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LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2007/Riv0807/Riv0807_05.htm

LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO

« Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (2Cor 1,3-4)
(seguito)
3.1.2 – Galati 1,13-17

Il testo fondamentale in cui Paolo descrive l’incontro di Damasco è la lettera ai Galati:
« Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco » (Gal 1,13-17).
L’esperienza della svolta di Damasco è vergata con poche ed incisive pennellate, che ci introducono nella consapevolezza che Paolo ha di questo evento, dopo quasi una ventina di anni dal suo accadere storico.
Paolo non ha pudore di ripresentarsi ai Galati come quel persecutore della Chiesa di Dio, che imperversava fieramente sui cristiani, convinto come era della sua giustizia derivante dall’osservanza della Torah (cfr. Gal 1,13-14).
« Ma »9 Paolo piega le ginocchia del suo cuore, entrando nuovamente in quella «dimensione contemplativa della vita», che gli permette di sentire e gustare la elezione e la scelta divina nella sua esistenza.
Dio ha usato il suo «bâhar» (= scegliere) e Paolo lo riconosce e lo sperimenta fin dai primi momenti della vita biologica, nel seno di sua madre: è stato conquistato da Gesù Cristo, sedotto, ghermito da Gesù Cristo. Si sente ed è, come Geremia10, realmente e, quasi ontologicamente, violentato, appagato e sublimato dall’amore amico e seducente di Gesù: « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20).
Paolo non potrebbe essere quello che è , se non fosse oggetto-soggetto di questo reciproco amore « passionale »? non solamente emotivo, e quindi necessariamente fugace e destinato a volatilizzarsi ? ma di un amore, che vuole come coprotagonisti due cuori, due « Io profondo », che trovano nell’essere oblativamente l’uno nell’altro l’unica ragione di vita e di sussistenza.
È la logica dell’Amore, cantato e celebrato dal Cantico dei Cantici, è la logica dell’amore di sempre del Dio fedele, che in tutta la storia della salvezza assume i connotati e la valenza di un amore sponsale11, seducente e tenero, verso ogni uomo, maschio e femmina, chiamato dall’eternità ad essere un unico ed irripetibile partner del Dio Trinità, Amore esuberante e centrifugo, perché centripeto.
La chiamata di Dio è un dono gratuito – Paolo lo sottolinea: «diά th̃V cάritoV» – che lo porta ad essere l’oggetto di una vera e propria rivelazione e di un compiacimento del Padre12. Questa rivelazione permette a Paolo di approfondire e discernere meglio il suo «mistero»: il Figlio del Padre in lui, come una realtà personale in perenne e progressivo stato evolutivo di crescita, che porta l’Apostolo delle genti alla propria pienezza attraverso la capacità di riconoscimento del significato profondo dell’evento di Damasco per la salvezza degli uomini e del mondo (« perché lo annunziassi ai pagani »At 1,17).
Il racconto dell’episodio di Damasco, così come Paolo lo rievoca e lo dona ai Galati, ci fa edotti di come il pellegrinaggio formativo al discernimento delle vie di Dio ha sicuramente avuto un notevole incremento dal profondo sconvolgimento apportato dalla luce di Damasco sulla vita ed i pensieri del «fiero persecutore della Chiesa». Sicuramente in questa pericope di Galati Paolo vuole fare riferimento al momento che ha reso il cittadino di Tarso un’altra persona. Questa rivelazione sperimentata da Paolo vicino Damasco ha fatto di lui un uomo nuovo e differente: egli diviene da un non-credente un credente, diviene, cioè, una persona nuova. La sequela di Paolo fu, in realtà così, una continua e sempre più approfondita comprensione di Cristo, a partire da questo suo originale, immediato e straordinario cambiamento.
3.1.3 – 1° Lettera ai Corinti 9,1-2
Nella prima lettera ai Corinti c’è un brevissimo accenno alla sua vocazione:
« Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? Anche se per altri non sono apostolo, per voi almeno lo sono; voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore » (1Cor 9,1-2)
Paolo parla di sé, delle sue scelte, della sua esistenza, tutto orientato alla causa del vangelo, come servitore del messaggio cristiano. E questo non per sua iniziativa, ma perché afferrato e sequestrato da una forza irresistibile e travolgente. Paolo è libero da tutto e da tutti, è apostolo a tutti gli effetti13 perché il Signore gli è apparso e perché la stessa comunità di Corinto è frutto della sua predicazione e quindi il Signore stesso, presente nella nascita e crescita della comunità corinzia, è il garante della sua apostolicità14.
3.1.4 – Filippesi 3,3-9
Nella lettera ai Filippesi, Paolo non parla chiaramente dell’evento di Damasco, ma descrive il modo in cui l’ha vissuto interiormente
« Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui:circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo.
Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede » (Fil 3,3-9).
Nella prima parte di questa accorata e confidenziale descrizione autobiografica, fondamento strutturante l’esperienza del suo «hic et nunc», Paolo con trasparenza descrive le sue origini 15.
Paolo viene incontrato, ed incontra la luce del Risorto in una situazione personale, intrisa di Tradizione, impegno personale e giustizia, che lo rendono convinto e certo nel discernimento, che viene dall’economia della Legge, di poter interloquire « alla pari », « faccia a faccia », con il suo Dio ma « cade » dalle sue convinzioni e a causa di questo incontro con il Cristo Risorto rifiuta tutti gli antichi privilegi, i titoli tradizionali, stimandoli un inganno, una rovina. Tutto ciò che è apparente guadagno, « fumo e non sostanza », Paolo ha imparato e continua ad imparare che è « perdita ». Si verifica una radicale trasformazione dei valori nella logica del discernere ciò che è buono e portarlo ad un livello migliore. La Luce–Persona della strada di Damasco diviene il Pedagogo per il personale discernimento e la decisione di Paolo « per Cristo ».
Paolo reputa, giudica, considera tutto una perdita di fronte alla sublime conoscenza di Cristo, e queste cose sono, addirittura, ritenute skύbala16 (spazzatura). Tutto è « perdita » e « sterco » di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo. Conoscere Cristo, come siamo da lui conosciuti, per giungere a valutare e discernere le cose del mondo interiore ed esteriore come Gesù.
La fede nel Signore, incontrato sulla via di Damasco, ed il battesimo, come « vera circoncisione di Cristo » (Col 2,11), immersione nel mistero di morte e di risurrezione di Cristo, lo conducono a questa « sovraeminente » conoscenza, che è scienza non solamente razionale e teorica, ma vitale ed esperienziale: è conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, divenendogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti ( cfr. Fil 3,10-11)17.
Conoscere Cristo, sperimentare e penetrare nel mistero della Sua Persona, secondo la propria peculiarità, ancora non basta al cammino contemplativo e formativo di Paolo. C’è ancora un altro elemento di qualità da ottenere. « Essere trovato in Lui ». Un’espressione concisa, breve ma che vuole comunicarci l’essenzialità vitale dello « stare con lui ». È permettere a Dio, in Cristo, di donare al cristiano oltre al processo conoscitivo, intellettivo e volitivo, il tutto di Dio.
Siamo ad un livello che lambisce la realtà mistica. Paolo vuole dire che questo pellegrinaggio formativo per essere nel discernimento di Cristo è rispondere all’Amore di un Amico, che chiama a sé, che svela chi è, che dice il suo nome, che dona il suo cuore, che immola e mette nelle mani dell’uomo il suo essere, la sua vita, che garantisce la sua presenza amica, la sua attenzione di Risorto ed il suo affetto eterno: « Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (1 Cor 4,16; 11,1).
Paolo si propone come modello da imitare perché ha sperimentato l’Amore Misericordioso di Dio che lo ha tratto dal fango del peccato e della superbia perché possa raggiungere la mèta dimenticando il suo passato. Egli non si sente arrivato, ma è ancora in corsa e invita i suoi a partecipare e a impiegare tutte le proprie energie perché vincitore non è solamente chi arriva per primo, ma chiunque porta a termine la corsa18 (Cfr. Fil 3,13-14).
(segue)

9 Incontriamo una congiunzione avversativa di notevole importanza qualitativa, ben oltre il tenore avversativo dell’indole di questa congiunzione.
10 L’affinità semantica e terminologica tra katalambάnein, all’aoristo passivo in Fil 3,12, ed il verbo pâtah di Ger 20, 7a, ci appare almeno verosimile. «Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre…». La vicinanza esperienziale tra Geremia e Paolo è ancora più suggestiva nell’ottica della nostra ricerca. Infatti nel libro di Geremia troviamo 6 volte il verbo bâhan (=esaminare, provare), che è reso nella versione della LXX con il verbo «dokimάzein», che sarà il protagonista, quasi assoluto, del nostro studio circa l’insegnamento al discernimento cristiano in Paolo: Ger 6,27; 9,7; 11,20; 12,3; 17,10; 20,12. (Cf. G. THERRIEN Le discernement dans les écrits pauliniens, Paris 1973, nota 5, p.18 e pp.23-24.
11 Cfr. per esempio, alcune splendide pagine dell’allegoria matrimoniale nel libro del profeta Osea: Os 1-3.
12 Cfr. Il compiacimento del Padre su Gesù durante il Battesimo e la Trasfigurazione: Mt 3, 13-17 e 17,1-9.
13 Paolo e Luca hanno una diversa concezione della figura dell’apostolo e, di conseguenza, una diversa comprensione del suo compito e della sua missione. Mentre Paolo rivendica con forza il titolo di apostolo per la sua persona e la sua missione, Luca vede negli apostoli i garanti della continuità tra il Gesù terreno e il Kurios Risorto. Per Luca, gli apostoli sono i testimoni autorevoli della vita pubblica di Gesù e delle sue apparizioni fino all’Ascensione e, tra loro, non vi è Paolo; per lui, Paolo è il grande missionario dei gentili, scelto da Dio stesso per quest’opera. Nelle sue lettere Paolo ragiona diversamente. Presumibilmente, la scelta di Luca è una reinterpretazione di una tradizione paolina motivata da ragioni teologiche: il diffondersi delle prime eresie spinge a rimarcare l’identità del Risorto con il Gesù storico e Luca vi riconduce la stessa nozione di « apostolo » rendendola sinonimo della categoria evangelica dei « dodici ». A partire da Luca, ma diversamente da Paolo, si parlerà dei dodici apostoli. G. COLZANI, Convertirsi a Dio. Opera della grazia, scelta della persona, sfida per le chiese, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2004, 127.
14 Cfr. G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980,I, 400-403.
15 «Circonciso l’ottavo giorno». Così come prescritto da Lev 12,3, portando nella sua carne il riverbero attualizzante della berit donata da Dio ad Abramo.
«Della stirpe di Israele». La qualificazione religiosa con la quale afferma la sua appartenenza al popolo eletto nella radice e nella continuità della lotta di Giacobbe con il suo Dio, che gli aveva appunto cambiato il nome in Israele (cf. Gen 32,23-33).
«Della tribù di Beniamino». Beniamino, il figlio più giovane di Giacobbe e Rachele e fratello di Giuseppe.Paolo sembra dirci che ha la gioiosa consapevolezza di avere e gustare anche una discendenza biologica e genetica con il figlio caro a Giacobbe insieme a Giuseppe.
«Ebreo da Ebrei». A livello culturale, e non solo religioso, figlio di ebrei e non semplicemente un giudeo ellenista.
«Fariseo quanto alla Legge». Appartenente al gruppo più osservante, a livello di rigore morale della Torah. Lo spirito del fariseismo portava i componenti di questa fazione a rappresentare in modo intransigente il baluardo dello jahvismo, non venendo a nessun tipo di compromesso di fronte alle richieste di novità, che derivavano dal confronto con l’ellenismo e la presenza del mondo romano.
«Quanto a zelo persecutore della Chiesa». La logica conseguenza del suo essere, visceralmente, compromesso con la Torah da non poter tollerare il sorgere di una realtà che, solo minimamente, potesse minare la stabilità monolitica della rivelazione e della tradizione jahvista.
«Irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge». Paolo si dichiara e si riconosce intriso di questa tensione spirituale, che lo vede coinvolto completamente in quella serie di minuziosi comandamenti, di prescrizioni e di rituali che lo rendono giusto in quanto osservante scrupoloso ed attento.
16 Il sostantivo “skύbalon” è un hapax legomenon paolino. Il suo significato forte ed incisivo sta ad indicare tutto ciò che è il risultato ed il frutto del processo metabolico e fisiologico, ottenuto durante le peristalsi gastriche ed enteriche insieme al processo di assorbimento dei villi intestinali negli esseri viventi. Lo Zerwick lo traduce insieme alla Vulgata con « stercus ». (Analysis Philologica Novi Testamenti Graeci, 4a ed., Romae 1984, 443 : = ZERWICK).
17 Per Paolo non c’è conoscenza di Gesù se non nell’immedesimarsi al suo mistero di croce. Per lui è fondamentale il suo sperimentare anche ‘fisicamente’ la vicinanza di Gesù, sentire nella ‘sua pelle’ e nel profondo del suo intimo la portata amicale del darsi liberamente da parte di Cristo per la sua vita… perché lui possa vivere. Paolo conosce solo « Gesù e questi crocifisso » (1 Cor 2,2), non ha altro vanto (Gal 6,14), altro onore se non quello di completare nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore della sua chiesa (Col 1,24), e di chiedere che nessuno, d’ora in poi, gli provochi fastidi perché porta le stigmate di Gesù nel suo corpo (Gal 6,17 ).
18 Paolo sembra qui incarnare e rispecchiare l’esperienza di Gv 20, 2-9: la corsa del discepolo, amico del Verbo della vita, che vede e crede, e che qualche tempo dopo, potrà, nella sua tradizione, giungere ad esortare a «non prestare fede ad ogni ispirazione, ma a metterle alla prova per saggiare (= «dokimάzein») se veramente vengono da Dio» (1 Gv 4,1). Una corsa discernente, come quella di Ct 3, 1-4, verso il passaggio dell’amato del cuore, sapendolo cogliere risorto ed interpellante nella propria esistenza, e che invita sempre ad andare oltre i propri schemi, oltre le precomprensioni, oltre i piccoli orizzonti di una « tomba vuota », il passato, verso quell’ Infinito, il già e il non ancora, in cui il « si » di ogni persona deve incontrare il suo « si » per essere sempre più originale ed armonica « sinfonia della salvezza ».

SAN PAOLO LO «SLAVO», Kirill I patriarca di Mosca e di tutte le Russie

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125853

SAN PAOLO LO «SLAVO»

Kirill I patriarca di Mosca e di tutte le Russie

Oggi l’annuncio cristiano può essere convincente solo se i cristiani lo incarnano nella propria vita. È proprio questo che ci insegna l’apostolo Paolo, quando scrive nella Lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».

La ricorrenza quest’anno del bimillenario della nascita del santo protoapostolo Paolo spinge i cristiani di tutto il mondo a guardare con particolare venerazione all’apostolo delle genti, grazie al cui instancabile impegno missionario la fede cristiana si diffuse per tutto il mondo civilizzato di allora, l’ecumene, termine con cui si designava essenzialmente l’Impero romano.
Dopo l’incontro con Cristo Risorto lungo la via di Damasco, Saulo, zelante fariseo e persecutore dei cristiani, si trasforma in Paolo, altrettanto zelante apostolo di Cristo, pronto ad arrivare fino agli «estremi confini della terra» (At 1, 8) per annunciare la salvezza in Cristo, che Dio dona a tutto il genere umano.
In tutte le lettere di san Paolo troviamo, come un filo rosso, la convinzione del significato universale del Vangelo nel quale «non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 11). Fin dai primi anni della propria esistenza, la Chiesa Russa ha sempre venerato nella persona dell’apostolo Paolo il suo grande maestro nella fede.
L’autore della Racconti degli anni passati, prima narrazione della storia russa, fa risalire proprio all’apostolo delle genti la fonte della fede del popolo russo: «Dai moravi venne anche l’apostolo Paolo a predicare; laggiù si trova l’Illiria, dove giunse l’apostolo Paolo; di quegli stessi slavi siamo anche noi, russi, perciò anche per noi, russi, Paolo è nostro maestro».
La predicazione dell’apostolo tra i popoli dell’ecumene ha posto le solide fondamenta dell’unità del mondo cristiano, basata non sulla forza delle armi né sull’arte politica, ma sulla comunione spirituale di coloro che professano l’unico Dio vero «con una sola bocca e un solo cuore» (Liturgia di san Giovanni Crisostomo). Questa unità in Cristo nel corso dei secoli ha aiutato i popoli dell’Europa e delle altre regioni in cui è stato predicato il cristianesimo a superare i conflitti e vivere in pace, scambiandosi i tesori dell’esperienza dell’ascetica cristiana e della santità.
Nella nostra epoca, che alcuni definiscono come « post-cristiana », assistiamo spesso a processi di portata generale o, come si dice oggi, globale. Tuttavia, la globalizzazione odierna non è suscitata da cause interne all’uomo, ma piuttosto esterne: dal progresso tecnico-scientifico, dallo sviluppo del sistema finanziario ed economico mondiale e dei moderni mezzi di comunicazione; perciò essa nella maggioranza dei casi, anziché farle avvicinare, fa scontrare le diverse civiltà, acuisce i problemi internazionali e suscita crisi mondiali di vario genere. Questi processi sono accompagnati da un estremo svuotamento spirituale e morale dell’uomo.
L’uomo dell’era postmoderna, deluso dalle più diverse ideologie e dai più vari sistemi di pensiero, con gran scetticismo chiede oggi assieme a Ponzio Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38). Perciò il nostro mondo di oggi, l’ecumene, come un tempo l’Impero romano, ha bisogno dell’annuncio cristiano della fede, della speranza e dell’amore, di un annuncio che possa « dare un’anima » e conferire un senso all’unità esteriore dei popoli cristiani. In un periodo di estrema decadenza morale per l’impero romano l’apostolo Paolo, i suoi discepoli e le comunità ecclesiali da loro fondate, col lieto annuncio di Cristo seppero trasformare la società che attraversava una profonda crisi spirituale.
Ora questa responsabilità ricade su tutti coloro che credono in Cristo e che vogliono portare al mondo il suo annuncio di salvezza. Il giubileo dell’apostolo Paolo che celebriamo ci ricorda con forza il significato della sua esperienza missionaria. San Paolo accordava sempre la sua predicazione con la mentalità e gli usi di coloro ai quali si rivolgeva. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno», scrive (1 Cor 9, 22).
Seguendo l’esempio dell’apostolo, il cristiano di oggi deve conoscere bene la realtà del mondo che lo circonda, possedere perfettamente il linguaggio di coloro a cui rivolge la propria predicazione. Ma nello stesso tempo il cristiano non deve mai immedesimarsi con « questo mondo », il suo annuncio non può conoscere compromessi quanto alla sua assoluta conformità allo spirito del Vangelo. Non bisogna inoltre dimenticare che l’uomo moderno non si fida più delle parole, per quanto belle possano essere.
Oggi l’annuncio cristiano può essere convincente solo se i cristiani lo incarnano nella propria vita. È proprio questo che ci insegna l’apostolo Paolo, quando scrive nella Lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (2, 20) e quando rivolge ai propri discepoli l’esortazione: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 11, 1; cfr. 1 Cor 4, 16). Facendosi imitatore dell’apostolo delle genti, il cristiano è chiamato a essere una viva immagine del Signore e aiutare così il mondo moderno ad accogliere con fede e speranza la Parola di Dio.

(Testimoni della Fede) I 12 Apostoli e i 4 Evangelisti – autore: Kirill I patriarca di Mosca e di tutte le Russie

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

Alberto Piola

Introduzione

Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».
L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».
Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

Publié dans:Paolo - la fede, Paolo: studi |on 5 février, 2015 |Pas de commentaires »

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO DI BRUNO FORTE

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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO DI BRUNO FORTE

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…
1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

L’ OBBEDIENZA DELLA FEDE, NON È COSTRIZIONE, MA ABBANDONO TOTALE ALL’AMORE DI DIO – SU SAN PAOLO

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L’ OBBEDIENZA DELLA FEDE, NON È COSTRIZIONE, MA ABBANDONO TOTALE ALL’AMORE DI DIO – SU SAN PAOLO

L’apostolo Paolo eleva un inno,  una preghiera di benedizione a Dio, (Ef. 1,3-14) Padre del Signore nostro Gesù Cristo, questa preghiera ci accompagni a vivere l’anno della fede e la nostra vocazione di consacrati. Tema di questo inno di lode è il progetto di Dio nei  confronti dell’uomo, presentato con termini pieni di gioia, di stupore e di ringraziamento, come un “disegno di benevolenza, di misericordia e di amore.
Domandiamoci perché Paolo innalza a Dio, dal profondo del suo cuore, questa benedizione. Certamente l’apostolo guarda all’agire di Dio nella storia della salvezza, manifestato nell’incarnazione del Figlio, sua morte e risurrezione, e guarda come il Padre ci abbia scelti prima ancora della creazione del mondo, per divenire suoi figli, nel Figlio
Unigenito.
      Rm 8,14 – Nella mente di Dio noi esistiamo fin dall’eternità, in quel grande progetto custodito        da Dio nel suo cuore e che ha deciso di attuare e manifestare, come è scritto: “nella pienezza dei tempi” – Ef 1,10 – Con l’aiuto di Paolo scopriamo come l’uomo e la donna non sono frutto del caso, ma seguono un disegno di grazia della ragione di Dio che con la potenza creatrice e redentrice della sua Parola si manifesta nella creazione del mondo. Questa affermazione ci dice che siamo scelti da Dio, ancora prima della creazione del mondo, nel Figlio, e non che la nostra vocazione non è semplicemente esistere, o essere inseriti in una storia, e neppure soltanto essere creature di Dio. Noi quindi esistiamo già nel pensiero di Dio, o meglio nel suo cuore, perché già ci contempla in
Cristo, come figli adottivi.
Questa benevolenza di Dio, che Paolo qualifica come – disegno d’amore – Ef 1,5 – è detto – il mistero della volontà divina, prima nascosto e ora manifestato nell’opera di Cristo. Questo è un dono del suo amore, infatti l’iniziativa di Dio precede ogni nostra risposta. Ma
domandiamoci perché tutto questo, quale il centro della volontà di Dio? San Paolo ci suggerisce: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose. Qui si rivela il suo progetto di amore verso l’intera umanità, tanto che sant’Ireneo di Lione annuncia come nucleo della sua cristologia: – ricapitolare tutta la realtà in Cristo -.questo vuol dire che Cristo si leva come centro dell’intero cammino del mondo, che attira a Sé l’intera realtà, per superare la dispersione e condurre tutto alla pienezza voluta dal Padre – Ef 1,23. – Questo progetto non è rimasto nel segreto, ma lo ha fatto conoscere mettendosi in relazione con l’uomo, al quale ha rivelato Se stesso. Non ha semplicemente comunicato alcune verità, ma si è comunicato a noi, facendosi uno di noi, incarnandosi. Così tramite Cristo gli uomini
hanno accesso al Padre diventando partecipi della divina natura. Dio si comunica, non dice solo qualcosa, ci attira a Se, così che anche noi siamo coinvolti in essa, cioè divinizzati. Attraverso il suo disegno d’amore Dio entra in relazione con l’uomo, fino al punto di farsi uomo.
Il Dio invisibile ora parla agli uomini come ad amici e vive tra essi per invitarli e ammetterli ad una piena comunione con Sé. L’uomo con le sue capacità e intelligenza non sarebbe mai riuscito a raggiungere questa rivelazione così grande dell’amore di Dio. E’ Lui che ha
guidato l’uomo nell’abisso del suo amore abbassandosi verso di lui.
Queste cose le ha preparate Dio per coloro che lo amano, non potevano entrare nel cuore dell’uomo.
E’ attraverso lo Spirito, che conosce ogni cosa, anche le profondità di Dio, che Dio si è manifestato a noi. Pertanto siamo invitati a gustare tutta la bellezza di – questo disegno di benevolenza – rivelato in Cristo dal Padre. Cosa ci manca? Siamo diventati immortali, liberi, figli, giusti, fratelli, coeredi e con Cristo regniamo e siamo glorificati.
Tutto attraverso lui ci è stato donato. Questa comunione in Cristo per opera dello Spirito, offerta da Dio a tutti gli uomini con la luce della Rivelazione , non si sovrappone alla nostra umanità, ma è il compimento delle aspirazioni più profonde, del desiderio d’infinito e di pienezza che alberga nell’intimo dell’essere umano, tanto che lo apre ad una felicità eterna, e non momentanea o limitata.
San Bonaventura, parlando di Dio che si rivela  e ci parla attraverso le Scritture per attirarci a Sé, afferma: – La Scrittura è il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non solo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, ameremo e saranno realizzati tutti i nostri desideri – . il beato Giovanni Paolo II, ricordava che – la Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può tralasciare, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza, però questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio, che la mente non può esaurire, ma solo accogliere nella fede -. Cosa è dunque l’atto di fede?
E’ certamente la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio, che si fa conoscere, che manifesta il suo progetto di benevolenza; è lasciarsi afferrare dalla Verità che è Dio, una Verità che è Amore. San Paolo ci suggerisce che a Dio che ha rivelato il suo mistero, si debba “l’Obbedienza della Fede”. E’ questo l’atteggiamento con il quale – l’uomo liberamente si abbandona tutto a Lui, prestando la piena adesione dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente la Rivelazione che egli dà – . Obbedienza non è dunque un atto di costrizione, è un lasciarsi, un abbandonarsi alla bontà di Dio. Questa obbedienza chiede un nuovo modo di rapportarsi con la realtà; si tratta di una vera – conversione – fede è un cambiamento di mentalità, perché Dio che si è rivelato in Cristo e ha fatto conoscere il suo amore, ci afferra e ci attira a Sé, è il nuovo senso che sostiene la nostra vita, la roccia su cui essa deve trovare stabilità.
Si legge nel profeta Isaia, mandato al re Acaz, – Se non crederete, cioè se no sarete fedeli a Dio – non resterete saldi – Is 7,9b . C’è qui un legame tra lo stare e il comprendere, che esprime come la fede sia un accogliere nella vita la visione di Dio sulla realtà, lasciare
che sia Dio a guidarci con la Parola e i Sacramenti nel capire che cosa dobbiamo fare, qual è il cammino che dobbiamo percorrere, come vivere. Sappiamo che il solo comprendere secondo Dio, il vedere con i suoi occhi rende salda la vita, e ci permette di – stare in piedi -.
Cioè di non cadere.

L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

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L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

A.1) L’ESPERIENZA SOGGETTIVA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

Le basi teologiche offerte dal paragrafo precedente permettono ora un avvicinamento esistenzialistico alla straordinaria figura di san Paolo, secondo quella che è la “funzione modellare”[1] che Guardini riconosce all’apostolo di Tarso, ovvero il fatto di costituire un’esemplificazione concreta, un modello storico della relazione sussistente fra la dimensione essenziale del Cristianesimo, cioè Gesù Cristo nella sua persona, e quella esperienziale-esistenziale, cioè la vita cristiana. Si tratta di due prospettive strettamente correlate nella misura in cui ambedue risultano connesse all’istanza cristiana nella sua totalità di significato; come lo stesso Guardini mette in evidenza, dopo aver a lungo interrogato teologicamente il Cristianesimo dal punto di vista della sua essenza, il passo successivo è un’ulteriore domanda: “In che cosa consiste quella realtà, alla quale fa riferimento in maniera essenziale l’esistenza cristiana? Il valore che provoca alla decisione?”[2].
Il pensiero di Guardini può così inquadrarsi entro due grandi momenti teologici. Il primo è segnato dall’interrogativo essenziale circa l’oggetto del credo cristiano, il quale si è dimostrato essere, in termini assoluti, un “soggetto” personale, una singolarità categoriale, un’identità precisa e peculiare, cioè Gesù Cristo, il concreto vivente. Ora, nel secondo momento e mantenendo vivo questo presupposto, l’autore guarda a tale soggetto come ulteriore “oggetto” dell’esistenza cristiana, cioè colui che “nel soggetto” cristiano esiste personalmente plasmando sostanzialmente la stessa esistenza dell’uomo, facendo di essa una coesistenza o, più teologicamente, un’esistenza-in. Come si domanda l’autore, infatti: “Possono l’uomo singolo, tutti gli uomini, l’insieme dell’umanità, l’universo, entrare-in Lui? Non finiscono in una strettoia? Non perde l’universo il suo carattere di libera totalità?”[3].
In tale doppio momento teologico è tuttavia sotteso un fondamento di matrice filosofica, ovvero il concetto guardiniano di opposizione polare, che lo conduce all’individuazione di una dimensione “inabitativa” ed una “sovrabitativa” entro l’esistenza umana di un medesimo soggetto[4]. Tale fondamento, che sarà oggetto del successivo capitolo, viene qui considerato unicamente nella prospettiva di evidenziare il terreno filosofico nel quale  Guardini raccoglie le proprie considerazioni teologiche in merito alla figura di san Paolo e più in generale a quella di ogni soggetto cristiano. La figura paolina rappresenta pertanto un momento “peak” nel quadro argomentativo di Guardini, poiché gli offre la possibilità empirica di porre un soggetto concreto e non un’ideale ed astratta istanza umana quale strumento esemplificativo delle proprie riflessioni.
San Paolo certamente rappresenta un “caso emblematico” di esperienza di tensione degli opposti: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto” (Rm 7,15). Questa però non è certamente una ragione sufficiente per assumere la figura di Paolo quale modello referenziale, anzi, per come è stata proposta qui sopra l’asserzione stessa potrebbe apparire equivoca e teologicamente fallace, entrando in una dimensione opinabile di giudizio della stessa figura paolina. Piuttosto Guardini si prodiga nella sua ricerca attorno all’apostolo di Tarso per una ragione che a lui stesso appare inconfutabile: “Chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici, né Giovanni, ma Paolo, e appunto per essersi trovato nell’identica situazione in cui ci troviamo noi stessi”[5]. L’opposizione polare è perciò un metro sotteso all’indagine di Guardini, che in termini espliciti, invece, rivendica delle giustificazioni teologiche, ponendo cioè l’esistenza cristiana di Paolo, così come testimoniata dalle Scritture, al vertice di un processo di incontro-con Cristo che per l’uomo di ogni tempo risulta emblematico; e questo a parere di Guardini proprio perché Paolo “è uno di noi”. Cosa significa, tuttavia, che Paolo “è uno di noi”?
Guardini offre una serie di ragioni a riguardo. Ad esempio, Paolo fu l’unico apostolo a non vedere Gesù con i propri occhi nella sua vita terrena e di Lui ha avuto notizia soltanto come la possiamo avere noi, cioè dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia; in un secondo momento anche dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nel cuore. Ancora, quando Paolo delinea la propria figura di Cristo, lo fa attingendo fondamentalmente alle fonti alle quali pure noi facciamo ricorso, ovvero il messaggio tramandato e la propria esperienza. Inoltre, ciò che a noi manca, e che invece ebbe un’influenza enorme nei riguardi dei primi apostoli, cioè l’essere stati testimoni oculari, mancava anche a lui[6]. Tutto ciò porta Guardini a concludere che “proprio per questo, Paolo è l’uomo che fa al caso nostro: e se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temere che non sia riuscito a comprendere molto della figura di Cristo”[7].
L’orizzonte che qui si dischiude, pertanto, è quello di analizzare l’esistenza di Paolo onde poter tratteggiare, utilizzando essa come guida, l’identità concreta di una vera esistenza-in Cristo che sia esemplare per ogni soggetto cristiano. Attraverso questo procedimento, infatti, risulta parafrasata concretamente, cioè resa esplicita, la volontà “pura” di Guardini, cioè la sua intenzione teologica originaria: “Ora diremo come l’essere di Cristo si attua nella personalità del cristiano, diremo cioè dell’immagine dell’uomo, che accoglie il messaggio con fede e fiducia, e si sforza di vivere in esso; cioè di compiere quella metànoia che è richiesta da Gesù con le prime parole. La risposta più profondamente urgente implica ciò che si può definire come una teologia dell’esistenza cristiana”[8].
Viene così da porsi con una certa inquietudine l’interrogativo che lo stesso autore pone a sé medesimo, ovvero, in termini esistenziali, chi fosse san Paolo. Se Guardini osserva a tutto tondo la figura paolina, scrutando con profonda attenzione quanto i testi biblici, e in particolare le stesse lettere paoline, rivelano direttamente o indirettamente di lui, non si getta, tuttavia, in un cieco inseguimento di un’ideale figura umana che si è riconosciuta primariamente come esemplare. Si intende dire, cioè, che Guardini, nel suo procedere teologico entro l’essenziale cristiano, cioè la persona di Cristo, segue sempre le linee strutturali della propria fede cristiana, senza mai dimenticare, quindi, il proprio concetto di esistenza cristiana e di opposizione polare nel soggetto umano. In termini pratici, se per Guardini, primariamente, “esistere significa che questo essere vivente critichi se stesso, sia dunque capace di prendere coscienza della differenza fra attività vera e falsa… determinare quel che si dice norma e valore”[9]; ancora, se “interiore a sé può essere solo ciò che ha almeno una possibilità di essere anche fuori di sé”[10], proprio perché, come indica la Iannascoli, “solo quando l’uomo si sa osservare come oggetto, si vede e si sa soggetto”[11], così che “contemplante e contemplato, soggetto e oggetto affiorano nella coscienza distinti l’uno dall’altro”[12], ebbene, attraverso questa prospettiva di pensiero sua personale Guardini incontra san Paolo e ne tratteggia la figura, riconoscendo in essa, come si è detto, un’esperienza archetipica dell’Io cristiano. L’autore, tuttavia, non cade nella trappola del superficialismo teologico, che vorrebbe dividere in due tronconi netti l’esistenza di Paolo, uno relativo al tempo prima della sua conversione, l’altro ad essa successivo, ma con la sua solita prudenza che tende a salvaguardare l’insieme, Guardini osserva ciò che di strutturante vi è nell’esistenza paolina nella sua interezza, senza tralasciare il radicale cambiamento operato dall’incontro con Cristo. Taluni aspetti esistenziali paolini, infatti, permangono anche dopo il noto avvenimento sulla via di Damasco, seppur nella nuova luce di quel Signore “che è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore, ivi c’è libertà” (2Cor 3,17).
Ora, rispondendo alla domanda esplicita “che uomo era, dunque, san Paolo?”, Guardini utilizza i parametri sopra accennati per offrire un quadro antropologico ed esistenziale dell’apostolo di Tarso. La personalità paolina, secondo l’autore italo-tedesco, “era tormentata da due forti passioni: una sensualità potente ed una grande ambizione; egli è il solo che parla di collette”[13]. La citazione di Rm 7,15, con cui sopra si è introdotta la figura di Paolo in questo paragrafo, si fa adesso quanto mai impellente. Essa, tuttavia, non è che un momento importante di tutto un quadro esistenziale; infatti, se lungo tutta la sua esistenza precristiana, “in se stesso, nelle sue membra, Paolo sente il contrasto di due potenze, una buona ed una cattiva, ma non riesce a dar libero passaggio a quella buona e a soggiogare la cattiva, ma piuttosto odia se stesso, si fa violenza, e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero”[14], anche dopo l’esperienza sulla via di Damasco la “tensione esistenziale” da Guardini individuata nel santo di Tarso appare talora un’istanza invalicabile: “Paolo non sembra né perfettamente sano, né completamente sicuro di sé. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato”[15]. Le stesse Scritture sembrano confermare la visione guardiniana di san Paolo, traslando però quella che psicologicamente appare come una forte angoscia interiore in una più teologica inquietudine dello spirito. Per esempio, in At 9,16 il Signore dice di lui ad Anania. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”; di fronte alle incomprensioni dei Corinzi, Paolo afferma di se stesso: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde” (2 Cor 11,24-25), premettendo come tutto ciò sia avvenuto nonostante la sua apparente dualità: “Io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi” (2 Cor 10,1). La stessa immagine fisica di Paolo, così come deducibile dalle Scritture, testimonia per Guardini una sua ulteriore difficoltà sociale, questa volta legata alla dimensione estetica dell’apparire. Infatti, ciò che ad esempio si deduce dal passo di Atti 14,12, in cui si dice che dopo una guarigione operata a Listra i presenti “chiamavano Barnaba ‘Zeus’ e Paolo ‘Mercurio’, perché era lui il più eloquente”, secondo Guardini “sta a significare come Barnaba dovesse avere una figura più imponente, mentre Paolo fosse piccolo di statura e non appariscente”[16]. Tuttavia vi è soprattutto un momento biblico che Guardini riconosce come particolarmente emblematico per quella tensione paolina che, seppur non esplicitamente, rimanda alla struttura degli opposti polari così preponderante nel pensiero di Guardini. Si tratta del brano contenuto in 2Cor 12,7-9, dove Paolo afferma: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia’. Mi vanterò dunque ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Il racconto è un ulteriore suggello al brano già citato di Rm 7,15 e testimonia ancora di più quanto “Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto”[17], e come nonostante l’avvenuta conversione, “nella sua nuova realtà di cristiano egli ha preteso da sé molto di più di quanto pretendesse prima”[18].
Perché, dunque, verrebbe da chiedersi, un tale attaccamento alla figura di Paolo da parte di Guardini, al punto da erigerlo a riferimento primario per un’esistenza-in Cristo? Quale fascino può destare, nel credente, una tal figura di cristiano zelante che, per come sinora è stata descritta, potrebbe suggerire un concetto semmai ombroso e tormentato di esistenza?
Guardini introduce, a questo proposito, un primo momento di forte “spaccatura” esistenziale nell’esperienza personale di Paolo, che molte volte viene tralasciato o comunque messo ai margini dall’episodio avvenuto sulla via di Damasco: l’incontro di Paolo con la giovane Chiesa rappresentata in particolare dal martire Stefano. Questo incontro per Guardini è assai significativo per lo zelante “Saulo”, soprattutto nella misura in cui quella tensione polare entro se stesso, che in ultima istanza non è mai stata davvero sopita in lui, è venuta alla luce per lo meno in termini di autocoscienza di sé, mostrandogli cioè la dimensione di se stesso, facendo emergere in lui il guardiniano “punto intimo dove sto”: “Di fronte all’eroica e sublime figura di Stefano, egli ha per la prima volta la percezione della potenza di Cristo, ma, naturalmente, ciò non fa altro che eccitarlo ancor più nella sua furia devastatrice”[19].
Un’esperienza forte, pertanto, ma non ancora debellante quel senso di autosufficienza, quella volontà tirannica rinchiusa entro le barriere del proprio Io e così fortemente legata alla metodicità, alla prassi legale, allo zelo religioso. Su questo terreno esistenziale, che se non altro ora appare “cosciente” allo stesso Paolo, irrompe l’azione trasformatrice della grazia, l’unica via, come si vedrà nel seguente paragrafo, di conciliazione degli opposti: l’apparizione di Cristo sulla via di Damasco. E tale esperienza, per come la interpreta Guardini, è proprio la risposta alla domanda posta qui sopra, cioè la ragione del fascino che la figura di Paolo esercita sul soggetto cristiano: “Quando Paolo è sulla via di Damasco, vede una luce, e non il volto di Cristo. In chi legge le sue lettere, si forma la convinzione che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante, che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Nei Sinottici, invece, abbiamo un Gesù che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò certamente è un privilegio prezioso che gli evangelisti ci offrono, ma al contempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore”[20].
Con Paolo, quindi, il credente di ogni tempo si sente, secondo Guardini, maggiormente “condividente” l’esperienza dell’apostolo di Tarso, percependo come lui non la fisicità concreta di un volto, non dei tratti somatici esclusivi di un soggetto umano, non una carne o degli occhi, né uno sguardo o un’espressione del volto storici, bensì la presenza di una potenza esclusiva, l’irrompere di un’energia liberante, trasformatrice, un Qualcuno dalla luce inaccessibile che tuttavia si fa incontro all’uomo, permettendogli di scoprire come “in Lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28). In virtù di tale potenza Paolo riesce a superare le proprie tensioni esistenziali non, come si vorrebbe, eliminandole da se stesso, ma vivendo con esse nella nuova dimensione del battezzato, proprio in virtù di quel battesimo “a lui tanto caro che non è qualcosa di psicologico o etico, ma di pneumatico-reale”[21], affermando “che nell’uomo avviene qualcosa di singolare. Egli viene a trovarsi in comunione di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura fino a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito in noi, vuole rivelarsi nell’esistenza umana”[22].
Qui si entra nuovamente nel cuore del Cristianesimo, attestando perciò il legame inscindibile tra l’essenza del Cristianesimo e l’esistere-in Cristo. Colui in cui si crede, infatti, che è persona viva e concreta, è pure Colui che nell’atto di fede da parte del credente penetra in lui realizzando una coabitazione esistenziale. Una coabitazione, però, che non va intesa secondo il senso comune del termine, intendendo cioè la reciproca presenza di due soggetti entro la stessa abitazione. Nel Cristianesimo colui che realmente vive è il Cristo, il quale plasma il soggetto credente nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri e nei suoi destini, e ancor più non lo fa “individualmente”, cioè relativamente ad un singolo individuo, ma vive nella Chiesa, trasporta l’esistenza dell’uno nell’esistenza del complesso della cristianità, dove realmente “circola una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina”[23].
Ecco allora di nuovo “la differenza di ciò che è cristiano” (Unterscheidung des Christlichen)[24], presentata sotto una nuova veste, ovvero quella dell’esistenza umana, “che per essere salvata deve dunque essere incorporata nella realtà di Cristo”[25]. Tale differenza è proprio l’in-existenz, l’esistere-in Cristo, a partire dallo stesso Cristo che interpella l’uomo con una pretesa non astratta ma concreta[26], a partire dalla quale i fedeli devono camminare in Lui, “ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie” (Col 2,7). In questo senso risulta per Guardini quanto mai pregnante la testimonianza di Paolo, nelle cui lettere “ritorna di continuo una espressione caratteristica: ‘in-Cristo”[27]. Fede cristiana, infatti,  significa essere in Cristo, cioè il continuo “essere spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9) per rivestirsi dell’uomo nuovo, per poter “partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 2,12). Questo perché, come afferma ancora Paolo, “se uno è in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17), per cui al credente è richiesto di effettuare con Cristo, nella propria esistenza, l’azione redentiva mediante una vittoria sempre nuova, affinché Cristo si formi in Lui (Gal 4,19)[28], e quindi “credere, venir battezzato, essere cristiano, insieme con tutto l’agire cristiano, significa inserirsi in questo permanente avvenimento; venirne afferrato ed esserne reso partecipe, in esso stare innanzi a Dio”[29]. Tutto questo avviene, come sottolinea Guardini, sempre nella bilatitudine dell’esistere in Cristo: la dimensione individuale, certamente, ma sempre nella prospettiva del Noi ecclesiale, cioè “l’unione della comunità credente come tale, un qualcosa che trascende la mera somma dei singoli credenti, ciò che è, insomma, la Chiesa”[30]. In ultima istanza, pertanto, l’esperienza soggettiva del cristiano è sempre una esperienza comunitaria del Cristo che vive nella Chiesa.

 - La Casa di Miriam –

LA FEDE DI FRONTE AL TRIBUNALE DELLA RAGIONE (Paolo ad Atene)

http://it.arautos.org/view/viewPrinter/27009-la-fede-di-fronte-al-tribunale-della-ragione

LA FEDE DI FRONTE AL TRIBUNALE DELLA RAGIONE    (Paolo ad Atene)

PUBBLICATO 2011/06/13

AUTORE: THIAGO DE OLIVEIRA GERALDO

Pur facendo parte della pianura dell’Attica, con il suo terreno roccioso e poco fertile, Atene vide nascere nel suo seno insigni pensatori i cui nomi cotinuano a risuonare nella cultura da più di duemila e cinquecento anni
Per compiere l’incarico di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo in tutto il mondo, i primi cristiani avevano bisogno di adattarsi alla cultura deiloro ascoltatori. L’Apostolo delle Genti lo realizzò in forma mirabilein un suo discorso nell’Areopago di Atene.
Thiago de Oliveira Geraldo

Pur facendo parte della pianura dell’Attica, con il suo terreno roccioso e poco fertile, Atene vide nascere nel suo seno insigni pensatori i cui nomi cotinuano a risuonare nella cultura da più di duemila e cinquecento anni. Vi fiorirono, nel V e IV secolo a.C., tre figure di spicco della Filosofia: Socrate, Platone e Aristotele, l’ultimo dei quali ha ricevuto da parte di studiosi insigni elogi come questo: « Più che ‘il maestro di coloro che sanno’, come lo reputava Dante, Aristotele meritava di essere chiamato l’ispiratore di coloro che disputano, in tutti i campi del sapere, dell’azione, della produzione ».1 O anche come quest’altro, di cui potrebbe vantarsi il più prestigioso degli intellettuali di oggi: « Pochi uomini hanno fondato una scienza; a parte Aristotele, nessuno ne fondò altre ».2
« PIÙ FACILE TROVARE UN DIO CHE UN ESSERE UMANO »
Per secoli, si affrontavano in Atene esponenti di diverse scuole di pensiero nei campi del sapere, della morale, della politica. In questa città, affacciata sul Mar Egeo, c’era anche, come in tutta la Grecia antica, un confronto tra le credenze politeistiche e il rigore del pensiero puramente umano, che portava ad interminabili discussioni circa le divinità e l’origine del mondo. « Ad Atene è più facile trovare un dio che un essere umano »3, ironizzava Petronio, scrittore romano del primo secolo. Nel secolo seguente lo scrittore greco Pausania così qualificava gli ateniesi: « essi sono anche più pietosi degli altri popoli ».4
In questo contesto di agguerrite dispute culturali e religiose, si immagini quale dovesse essere lo spirito di fede e la capacità intellettuale di un cristiano per annunciare in modo convincente la Buona Novella nella metropoli delle scienze, a pensatori di diverse scuole filosofiche, dotati di acuto senso critico e abili nelle schermaglie della dialettica.
Wikipedia, Victor Toniolo, Gustavo Kralj

Nei secoli V e IV a.C. fiorirono, ad Atene, tre figure di spicco della Filosofia: Socrate,
Platone e Aristotele
  »Socrate » – Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, « Platone » – Musei Capitolini, Roma,
« Aristotele »- Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps
Questa missione la Provvidenza Divina la affidò all’Apostolo delle Genti, « l’uomo che Dio chiamò e inviò ad intraprendere la diffusione universale del Cristianesimo ».5

Dispute quotidiane con giudei e greci
Uomo di forte tempra, abituato ai sacrifici e alle difficoltà, San Paolo predicava con coraggio il Vangelo di Gesù Cristo in tutti i luoghi in cui lo portava il suo zelo apostolico. La sua audacia missionaria non si attenuò, quando si vide costretto a rimanere alcuni giorni ad Atene in attesa di Sila e Timoteo, per proseguire insieme il viaggio fino a Corinto.
Anche se si trovava lì di passaggio, come rimanere in quella città senza evangelizzare? Impossibile per uno che disse di se stesso: « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (I Cor 9,16).
Quanto all’ambiente che San Paolo incontrò nella capitale della cultura, scrive un autorevole esegeta: « La città in quel tempo non era politicamente importante, anche commercialmente era molto decaduta, ma continuava ad essere ‘la pupilla della Grecia’ (Filon), ‘la fiaccola di tutta la Grecia’ (Cicerone). Come sede delle grandi scuole filosofiche e culla della più raffinata cultura greca, si distingueva sulle altre città dell’Impero Romano ed esercitava un’irresistibile forza di attrazione su quanti aspiravano ad acquisire scienza e cultura, specialmente sulla gioventù della nobiltà romana ».6
Tuttavia, la prima reazione dell’Apostolo quando venne a contatto con la realtà ateniese fu di avversione: « Mentre aspettava Sila e Timoteo, ad Atene, Paolo restò disgustato nel vedere quella città consegnata all’ idolatria » (At 17, 16). La sua indignazione, frutto della fede, accresceva in lui il desiderio di cogliere l’occasione per annunciare Gesù Cristo crocifisso a quegli adoratori di idoli. E San Paolo sapeva adattarsi al pubblico che lo ascoltava.
Ricardo Castelo Branco
Nelle missioni realizzate poco prima in varie città, predicò nelle sinagoghe ai giudei, rivelandosi un esimio conoscitore delle Scritture e dimostrando, sulla base di queste, che era stato necessario che Cristo soffrisse e risorgesse dai morti (cfr. At 17, 3). Ad Atene abitavano anche alcuni giudei, ma l’ardente evangelizzatore capiva perfettamente che lì l’immensa maggioranza dei suoi ascoltatori era costituita da greci, la cui mentalità era molto diversa da quella degli israeliti. Si lanciò subito alla conquista di anime anche in questo campo, poiché come narrano gli Atti degli Apostoli, San Paolo discusse « nella sinagoga con i giudei e proseliti, e tutti i giorni, nella piazza, con quelli che incontrava » (At 17, 17).

Uomini insaziabili di novità
Tra quelli che ascoltarono San Paolo nell’agorà – nome con cui i greci denominavano la piazza principale della città, dove avvenivano le discussioni politiche – c’erano filosofi epicurei e stoici. I primi avevano la fruizione dei piaceri come principale finalità dell’esistenza e, di conseguenza, fuggivano dal dolore quanto potevano; erano materialisti, ma non negavano l’esistenza degli dei, i quali, però, raramente interferivano nella vita degli uomini. Per i secondi, al contrario, l’autosufficienza e l’impassibilità di fronte al dolore erano considerate come grandi virtù.
Ascoltando la predicazione di quello straniero, alcuni filosofi lo canzonavano, chiamandolo spermologòs, ossia, ciarlatano o chiacchierone. Altri gli facevano una delle accuse che cinque secoli prima portarono Socrate a morte in questa stessa città: quella di propagare il culto a dèi stranieri. Infatti San Paolo predicava Gesù e l’Anástasis (Resurrezione), nomi che suonavano per loro come una coppia di divinità. Lo condussero allora all’Areopago, antico tribunale di Atene, nel quale si giudicavano anche questioni religiose e morali. Era questo, oltre che un organo giuridico, un punto di riunione degli ateniesi e forestieri che, in quest’epoca, « non si occupavano di altro se non dire o ascoltare le ultime novità » (At 17, 21).
Questa sete insaziabile di novità facilitava l’operato dell’Apostolo: tutti si mostravano avidi di conoscere quanto quello straniero avrebbe dovuto dire loro. Come avrebbe cominciato il suo discorso davanti a quell’esigente uditorio, costituito dai rappresentanti della più elevata cultura?
Trattandosi di gentili, a nulla sarebbe giovato presentare argomenti tratti dalle Sacre Scritture. « I primi cristiani, per farsi comprendere dai pagani, non potevano citare soltanto ‘Mosè e i profeti’ nei loro discorsi, ma dovevano servirsi anche della conoscenza naturale di Dio e della voce della coscienza morale di ogni uomo »7 – osserva il Beato Giovanni Paolo II.
Gustavo Kralj

Come sede delle grandi scuole filosofiche e culla della più raffinata cultura greca,
Atene esercitava un’irresistibile forza di attrazione su quanti aspiravano
ad acquisire scienza e cultura
« Scuola di Atene », di Raffaello Sanzio – Stanza della Segnatura, Vaticano
Nella città di Tarso, luogo di passaggio per il commercio in Asia, il giovane Saulo certamente non ricevette soltanto la formazione giudaica tradizionale, ma deve aver studiato anche discipline elleniche, come la retorica. Nelle loro scuole, oltre all’alfabetizzazione, gli alunni apprendevano ginnastica e musica.

Proclamazione della Fede con saggezza e sagacia
Era giunto per l’Apostolo dei Gentili il momento di mettere a servizio della Fede quello che aveva appreso dalla stessa cultura greca. « Il vivere in una città ellenica e l’educazione ellenistico-giudaica del giovane Paolo gli conferirono la competenza per poter utilizzare, più tardi, come cristiano, con autonomia e come patrimonio personale, lo spirito e la tradizione dell’ellenismo ».8
Adattò le sue parole al pubblico che aveva davanti a sé e, contenendo l’indignazione che gli aveva causato l’idolatria degli ateniesi, cominciò a tessere loro le lodi della religiosità. Agendo così, commenta il Beato Giovanni Paolo II, rivelò saggezza e sagacia: « L’Apostolo mette in evidenza una verità che la Chiesa ha sempre conservato nel suo tesoro: nel più profondo del cuore dell’uomo è stato seminato il desiderio e la nostalgia di Dio ».9
Intanto, il suo sguardo indagatore aveva catturato un dettaglio che gli servì per introdurre il tema della sua predicazione. « Percorrendo la città e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio! » (At 17, 23). Su questo, lo studioso Schökel commenta: « L’esordio, come entrata nell’argomento, è magistrale. Come un saluto cortese e ambiguo, che si trasforma in critica e sa individuare un valore profondo ».10
La religiosità dei greci era, in quel tempo, orientata sotto una prospettiva fortemente politeista e pagana, essendo la profusione di divinità, da loro venerate, vincolata alle diverse vicissitudini che la vita presenta. Gli ateniesi immaginavano che dietro ad ogni avvenimento ci fosse sempre l’azione di un dio, e temevano che gli capitassero disgrazie a causa di qualche culto omesso o mal realizzato. Di qui il loro impegno nell’erigere altari anche al « dio sconosciuto », come spiega Fillion: « Abituati a vedere in tutto, specialmente nelle circostanze pericolose (guerre, terremoti, malattie, ecc.), la manifestazione della divinità, e sempre temendo di offendere qualche dio sconosciuto, essi ricorrevano a questo mezzo per rendersi propizi tutti gli dèi, grandi e piccoli, dai quali potevano temere un atto di vendetta o sperare un beneficio ».11

Anche noi siamo della stirpe di Dio
Nel seguito del suo discorso, l’Apostolo si scaglia contro l’idolatria: Dio, creatore di quanto esiste, Signore del Cielo e della Terra, « non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo « , e di niente ha bisogno, poiché è lui « che dà a tutti la vita » (cfr. At 17, 24-25). Subito dopo, introduce un argomento incoraggiante: il Dio vivo e vero non è un essere inaccessibile agli uomini; al contrario, Egli ci incita a cercarLo, anche se « a tentoni », perché in realtà Egli « non è lontano da ciascuno di noi » (cfr. At 17, 27).
Alcuni ateniesi lanciavano a San Paolo una delle accuse che cinque secoli prima portarono Socrate a morte in questa stessa città: quella di propagare il culto a dèi stranieri
Con l’obiettivo di aumentare l’effetto delle sue parole di fronte a quegli ascoltatori colti ed eruditi, San Paolo cita un verso del poeta greco Arato (sec. III a.C.) per affermare che « anche noi siamo della stirpe di Dio » (At 17, 29).12 Avvalendosi di quanto detto, l’Apostolo delle Genti mostra agli ateniesi come è poco saggio, per chi è « della stirpe di Dio », adorare immagini scolpite da mani umane.
Entrando nel merito del suo discorso, San Paolo presenta un argomento particolarmente sensibile per chi faceva parte del tribunale dell’Areopago: Dio li invita a pentirsi dell’idolatria, « poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia » (At 17, 31). Ma, al contrario di quanto avviene nei tribunali umani, l’ammonimento relativo a questo giudizio divino veniva unito alla speranza di un grande perdono, come osserva un illustre esegeta del XX secolo: « Si tratta di un dono che Dio fa della sua grazia e del suo perdono della vita precedente, trascorsa nel peccato, affinché gli uomini possano superare il giudizio ».13

Il fulcro della predicazione: Cristo è risuscitato
Fino a qui, San Paolo faceva il suo annuncio della Fede in termini principalmente filosofici, ma era giunto il momento di entrare nel fulcro della questione: Cristo risuscitò dai morti. Questa Resurrezione tante volte predicata da lui, come si legge negli ultimi capitoli degli Atti degli Apostoli, forse è ciò che più gli causò accuse e persecuzioni. Così afferma il domenicano Michel Gourgues: « La fede nella Resurrezione di Gesù e la speranza nella resurrezione dei morti si presentano con insistenza come l’oggetto centrale della Fede e della predicazione cristiana e come il principale motivo delle opposizioni e delle accuse contro Paolo ».14
San Paolo diede dappertutto testimonianza della Resurrezione di Cristo in una forma tale che egli ben meritava di esser soprannominato Apostolo della Resurrezione. « L’apparizione di Cristo risuscitato a Paolo vicino a Damasco è un’esperienza di vita chiave per la fede e per l’insegnamento dell’Apostolo ».15 Come avrebbe potuto lui, allora, stare zitto riguardo a questo favoloso avvenimento?
Invece, quando lo udirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni dei suoi ascoltatori si beffarono di lui ed altri interruppero il discorso, dicendo ironicamente: « Ti sentiremo su questo un’altra volta » (At 17, 32).
Gustavo Kralj

Così, dunque, i greci che credevano nell’immortalità dell’anima non furono capaci di accettare la resurrezione dei morti, cosa che oltrepassava i limiti della loro ragione, e per questo si presero gioco dell’Apostolo e della sua dottrina. Ma, questi stessi apologisti della sapienza e della logica non riuscivano a capire l’irrazionalità che presupponeva l’adorare dèi fatti di oro, argento, pietra o legno, prodotti dell’arte e dell’immaginazione dell’uomo.

Apparente insuccesso, risultati evidenti

Fu un insuccesso la predicazione di Paolo nell’Areopago?

Apparentemente, sì. Alcuni commentatori, anzi, furono indotti a pensare che la lettera scritta anni dopo alla comunità di Corinto avesse riconosciuto l’insuccesso di questo discorso: « Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. [...] La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza » (I Cor 2, 1-2.4a).
In realtà, San Paolo non fece invano questa sua fiera proclamazione di fede nella Resurrezione di Cristo. In primo luogo, il suo esempio serve da prezioso stimolo per quanti sono chiamati ad annunciare il Vangelo negli areopaghi paganizzanti di tutti i tempi e città. Oltre a questo, « alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro » (At 17, 34).
Degli altri convertiti, poco o nulla si sa. Ma prestiamo attenzione al soprannome di Areopagita, che indica trattarsi di un membro dell’elite intellettuale e giudiziaria della Grecia. Infatti, « questo titolo presuppone che Dionigi fosse un personaggio molto influente, poiché secondo le leggi di Atene, si arrivava a questa elevata posizione solamente dopo aver occupato un altro posto ufficiale importante e raggiunta l’età di sessant’anni ».16
©santiebeati.it

Così San Dionigi Areopagita entrò nella Storia come modello di pensatore convertito, che non ebbe bisogno di rinnegare la sua cultura e scienza per diventare cristiano. Al contrario, le sue notevoli qualità intellettuali e la vastità delle sue conoscenze giuridiche e filosofiche furono messe al servizio della Chiesa e caratterizzarono, senza dubbio, il suo ministero episcopale come primo Vescovo di Atene.

La Fede cristiana autentica non limita la ragione
Lo stesso avviene con qualsiasi popolo o nazione che decida di aprire le sue porte alle benefiche influenze della Chiesa. Insegna, a questo proposito, il Beato Giovanni Paolo II: « L’annuncio del Vangelo nelle diverse culture, esigendo da ognuno dei destinatari l’adesione alla Fede, non gli impedisce di conservre la propria identità culturale ».17
San Paolo si mostrò fedele all’annuncio della Buona Novella, adattandosi alle circostanze concrete che dovette affrontare ad Atene; fedele fu anche Dionigi, ricevendo umilmente la Rivelazione. Infatti, come ci insegna Papa Benedetto XVI, la tendenza moderna di considerare vero solamente lo sperimentale, limita la ragione umana. L’autentica Fede cristiana non impone limiti alla ragione, al contrario, incontrandosi e dialogando, entrambe possono esprimersi meglio. « La fede presuppone la ragione e la perfeziona; la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali. La ragione umana non perde nulla aprendosi ai contenuti della fede, d’altronde, essi esigono la sua adesione libera e cosciente ».18

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