il vangelo non può essere etichettato come filosofia. Pur essendo sapienza perfetta, nel senso corrente dei termini, il vangelo non è sapienza, è stoltezza, non è sophia, è môria.

1.1. Quattro tempi della storia della salvezza

A dispetto delle sue note oscurità di dettagli, illuminante il v. 21 del capitolo 1: “Poiché infatti nel sapiente disegno di Dio, en tê sophia tou Theou) il mondo con (tutta) la (sua) sapienza (dia tês sophias) non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza (dia tês môrias) della predicazione (tou kêrygmatos)”.

Sapienza e stoltezza si avvicendavano nella economia della salvezza. Sapienza di Dio: sapienza autentica, che in pratica e in teoria può essere disprezzata come stoltezza. Sapienza degli uomini: sapienza autentica se aperta verso Dio; sapienza inautentica se ateisticamente autonoma, e dunque vera e propria stoltezza.

Dal punto di vista della dialettica sapienza divina-sapienza-umana, si potrebbero distinguere quattro tempi nella storia della salvezza.

Il primo tempo è illuminato dalla sapienza di Dio. Dio si autorivela nel creato perché gli uomini in ciò che esiste si aprano a captare il riflesso del Creatore e a prendere coscienza del loro carattere creaturale, ritenendo Dio il fondamento universale dell’essere.

Il secondo tempo è reso opaco dallo scacco della sapienza umana. Nella sua orgogliosa ingratitudine l’uomo storico, invece di porsi davanti a Dio, si ripiega tutto su se stesso, si pone al posto di Dio come fondamento dell’essere, e tutto e tutti giudica col parametro della sua atea autosufficienza.

Il terzo tempo riacquista la limpidezza della sapienza divina. Dando fondo ai tesori del suo amoroso piano di salvezza, Dio si autorivela nel Cristo crocifisso.

Il quarto tempo può essere oscurato o rischiarato dalla sapienza umana. Se si irretisce in una sapienza immanentistica, l’uomo si ostina a non riconoscere Dio rigettando come somma stoltezza la croce di Cristo. Se invece opera la sua liberazione mediante una sapienza aperta alla trascendenza, l’uomo riconosce e serve il suo Dio accettando nella fede la croce di Cristo come sapienza superiore.

Insomma, mentre per coloro che accolgono la chiamata salvatrice di Dio, Cristo crocifisso è potente sapienza di Dio (1,18: dynamis Theou 1,24; Theou sophia), per quelli che si pongono sulla via della perdizione la croce non è che stoltezza (môria) (1,18).

In realtà “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto (ta môra) per confondere (kataischynê) i sapienti (tous sophous)…perché nessun uomo possa gloriarsi (mê kauchêsêtai) davanti a Dioo (1Cor 1,27.29)

1.2. Abominazione per Dio l’autosufficienza umana

Uniforme l’azione di Dio, per il quale è empia abominazione l’autosufficienza umana sotto qualunque forma essa si celi.

Gli ebrei e gli uomini di tutti i tempi che li imitano si gloriano delle loro opere, persuasi di conquistarsi con essere la propria giustificazione. Giustificando “Per fede, indipendentemente dalle opere” (Rm 3, 28), Dio pone alla gogna e spazza via ogni vento proveniente dalla “legge delle opere” e lo sostituisce col vanto proveniente dalla “legge della fede” (v.27). Per opera di Dio è adesso diventato per noi giustizia (dikaiosynê) Cristo Gesù (1Cor 1, 30).

I pagani e i loro imitatori di ogni tempo si gloriano della loro sapienza, convinti di raggiungere la salvezza per via di argomentazioni e speculazioni che non hanno altro metro e orizzonte che l’io dell’uomo. Operando la salvezza dei credenti per mezzo della croce di Cristo (1Cor 1,21), Dio espone alla confusione la sapienza di questo mondo distruggendola (v.19), rendendola e dimostrandola stolta (emôranen) (v.20). Per opera di Dio è adesso diventato per noi sapienza (sophia) Cristo Gesù (v. 30). Solamente accettandolo nella fede, noi scopriamo nella croce di Cristo l’ultima e definitiva autorivelazione di Dio che riconcilia a sé il mondo.

Col risuscitarlo dai morti, infatti, Dio presenta Cristo come fondamento e inizio di un mondo non più alienato dal suo Creatore. Mondo che può autocomprendersi come nuovo e vivere questa novità di vita che gli è donata da Dio solo se opera il suo annientamento in Cristo. La sua risurrezione con Cristo si fonda e comincia con la sua crocifissione con Cristo.

Soltanto la fede, apertura fiduciosa e senza riserve a Dio, può accettare questa nuova visione della realtà. La sapienza orgogliosamente autarchica del mondo, che non riconosce come criterio di certezza se non la propria esperienza e la propria storia, non ammetterà mai un intervento diretto di Dio che imprima una svolta sconvolgente alla storia. E considererà stoltezza la sapienza di Dio, benché “ciò che è stoltezza (to môron) di Dio” sia “più sapiente (sophôreton) degli uomini” (1Cor 1,25).

“Ogni forma di incredulità – scrive sant’Ilario – è stoltezza; infatti gli increduli, facendo uso della sapienza della loro mente imperfetta, regolando tutto in conformità dei loro meschini ragionamenti, pensano che non possa avvenire ciò che non riescono a spiegare;…una persona stabilisce che non si sia potuto verificare tutto ciò che essa giudica che non possa avvenire” (1)

2. I PAGANI E LA CROCE DI CRISTO

“I greci cercano la sapienza, sophian zêtousin” (1Cor 1,22). Nulla di più storicamente esatto di questa affermazione paolina. Anche nell’età ellenistica, somma aspirazione dei greci era la sapienza, nella quale il sofista Gorgia ravvisava l’armonia dell’anima (2), Aristotele “la più perfetta delle scienze” (3), gli stoici “la scienza delle cose divine e umane” (4).

Acquistando la sapienza, l’uomo si avvicinava a Dio, anzi, secondo la filosofia platonica (cita San Giustino, Dialogo con Trifone) vedeva Dio, ritenuto l’unico che possedesse la sapienza (5) o che la possedesse in grado eccelso (Gorgia, Encomio di Elena).

Molteplici quindi le ragioni che inducevano un greco, e in genere qualsiasi pagano ellenizzato, a respingere la crocifissione di Cristo agli antipodi della sapienza, a considerarla una insipienza e stupidità.

2.1. Dio patetico

Il kerygma cristiano presentava Dio che “dimostra il suo amore (agapên) per noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). Esaltava Dio che, “essendo ricco di misericordia (plousios…en eleei) per il grande amore (agapên) col quale ci ha amati (êgapêsen), da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (Ef 2,4-5).

Tutte stoltezze per i pagani, fin dai tempi di Platone e Aristotele. Dio non può amare. Dio non può avere compassione. Dio non può avere nessuna passione (pathos), è per essenza impassibile, apatico (apathês).

Essendo perfettissimo, insegnava Platone, Dio è autosufficiente (6), e dunque immutabile e senza affetti. È un’assurdità, ribadiva Aristotele, dire di amare Zeus, perché l’amore suppone corrispondenza e Zeus non può amare (7). All’Artemide euripidea sono proibite le lacrime (8), vietate del resto, secondo Ovidio, al volto di qualsiasi altra divinità (9).

È noto che nei primi secoli dell’era volgare lo stoicismo, grazie anche ai suoi numerosi predicatori ambulanti, argutamente definiti “i frati mendicanti dell’antichità”, era diventata la filosofia più comune seguita dall’uomo della strada come dal dotto.

È noto pure il disprezzo stoico per ogni passione (pathos), intesa come “moto irrazionale (alogos) e innaturale dell’anima” (10) e come istinto eccedente la misura (hormê pleonazousa) (11). Il pathos è concepito come un affezione che, venendo dall’esterno, altera l’equilibrio interiore dell’uomo limitando, e annullando, la libera autodeterminazione di quella ragione (logos) cui spetta il dominio, la direzione e lo sviluppo della persona umana.

Malattie dell’anima, le passioni, sono anche peccato (12). Ovvio quindi il dovere di lottare contro di esse (13) e di sopprimerle con l’aiuto della ragione (14).

Nessuna passione è lecita. Neppure la misericordia (elos), che appartiene a una delle quattro passioni principali (15) e cioè al dolore (lypê), e che consiste appunto in un dolore che ci prende nel vedere un individuo colpito, senza sua colpa, da un male che temiamo possa quanto prima abbattersi anche su di noi (16).

Di qui certi precetti sconcertanti di Zenone, riferiti a Cicerone: Riteneva che il sapiente non debba nulla puramente opinare, di nulla pentirsi, mai mutare il suo parere”; “Mai il sapiente è mosso da benevolenza, mai perdona ad alcun delitto; non può avere misericordia se non chi sia stolto e leggero; non è da uomo lasciarsi muovere e placare con preghiere” (17).

Essendo una debolezza d’animo, la misericordia deve essere schivata dal sapiente. Il quale farà tutto quello che sogliono fare gli uomini che hanno compassione. Potrà anche giungere a piangere con chi soffre. Ma, gli raccomanda Epitteto, “bada, però, di non piangere anche dentro di te (esôthe)” (18). In altri termini, resta interiormente impassibile. È l’apatheia che, secondo gli stoici, costituiva la suprema perfezione posseduta da Dio e bramata dagli uomini saggi (19).

Stoltezza, dunque, per i pagani Cristo morto in croce per l’amore misericordioso che Dio nutre per gli uomini.

NOTE

1. Sant’Ilario di Poitiers, De Trinitate 3, 24; PL 10, 93 – trad. G. Tezzo

2. Gorgia, Encomio di Elena, fr. B 11,1 (Diels)

3. Aristotele, Etica Nicomachea 6, 7, 1141°

4. Aezio, Placita 1,2

5. Platone, Convivio 204a

6. Platone, Filebo

7. Aristotele, Grande etica 2,11,1208b

8. Euripide, Ippolito 1396

9. Ovidio, Metamorphoses 2, 621

10. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 7, 110

11. Cicerone, Academica posteriora 1,38

12. Plutarco, De virtute morali 10, 449 d

13. Aristone, in Clemente Alessandrino, Stromata 2, 20, 108, 172 (PG 8, 1052)

14. Cicerone, Academica posteriora 1,38

15. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 7,110

16. Aristotele, Retorica 2, 8, 1385b 13

17. Cicerone, Pro Murena 61 (SVF I, 54, 214)

18. Epitteto, Manuale 16

19. Epitteto, Diatribe 4, 3, 7;

il seguito e la conclusione di questo studio subito sotto;

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23) (Padre Prof. Marco Adinolfi)

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

PARTE SECONDA:

2.2. Il Dio incarnato

Ispirandosi al kerygma primitivo delle preesistenza divina di Cristo, un antico inno esaltava Cristo Gesù che “pur essendo di natura divina…, spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…, facendosi obbediente fino alla morte…di croce” (Fil 2, 6ss).

Cristo crocifisso, Dio fattosi uomo nel seno di una vergine e morto in croce: un’altra stoltezza per i pagani.

Trifone gridava al paradosso e all’insipienza (1) ed invitava Giustino a non raccontar favole simili a quella greca di Perseo, che sarebbe nato da Danae fecondata da Zeus, apparsole sotto forma di pioggia d’oro (2).

Alludendo ai tanti miti, “ciance, presi da essi sul serio”, Taziano ritorceva l’accusa che i pagani rivolgevano ai cristiani di essere stolti, di insegnare stupidaggini e di muovere al riso (3).

È vergognosa (4) per Celso l’incarnazione di Cristo. È insulsa, dal momento che l’onniscienza e l’onnipotenza permettono a Dio di sapere e di agire tra gli uomini senza bisogno di scendere sulla terra (5). È assurda, dato che non può consentire di alterarsi Dio, sommamente buono, bello, felice, magnifico (6)

2.3. Dio il Cristo crocifisso

Se è stoltezza un Dio che s’incarna, per i pagani è stoltezza ancora più mostruosa un Dio che muore sulla croce.

Si pensi al crocifisso blasfemo, graffito nel paedagogium imperiale sul Palatino nel II-III secolo con la scritta: “Alexamenos adora Dio”. Quale Dio? Un uomo dalla testa d’asino confitto in croce.

Paurosamente infame per gli antichi il supplizio della croce, che Cicerone chiama “il più crudele e il più tetro” (7) e Tacito “la morte più turpe” (8). Una pena riservata di solito al ladro sacrilego, al disertore, al ribelle, al reo di alto tradimento. Una nefandezza che, secondo Cicerone, i cittadini romani non possono giuridicamente provare nella loro carne, e il cui solo nome dev’essere lontano dal loro pensiero, dalla loro vista e dal loro udito (9).

Comune certamente l’obiezione pagana riportata da Lattanzio. Se il Dio incarnato credeva necessario morire – una ipotesi che Celso stimava “cosa cattiva ed empia” (10) – avrebbe dovuto scegliersi almeno un genere di morte decoroso e degno di lui, e non già sopportare un supplizio così turpe e infamante come la croce, indegno perfino di un uomo libero anche se colpevole (112).

Giustino rigetta l’accusa pagana di follia per la fede cristiana nella divinità del crocifisso (12) appellandosi tra l’altro alle profezie messianiche dell’Antico Testamento (13), profezie che il giudeo Trifone prende a senso unico, come annuncianti un Messia “glorioso e grande (endoxon kai megan), e non già come quello adorato dai cristiani, senza onore e senza gloria (atimos kai adoxos)…poiché fu crocifisso” (14).

Celso deride i cristiani che propongono come Dio un Cristo di cui la vita fu la più infame (epirrêtotatos) (15), l’arresto il più disonorevole (atimotatos) (16), l’uccisione la più miserevole (oiktios) (17) e la più infamante (aischistos) (18) che si possano immaginare.

Oltre che per aver preso corpo umano, Porfirio disprezza Cristo “per l’infamia della croce, propter crucis opprobrium” (19); così come Giuliano l’apostata ha pena degli stolti cristiani che, facendo perversamente appello alla parte dell’anima amante di favole, puerile e sciocca, adorano il legno della croce, si tracciano quel segno sulla fronte e lo scolpiscono sull’atrio delle case (20)

Insomma la croce di cristo, a detta di Sant’Atanasio, è l’unico motivo delle calunnie e delle risate sguaiate (platy gelôsi) dei pagani alle spalle dei cristiani (21).

2.4. Il Cristo risorto

Anche se insisteva sulla morte di Gesù, sul suo carattere ignominioso, la sua potenza salvifica e la sua azione discriminante, il kerygma di Cristo non si fermava alla tragedia del Calvario. Proseguiva con la glorificazione della pasqua. “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì (apethanen) per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato (egêgertai) il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15, 3-4).

Un’altra stoltezza per i pagani la risurrezione di Cristo crocifisso.

Poiché predica la risurrezione, i curiosi filosofi epicurei e stoici di Atene invitano all’Areopago Paolo, che considerano sprezzantemente spermologos chiacchierone, ciarlatano, sputasentenze (At 17, 18). E quando lo sentono dire che per giudicare il mondo Dio ha designato un uomo “accreditandolo dinanzi a tutti col risuscitarlo (anastêsas) dai morti” (v. 31), alcuni apertamente deridono (echleuazon) l’annunciatore di simili stupidità, altri lo liquidano salvando una parvenza di galateo (v. 32).

Nella sua autodifesa al re Agrippa II Paolo afferma di predicare elusivamente quello che è stato predetto dai profeti, che Cristo cioè avrebbe sofferto (pathêtos) e sarebbe stato il primo a risorgere dai morti (ex anastaseôs nekrôn) (At 26, 23). Sa di parlare secondo verità e saggezza (v. 25). Ma deve sentirsi dire dal procuratore pagano Porcio Festo di aver perso la testa, di delirare: “Sei pazzo (vaneggi: mainê), Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello (portato alla pazzia: eis manian)” (v.24)

Lo stesso senso di disgusto per la risurrezione, che mette alla frusta il buon senso, in Celso. Secondo Origene, Celso schernisce l’impotenza di Cristo a rimuovere la pietra del suo sepolcro (22), esclude che qualcuno sia mai risorto (23), e respinge la risurrezione come dottrina empia (miaron) e turpe (aischron), ripugnante (apoptyston), sciocca (êlithion) e assurda (adynaton) (24).

2.5. Il Cristo nella passione e nella risurrezione

Ancora stoltezza per i pagani l’atteggiamento tenuto da Cristo nella sua passione e risurrezione.

Oltre che venir meno all’ideale di apatheia, di impassibilità, nella sua passione, Gesù fu agli antipodi del sapiente così com’e è visto, ad esempio, da Zenone e dagli stoici: “è invincibile, senza rivali…non può subire costrizione da parte di alcuno…né avere impedimenti…né sottostare a violenza…né essere oggetto di male…né essere ingannato…è felice al sommo grado, fortunato, beato…pieno di dignità”. (25)

Si spiega come Celso metta in ridicolo Cristo che trema per la paura e va scappando vergognosamente; si nasconde, si fa abbandonare e tradire dai suoi apostoli, si fa arrestare (26); non respinge né punisce i suoi derisori (27); è incapace di aiutarsi da sé o di farsi aiutare dal Padre (28); lancia sulla croce prima di morire un grido ignobile (29).

Si spiega come Porfirio disistimi come oscure, stupide e indegne di un sapiente che non può non disprezzare la morte le parole del Getsemani rivolte ai discepoli: “Vegliate e pregate…” e al Padre: “Passi da me questo calice” (30). E come contesti il comportamento di Gesù che subisce ingiustizie e insolenze, senza mostrare coraggio e senza pronunciare, nemmeno davanti a Caifa e a Pilato, parole degne di un sapiente. (31)

Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano le obiezioni pagane riportate da Lattanzio contro la debolezza con cui Gesù tollera villanie, violenze e condanna invece di sbaragliare gli avversari con la onnipotenza, facendo rifulgere così, almeno nell’imminenza della sua morte, la sua maestà divina. (32)

Criticando il modo stolto di agire di Gesù tornato in vita, Celso da…maestro di saggezza, insegna che il risorto avrebbe dovuto apparire non a poche donne e a pochi discepoli, ma ai suoi offensori e ai suoi giudici, a tutti, anzi, per manifestare la sua potenza divina ed esporre le ragioni per cui era sceso sulla terra (33).

* * *

“Nessuno si avanzi, che sia persona istruita (pepaideumenos), nessuno che sia saggio (sophos), nessuno fornito di giudizio (phronimos)! Queste doti da noi sono considerate pessime! Ma se c’è qualcuno ignorante (amathês), qualcuno insensato (anoêtos), qualcuno senza istruzione (apaideutos)” (34)

Questi, secondo Celso, sarebbero i precetti cristiani. Cristo crocifisso è veramente “stoltezza per i pagani”! Per i pagani di ieri e per i pagani di sempre, per i quali la croce di Cristo è negazione del senso, della cultura, della sapienza, di cui tanto si gloria il mondo.

Ma Dio detesta ogni vanto che non sia della croce. Perché è per mezzo di essa che per Paolo e per ogni credente il mondo è stato crocifisso (Gal 6,14). È stato ucciso, spazzato via “come somma e forma delle possibilità esistenziali terrene ed umane”, insieme con tutte le sue esigenze e le sue seduzioni. Non ultima né meno ambita la sapienza autosufficiente, per la quale Dio è un non problema e il suo Cristo crocifisso un non senso.

NOTE

1. Giustino, Dialogo con Trifone 48 (Pg 6, 580)

2. Giustino, Dialogo con Trifone 67, 2 (PG 6, 629)

3. Taziano, Discorso ai Greci, 21, 1 (PG 6, 852)

4. Origene, Contro Celso 4,2 (PG 11, 1029)

5. Origene, Contro Celso, 4,3 (PG 11, 1031)

6. Origene, Contro Celso 4,14 (PG 11, 1044)

7. Cicerone, In Verrem, 2, 5 64, 165

8. Tacito, historiae 4, 3, 11;

9. Cicerone, Pro Rabirio 5,16

10. Origene, Contro Celso 7, 14 (PG 11, 1440)

11. Lattanzio, Divinae institutiones 4,26 (PL 6, 529)

12. Giustino, Apologia 1,13, 4 (PG 6, 348)

13. Giustino, Apologia, 1, 53, 2 (PG 6, 405)

14. Giustino, Dialogo con Trifone 32, 1 (PG 6, 541.543)

15. Origene, Contro Celso 7, 53 (PG 11, 1497)

16. Origene, Contro Celso 2, 31; 6, 10 (PG 11, 852.1305)

17. Origene, Contro Celso, 7, 53 (PG 11, 1497)

18. Origene, Contro Celso 6, 10 (PG 11, 1305)

19. Agostino, De Civitate Dei 10, 28 (PL 11,307)

20. Cirillo Alessandrino, Contro l’imperatore Giuliano 2,6 (PG 76, 560c 796d-797°)

21. Atanasio, Contro i pagani 1 (PG 25,4)

22. Origene, Contro Celso 5, 58 (PG 11, 1273)

23. Origene, Contro Celso, 2,55 (PG 11, 884)

24. Origene, Contro Celso, 5,14 (PG 11, 773)

25. Crisippo, in STOBEO, Ecloga 2,7, 11g (SVF III, 567)

26. Origene, Contro Celso 2, 9 (PG 11, 808)

27. Origene, Contro Celso, 2, 35 (PG856-857)

28. Origene, Contro Celso, 1, 54 (PG 11, 760)

29. Origene, Contro Celso 2, 58 (PG 11, 888)

30. Porfirio, Contro i cristiani fr. 62 (ed Harnack)

31. Porfirio, Contro i cristiani, fr 63;

32. Lattanzio, Divinae istitutiones, 4, 22 (PL 6, 18)

33. Origene, Contro Celso, 2, 63.73 (PG 11, 896.909)

34. Origene, Contro Celso 3, 44 (PG 11, 976)

P. Marco Adinolfi: « Per voi diventò povero essendo ricco » (2Cor 8,) – post n. 2

« PER VOI DIVENTÒ POVERO ESSENDO RICCO » (2Cor 8, 9)

P. MARCO ADINOLFI

stralcio dal libro: L’incarnazione l’attualità di un messaggio, studio interdisciplinare a cura di Vincenzo Battaglia, Edizioni O.R. – Milano 1985;

la traslitterazione è quella del professore, ma non ho la possibilità di mettere gli accenti;

71-75

« 3.  

2Cor 8,9 è considerato comunemente molto vicino a Fil 2, 6-11, al punto che si è potuto chiamarlo il suo commento o un quasi suo parziale. Pur mostrando però con esso affinità sostanziali (natura divina – svuotamento esaltazione in Fil, ricchezza – impoverimento – arricchimento in 2Cor), il nostro passo se ne discosta per il timbro soteriologico. In Fil è in Cristo che alla catabasi dell’autospogliazione segue l’anabasi della glorificazione da parte di Dio Padre. In 2Cor invece l’autoimpoverimento di Cristo è intrapreso per gli uomini, così come l’arricchimento che ne segue non riguarda Cristo ma gli uomini. È quanto risulta anche dalla posizione preminente riservata al pronome voi:

(di’hymas)

diventò povero

essendo ricco

perché voi (hina hymeis)

con la sua povertà diventaste ricchi>

Come in altri casi, anche qui il dia con l’accusativo (di’hymas) oltre alla causa denota anche lo scopo: voi siete il movente e l’obiettivo dell’impoverimento di Cristo. Per cui non sembra che questo di’hymas sia hyper hymon soteriologici> il cui significato è invece e in .

4.

La povertà che diventa mezzo di ricchezza (ptocheiai è dativo strumentale): un paradosso come altri di stile paolino che presentano l’insondabile mistero della salvezza messianica recata da Cristo.

Alcuni esempi:

per noi (hyper hemon)

lo rese peccato

perché noi (hina hemeis)

diventassimo giustizia di Dio in lui> (2Cor 5,21).

ci ha riscattati

dalla maledizione della legge

divenendo lui stesso per noi

maledizione> (Gal 3,13)

nato da donna

nato sotto la legge

per riscattare

coloro che erano sotto la legge

perché ricevessimo

l’adozione filiale> (Gal 4, 4-5)

Secondo Paolo Cristo si carica del peccato degli uomini (si rende ) perché gli uomini diventino santi, accetti a Dio (siano ); si fa per liberarci dalla maledizione meritata come violatori della legge; si rende figlio di una creatura umana per farci figli adottivi di Dio, nasce sotto la legge per affrancarci dalla legge accusatrice dei suoi trasgressori. Si vorrebbe scorgere in questi tre brani e nel nostro lo stesso dramma che si svolge in tre tempi. 1° tempo: da una parte il Figlio di Dio infinitamente perfetto (, ), dall’altra gli uomini oppressi da ogni miseria (operatori di peccati, oggetto di maledizione, semplici mortali, schiavi della legge). 2° tempo: il figlio di Dio si incarna assumendo tutte le miserie umane ( , si fece e , nacque da una donna e sotto la legge). 3° tempo: gli uomini sono liberati dalle loro miserie (diventano ricchi e giusti, sono riscattati dalla maledizione e dalla legge, sono resi figli adottivi di Dio).

Dei tre brani citati, 2Cor 5, 21 è stilisticamente più vicino al nostro, sia per l’enfasi data ai destinatari della salvezza ( , , cfr. , ), sia per l’antitesi tra il Salvatore e i salvati (Cristo-peccato e uomini giustizia; cfr. Cristo povero e uomini ricchi). È possibile infatti al seguente sinossi:

2 Cor 8,9 2Cor 5,21

a) per voi c) colui che non conosceva peccato

b) diventò povero a) per noi

c) essendo ricco b) lo rese peccato

d) perché voi d) perché noi

e) con la sua povertà f) diventassimo giustizia.

f) diventaste ricchi.

C’è ancora da chiedersi: che cosa è la ricchezza di 2Cor 8,9 per cui gli uomini sono diventati ricchi? Nella sua omelia di commento al nostro passo San Giovanni Crisostomo affermava: . Più concisamente, la ricchezza di cui sono stati dotati gli uomini è l’opulenza dei beni messianici, la pienezza escatologica che Paolo chiama altrove salvezza, (soteria). Meditando per esempio sul rifiuto degli Israeliti di credere in Gesù Cristo, l’apostolo osserva che soteria) alle genti>, e subito dopo soggiunge che ploutos) del mondo> (Rm 11, 11.12).

5. (8,7)

Il valore inestimabile del quadro soteriologico di 2Cor 8,9 non deve far perdere di vista lo scopo specifico per cui è stato tracciato. Paolo ha inteso presentare il modello e la fonte della generosità che i Corinzi sono invitati a mostrare in favore della comunità madre di Gerusalemme. Non poche volte l’apostolo esorta i fedeli a riprodurre esistenzialmente l’esperienza concreta di Gesù per quanto riguarda, ad esempio, la sopportazione delle sofferenze a causa del vangelo (cfr. 1Ts 1,6; Rm 5, 1-3), il compiacimento del prossimo e non di se stessi (Fil 2,5ss), il perdono delle offese (Col 3,13). Semplificando, si può dire che per Paolo l’esemplarità di Gesù riguarda soprattutto l’abnegazione, la rinuncia a far prevalere se stesso e i propri diritti e interessi personali. Ciò che in « Cor 8,9 viene chiamato povertà, ptocheia. Ma riprodurre l’esperienza cristica dell’abnegazione, della povertà, non è questione di ascesi, intesa questa come sforzo puramente umano. È obbedienza al Signore Gesù che dà ai Corinzi il comando e insieme la grazia (charis), e dunque la capacità, di seguirlo per una strada che egli ha percorso per primo fino in fondo. Ai cristiani dell’Istmo non sarà dunque difficile essere generosi con i fedeli di Gerusalemme. essendo stati arricchiti da Cristo, non avranno che da riversare su quei bisognosi le infinite risorse, di cui sono stati colmati, per mezzo di aiuti economici. Da donatari sarà loro agevole trasformarsi in donatori. Così facendo, saranno ancora infinitamente distanti dal loro Signore che si è impoverito per arricchirli.

la vostra abbondanza

supplisca alla loro indigenza

perché anche la loro abbondanza

supplisca alla vostra indigenza.> (8,14).

I Corinzi non diventeranno poveri aiutando i fratelli gerosolimitani, ma si arricchiranno di più. In cambio dei beni materiali di cui si saranno privati, riceveranno dai loro assistiti beni spirituali.

* * *

Impoverirsi per arricchire. È una costante paradossale della storia della salvezza. Soltanto con l’autosvuotamento dell’abnegazione si può riempire il vuoto deplorevole degli altri. È quanto ha realizzato il Signore nostro Gesù Cristo secondo 2Cor 8,9. Pur conservando la in abdicabile natura divina (), ha assunto la natura umana con tutti i suoi limiti umilianti, assoggettandosi alla nascita e alla morte e finanche alla povertà economica ( ). Lo ha fatto per colmare l’abisso della nostra miseria con i tesori della sua grazia ( ). È quanto ha realizzato San Paolo. In difesa dell’autenticità del suo ministero apostolico, presenta la sua carta d’identità dichiarando tra l’altro: ptochoi) mentre arricchiamo (ploutizontes) molti>. (2Cor 6,10). Rinunziando generosamente a ogni risorsa umana, ha fatto spazio a Dio: (12,9). E il signore ha riempito quello spazio con la sua grazia che traboccava fino a raggiungere e irrorare copiosamente i molti conquistati del messaggio del vangelo. È quanto ha realizzato San Francesco d’Assisi e con lui tutti quelli – e sono legione nella storia della Chiesa – che si sono messi alla scuola di colui che si è autodefinito ‘anaw, povero, vocabolo che la traduzione greca, secondo una seducente interpretazione del P. Joüon, avrebbe poi sdoppiato ed esplicitato con l’espressione (Mt 11, 29).

P. Marco Adinolfi: « Per voi diventò povero essendo ricco » (2Cor 8, 9) – post n. 1

« PER VOI DIVENTÒ POVERO ESSENDO RICCO » (2Cor 8, 9)

di questo studio faccio due post;

P. MARCO ADINOLFI

stralcio dal libro: L’incarnazione l’attualità di un messaggio, studio interdisciplinare a cura di Vincenzo Battaglia, Edizioni O.R. – Milano 1985;

la traslitterazione è quella del professore, ma non ho la possibilità di mettere gli accenti;

pagg. 67-75

« 

Prima di Origene la risposta a questa dottrina platonica l’ha già data più volte San Paolo. In 2 Cor 8,9, per esempio, oggetto del presente studio: < Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: per voi diventò povero essendo ricco, perché voi con la sua povertà diventaste ricchi (Ginoskete gar ten charin tou kyriou hemon Iesou Christou, hoti di ‘hymas eptocheusen plousios on, hina hymeis tei eieinou ptocheiai ploutesete)>.

1

Il testo fa parte dei capitolo 8 e 9 della seconda lettera ai Corinzi, dedicati alla colletta da destinare ai (Rm 15,26).

È nota la sollecitudine che, anche in ossequio agli impegni assunti (Gal 2,10), Paolo mostra nello stimolare i fedeli provenienti dal paganesimo a inviare aiuti alla comunità della Chiesa madre. Per l’apostolo è un debito contratto dai gentili nei riguardi di coloro da cui è partito il vangelo di Gesù con tutte le sue infinite ricchezze. (Rm 15,27).

Per quanto concerne 2Cor 8-9, nulla riflette meglio il pensiero paolino dei termini con cui si accenna alla colletta ecumenica. È chiamata prodigalità (adrotes: (, 20), messa in comune (koinonia: 9,13) servizio (diakonia: 8,4; 9, 1.12.13), servizio sacro (leitourgia: 9,2), benedizione (elogia: 9, 5), grazia (charis: 8, 4.6.7.9).

Proprio intorno a charis sembra ruotare il pensiero di Paolo. Il quale ricorda prima la (8,1) concessa da Dio ai prodigali Macedoni che hanno dato anche oltre le loro possibilità. Si augura poi che i Corinzi eccedano nella (8, 7) così come si segnalano già per la fede, l’eloquenza, la scienza, lo zelo e l’amore. Evoca infine, come ben nota alla comunità dell’Istmo (), (8, 9).

Ci troviamo con 8, 9 di fronte a una solenne affermazione dottrinale classificata dal Dibelius come parenesi attuale o occasionale, in quanto esortazione etico-religiosa finalizzata a un azione specifica, l’invio appunto dei soccorsi a Gerusalemme. Si accenna a Gesù presentato secondo la titolatura completa che ne sottolinea la sovranità universale (Signore nostro), l’umanità (Gesù) e la messianicità (Cristo).

Di Gesù si rileva la charis, grazia vocabolo complesso che esprime fondamentalmente il dono del generoso e gratuito amore salvifico di Dio in Gesù Cristo. È questo amore divino che ispira e muove la generosità dell’amore umano, colorato di riconoscenza nei riguardi di Dio e di Cristo, e di disinteresse nei riguardi del prossimo. Paolo invita qui i Corinzi alla charis di Gesù, alla sua autoblazione spontanea e misericordiosamente magnanima.

2.

In che consiste la grazia di Cristo? .

Quanto alla ricchezza di Gesù, non merita considerazione la stravagante opinione di Buchnan, secondo cui Gesù sarebbe nato abbondantemente fornito di beni di fortuna che avrebbe poi donato a una setta. È chiaro che Paolo allude a Cristo preesistente e alla ricchezza infinita della sua divinità: al dire di Sant’Agostino,

È stato notato che la ricchezza diventa per l’apostolo . In realtà Paolo esalta spesso la ricchezza di Dio, ricchezza di gloria (Rm 9,23; Ef 3, 16) e di grazia (Ef 1, 7; 2,7), di bontà pazienza longanimità (Rm 2, 4) e misericordia (Ef 2,4). E di Cristo celebra la ricchezza (Ef 3,8), la ricchezza verso chi lo invoca (Rm 10, 12), i tesori di sapienza e di scienza (Col 2,3) e la pienezza della divinità (Col 2,9).

D’accordo generalmente sul Gesù ricco, gli esegeti si dividono in un ventaglio piuttosto ampio di opinioni per quanto concerne il Gesù impoveritosi.

Qualcuno, tanto per cominciare, traduce eptocheusen con . Secondo la massima parte degli autori, invece, ci si trova davanti a un aoristo ingressivo (aoristo forma passiva del verbo) che, nei verbi indicanti condizione o stato, esprime l’inizio della condizione o dello stato. per cui eptocheusen va tradotto con [nella Bibbia CEI: si è fatto povero].

E Cristo divenne povero anzitutto assumendo e vivendo la misera natura umana. Dopo essersi chiesto Sant’Agostino prosegue: .

Con San Paolo allude all’incarnzione. Divenendo vero uomo, Gesù si consegnò in preda alla morte oltre che ai limiti, rischi e scacchi di qualsiasi esistenza umana. .

Sulla scia di Sant’Ireneo Origene segnala la correlazione necessaria esistente tra la nascita di Gesù e la sua vita culminata nel mistero pasquale: . E conclude: . Nello stesso senso, parlando della povertà di 2Cor 8,9, San Giovanni Crisostomo si esprime così:

Gesù assumendo la condizione ordinaria dei semplici figli di Adamo. E dunque, per usare espressioni paoline (cfr. 1Cor 15, 42-43.53), scelse, oltre alla mortalità invece dell’immortalità, anche la corruzione invece dell’incorruttibilità, lo squallore e il disonore invece dello splendore e della gloria, la debolezza invece della potenza.

Risulta invece più concreto il se si tiene presente la dottrina di molti Padri della Chiesa sul mistero del Verbo incarnato. In forza della kenosi (cfr. Fil 2,7), Gesù non si è spogliato, rinunziandovi, della divinità: plousios on significa . Si è molto svuotato, abdicandovi, degli attributi e delle prerogative della divinità. Della onnipresenza, per esempio, della onnipotenza, della onniscienza.

Se l’impoverimento di Gesù si identifica, come si identifica, con l’incarnazione vista in tutta la sua concretezza, il discorso può proseguire.

Il contesto parla degli aiuti economici ai poveri della Chiesa madre di Gerusalemme, verso i quali i Macedoni hanno già mostrato la loro generosità e i Corinzi sono esortati a mostrarla. Non si corre il pericolo di andare oltre il pensiero paolino o di interpretarlo inadeguatamente se con molti esegeti si dà a e a anche un senso socio-economico.

Gesù avrebbe potuto scegliersi un’esistenza umana al riparo da ogni vulnerabilità, all’insegna della ricchezza o almeno dell’agiatezza e della tranquillità. Ha preferito invece privarsi di qualsiasi possibilità di sicurezza e di difesa. Ha optato per una vita peggiore di quella delle bestie del campo e dell’aria. Si è condannato a non avere dove posare il capo (Mt 8,20). Ha rinunciato a crearsi una famiglia propria. Si è votato all’incomprensione dei familiari (Gv 7,2-9) e al rifiuto dei concittadini (Lc 4, 16-30). Si è lasciato costringere, perseguitato e braccato, a trasferirsi da una località all’altra per sottrarsi alla prigione e alla morte prima che scoccasse l’ora fissata.

Un impoverimento così assoluto, se da una parte rivela l’abisso di abnegazione a cui è giunto Gesù Cristo, dall’altra mostra proprio l’infinita potenza della sua ricchezza. .

Padre Marco Adinolfi: San Paolo e i valori umani (II)

seconda ed ultima parte: 

c) È stato osservato che a Fil 4,8 (F. Amiot, L’insegnamento di San Paolo – trad. dal francese -, Torino 1951, pag 461). Anche perché nella sua rilettura San Paolo ha riadoperato questa serie ellenistica di norme etiche come trama dell’ordito cristiano. A volte le ha epurate tacitamente di quanto era in antitesi col vangelo: non può, ad esempio, non aver visto la virtù come dono accordato da Dio all’umile fiducia in lui. A volte le ha caricate della pregnanza che dava loro la Bibbia, come nel caso della giustizia, proposta certamente anche come fedele esecuzione della volontà di dio e come gradimento divino. In tal modo questi ideali umanistici risultano in consonanza con la tradizione sacra che l’apostolo ha trasmesso, E che si sforza di praticare lui per primo, assicurando un particolare rapporto con Dio a chi tali ideali fa oggetto di aspirazione e modello di comportamento: (Fil 4,9). 

d) Alte volte e alcuni valori umani, generalmente apprezzati sotto tutti i cieli e capaci in realtà di condurre l’individuo al grado più elevato dei perfezione, sono presentati esplicitamente da Paolo come provenienti dalla generosità di Dio o addirittura posseduti da Dio o da Cristo. 

Si tratta di , cioè di dono gratuito e splendido Santo o , vale a dire della grazia divina che salva e santifica. (Gal 5,22-23). (Ef 5,9). 

Si tratta di disposizioni proprie di coloro che nel suo amore Dio ha scelti e santificati, disposizioni che questi devono impegnarsi a indossare. (Col 3,12-13; cfr. Ef 4,2-3). 

Si tratta in fondo di doti proprie di Dio o di Cristo, che i cristiani sono chiamati a imitare. Basterà solo qualche testo. Paolo esalta l’amore (Rm 5,5), la bontà, la tolleranza, la pazienza (Rm 2,4), la misericordia (Ef 2,4) di Dio. Tutte le stoltezze e assurdità per i pagani fin dai tempi di Platone e Aristotele, secondo cui Dio non potrebbe né amare, né aver compassione o altra passione sarebbe per essenza impassibile, apatico. Il dio cristiano è ancora il Dio della giustizia (Rm 1,17), della fedeltà (Rm 3,3) e della pace (Rm 15,33). Quanto a Cristo, l’apostolo ne mette in risalto tra l’altro l’umiltà (Fil 2,8), la dolcezza e la mansuetudine (2Cor 10,1). 

e) Va infine evidenziata la sensibilità culturale di Paolo che traspare anche dalle sue metafore e comparazioni musicali e sportive. 

Non è affatto lodevole la mania dei corinzi di preferire alla chiara profezia l’oscura glossolalia o orazione estatica, che è un linguaggio pre-concettuale fatto di suoni articolati senza senso né costrutto. Poiché non è compreso neppure dallo stesso glossolalo, il parlare in lingua può paragonarsi ad un flauto, a una cetra o a una tromba che, non rispettando né tempo né tono, danno soltanto suoni così confusi che non vi si può riconoscere nessun motivo e nessuna melodia (1Cor 14, 7-9). 

La vita di fede per il conseguimento escatologico della salvezza comporta tensioni e sacrifici non minori di quelli a cui si sottopongono podisti e pugili. Per battere gli avversari e conquistare la vittoria gli atleti si impongono una dura disciplina fatta di privazioni di ogni sorta. Nelle gare poi, gli uni seguono velocemente la pista puntando al traguardo, gli altri  con le mani munite di cesti assestano colpi da Knock-out (1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14). 

Tutt’altro che san Paolo, o araldo di un modo di vivere

Si rivela aperto a tutto quanto risponda alle istanze genuine del nostro io e concorra a renderci sempre più integralmente uomini, creature di Dio cioè: (Rm 8, 30). 

Di qui le affinità, più volte e da più parti riscontrate, tra l’etica paolina e l’etica ellenistica che in pratica era stoica. Ma di qui anche le discordanze. Perché in questa età escatologica di e di (1Cor 7, 26.29), i valori umani saranno autentici solo se fondati e vissuti nell’amore di Dio uno e trino al ritmo dialettico del (vv. 29.31), on distaccato impegno e con impegnato distacco.

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