Archive pour juillet, 2015

Jesus in boat with disciples

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Publié dans:immagini sacre |on 31 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2010 – (ANCHE PAOLO)

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BENEDETTO XVI – MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2010 – (ANCHE PAOLO)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 17 febbraio 2010

Cari fratelli e sorelle!

iniziamo oggi, Mercoledì delle Ceneri, il cammino quaresimale: un cammino che si snoda per quaranta giorni e che ci porta alla gioia della Pasqua del Signore. In questo itinerario spirituale non siamo soli, perché la Chiesa ci accompagna e ci sostiene sin dall’inizio con la Parola di Dio, che racchiude un programma di vita spirituale e di impegno penitenziale, e con la grazia dei Sacramenti.
Sono le parole dell’apostolo Paolo ad offrirci una precisa consegna: “Vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio…Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2Cor 6,1-2). In verità, nella visione cristiana della vita ogni momento deve dirsi favorevole e ogni giorno deve dirsi giorno di salvezza, ma la liturgia della Chiesa riferisce queste parole in un modo del tutto particolare al tempo della Quaresima. E che i quaranta giorni in preparazione della Pasqua siano tempo favorevole e di grazia lo possiamo capire proprio nell’appello che l’austero rito dell’imposizione delle ceneri ci rivolge e che si esprime, nella liturgia, con due formule: “Convertitevi e credete al vangelo!”, “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”.
Il primo richiamo è alla conversione, parola da prendersi nella sua straordinaria serietà, cogliendo la sorprendente novità che essa sprigiona. L’appello alla conversione, infatti, mette a nudo e denuncia la facile superficialità che caratterizza molto spesso il nostro vivere. Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù. E’ la sua persona la meta finale e il senso profondo della conversione, è lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandosi illuminare dalla sua luce e sostenere dalla sua forza che muove i nostri passi. In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e affascinante: non è una semplice decisione morale, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù. Convertirsi e credere al Vangelo non sono due cose diverse o in qualche modo soltanto accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà. La conversione è il “sì” totale di chi consegna la propria esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva. Proprio questo è il senso delle prime parole con cui, secondo l’evangelista Marco, Gesù apre la predicazione del “Vangelo di Dio”: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15).
Il “convertitevi e credete al vangelo” non sta solo all’inizio della vita cristiana, ma ne accompagna tutti i passi, permane rinnovandosi e si diffonde ramificandosi in tutte le sue espressioni. Ogni giorno è momento favorevole e di grazia, perché ogni giorno ci sollecita a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita, a imparare da Lui l’amore vero, a seguirlo nel compimento quotidiano della volontà del Padre, l’unica grande legge di vita. Ogni giorno, anche quando non mancano le difficoltà e le fatiche, le stanchezze e le cadute, anche quando siamo tentati di abbandonare la strada della sequela di Cristo e di chiuderci in noi stessi, nel nostro egoismo, senza renderci conto della necessità che abbiamo di aprirci all’amore di Dio in Cristo, per vivere la stessa logica di giustizia e di amore. Nel recente Messaggio per la Quaresima ho voluto ricordare che “Occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’amore di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare” (L’Oss. Rom. 5 febbraio 2010, p. 8).
Il momento favorevole e di grazia della Quaresima ci mostra il proprio significato spirituale anche attraverso l’antica formula: Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai, che il sacerdote pronuncia quando impone sul nostro capo un po’ di cenere. Veniamo così rimandati agli inizi della storia umana, quando il Signore disse ad Adamo dopo la colpa delle origini: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,19). Qui, la parola di Dio ci richiama alla nostra fragilità, anzi alla nostra morte, che ne è la forma estrema. Di fronte all’innata paura della fine, e ancor più nel contesto di una cultura che in tanti modi tende a censurare la realtà e l’esperienza umana del morire, la liturgia quaresimale, da un lato, ci ricorda la morte invitandoci al realismo e alla saggezza, ma, dall’altro lato, ci spinge soprattutto a cogliere e a vivere la novità inattesa che la fede cristiana sprigiona nella realtà della stessa morte.
L’uomo è polvere e in polvere ritornerà, ma è polvere preziosa agli occhi di Dio, perché Dio ha creato l’uomo destinandolo all’immortalità. Così la formula liturgica “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai” trova la pienezza del suo significato in riferimento al nuovo Adamo, Cristo. Anche il Signore Gesù ha liberamente voluto condividere con ogni uomo la sorte della fragilità, in particolare attraverso la sua morte in croce; ma proprio questa morte, colma del suo amore per il Padre e per l’umanità, è stata la via per la gloriosa risurrezione, attraverso la quale Cristo è diventato sorgente di una grazia donata a quanti credono in Lui e vengono resi partecipi della stessa vita divina. Questa vita che non avrà fine è già in atto nella fase terrena della nostra esistenza, ma sarà portata a compimento dopo “la risurrezione della carne”. Il piccolo gesto dell’imposizione delle ceneri ci svela la singolare ricchezza del suo significato: è un invito a percorrere il tempo quaresimale come un’immersione più consapevole e più intensa nel mistero pasquale di Cristo, nella sua morte e risurrezione, mediante la partecipazione all’Eucaristia e alla vita di carità, che dall’Eucaristia nasce e nella quale trova il suo compimento. Con l’imposizione delle ceneri noi rinnoviamo il nostro impegno di seguire Gesù, di lasciarci trasformare dal suo mistero pasquale, per vincere il male e fare il bene, per far morire il nostro “uomo vecchio” legato al peccato e far nascere l’”uomo nuovo” trasformato dalla grazia di Dio.
Cari amici! Mentre ci apprestiamo ad intraprendere l’austero cammino quaresimale, vogliamo invocare con particolare fiducia la protezione e l’aiuto della Vergine Maria. Sia Lei, la prima credente in Cristo, ad accompagnarci in questi quaranta giorni di intensa preghiera e di sincera penitenza, per arrivare a celebrare, purificati e completamente rinnovati nella mente e nello spirito, il grande mistero della Pasqua del suo Figlio.

0MELIA XVIII DOMENICA DEL T.O. : « QUESTA È L’OPERA DI DIO: CREDERE IN COLUI CHE EGLI HA MANDATO »

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2 AGOSTO 2015 | 18A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | APPUNTI PER LECTIO

« QUESTA È L’OPERA DI DIO: CREDERE IN COLUI CHE EGLI HA MANDATO »

Come già nella Domenica precedente, anche qui abbiamo un episodio dell’Antico Testamento che viene ripreso e commentato nel brano evangelico: il miracolo della manna, a cui una tradizione collaterale ha aggiunto anche l’episodio delle quaglie (Es 16,2-4.20-24), che però non ha avuto il successo di risonanza del primo. Le Apocalissi giudaiche infatti, che esprimono la speranza messianica all’epoca del Nuovo Testamento, contengono frequenti allusioni a questa attesa del « rinnovato » dono della manna. Anche l’Apocalisse di san Giovanni si rifà a questa attesa: « Al vincitore darò la manna nascosta » (2,17).

« Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi »
Nel racconto dell’Esodo è interessante notare che la manna è bensì un « dono » di Dio, concesso però non tanto alla fede degli Israeliti quanto alla loro diffidenza e al loro spirito di ribellione: « In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: « Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!… »" (Es 16,2-3).
Più che un gesto di benevolenza da parte di Dio, perciò, è un gesto di rimprovero, che doveva star sempre lì a ricordare agli Ebrei la loro infedeltà all’amore del Signore: anche se è vero che gli stessi rimproveri, specialmente quelli che vengono dal Signore, sono (o almeno possono essere!) espressione di amore.
C’è, inoltre, da osservare che l’iniziativa del miracolo non parte da Mosè, ma da Dio direttamente: « Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no… (così) saprete che io sono il Signore vostro Dio » (vv. 4.12).
È quanto Mosè stesso farà notare agli Israeliti allorché, sorpresi di questo strano cibo, « si dissero l’un l’altro: « Man hu: che cos’è? », perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: « È il pane che il Signore vi ha dato in cibo »" (v. 15).
Mosè dunque non è che l’intermediario del miracolo; anzi, lui stesso è fra i destinatari del dono del Signore.
Tutto questo è da tenere presente per comprendere non solo la superiorità del miracolo compiuto da Cristo, ma anche la sua contrapposizione a Mosè stesso quando dirà: « …non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo… Io sono il pane della vita » (Gv 6,32.35). Gesù, pertanto, si identifica con il « pane » che egli promette di dare ancora alla folla e di cui erano stati « segno » quei cinque pani e quei due pesci, che egli aveva moltiplicato per tutte quelle persone.

Il discorso « eucaristico » di Gesù
Ma veniamo al testo evangelico, che contiene le prime battute dialogate del grande discorso « eucaristico », che Gesù tenne nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,59).
Secondo lo stile o, meglio, secondo la trama del Vangelo di Giovanni, ci imbattiamo subito in quello strano e quasi fatale fatto di « incomprensione » fra Gesù e la folla, a cui abbiamo fatto riferimento in un precedente commento: ci sono come due piani che si sovrappongono sempre e non si raggiungono mai, pur attraverso un dialogo intenso che si muove continuamente. La gente non riesce a sollevarsi all’altezza di Gesù; prende sempre in senso riduttivo e materiale quello che egli fa e quello che egli dice. C’è come un muro di separazione fra i due!
Il problema è che Gesù sta sempre al di là dei suoi stessi « segni »: se non scatta la molla della fede, egli rimarrà sempre inafferrabile per i suoi interlocutori, quelli di ieri come quelli di oggi. È per questo che il tema della « fede » è fondamentale in tutto il discorso eucaristico, come vedremo subito: anzi, secondo alcuni studiosi, solo i versetti 51-58 sarebbero propriamente eucaristici e sarebbero stati inseriti qui posteriormente.
A noi, in questo momento, non interessano né tale questione, né altre questioni di carattere strutturale e di composizione letteraria: prendiamo il discorso così come è nella sua redazione finale, cercando di cogliere il significato di fondo del brano nella sua stesura definitiva, che possiede una sua meravigliosa dinamica interna di pensiero: solo la « fede » ci fa accedere al mistero di Cristo, di cui espressione più sfidante e significativa è l’Eucaristia, in quanto « segno » della sua « presenza » continua in mezzo a noi, soprattutto come « cibo » della nostra vita cristiana.

« Voi mi cercate non perché avete visto dei segni »
I versi iniziali ricollegano direttamente il brano con il precedente racconto della moltiplicazione dei pani. Non avendo più trovato Gesù, che si era ritirato « tutto solo » sulla montagna, per sfuggire all’entusiasmo fanatizzante della folla che voleva proclamarlo « re » (Gv 6,15), e quindi aveva raggiunto i suoi apostoli camminando sulle acque (6,16-21), la gente « salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Trovatolo di là dal mare, gli dissero: « Rabbì, quando sei venuto qua? »" (vv. 24-26).
C’era da rimanere commossi per questa volontà di « ricerca » di Gesù da parte della folla: ci si poteva intravedere un sentimento di gratitudine e di ammirazione nello stesso tempo. In realtà, era solo curiosità e ricerca dell’utile e del sensazionale! È quanto Gesù rinfaccia loro senza mezzi termini: « In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà… » (vv. 26-27).
Gesù li rimprovera dunque di non aver saputo « vedere » nella moltiplicazione dei pani il « segno » di una realtà più grande che, ovviamente, almeno allo stato attuale dei fatti, non è l’Eucaristia: come potevano allora pensare a una cosa del genere? La realtà « più grande » del pane che avevano mangiato era Cristo medesimo: come non percepire che lui valeva più del pane, che egli aveva moltiplicato in loro favore?
La loro colpa era precisamente questa: essersi fermati al « dono », invece che al « donatore », sul quale « il Padre Dio, ha messo il suo sigillo » (v. 27), cioè la potenza di compiere i « segni » della sua benevolenza e del suo amore. Per questo egli li invita a « procurarsi » (letteralmente: « impegnarsi per fare ») « non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà » (v. 27). Pur essendovi un riferimento all’Eucaristia, espresso da quel futuro (« vi darà »: alcuni codici hanno però il presente), il rimando immediato è ancora e solo a Gesù come oggetto primordiale della fede: è lui, nella sua persona concreta, il « cibo » vero che sazia tutti i desideri dell’uomo, anche quelli che vanno al di là della nostra stessa vita che si consuma giorno per giorno.

« Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? »
Gli interlocutori di Gesù hanno compreso che egli chiedeva loro qualcosa « di più » per avere altro pane, forse anche migliore. Perciò si dichiarano disponibili a « fare » quello che dipende da loro: « Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? » (v. 28).
In realtà Gesù chiedeva a loro qualcosa di più, non però nell’ordine delle « opere » che provengono dall’uomo, quasi che questi possa accreditarsi davanti a Dio, come dimostrano di credere i Giudei in linea con la loro tradizione religiosa. Il « di più » che egli chiedeva loro era di affidarsi esclusivamente a Dio, che indicava Gesù come colui nel quale egli aveva « messo il suo sigillo » (v. 27). È quanto Gesù specifica nella sua risposta: « Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato » (v. 29).
Non fare dunque le « opere », ma accettare soltanto « l’opera di Dio » in noi che ci indica Cristo come il suo « inviato », colui nel quale egli offre la salvezza agli uomini: come davanti al « cibo » non occorre altro che mangiarlo, così davanti a Cristo non c’è da fare altro che « accettarlo » come « l’inviato » del Padre. Però questa è « opera » talmente alta, che solo Dio può compierla in noi: ed egli la compie in chiunque è disponibile alle sue iniziative e docile alle sue indicazioni. Con le parole sopra citate perciò Gesù invita i Giudei a « credere » in lui: questo è l’unico modo di procurarsi « non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna » (v. 27).
A questo punto sembra che i suoi interlocutori abbiano afferrato il rimprovero e anche l’invito di Gesù a « credere »; però chiedono un « segno » ulteriore per potersi affidare a lui: « Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?… » (vv. 30-31).
Queste parole dànno l’impressione che la gente ignori il miracolo già avvenuto della moltiplicazione dei pani, e perciò alcuni studiosi ritengono che non siano al loro posto. A nostro giudizio, però, esse esprimono un’ulteriore « riserva » mentale di quella gente, che non è disposta a seguire Cristo oltre quello che essa può vedere e costatare: pane per pane, il miracolo della manna sembra più grande di quello operato da Cristo! Basti pensare alla durata di quel prodigio e al numero immenso di persone sfamate nel deserto, al tempo di Mosè.

« Il pane di Dio è colui che discende dal cielo »
È a questo punto che Gesù si pone al di sopra di Mosè, dichiarando che non è stato lui a compiere il miracolo della manna, come abbiamo già ricordato: « In verità, in verità: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (vv. 32-33).
La superiorità di Gesù su Mosè, però, non sta soltanto nel fatto che quest’ultimo non è il vero autore del miracolo, ma anche e soprattutto perché la manna non era il pane « vero »: essa era soltanto un « simbolo », una « figura » di quello che Dio avrebbe fatto, concedendoci Cristo quale « cibo » vero. In questo senso anche il miracolo della moltiplicazione dei pani era soltanto un « segno », un « simbolo » esso pure: rimandava a Gesù quale unico e vero « pane di Dio… che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (v. 33). Il « pane » perciò è una persona concreta, è Cristo che si dona agli uomini.
L’ultima richiesta della folla: « Signore, dacci sempre questo pane » (v. 34), dimostra ancora la incapacità dei Giudei a muoversi sul piano della fede: preferiscono il pane materiale, che Cristo è pur capace di dare, a quello « spirituale », che non è altri che lui stesso nella totalità del suo essere e del suo agire, ivi inclusa la potenza di fare i miracoli.
Questa « identificazione » di Gesù con il « pane vero », che già fin dal presente il Padre offre agli uomini senza attendere l’istituzione dell’Eucaristia e che era già nell’aria durante tutto il dibattito con i suoi ascoltatori, viene proclamata solennemente nella dichiarazione finale con cui si chiude l’odierno brano evangelico: « Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete » (v. 35).
È chiaro perciò che solo la fede può dare accesso al mistero di Cristo che, proprio in quanto Figlio di Dio fatto uomo, è « pane di vita » per gli uomini: l’Eucaristia darà evidenza plastica a questo concetto. Prioritaria su tutto, però, è la capacità di accettarlo già come « dono di vita » in se stesso.

« Rivestire l’uomo nuovo »
Chi è capace di questo è già « l’uomo nuovo », di cui ci parla san Paolo nella seconda lettura: « Voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4,20-24).
Scegliere Cristo significa rompere la propria solidarietà con il « vecchio uomo » di peccato, con il peccato del mondo per essere disponibili ad un continuo « rinnovamento » nello Spirito. Altrove san Paolo parla del cristiano come « nuova creatura » (2 Cor 5,17). È lo stesso concetto che viene espresso con formula leggermente diversa: non si può aderire a Cristo per la fede e non cambiare la struttura stessa del nostro essere e del nostro vivere!
Proprio perché lui è « pane che dà la vita » a chiunque gli si affida (v. 33), il cristiano si rinnova continuamente.

Da CIPRIANI S.,

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 31 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

Jesus with Praying Pope, Saint Peter and Saint Paul

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Publié dans:immagini sacre |on 30 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

«NON RISPARMIÒ NÉ ROMA NÉ IL POPOLO» (anche Paolo)

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STORIA tratto dal n. 09 – 2004

«NON RISPARMIÒ NÉ ROMA NÉ IL POPOLO» (anche Paolo)

L’incendio del luglio 64 da parte di Nerone e la conseguente persecuzione dei cristiani

di Marta Sordi

Fatta eccezione per Tacito (Annales XV, 38), che accanto alla versione dell’incendio provocato dolosamente da Nerone (dolo principis) conosce anche la versione di coloro che attribuivano al caso (forte) l’incendio stesso, tutte le fonti antiche lo attribuiscono con certezza a Nerone, dal contemporaneo Plinio il Vecchio, che è probabilmente alla base della tradizione successiva (Naturalis historia XVII, 1, 5), all’autore senechiano dell’Octavia, a Svetonio (Nero, 38), a Dione (LXII, 16, 18). Scoppiato il 19 luglio del 64, l’incendio durò, secondo Svetonio, sei giorni e sette notti, ma riprese subito, partendo dalle proprietà di Tigellino e alimentando così i sospetti contro l’imperatore, e si protrasse ancora per tre giorni, come risulta da un’iscrizione (CIL VI, 1, 829, che dà la durata di nove giorni).
I moderni tendono ormai a negare la responsabilità diretta di Nerone nell’incendio: tutte le fonti però sono d’accordo nel dire che furono viste persone che attizzavano l’incendio una volta che questo era iniziato. Per i colpevolisti essi agivano iussu principis, «per ordine dell’imperatore», per gli innocentisti, secondo i quali l’incendio era scoppiato per negligenza, per autocombustione, per il caldo estivo, per il vento, essi agivano «per poter esercitare più liberamente le loro rapine». Per Svetonio e per Dione, però, costoro erano cubicularii [camerieri] dell’imperatore e addirittura soldati, e la loro presenza poteva autorizzare i peggiori sospetti. Dal confronto fra Tacito e Svetonio risulta d’altra parte che misure precauzionali e interventi di soccorso furono interpretati come prove della colpevolezza di Nerone: in particolare l’abbattimento operato dai soldati col fuoco di edifici vicini a quella che sarà poi la Domus aurea e il divieto ai legittimi proprietari di avvicinarsi alle loro case per salvare il salvabile e per recuperare i morti, alimentarono molti sospetti. A tali sospetti contribuì anche l’attribuzione all’imperatore di un movente preciso: non tanto quello accettato come sicuro da Svetonio e da Dione, ma non da Tacito, del desiderio di veder perire Roma sotto il suo regno, come Priamo aveva visto perire Troia (desiderio coronato dal famoso canto), ma anche e soprattutto il disprezzo per la vecchia Roma, con le sue strade strette e i suoi vecchi edifici, e la volontà di cimentarsi in una grande impresa urbanistica, diventando il nuovo fondatore di Roma.
Tacito è il solo, fra le nostre fonti, a dire che Nerone, per far tacere le voci che lo accusavano dell’incendio, inventò la falsa accusa contro i cristiani (Annales XV, 44): la notizia viene a lui, certamente, dalla fonte colpevolista (per la fonte innocentista non c’erano colpevoli dell’incendio, scoppiato per caso), quindi, con ogni probabilità, da Plinio. Per Plinio, come per Tacito, i cristiani erano innocenti dell’incendio di Roma e il supplizio loro inflitto destava pietà, anche se i cristiani, incolpevoli dell’incendio, erano certamente colpevoli, per la nostra fonte, di una exitiabilis superstitio [funesto culto]. La testimonianza di Tacito, chiaramente ostile ai cristiani per la loro superstitio, ma convinto della loro innocenza nell’incendio, mostra l’infondatezza dell’ipotesi di coloro, fra i moderni, che accusano i cristiani di avere incendiato Roma per la loro fede nella imminente parusìa [ritorno di Cristo sulla terra].
La distinzione fra la falsa accusa di incendiari, che colpì secondo Tacito i soli cristiani di Roma, e quella di superstitio illicita [culto illecito], la sola nota a Svetonio (Nero, 16,2), che colpì i cristiani di tutto l’Impero, non è, come spesso si crede, il risultato di due versioni del medesimo fatto raccontato da fonti diverse, ma l’effetto di due decisioni diverse, di cui la seconda è certamente anteriore alla prima. La Prima Lettera di Pietro (4,15), che è a mio avviso databile fra il 62 e il 64, prevede la possibilità che i cristiani possano essere incriminati come cristiani non solo a Roma ma in tutto l’Impero, e presuppone un’ostilità largamente diffusa (cfr. 1Pt 4,12), che ben si adatta alle accuse di flagitia [crimini infamanti], che secondo Tacito rendeva invisi al vulgus [la gente comune] i cristiani. Ma se l’atmosfera della Prima Lettera di Pietro è quella presupposta da Tacito, l’incriminazione per cristianesimo è certamente quella nota a Svetonio e non può riferirsi ad un editto imperiale (come l’incriminazione per l’incendio di Roma), ma solo a un senatoconsulto, a cui spettava, in età giulio-claudia, decidere sulle questioni religiose. L’institutum [istituzione] di cui parla Svetonio, l’institutum Neronianum di cui parla Tertulliano (Ad nationes I,7,14), non è un editto né un senatoconsulto, ma un precedente di fatto: è l’applicazione che, primo fra gli imperatori, Nerone, dedicator damnationis nostrae (autore della nostra condanna, Tertulliano, Apologeticum V,3), diede, subito dopo il 62, del senatoconsulto con cui era stata rifiutata nel 35 la proposta di Tiberio di riconoscere la liceità del culto di Cristo e che aveva fatto del cristianesimo una superstitio illicita in tutto l’Impero. Il veto tiberiano ne aveva bloccato l’applicazione e la situazione era rimasta immutata sino al 62, quando l’uccisione, nella stessa Giudea, decisa dal sommo sacerdote Ananos, di Giacomo il Minore fu resa possibile solo dalla momentanea assenza del governatore romano. Ma nel 62 si verificò una svolta decisiva, non solo nei rapporti fra l’Impero e i cristiani, ma in tutta la politica di Nerone: è questo il momento del ritiro dalla vita politica di Seneca, della morte di Burro, sostituito nella Prefettura del pretorio da Tigellino, del ripudio di Ottavia e delle nozze con la giudaizzante Poppea, della rottura con gli stoici della classe dirigente e dell’abbandono definitivo della linea giulio-claudia del principato per un dominato di tipo orientalizzante e teocratico. Cristiani e stoici furono colpiti negli stessi anni e insieme criminalizzati davanti all’opinione pubblica: aerumnosi Solones [Soloni tormentati] erano, secondo Persio (Satirae III, 79), gli stoici nel giudizio della gente ignorante, saevi Solones (Soloni spietati) sono definiti i cristiani in un graffito di Pompei: secondo la Prima Lettera di Pietro (4,4) essi sono calunniati «perché non partecipano con gli altri al disordine delle sregolatezze». Il clima nel quale queste accuse furono formulate è lo stesso: contro gli stoici della classe dirigente fu usata l’arma politica della lex maiestatis [legge per la difesa dello Stato]; contro i cristiani bastò riesumare il vecchio senatoconsulto del 35.
La prima vittima della decisione neroniana di incriminare i cristiani sulla base del vecchio senatoconsulto fu, a mio avviso, Paolo, che era ben noto negli ambienti della corte: questa incriminazione è testimoniata dalla Seconda Lettera a Timoteo, scritta nell’autunno di un anno che potrebbe essere il 63 (cfr. 2Tm 4, 21). Paolo è di nuovo in prigione a Roma, ma questa volta è in attesa di una condanna, ma non certamente per l’incendio (proprio perché si tratta di una prigionia “civile” Paolo può chiedere dei libri e un mantello). L’arresto e la condanna di Pietro dovettero avvenire invece, insieme a quella degli altri cristiani di Roma, dopo l’incendio del 64: il suo martirio, avvenuto per crocifissione negli horti neroniani [i giardini di Nerone], non può essere separato, come rivela il confronto fra la descrizione di Clemente Romano (1Cor 5) e quella di Tacito (Annales XV, 44), da quello della multitudo ingens­ – poly plethos [enorme moltitudine] che Nerone offrì come spettacolo, insieme ad un circense ludicrum (spettacolo circense), al popolo di Roma, mettendo a disposizione hortos suos [i suoi giardini]: la Guarducci ha pensato alle feste del 13 ottobre 64, qualche mese dopo l’incendio, quando il persistere dei sospetti contro l’imperatore poté consigliare a quest’ultimo di cercare capri espiatori.

BUONA NOVELLA COME MOSSA CONTRARIA AL TIMORE DI DIO – ERNST BLOCH,

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126277

BUONA NOVELLA COME MOSSA CONTRARIA AL TIMORE DI DIO

ERNST BLOCH,

Poiché se il mondo non fosse in pessime condizioni non vi sarebbe bisogno di alcun Messia. Molto ha indugiato Gesù prima di presentarsi come tale: egli si considerò dapprima un discepolo del Battista, e ricevette il battesimo, poiché si sentiva impuro.

Doveva infine giungere qualcuno in grado di rendere curva la retta. Da sempre fu atteso un uomo siffatto prima dall’alto, ma poi, quando non avvenne nulla, dal basso. L’eroe doveva venire dai giudei,ed essere un inviato, ma svolgere meglio il suo incarico di chi lo fa per necessità.
Poiché se il mondo non fosse in pessime condizioni non vi sarebbe bisogno di alcun Messia. Molto ha indugiato Gesù prima di presentarsi come tale: egli si considerò dapprima un discepolo del Battista, e ricevette il battesimo, poiché si sentiva impuro.
La storia della tentazione (Mt 4,3-6) mette in luce la convinzione di Gesù che sia proprio del diavolo il volersi chiamare figlio di Dio, e Pietro, il primo che lo chiama Cristo, viene perciò duramente attaccato (Mc 8,33). Sembra che in primo luogo siano state la «trasfigurazione» di sei giorni e la voce udita fuori delle nuvole (Mc 9,1-7) a portare Gesù alla coscienza della missione che tutto sorpassa. E già qui appare chiaro: la missione invero era dolce, ma per nulla intesa come un puro fatto interiore, quale si volle far apparire una volta che fallì. Infatti all’entrata in Gerusalemme Gesù accolse l’osanna che era pur sempre il vecchio grido del re del popolo. Esso era politicamente chiaro, perché si volgeva contro Roma: «Sia lodato il regno del nostro padre Davide» (Mc 11,10), «Osanna a colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele» (Gv 12,13).
Davanti al sommo sacerdote Gesù si professa senza esitare come il Messia non solo in senso spirituale e astratto, ma con tutti i segni di potenza tramandati ed attesi sin dai tempi di Daniele (Mc 14,62). Davanti a Pilato Gesù assume il titolo di re dei giudei; sotto il quale fu crocefisso poiché la croce era la punizione romana per la rivolta. Se fosse giusta l’idea che Gesù non volle essere l’atteso Messia giudeo, allora non si saprebbe come mai egli avesse esitato a dichiararsi il Messia, ed a che scopo avesse superato tale esitazione. Si sarebbe chiamato un uomo buono, un curatore d’anime e, al massimo, un seguace dei vecchi profeti; certo non, sarebbe stata necessaria alcuna allucinazione dal cielo per decidersi a questo rischio: Tu es Christus.
Gli illuministi in primo luogo, poi – con minore innocenza – i teologi liberali antisemiti hanno in tal modo staccato Gesù dal sogno giudeo del Messia, cioè a dire dalla escatologia anche politica. Ciò purtroppo inizia con la Vita di Gesù di Renan, fu scientificamente preparato da Holtzmann, Wellhausen, Harnack, e si concluse con il Cristo della pura interiorità.
Wellhausen ne tratta nel modo più ignobile dicendo a proposito del re dei giudei: «Il regno che egli aveva in mente non era quello in cui i giudei speravano. Egli riempiva la sua speranza e il suo desiderio rivolgendoli ad un altro ideale di ordine più alto. Solo in questo senso può essersi chiamato il Messia: che essi non dovevano aspettare nessun altro; egli non era colui che da loro era desiderato ma era il vero che essi dovevano desiderare. Se dunque si lascia alla parola il significato in cui essa fu generalmente intesa – cosa che realmente va fatta – allora Gesù non è stato il Messia e non ha voluto esserlo.
Il suo regno non era di questo mondo, cioè egli sostituiva qualcosa di totalmente diverso al posto della speranza del Messia» (Israelitische und judische Geschichte [Storia israelitica e giudea], 1895, p. 349). In questo modo viene gettata fuori dagli Evangeli l’escatologia, sebbene essa appartenga alle parti filo logicamente meglio testimoniate, e Gesù avrebbe annunciato un regno di Dio per così dire puramente etico, fuori del tutto dal sogno apocalittico, in cui fin da Daniele tutta la religiosità giudaica viveva.
È merito di Albert Schweitzer (Das Messianitäts- und Leidensgeheimnis [Il segreto della messianità e della passione], 1901) di avere ricollocato anche la teologia liberale nelle sue giuste proporzioni: Gesù ha posto l’etica (intesa come penitenza e preparazione al regno) all’interno dell’escatologia, non l’escatologia all’interno dell’etica. L’escatologico non è invero neppure da Schweitzer còlto nella sua realtà politica terrestre, ma esclusivamente in quella soprannaturale, troppo limitatamente soprannaturale, troppo lontana insieme dal nuovo cielo e dalla nuova terra; comunque è il regno che viene che in Gesù vale come elemento primario, non l’amore.
Il tendere verso l’amore consegue solo dal tendere verso il regno e il regno come evento cosmico catastrofico non è per nulla un evento della psicologia ma un evento del cosmo, che si apre verso la nuova Gerusalernme. Gesù vide in genere che nessun tempo rimaneva per un disfattismo della pura interiorità, poiché egli viveva totalmente ce nel senso migliore secondo l’annuncio pubblico profetico del Battista: «Fate penitenza, il regno dei cieli è giunto presso di voi». Egli invia (Mt 10) i suoi discepoli a due a due nelle città giudee, perché diffondano la notizia; e li prepara alla calamità messianica imminente in cui essi come gli altri eletti troveranno dura persecuzione e forse la morte.
Egli non si aspetta nemmeno che i superstiti tornino da lui dopo che se ne sono andati, talmente è prossima per lui la fine del mondo, e l’avvento del mondo nuovo: «Voi non farete il giro delle città di Israele prima che venga il figlio dell’uomo» (Mt 10,23). Lo stesso «padre nostro» contiene così un legame immediato con le calamità dell’éschaton incombente; solo una traduzione falsa vi può leggere mera interiorità. «E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»: tentazione (peirasmós) non significa qui individuale seduzione al peccato, ma tribolazione, calamità escatologica, persecuzione attraverso l’Anticristo alla fine dei giorni.
Questa persecuzione deve essere eliminata, questo calice deve passare, il nuovo eone deve venire alla luce e la sua irruzione non deve lasciare tempo, troppo lungo tempo, ad una controrivoluzione. La fede di Gesù di essere il portatore del nuovo eone era così certa che lo abbandonò solo sulla croce nell’istante più terribile che mai un uomo abbia vissuto, insieme con il tormento della morte e più forte di esso, nel grido di disperazione tutto concreto: «Mio Dio perché mi hai abbandonato?». Così può gridare solo chi vede svanita la sua opera che abbisognava di una preparazione concreta; questo non è il grido di un semplice condottiero di anime e di un re celeste del puro sentimento.
L’annuncio agli oppressi ed ai miseri era pieno di un impulso sociale nazireo-profetico e non di brame di morte o di consolazione altamente spirituale. «Egli predicava come uno che ha forza e non come gli scribi» (Mt 7,29) e senz’altro non come il Cristo sublimato che riflette i semplici toni dell’anima, e quindi della spiritualità e dei sentimenti per così dire eterni. Il lógion (Mt 11,25-30) è un grido di giubilo politico e religioso, esso indica nella maniera più inequivocabile l’avvento del Messia-re, e la sua ultima frase è un condono: «Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero». Queste parole non volevano intendere di certo il giogo della croce, il meno soave e il meno leggero di tutti i pesi, che invero non avrebbe mai annunciato la buona novella.
Dal punto di vista soggettivo Gesù si ritenne il Messia nel senso assolutamente tradizionale, così come oggettivamente egli meno che mai appare un imboscato in una interiorità che non si manifesta o il furiere di un regno dei cieli affatto trascendente. Al contrario la salvezza annunciata come Canaan, come il compimento di ciò che era stato promesso ai padri, senza caducità, senza trivialità, senza perdita, un Canaan superato in quintessenza: «Nessuno avrà abbandonato casa, moglie, fratelli, parenti o bambini senza ricevere ben di più in questo tempo, e nell’eone futuro la vita eterna» (Lc 18,29 ss.).
Nella mera attesa del Messia v’era già interiorità a sufficienza, così come nel creduto al di là v’era cielo più che a sufficienza; era la terra che aveva bisogno del salvatore e dell’evangelo. E se ancora vi fosse un dubbio se Gesù – prima della catastrofe della croce – volesse apparire come reale salvatore, questo dubbio sarebbe eliminato dalla stessa parola evangelo. Gesù, che non sdegnò nemmeno di agire come medico taumaturgo, usa la parola evangelo significando una guarigione miracolosa in tutta la terra attraverso il regno di Dio (Mc 1,15). Egli invia al nazireo Giovanni in carcere la seguente definizione per nulla interiore: «I ciechi vedono e gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti e i sordi sentono, i morti risuscitano e la buona novella è annunciata ai poveri» (Mt 11,5).
Anche se dovesse apparire che alcuni passi – dove Gesù troppo parla dell’evangelo come di un’eredità da raccogliere (Mc 13,10; 14,9) siano stati semplicemente un’interpolazione successiva, nonostante ciò il termine stesso di evangelo non è di tarda formazione e non può apparire come dice John Weiss una «semplice espressione del linguaggio missionario», post crucem e dunque spirituale. Piuttosto tale espressione fiorì proprio nel tempo di Gesù inequivocabilmente come parola di salvezza politica e religiosa per la fine della concreta miseria, per l’inizio della concreta felicità.
E non solo i giudei oppressi, ma anche i restanti popoli dell’Oriente nutrirono allora una speranza o un sentimento d’avvento in contanti. Persino i sazi romani loro oppressori usarono la parola evangelo come parola di pace, come pubblica parola di felicità di stile sibillino (sullo sfondo della deserta insicurezza nell’ultimo secolo della repubblica); nota rimase la profezia di un divino fanciullo regale in Virgilio, nella quarta egloga, riferita ad Augusto: «Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo [...]redeunt Saturnia regna» cioè: gli aurei tempi di Saturno, i Saturnali, ritornano; questo e nessun altro è qui il significato dell’evangelo.
Una pietra d’altare nella Priene dell’ Asia Minore celebra la data di nascita di Augusto letteralmente come un inizio degli evangelia per il mondo, come se vigesse l’età dell’oro. Dunque la parola s’introdusse anche in Palestina, in un mondo che più che mai aveva posto per una buona novella, entrandovi come una parola di felicità di carattere politico-sociale non mercanteggiabile con tutto il resto. Si legò senza rotture con l’Olam-ha-Schalom, con il regno della pace del messianismo tradizionale nei profeti.
Non avrebbe potuto legarsi con l’interiorità fine a se stessa o con il culto dell’al di là; perciò nel linguaggio della missione si rese proprio necessaria quella generale inversione di significato a cui Gesù non ha mai messo mano. Sì, anche i cristiani delle catacombe che non si erano affatto rifugiati placidamente in un dualismo trascendente e neppure fecero pace con Nerone ed il suo regno: in caso contrario essi non sarebbero stati di certo gettati in pasto alle sue fiere. E questo impulso di Cristo, nient’affatto zoppo, non è stato certo il meno importante fra i motivi che hanno ispirato la guerra dei contadini, una guerra, non a caso, praticamente chiliastica.
Nella sua primitiva autenticità l’evangelo era identico con il senso reale che sovverte: «Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è giunto vicino» (Mc 1,15). In summa sia l’evangelo sia il Messia stanno a significare che Gesù non ha inteso addolcire il suo ufficio relegandolo fuori dal mondo.

(L’autore) I filosofi e Cristo – autore: Ernst Bloch

Publié dans:FILOSOFIA (studi interessanti) |on 30 juillet, 2015 |1 Commentaire »

Jesus and Joseph the carpenter

 Jesus and Joseph the carpenter dans immagini sacre 5ee0a09b310997bf083ecfd8f194ffc8
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Publié dans:immagini sacre |on 29 juillet, 2015 |Pas de commentaires »
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