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“I VIAGGI MISSIONARI DI PAOLO”

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“I VIAGGI MISSIONARI DI PAOLO”

Duemila anni fa Paolo ha macinato quasi 14 mila chilometri: è stato uno che, per quel tempo e in quelle condizioni, ha viaggiato tanto. Ma cosa spingeva questo uomo a fare tutto quello che ha fatto? Io credo che ci sono molte cose di Paolo che fanno si che sia veramente un uomo del nostro tempo: noi abbiamo molte cose in comune con lui. Duemila anni fa Paolo ha macinato quasi 14 mila chilometri: è stato uno che, per quel tempo e in  quelle condizioni, ha viaggiato tanto. Ma cosa spingeva questo uomo a fare tutto quello che ha fatto? Io credo che ci sono molte cose di Paolo che fanno si che sia veramente un uomo del nostro tempo: noi abbiamo molte cose in comune con lui. La prima è questa: non sappiamo se Paolo abbia conosciuto Gesù quando Gesù viveva sulla terra. Quindi Paolo, come noi, è uno che è arrivato alla fede grazie all’esperienza del Risorto: un incontro con il Cristo risorto gli ha cambiato tutta la vita. Questa esperienza, leggendo gli scritti di Paolo, sembra che sia stata una grande esplosione di libertà. Per poter amare uno deve essere libero: la libertà è una condizione dell’amore, non si può amare in una forma obbligata.  A me piace descrivere Paolo come un ‘postmoderno’, perché racchiudeva in sé le culture del suo tempo. Era un ebreo nato in una città greca – Tarso (nel sud della Turchia) – e allo stesso tempo era anche un cittadino romano, quindi aveva dentro di sé la confusione del suo tempo e ha fatto una scelta come quelle che vediamo fare anche oggi: è andato a cercare le sue radici. Per questo motivo ha lasciato la sua terra per andare a Gerusalemme a studiare sotto i Farisei. E’ andato alla migliore scuola che c’era in quel tempo, quella di Galaliele, che era tra i più grandi latini presenti a Gerusalemme in quel tempo. In questo modo ha voluto affermare la sua identità. Nella lettera ai Filippesi Paolo descrive il suo curriculum vitae dicendo: “Io sono ebreo, nato da ebrei della tribù di Benjamin, fariseo di Farisei irreprensibile”.  Teneva veramente a tutte le sue credenziali e per questo quando ha visto nascere all’interno della comunità degli Ebrei una nuova corrente che sembrava una nuova setta – il Cristianesimo- ha voluto perseguitare e cancellare quello che appariva un momento di divisione. Paolo compare nella Sacra Scrittura per la prima volta negli atti degli Apostoli, dove si racconta di un giovane chiamato Saulo che chiese il permesso di andare a Damasco per perseguitare i Cristiani. Ed è lì che avvenne l’esperienza forte della sua vita: fu accecato lungo il cammino verso Damasco e la tradizione rappresenta questo episodio con l’immagine di Paolo che cade dal suo cavallo. Un aspetto curioso sta nel fatto che nel Nuovo Testamento non si fa menzione del cavallo, ma gli artisti hanno sempre rappresentato il momento della caduta.  In quell’esperienza ci sono cose molto interessanti. Paolo che credeva di vedere con chiarezza, di avere tutte le certezze, viene colpito proprio nella vista. Questo vuol dire che spesso uno crede di avere tutte le certezze ma in realtà non sta veramente vedendo. Da qui nasce tutta l’esperienza di Paolo. In questo momento di buio venne chiamato Anania, a cui il Signore disse di andare a battezzare Paolo e Anania inizialmente resistette ma alla fine lo battezzò. Poi il Signore disse a Paolo “Io ti ho scelto per essere un mio testimone davanti a tutte le genti”. Quindi Paolo ebbe un primo contatto con i discepoli, che hanno guardato verso di lui con un po’ di sospetto. La sua accettazione all’interno della comunità non è avvenuta immediatamente. Per questo Paolo si ritirò verso il deserto dell’Arabia, per meditare sull’esperienza avuta e per lasciarla crescere. Anche questo è molto interessante per noi, perché spesso pensiamo che la conversione sia una cosa che avviene automaticamente, da un giorno all’altro, ma purtroppo le cose non funzionano così. Ci vuole tempo e anche sforzo per approfondire e lasciare che quest’esperienza prenda forza dentro di noi.  Paolo visse la sua esperienza nel momento in cui c’era Barnaba e Barnaba andò a cercarlo a Tarso e lo portò nella comunità di Antiochia di Siria, dove Paolo cominciò a fare vita di comunità all’interno di questa comunità che ha dato il nome di Cristiani ai seguaci di Cristo, prima chiamati discepoli del Nazzareno. In quella comunità Paolo e Barnaba ricevettero la chiamata di andare a predicare il Vangelo e di rendere testimonianza della Risurrezione. Durante il primo viaggio Paolo e Barnaba portarono con loro Marco, che la tradizione identifica come colui che dopo fu l’interprete di San Pietro a Roma ed è l’autore dell’omonimo Vangelo. Ma poi Marco li abbandonò e quando arrivò il momento del secondo viaggio le strade di Barnaba e di Paolo si separarono e questo divenne l’occasione per diffondere di più il Vangelo, perché Barnaba andò verso Cipro e Paolo verso l’Asia Minore. In questo modo, passando attraverso la zona di Filippi (oggi la regione di Chetala in Grecia) Paolo entrò in Europa. Poi si diresse verso il centro della cultura – Atene – e lì cercò di convincere i Greci a convertirsi al Cristianesimo, anche utilizzando un approccio filosofico. Nell’Areopago di Atene disse “Voi adorate un Dio ignoto” e citò i pensatori greci, poi quando arrivò il momento di parlare di Risurrezione i presenti gli dissero che non volevano più ascoltarlo e lui si rese conto che era chiamato non tanto a convincere con gli argomenti quanto ad essere testimone del Vangelo della Risurrezione. Così quando più tardi nella sua vita scrisse ai Corinzi disse “Quando sono venuto in mezzo a voi non sono venuto con grande sapienza ma con umiltà, come testimone del Cristo crocifisso”.  Paolo ha dovuto imparare qual è il cammino dell’apostolo e questo vale anche per noi, che spesso pensiamo che dobbiamo convincere tutte le persone a forza di argomenti, affinché vedano che noi siamo coloro che posseggono la verità. Ma in realtà è la verità che possiede noi, che ci ha cooptato, e noi siamo suoi servitori. Per tanto quello che siamo chiamati a fare è rendere testimonianza di ciò che abbiamo conosciuto e toccato con le nostre mani, e rendere testimonianza vuol dire avere vissuto un’esperienza. Quindi per essere veri testimoni dobbiamo entrare in profondità in questa esperienza. Così Paolo cominciò a diffondere il Vangelo. Secondo gli storici la prima cristiana europea fu una donna, Lidia, e dalle parti di Chetala c’è una chiesa dedicata proprio a questa prima cristiana. Dopo l’ingresso nel continente europeo Paolo viaggiò fino ad arrivare a Roma. Esiste però un altro viaggio di Paolo, che io definisco il suo viaggio più lungo, ed è quello interiore. Noi di solito parliamo dei viaggi apostolici, ma lui ha fatto un viaggio interiore molto più avventuroso di tutti gli altri: quello di passare dalla religione ebraica al Cristianesimo. E in questo viaggio credo che abbia scoperto cose che sono state veramente sconvolgenti per lui, perché si era affidato ad una serie di leggi per trovare le certezze – alla dottrina dei Farisei – ma poi dopo l’incontro con Gesù si rese conto che l’uomo non può essere salvato da una serie di cose scritte. Serve un altro uomo, un Dio-uomo, ed è solo nell’incontro con un’altra persona, se questa è Dio stesso, che l’uomo fa veramente un’esperienza piena dell’amore. Questo è avvenuto nella vita di Paolo: è stata un’esperienza talmente forte che lui ha sentito il bisogno di condividerla con tutte le persone che incontrava ed è per questo che si è dedicato a viaggiare tanto. Ed è bello vedere che ha avuto, grazie al suo incontro con Cristo, una trasformazione nella sua personalità: all’inizio era un po’ spigoloso come persona, non era facile, ma con il passare del tempo è diventato molto dolce. Se si prendono le sue ultime lettere, quelle a Timoteo, si vede che scrive quasi come un padre anziano a suo figlio, dandogli dei consigli. Lui stesso dice: “In me la grazia di Dio non è stata vana”. Infatti la grazia di Dio ha saputo ammorbidire questo uomo che era così duro. C’è stata una crescita spirituale nella sua vita, fatta anche di momenti di lotta. Basti pensare che nella lettera ai Romani dice: “Io con il mio spirito e la mia anima voglio fare quello che Dio vuole, ma allo stesso tempo mi trovo a fare quello che non devo fare”. E questa è la lotta che vive ciascuno di noi: spesso sappiamo quello che dobbiamo fare, il problema è che non lo facciamo. Solo Gesù può liberaci. Paolo, quindi, si affida al Signore e per questo ciascuno di noi, cercando di entrare nella sua esperienza interiore, può trovare tanti spunti per la sua vita. Paolo ha avuto anche problemi all’interno della Chiesa e credo che anche questo sia molto importante per noi, perché spesso ci sono persone che vivono della difficoltà all’interno della Chiesa e decidono di allontanarsi. Questo, però, non deve succedere. Anche Paolo ha avuto da discutere con Pietro, ma non ha detto “Vado via e mi faccio la mia chiesa”, al contrario ha lottato per l’unità, anche nelle differenze di posizione. Nella lettera ai Galati dice “Pietro è venuto qui, gli ho detto tutto quello che dovevo dirgli”, ma  rimane fedele a Cristo e alla sua Chiesa. Queste sono  per noi lezioni di un’attualità enorme. Avendo questa vocazione che il Papa ci ha concesso – di vivere un anno Paolino – noi dobbiamo riscoprire questa figura, conoscerla da vicino e questo dovere incombe soprattutto sui romani, perché Paolo era cittadino romano, ha vissuto in questa città ed ha dedicato una bella lettera di Romani.   Paolo a Roma  Paolo a Roma arrivò come prigioniero. Quando tornò a Gerusalemme, alla fine del suo secondo viaggio, venne preso come prigioniero e da Cesaria Marittima venne trasportato fino a Roma, passando per Malta, Siracusa e Pozzuoli. Gli storici dicono che nel primo periodo visse nella zona tra Largo di Torre Argentina e Campo de’ Fiori, dove c’è la chiesa di San Paolo alla regola che commemora la sua presenza. La chiesa si trova all’interno del vecchio quartiere dei tessitori: Paolo, infatti, era un tessitore di tende. Lì visse come prigioniero. In quel tempo le prigioni erano gestite anche da imprese private, c’erano persone che avevano delle carceri e si offrivano di prendere i prigionieri. Anche Paolo finì in una casa privata e fu soggetto a restrizioni. Ebbe anche contatti con la comunità di Roma e da qui cominciarono a sorgere le prime comunità cristiane.  Poi ci fu un periodo in cui ebbe la possibilità di viaggiare da Roma fino a Santiago: c’è una tradizione in Spagna che ricorda un passaggio di Paolo. Ma durante la persecuzione di Nerone Paolo si trovava nuovamente a Roma, viveva in una casa che, secondo gli storici, è identificabile con la Chiesa di Santa Maria in via Lata, sull’attuale Via del Corso. A Roma fu condannato e ucciso, nel luogo in cui sorge oggi l’Abbazia delle Tre fontane, e il suo corpo fu depositato nella attuale Chiesa di San Paolo fuori le mura, dove ancora ci sono il sarcofago e le catene con cui era stato legato. Un altro luogo importante è il Carcere Mamertino nei Fori imperiali, in cui Paolo e Pietro furono tenuti prigionieri. Pietro venne, poi, crocifisso perché non era cittadino romano, mentre Paolo fu decapitato e, secondo la tradizione, quando gli tagliarono la testa questa rimbalzò facendo sgorgare le tre fontane.  A Roma ci sono tante testimonianze della presenza di Paolo e dei pellegrini che, sin dal II secondo secolo, venivano a Roma per venerare i resti di Pietro sul colle Vaticano e di Paolo sulla via Ostiense, a San Paolo fuori le mura. E questa tradizione è rimasta ininterrotta fino ai nostri giorni. Nel ricordare la figura di Paolo è bello che anche noi cerchiamo di conoscere questi luoghi, perché sono legati alla sua vita. Per questo noi dell’Opera Romana Pellegrinaggi abbiamo creato un itinerario Paolino da fare con i nostri autobus scoperti bianchi e gialli – si chiamano Roma Cristiana – che girano per la città. All’inizio dell’itinerario si riceve una scheda (la “Paolina”), su cui si attacca un adesivo man mano che si percorrono le diverse tappe. E’ una piccola proposta per aiutare chi vuole vivere questa esperienza di Paolo a Roma.   Itinerari Paolini nel mondo Naturalmente ci sono anche molti altri pellegrinaggi che stiamo proponendo sulle orme di Paolo. Quest’anno in particolare proponiamo la possibilità di seguire le sue orme in Turchia, in Grecia e in Siria, dove ci sono ancora la Via Dritta menzionata negli atti degli apostoli e la casa di Anania. La Siria è una nazione islamica, ma molto rispettosa, tanto che il governo siriano ha accolto l’idea del Santo Padre di lanciare l’anno Paolino e lo sta celebrando ufficialmente. Sono stati ripristinati i luoghi legati a San Paolo e si può anche andare alla chiesa che commemora il luogo della sua caduta o alla parte delle mura della città di Damasco da cui Paolo scappò perché cercavano di ucciderlo. La Siria offre anche un altro dato interessante. Gesù parlava l’aramaico che era la lingua della gente, mentre l’ebraico era la lingua ufficiale della preghiera, e uno dei luoghi del mondo in cui oggi si conserva ancora quella lingua è Malula in Siria. Andare lì a sentire le persone che pregano il Padre Nostro in aramaico ti fa pensare quasi di sentire come Gesù l’avrebbe insegnato ai suoi discepoli.  Un altro posto interessante è Malta, dove si trova la grotta del naufragio di San Paolo. L’anno prossimo proporremo a tutte le persone che già hanno fatto l’esperienza del pellegrinaggio in Terra Santa di continuare a seguire le orme del Cristianesimo, perché se Gesù è vissuto in Palestina, il passo successivo della Chiesa, subito dopo la risurrezione, fu quello di dar vita ad un movimento che si spinse verso l’Asia Minore, per poi arrivare a Roma. Quindi se uno vuole veramente sapere come la fede si è diffusa da Gerusalemme fino ai confini della terra può anche seguire la traccia dei viaggi di Paolo e gradualmente arrivare a vedere come la fede è arrivata qui a Roma e da qui, con l’impulso missionario, è poi ripartita per le diverse parti del mondo. Credo che questa occasione – che il Papa ha definito ecumenica – sia importante in diversi sensi perché ci dà la possibilità di conoscere le Chiese ortodosse, che condividono con noi tutto tratte il fatto di riconoscere il Papa come capo della Chiesa. Ci sono diverse tradizioni, perché loro hanno la liturgia di San Giovanni Crisostomo mentre noi utilizziamo quella latina, però è bello imparare anche cose diverse. Anche scoprire la chiesa orientale, che ha sviluppato molto la parte contemplativa. Giovanni Paolo II parlava di una Chiesa che respira con due polmoni: noi siamo dentro un polmone, conoscere l’altro ci aiuta dal punto di vista ecumenico. Poi si dovrebbe conoscere anche la Chiesa protestante, che riconosce la figura di Paolo. Anche la polemica di Lutero con Roma era nata dalla lettura della lettera ai Romani. Credo che soprattutto oggi abbiamo bisogno di conoscere gli altri, perché il mondo sta diventando ‘globalizzato’ e quindi oggi si entra in contatto con realtà diverse ed è importante conoscerle anche per sapere come noi ci poniamo davanti ad esse. L’anno Paolino, quindi, ha una valenza ecumenica importante: conoscere la parola di Dio vivendo l’esperienza di Paolo. Questi itinerari che proponiamo sono anche esperienze di viaggi dentro l’anima di Paolo, di questo uomo che non aveva paura, che ha testimoniato fino all’ultimo l’esperienza della risurrezione. Domandarci da dove Paolo prendesse tutta la sua forza permetterà anche a noi di trovare la forza per  testimoniare la nostra fede.   Domanda di Don Francesco Che forma assume questo viaggio interiore a Roma? Come si apre al mistero della risurrezione in questo caso? Per noi rimane un po’ misterioso dagli Atti degli Apostoli.   Risposta Il Cardinale Martini aveva un corso di esegesi spirituale predicato su Paolo e le sue confessioni e iniziava gli esercizi spirituali parlando delle tre fontane. Alla fine della sua vita Paolo compie una specie di ‘retropensiero’, guarda alla sua vita passata. Esaminando i suoi ultimi scritti – per esempio le lettere a Timoteo e a Filemone – ci si accorge della sua trasformazione. Lui stesso dice che si stavano per sciogliere le vele della sua esperienza, in quanto ha visto un nuovo orizzonte che si apriva, l’approssimarsi dell’incontro con Gesù, che lui ha cercato di testimoniare durante la sua vita. E credo che gli anni a Roma, soprattutto il periodo in cui lui, persona attiva, era costretto a stare fermo, sono stati anni di una meditazione interiore di questa esperienza e quasi di preparazione per l’incontro definitivo con il suo destino.  E’ stato il periodo della maturazione profonda della sua esperienza di Cristo e dagli scritti di quel periodo si vede che era arrivato ad un certo livello di intimità con il Signore. Nella lettera ai Galati dice: “Questa vita che io vivo nella carne la vivo nella fede del figlio di Dio, che mi ha amato e salvato”. Si possono trovare alcuni passaggi interessanti: infatti prima parlava del nostro Signore Gesù Cristo, ora parla del mio Signore. Questo indica un ulteriore passaggio nella sua maturazione, perché la sua esperienza non è più solo generica – il nostro Signore – ma personale: il mio Signore.

  La personalità di Paolo Alcuni sostengono che Paolo fosse un epilettico, perché scrisse: “Quando io sono venuto in mezzo a voi non mi avete sputato in faccia”. In quel tempo, infatti,  quando uno aveva un attacco di epilessia si pensava che fosse posseduto da uno spirito e si esorcizzava questo spirito sputando in terra. Poi si dice che avesse una psicologia molto ossessiva, perché era uno che poteva dire Gesù e Cristo anche cinque volte in una stessa frase. Inoltre era uno che quando prendeva una posizione era molto deciso. Vi dico questo perché noi siamo abituati a vedere i Santi come uomini o donne perfetti, ma in realtà non lo sono. La differenza tra i Santi e noi è che loro sono riusciti anche a valorizzare i loro difetti nell’amore per Dio: per esempio una persona testarda non lo era per se stessa, per motivi egoistici, ma lo era per il Vangelo. Cito un altro esempio che è molto vicino ai nostri tempi. Madre Teresa di Calcutta – che io ho avuto la grazia di conoscere – era una persona testarda, anche difficile, perché quando aveva un’idea in testa non c’era niente da fare. Questo sarebbe stato un difetto se lo avesse utilizzato per se stessa, invece lei era riuscita trasformarlo nella sua preoccupazione per aiutare i poveri e quello che normalmente è un difetto in una persona come lei è divento forse una virtù.  Anche noi quando stiamo facendo il nostro cammino spirituale a volte siamo ossessionati dal desiderio di cancellare i nostri difetti per diventare persone perfette, ineccepibili. Invece la cosa importante è riuscire a far crescere tanto l’amore di Dio e l’amore verso il prossimo in modo che possano prendere il sopravvento sulle nostre limitazioni. Questo è il segreto della vera ricerca della santità e noi lo vediamo in figure come Paolo e Pietro: analizzando le loro figure si vede che sono stati uomini fatti della stessa pasta di ciascuno di noi, però loro hanno preso sul serio l’esperienza della risurrezione. Noi purtroppo ci siamo abituati, ma mai nella storia dell’umanità si è registrata una risurrezione, che è una trasformazione. Gesù risorto è uno che non ubbidisce alle leggi dello spazio e del tempo e questo rende il Cristianesimo unico all’interno di tutte le religioni storiche, perché il Signore è risorto e vive fuori e, allo stesso tempo, dentro il tempo e lo spazio. Quando preghiamo Gesù oggi stiamo pregando una persona di 2000 anni fa, che allo stesso tempo è un nostro contemporaneo. Gesù vive in mezzo a noi. Se noi leggiamo il momento della caduta di Paolo lungo il cammino di Damasco, vediamo che lui ha sentito dentro una voce che gli domandava: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. In realtà Paolo non stava perseguitando Gesù, ma i Cristiani. Quindi si rende conto che Gesù vive nei suoi Cristiani e nella sua Chiesa.  C’è una identificazione della continuità della presenza del Signore nella vita della sua Chiesa e dei suoi fedeli e questo per Paolo è stata come un’esplosione, nella testa e nel cuore, che ha portato alla sua grande trasformazione. Purtroppo per noi, che le sentiamo tutti i giorni, queste cose perdono la loro forza. Dobbiamo soffermarci sulle parole della salvezza e la salvezza vuol dire liberare dal male, che c’è in noi e attorno a noi. Queste sono parole capaci di salvare. L’invito è a pregare Paolo, perché ci faccia vivere un briciolo dell’esperienza che lui ha vissuto, perché se lo viviamo la nostra vita ci trasformerà. Leggendo l’inno alla carità ci si domanda come una persona possa arrivare a tutto questo, quando noi ci arrabbiamo appena uno ci calpesta i piedi. Questo succede quando uno è veramente riuscito ad entrare nella profondità dell’esperienza di Cristo, che è capace di cambiare questo mondo.

E l’anno Paolino ci dovrebbe rinnovare. Il Cristianesimo in fondo è una esperienza gioiosa, forse noi l’abbiamo reso un po’ cupo, invece dovremmo essere persone gioiose. Paolo dice: “Chi ci separerà dall’amore di Dio? La morte?” Nemmeno quella! E riscoprire questo Cristianesimo dei nostri primi Cristiani ci dà questa gioia di viverlo. Io vengo da un paese in cui la chiesa cattolica ha solo 120 anni di presenza ufficiale e sono nato in un contesto in cui avevo amici musulmani, protestanti e cattolici. Noi cattolici sentivamo fortemente la nostra identità ed eravamo orgogliosi di esserlo. Forse le chiese giovani ancora hanno questa grinta, noi dobbiamo riscoprire questa gioia della fede, che è un grande dono. Nessuno può fare nulla per meritare questo grande dono se non la misericordia di Dio che ce lo concede.   Domanda Da dove parte l’itinerario Paolino a Roma? Risposta In genere i nostri pullman partono da San Pietro. L’esperienza di Paolo a Roma è legata molto anche a quella di Pietro: il Papa disse che come Remo e Romolo sono i fondatori della Roma antica così Paolo e Pietro sono le colonne della Roma cristiana. A San Pietro abbiamo degli uffici ed è lì che si prendono le “Paoline”. Se ci sono dei gruppi possiamo anche fare in modo di organizzare con un animatore pastorale che aiuti a vivere meglio l’esperienza del cammino Paolino.   Domanda Sentendo parlare di San Paolo viene quasi da pensare che sia stato quello che ha dato più fondamenti ideologici alla Chiesa. Perché allora San Pietro è sempre il primo a cui si fa riferimento? Risposta Pietro ricopre quel ruolo non perché glielo abbiano dato gli uomini, ma perché Gesù l’ha scelto. Gesù ha detto a Pietro: “Tu sei la roccia e sopra questa roccia io edificherò la mia chiesa”. Poi, dopo la risurrezione, dopo che Pietro lo aveva rinnegato, il Signore lo conferma dicendo: “Pasci i miei agnelli”. Quindi il ruolo di Pietro è per vocazione. Per me questa è una delle prove dell’autenticità del Vangelo, perché se i vangeli, come qualche autore moderno dice, fossero stati costruiti per raccontare delle storie, avrebbero cercato di fare bella la figura del primo Papa, invece Pietro viene descritto in tutti i suoi difetti.  Il suo ruolo come capo della chiesa è stato disegnato da Gesù stesso e tutti l’hanno riconosciuto. Anche Paolo, dopo la sua esperienza, ha detto: “Io sono andato a Gerusalemme e non vidi nessuno degli altri apostoli tranne Cefa e Giacomo”. Effettivamente Paolo aveva una base culturale più ampia, era cittadino romano, aveva vissuto in Grecia e aveva studiato la teologia ebraica. Aveva più strumenti e anche il suo vocabolario è più ricco di quello degli altri. Ma il Signore aveva consegnato a Pietro questo ruolo e il suo primato fu sempre riconosciuto, perché non era il frutto di un voto espresso dagli uomini, ma gli era stato dato dal Signore.   Intervento Infatti si legge che Paolo non è un costruttore di chiese ma un suscitatore di comunità ecclesiali. Risposta Si, Paolo costituiva queste comunità e poi inviava le lettere per mantenere un contatto, per sostenerle nella fede. Paolo si autodefiniva l’ultimo degli apostoli.   Domanda Si sa che nella persecuzione contro i Cristiani Paolo mettesse tutto se stesso, perché pensava che fossero dei bestemmiatori, e quindi doveva difendere il Dio in cui lui credeva e l’amore per il suo Dio. Potrebbe essere che nel momento della caduta, della conversione, riconoscendo Gesù come il suo Dio, lui abbia usato quella stessa forza per evangelizzare? Risposta Si, potrebbe essere. Gli altri apostoli ci descrivono Paolo come una persona energica, pertanto quando perseguitava lo faceva con forza. Ha dovuto sopportare naufragi, fame, flagellazioni e tante altre sofferenze e credo che ci voglia qualcosa di sovraumano per sopportare tutto questo. Tutti noi sappiamo che arriva un momento in cui uno si domanda “chi me lo fa fare?” e osservando  quanto Polo abbia spinto se stesso per andare avanti, si vede che lui stesso dice: “Conosco colui in cui io ho posto la mia fiducia, è lui che mi dà la forza”.   Domanda Quanto la conoscenza di Cristo da parte di Paolo è dovuta alla visione che ha avuto e quanto invece alla conoscenza della sua vita attraverso gli apostoli? Risposta Noi non sappiamo nemmeno quanto è durata quella visione, sappiamo solo che è stato un momento di luce, che lo ha accecato. Sappiamo anche che più tardi ha avuto qualche esperienza mistica, che lui stesso descrive. Leggendo le sue lettere non troviamo molti dettagli della vita di Gesù, sembrerebbe quindi che lui abbia imparato dalle persone che aveva attorno, dal contatto con la comunità. La sua conoscenza con Gesù, però, è soprattutto frutto di una meditazione profonda di quello che lui ha imparato e vissuto nella propria vita. I primi tre vangeli sono più storici, nel senso che sono racconti, quello di Giovanni invece è più teologico, perché trasmette le sue riflessioni. Anche Paolo nei suoi scritti non racconta fatti ma esprime l’esperienza che ha vissuto.   Domanda Possiamo dire che la forza che Paolo aveva prima della conversione derivava dal rapporto con Dio attraverso l’osservanza della legge e che dopo la sua forza derivava dalla conoscenza dell’amore di Cristo? Risposta Si, Paolo stesso quando scrive sulla legge è molto critico. E questo è interessante anche per noi. La legge non salva, ma ti rende schiavo e nell’incontro con Cristo Paolo ha visto che l’amore è più forte della legge e ti rende libero. Questo è stato il grande impulso della vita di Paolo ed è lo stesso anche per noi. Non sono i comandamenti che ci salvano, i comandamenti sono dei precetti che ci aiutano a preservare il grande dono che abbiamo ricevuto.   Mosé salì sulla montagna e incontrò Dio, che aveva scelto questo popolo come suo popolo, con cui stabilire un’alleanza e per conservare questa amicizia era necessario non fare certe cose. Infatti la seconda parte del decalogo contiene tutti comandamenti negativi. Alla base di questi comandamenti c’è la nostra amicizia con il Signore e noi li osserviamo perché ci teniamo a questo rapporto e non vogliamo rovinarlo. Questo dà senso ai comandamenti, perché altrimenti la legge diventa un fardello pesante e vuoto. E’vero che appena ne abbiamo l’occasione li mettiamo da una parte, ma se noi custodiamo il nostro rapporto con il Signore come qualcosa di prezioso, allora faremo di tutto per conservarlo, farlo crescere e non fare niente che possa nuocergli in nessun modo.   Intervento La profondità e la vastità di Paolo sono senza limiti e confini, ma la sua grandezza sta nella sua unione con Cristo e io la vedo specialmente in due punti: quando dice “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” e poi quando parla della carità. Questi due punti mi riassumono tutta la sua grandezza. Risposta Ha toccato due punti fondamentali. Questa è la bellezza della fede cristiana: l’amore verso Dio che si manifesta nell’amore verso la creatura in cui Dio ha depositato la sua immagine. E il cristiano vero, innamorato di Dio, amando Dio ama tutti gli uomini, perché ogni uomo è fatto a sua somiglianza ed è per questo che San Giovanni dice che chi dice di amare Dio e odia suo fratello è un bugiardo. La nostra sfida da Cristiani, quindi, è mantenerci su questi due aspetti che sono un binario unico da percorrere: l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. Matteo ci dice che alla fine della vita, quando noi verremo giudicati, il Signore ci dirà: “Ero forestiero, ero nudo, ero in prigione, quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.   Pertanto l’amore verso il prossimo diventa anche una manifestazione del nostro amore. Un Cristiano, però, non può dimenticare l’amore verso Dio e andare sul sociale, perché alla fine noi siamo chiamati ad amare il prossimo come Dio lo ama ed è questo che ci permette di poter amare anche quelli che ci fanno del male: amare l’altro nonostante se stesso. Noi non amiamo il prossimo per i suoi meriti ma perché l’amiamo in Dio. C’è un aneddoto molto bello del cardinale di Kinshasa. C’erano dei conflitti tra Musulmani e Cristiani ed alcune persone hanno perso la vita, lui era molto arrabbiato perché alcuni Cristiani erano morti e mi disse: “Sai io non ce l’ho con i Musulmani, ma ce l’ho con il Signore che mi ha detto che li devo amare”. Nostro Signore ci ha detto questo. La vita in Cristo e l’inno alla carità sono le due dimensioni della nostra fede.   (Teologo Borèl) Gennaio 2009 – autore: padre Cesare Atuire

CORINTO – PROF. DOGLIO

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2002/articolo1_4.asp

SAN PAOLO APOSTOLO

CORINTO
 
Doglio C.

Prima di scrivere alla comunità cristiana di Corinto, Paolo ha vissuto in questa città per quasi due anni e vi è rimasto legato anche in seguito nei suoi vari spostamenti. È necessario, quindi, conoscere qualcosa di quell’ambiente umano che costituisce la cornice delle lettere: ogni introduzione a questi scritti paolini descrive la città di Corinto.[1] In questo caso, dunque, ho cercato solo un modo nuovo per riportare tali informazioni: mi sono messo nei panni del proconsole Gallione e, con un po’ di fantasia, gli ho fatto scrivere una lettera su Corinto, indirizzandola al fratello Seneca, il famoso filosofo.

1. Marco Anneo Novato Gallione al diletto fratello Seneca, salute!

«È ormai quasi un anno che abito a Corinto e il periodo del mio proconsolato volge al termine. Sto per ritornare a Roma; ma ora un po’ mi dispiace di lasciare questa strana e splendida città, che mi ha deluso e mi ha entusiasmato. Proprio per questo ho deciso di scriverti, perché parlandoti della mia esperienza a Corinto ho l’occasione piacevole di richiamare alla memoria il fascino di questa città con le vicende che qui hanno segnato la mia vita.
Alla fine di giugno dell’anno scorso sono sbarcato al porto di Lecheo: provenendo dall’Italia è qui che si fermano le navi, mentre quelle che vengono dall’Oriente fanno scalo nell’altro porto, al villaggio di Cencre. Corinto, infatti, ha due porti, pur non essendo direttamente sul mare: si trova al centro dell’istmo che collega la Grecia al Peloponneso e domina, quindi, ogni via terrestre di passaggio e controlla contemporaneamente il mar Ionio e il mar Egeo. La chiamano “regina dei due mari”. Da questa sua posizione geografica è derivata tutta la fortuna di Corinto: la gloria in passato e la ricchezza al presente.
Devo ammettere di essere partito prevenuto. La fama di Corinto non è buona: lo sai bene! Me ne avevano parlato come di una città senza cultura e senza tradizione, troppo moderna per avere storia e troppo plebea per avere importanza: ma era il mio primo incarico di amministratore fuori di Roma e dovevo accontentarmi. Nonostante tutto, però, ho avuto modo di ricredermi.

1.1. Ho trovato una città completamente nuova

Corinto è stata ricostruita negli ultimi decenni, perché circa duecento anni fa le nostre truppe l’avevano rasa al suolo. L’orgoglio dell’antica Corinto, infatti, si ergeva come un pericolo per la conquista romana. Al tempo di Filippo di Macedonia, Corinto aveva preso il posto di Atene, umiliata dal nuovo padrone, divenendo il centro della Lega Panellenica: così per due secoli la città dell’istmo aveva guidato la Grecia e, quando arrivò l’esercito di Roma, fu la sede naturale della resistenza antiromana, senza riuscire tuttavia a impedire che la nostra repubblica portasse la libertà in terra ellenica. E quando il dominio di Roma si fu consolidato, il generale Lucio Mummio volle dare al mondo un esempio e decise di cancellare questa città dalla carta geografica della terra, per eliminare ogni pericolo di rivolta e per tranquillizzare i banchieri romani che temevano la concorrenza dell’opulenta[2] Corinto. I suoi abitanti furono massacrati e fatti schiavi, gli edifici saccheggiati o incendiati, le opere d’arte depredate. Corinto cessò di esistere e per quasi un secolo rimase soltanto un mucchio di ruderi.
Rinacque grazie a Giulio Cesare. Proprio nell’anno fatale in cui sarebbe stato assassinato, il grande condottiero, consapevole dell’importanza della posizione geografica di Corinto, scelse questo sito per farvi sorgere una città da regalare ai suoi veterani, a quella massa di soldati che l’avevano accompagnato in molti anni di guerre e conquiste. Nacque, così, Colonia Laus Iulia Corinthiensis ed ebbe come abitanti degli stranieri, provenienti un po’ da tutto il mondo, soldati cesariani insieme a una gran quantità di liberti e di schiavi: tutta gente senza patria, originari dell’Italia e dell’Oriente, alla ricerca solo di guadagni e di benessere. La nuova Corinto, come puoi facilmente immaginare, non doveva essere una bella città, proprio a causa dei nuovi abitanti che, assolutamente disinteressati all’arte e alla cultura, cominciarono col saccheggiare le tombe antiche e i monumenti, per ricavarne gioielli e oggetti d’arte da vendere agli antiquari romani.
Col tempo, però, Corinto è cambiata ed è diventata una bella città. Oggi è una città moderna, con tutti i principali palazzi costruiti di recente, le monumentali fontane che raccolgono l’abbondante acqua della zona, le vie e le piazze realizzate secondo i criteri dei nostri migliori architetti, che sono stati capaci di valorizzare le antichità, inserendole in un nuovo impianto urbanistico. Il gioiello di Corinto è il meraviglioso tempio dorico di Apollo, il più antico e il più importante della Grecia: sopravvissuto alla distruzione, esso continua a ergersi, con le sue trentotto colonne monolitiche, al centro della città sopra una terrazza rocciosa, proprio attigua al nuovo foro romano, sede della vita economica e civile di Corinto, con il bema su cui io ho rappresentato, in qualità di proconsole, la giustizia di Roma.

1.2. Il commercio è l’anima di Corinto

Caro fratello Seneca, è stato inutile cercare in questa città gli ambienti della grande cultura. In questo Corinto mi ha deluso, perché la nuova popolazione è interessata solo a far soldi: i pochi ricchi che vi abitano sono grandi commercianti e armatori, impegnati a difendere e moltiplicare il loro patrimonio, avidi di nuovi guadagni e di rendite sempre più facili; i moltissimi poveri, d’altra parte, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione, sono angosciati quotidianamente dai problemi della sopravvivenza e si danno un gran da fare per guadagnare quel poco che permette loro di vivere e, magari, quel po’ di più che consente anche di divertirsi. I filosofi come te avrebbero grosse difficoltà a farsi ascoltare da gente del genere!
Corinto è sempre stata una città commerciale. La sua posizione strategica è stata sfruttata bene dall’abilità dei suoi abitanti. Le coste del Peloponneso, infatti, sono estremamente frastagliate e la navigazione intorno a quegli scogli è molto pericolosa; ma non c’era altra possibilità per le navi che volevano tenere i contatti fra l’Occidente e l’Oriente. Corinto ha escogitato un’altra strada! Appena giunto qui, sono stato a visitare questa originale iniziativa, che ormai, però, è quasi del tutto in disuso. La chiamano díolkos: si tratta di una pista di allaggio, costruita attraverso l’istmo per consentire alle navi da carico di transitare da un mare all’altro, evitando la circumnavigazione del Capo Maleo, tremendamente pericoloso.
Mi hanno regalato una copia dell’opera geografica di Strabone: vi ho letto con attenzione tutto quello che riguarda la storia di Corinto e ho trovato anche un proverbio che doveva circolare fra i marinai del Mare Nostro. Dice: “Quando passi il Malea, dimentica quelli di casa!”.[3] È chiaro che la strada alternativa offerta da Corinto veniva preferita, per forza: le navi venivano tirate su dall’acqua di un porto e sistemate su una specie di binario; quindi, con l’aiuto di grossi rulli e la fatica di innumerevoli manovali venivano fatte scivolare lungo tutto l’istmo fino all’altro porto. In tal modo si guadagnava tempo e si evitavano i pericoli del mare; ma soprattutto prosperava il commercio di Corinto, offrendo ai ricchi molti vantaggi e fornendo ai poveri molti posti di lavoro.
Purtroppo, però, l’accresciuta mole delle navi e l’eccessivo tonnellaggio delle imbarcazioni moderne ha reso sempre più difficile o addirittura impossibile questa operazione. Mi hanno detto che è stato utilizzato in grande stile per l’ultima volta circa ottant’anni fa, quando Ottaviano, inseguendo Antonio dopo la battaglia di Azio, vi fece transitare le sue navi da guerra in pieno inverno. Ormai, invece, è ridotto a un cimelio del passato. Ho pensato che al suo posto si potrebbe scavare un canale per mettere in comunicazione i due mari: ma non sembra una trovata originale. Mi hanno informato su vari tentativi del genere, a partire dal tiranno Periandro, ripresi in considerazione ancora di recente, ma sospesi perché gli esperti hanno detto che il livello del mar Ionio è più alto dell’Egeo e, in caso di collegamento, sommergerebbe completamente l’isola di Egina.
Anche senza díolkos il movimento a Corinto non manca. Tutte le imprese commerciali che vi avevano posto una sede continuano a usare i due porti, magari facendo trasportare la merce da uno all’altro: perciò la popolazione è in continuo cambiamento. Alcune stime parlano di quasi mezzo milione di abitanti, ma per due terzi sono schiavi: soprattutto operai addetti ai lavori portuali e alle varie attività connesse col mercato internazionale; proprio come merce umana anch’essi seguono gli spostamenti delle navi, delle mercanzie e degli interessi dei loro padroni. Residenti stabili a Corinto sono numerosi piccoli proprietari, impegnati nell’artigianato e nel commercio: fabbricano e vendono soprattutto vasi di ceramica, non più belli come quelli di una volta, ma utili per contenere vari generi alimentari, e oggetti di bronzo, come statue, armi e specialmente specchi. Invece i ricchi armatori che vi vengono per lavoro, passano e se vanno; certamente cercano qualcosa di meglio.

1.3. «Corinteggiare»

Quando sono arrivato al Lecheo, mi hanno accolto con tutti gli onori e, poi, mi hanno scortato in città, fra vigneti, campi di ulivi e di fichi, lungo i dodici stadi[4] della nuova e ampia strada lastricata che conduce dal porto al centro della città. Proprio davanti a me, come sfondo delle costruzioni cittadine, si ergeva la massa montagnosa dell’Acrocorinto che domina imponente tutta la pianura: lassù, mi hanno spiegato, sorge il tempio di “Afrodite Pándemos”, la Venere popolare di cui i corinzi sono molto devoti. Ho letto in quel libro di Strabone che nell’antichità il tempio della dea dell’amore era stato così ricco da possedere più di mille sacerdotesse, o ierodule – come le chiamavano – schiave sacre che praticavano la prostituzione come atto di culto, per ottenere benefici dalla dea. Ma ho l’impressione che l’importanza di tale culto licenzioso sia stato esagerato: oggi, per lo meno, non ha più grande consistenza e non è questo culto che caratterizza la città. Tuttavia, è impressionante l’enorme diffusione della prostituzione a Corinto: penso sia normale in una città di mare con una popolazione di passaggio che cerca occasioni di divertimento e di sfogo fuori dal proprio ambiente. Ma qui sembra proprio un fenomeno tipico della vita cittadina e, come magistrato, devo ammettere che vi ho trovato proprio di tutto: fornicatori, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, sfruttatori, imbroglioni, calunniatori, ubriaconi.
Dagli studi giovanili mi è tornata in mente qualche battuta di Aristofane, che adoperava il verbo “corinteggiare” per alludere a un comportamento osceno; ma ancora oggi dire di una ragazza che è “corinzia” significa qualificarla come cortigiana, e il nomignolo corinthiastés viene dato ai protettori.[5] Pensavo che si trattasse di luoghi comuni della letteratura comica; e invece mi sono reso conto di persona che la città di Corinto è proprio così. Le taverne e i lupanari sono a ogni angolo di strada; persino sulle coppe da bere ho visto scritto il motto di questa mentalità di divertimento: “Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”.
Il nostro poeta Orazio ha scritto: “Non è da tutti recarsi a Corinto”;[6] alludeva al carattere molto costoso del vizio, e veramente qui vengono spesi capitali per il divertimento e per ogni genere di eccesso. Mi ricordo di aver visto lungo la grande strada che porta in città alcune tombe di persone famose, fra cui il sepolcro del filosofo Diogene e poco dopo quello della celebre cortigiana Laide. Senza dubbio quest’ultima rappresenta l’attuale mentalità di Corinto.

1.4. La ricchezza umana di Corinto

In primavera ho avuto la fortuna di assistere a una delle più significative manifestazioni di tutta la Grecia: i Giochi Istmici. Sono convenuti qui i migliori atleti, poeti e i musicisti più celebrati di questi anni, per disputarsi il trofeo della vittoria: una corona di rami di pino. Usano il pino, perché è l’albero sacro a Poseidone, in onore del quale vengono celebrate le gare: prima di tutto, infatti, sono una festa religiosa. Una suggestiva processione notturna ha dato inizio ai riti: alla luce delle fiaccole e delle lampade che ognuno portava in mano, ho sentito rievocare con commozione la leggenda dell’eroe Palemone, il principe annegato, deposto da un delfino sulla riva del mare e raccolto dal mitico Sisifo, re di Corinto. Nel suo piccolo santuario, si è sacrificato un toro nero in olocausto e i concorrenti hanno quindi prestato giuramento solenne di osservare le regole delle prove; e poi, sul finire della notte, ogni partecipante ha versato l’olio della sua piccola lampada sul grande fuoco nel quale si consumava il sacrificio.
La suggestione del rito si è aggiunta a un’altra impressione: mi aveva colpito, infatti, l’eccezionale impegno con cui gli sportivi si sono preparati alle gare, sottoponendosi per mesi a esercizi lunghi e faticosi, lontano dai divertimenti e rigorosi nella dieta. Tutto questo per una corona di pino! Evidentemente è la gloria e la fama che cercano: anche questo è Corinto!
Ma le gare sono una parentesi: la vita ordinaria è il mercato. Passeggiare per le vie di Corinto è uno spettacolo, perché è tutto un negozio, che vende di tutto. Però in questo mare di merci, la vera ricchezza è costituita dall’umanità. Nel mio breve soggiorno ho avuto modo di incontrare molte persone, tipi fra i più diversi, alcuni strani e caratteristici, altri banalmente comuni; ma mi ha lasciato l’impressione generale di una città vivace e amichevole, qualche volta anche passionale, interessata alla questioni della vita e capace di entusiasmarsi per qualcosa di più grande del denaro e del divertimento.
A proposito, mi è venuto a salutare il signor Aquila, con la moglie Prisca, che lui chiama familiarmente Priscilla: li avevo conosciuti a Roma, tempo fa, come produttori di tessuti e di tende, e avevamo stretto dei buoni rapporti; per cui incontrarli qui mi ha fatto piacere. Sono ebrei, ma molto aperti e capaci di dialogare con quelli diversi da loro: qualità che non è comune! Mi hanno raccontato i motivi del loro trasferimento, perché sono stati implicati in quella normativa che due anni fa il nostro glorioso Cesare ha emanato per calmare le continue sommosse che scoppiavano nel quartiere giudaico di Roma, per motivi assurdi che l’amministrazione imperiale non riusciva assolutamente a capire. Ho saputo che c’era di mezzo un certo Cristo: ma anch’io non ho compreso bene quale fosse il problema dei disordini. In ogni caso fra i giudei espulsi dalla capitale c’era anche il mio amico Aquila e così me lo sono ritrovato a Corinto.
Il fiuto dell’imprenditore gli ha suggerito la città adatta per riprendere la sua attività di commercio. Qui a Corinto, infatti, gli ebrei non sono pochi: ne passano da tutto il Mediterraneo e la loro sinagoga è un centro vivace di comunicazioni e di incontri; ma anche di scontri. Proprio su suggerimento di Aquila sono stato a far visita di cortesia, tanto per rendermi conto della situazione, al capo della sinagoga. Ho conosciuto così il signor Sóstene, che ha assunto l’incarico da poco tempo e, suo malgrado, ha dovuto raccontarmi dei disordini che hanno portato alla sostituzione del suo predecessore. Costui, di nome Crispo, aveva appoggiato un predicatore giudeo, un tal Paolo, proveniente da Gerusalemme che insegnava strane dottrine su Cristo: anche qui di nuovo lo stesso problema e il riferimento a questo strano nome! Crispo si era lasciato convincere da questo Paolo, mentre molti altri giudei non ne volevano sapere; e così, dopo qualche vivace discussione si è passati a un’aperta lite, che è finita con l’espulsione dalla sinagoga di tutti quei giudei che si fanno chiamare “cristiani”. Adesso la sinagoga di Corinto è in mano a Sóstene, che mi sembrava ben intenzionato a porre fine alle questioni.

1.5. Uno strano caso giudiziario

Dico “sembrava”, perché ho dovuto ricredermi. Pochi giorni fa, infatti, mentre sedevo sul bema, simbolo della mia autorità di proconsole d’Acaia, me lo sono visto comparire davanti, come capo della delegazione giudaica con l’intento di denunciare quel tal Paolo. Evidentemente le questioni non erano finite.
Sóstene non era solo: molti giudei l’avevano accompagnato e con forza mi avevano portato davanti anche il loro imputato. Nello sporgere denuncia contro Paolo, il capo della sinagoga mi ha detto che questo predicatore ha preso in affitto un locale proprio sulla stessa piazza dove sorge la sinagoga e vi ha installato una specie di scuola alternativa. Mi è parso di intuire una questione di concorrenza, quasi un diverbio fra commercianti che si rubano i clienti. Ma il discorso degli accusatori era molto più serio: mi hanno, infatti, parlato di un insegnamento relativo a un culto contrario alla legge romana.
Per quel poco che avevo capito dai racconti e dalle spiegazioni di Aquila, mi sono accorto subito che si trattava di un problema interno alla comunità giudaica e tutta la questione ruotava sull’interpretazione della loro legge religiosa e sull’uso di parole o di nomi. I giudei aspettano un liberatore che in greco chiamano “Cristo”; ma non sono affatto d’accordo sulle sue caratteristiche e sul suo ruolo. Ora questo Paolo, mi hanno detto, gira il mondo a dire che il Cristo è venuto e si identifica con un certo Gesù di Nazaret che il procuratore Ponzio Pilato ha condannato alla crocifissione circa vent’anni fa. Crispo lo ha accettato e come lui tanti altri ebrei che lo seguono; Sóstene, invece, insieme a molti altri, non ne vuole sapere e cerca di ostacolarlo.
È evidente che tutto questo non ha nulla a che fare con il diritto di Roma; perciò non ho voluto nemmeno aprire il processo e con fermezza ho allontanato quella delegazione dal mio tribunale. Ne è venuto fuori un subbuglio generale: proprio in mezzo al foro, infatti, i giudei si sono messi a urlare e se la sono presa con Sóstene, dandogli dell’incapace e accusandolo di non essere riuscito a sostenere l’accusa. Dalle parole sono passati alle mani e hanno sfogato le loro ire aggredendo con violenza il capo della sinagoga, mentre quel Paolo se ne è andato per la sua strada.
Non ho più voluto entrare in queste faccende, perché non mi riguardano e non mi interessano. Tuttavia la vicenda mi ha lasciato un po’ perplesso: come è possibile che in una città come Corinto ci siano delle persone che si appassionano a questioni religiose? Forse, come avevo già intuito, in questa città malfamata si nascondono desideri e speranze che non possono essere saziati con soldi e piaceri; forse in mezzo a questa moltitudine volgarmente banale, ci sono persone che si aspettano qualcosa di più e cercano un senso della vita che neppure noi, caro fratello filosofo, sappiamo trovare. Per questo strano contrasto Corinto mi ha affascinato.
Ma presto sarò di nuovo a Roma; e di queste cose forse non ne sentiremo parlare mai più! A presto.

Ave atque vale».

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[1] Oltre alle introduzioni alle lettere ai Corinzi, si possono trovare notizie sulla città di Corinto in: J.L. Vesco, In viaggio con san Paolo. Città e regioni del Mediterraneo nella storia e nell’archeologia, Morcelliana, Brescia 1974, pp. 117-135; H.D. Saffrey, «Paolo fonda la Chiesa di Corinto», in Il Mondo della Bibbia 4 (1990) 41-47; R. Penna, «Corinto: città greca e Vangelo a confronto», in Eteria 1 (1996) 42-46.
[2] La distruzione di Corinto avvenne nell’anno 146 a.C. Il titolo di «opulenta» (aphneiós) dato a Corinto è classico: si trova già nell’Iliade (2, 570).
[3]Strabone, Geografia, VIII, 6, 20; prezioso testo edito di recente: Strabone, Geografia. Il Peloponneso: libro VIII, tr. it. a cura di A.M.Biraschi, Rizzoli, Milano 2000, pp. 242-251.
[4] Uno stadio romano corrisponde a mt.185; fra il porto di Lecheo e l’antica città di Corinto c’erano infatti circa 2 km.
[5]Aristofane, fram. 370; così è testimoniato anche in altri testi di poeti comici, meno noti, del V sec. come Filetero e Polioco. L’espressione «ragazza corinzia [he korinthia kóre]» si incontra in Platone, La Repubblica, 404d.
[6]Quinto Orazio Flacco, Epistole, I, 17, 36: «Non cuivis homini contingit adire Corinthum». Anche Strabone riporta la stessa frase e la qualifica come un proverbio. 

Piccole Chiese del silenzio nella terra di san Paolo

dal sito:

http://www.asianews.it:80/index.php?l=it&art=13843&size=A

TURCHIA

Piccole Chiese del silenzio nella terra di san Paolo
di Geries Othman

Per molti pellegrini in Turchia, l’Anno Paolino è l’occasione di trovare a Tarso, Antiochia, Efeso le pietre di un antico passato e il faticoso presente di comunità cristiane ridotte al lumicino ed emarginate dal laicismo e dall’Islam. Ma esse sono anche un piccolo seme dove scoprire la stessa missione di san Paolo, l’unità e la carità.

Ankara (AsiaNews) – Dal giugno scorso in terra di Turchia è un continuo susseguirsi di fedeli provenienti da diversi Paesi del mondo: Italia, Germania, Spagna e Francia e poi ancora America Latina, Corea e persino Giappone. I numerosi pellegrini vogliono ricalcare le “orme di san Paolo”, ripercorrere i luoghi dove l’Apostolo – del quale quest’anno si celebrano i 2000 anni dalla nascita – è nato, ha vissuto, ha lottato e sofferto per le comunità cristiane allora appena sorte. Non c’è giorno in cui gruppi di fedeli non passano da Tarso, Antiochia, Efeso. Ma troppo spesso agli occhi di questi pellegrini rimangono impresse solo pietre all’ombra dei numerosi minareti, tornando così a casa con un gran senso di sgomento se non con la convinzione che in Turchia non ci siano più cristiani, ma solo ed esclusivamente musulmani.

Nel novembre del 1939, Angelo Roncalli (divenuto poi papa Giovanni XXIII), era Delegato apostolico ad Istanbul. Nel suo “Giornale dell’anima” scriveva: “Del Regno del Signore Gesù Cristo resta qui in Turchia ben poca cosa. Reliquie e semi”. Nulla pare cambiato in questi 70 anni: agli occhi dei pellegrini si palesano solo pietre, seppure gloriose, di un passato che non c’è più; chiese trasformate in musei, moschee, scuole o biblioteche.

Una Chiesa ridotta al silenzio

Lo sgomento è ancora più profondo se si pensa che fino ad un secolo fa, in Turchia viveva la comunità più numerosa di cristiani in Medio Oriente. Oggi è la più ridotta. Dei circa 2 milioni di cristiani all’inizio del Novecento, infatti, ne sono rimasti solo 150 mila, quasi tutti concentrati nei grandi centri di Istanbul, Smirne e Mersin, il resto sparso in Anatolia in minuscole comunità. Quasi la metà sono fedeli della Chiesa apostolica armena, poi vengono le comunità cattoliche, circa 30mila in tutto, principalmente latini, ma anche armeni, siriaci e caldei. I protestanti delle varie denominazioni sono 20mila, seguiti dai siro-ortodossi, circa 10mila, solo un decimo del numero presente un secolo fa nella zona meridionale di Tur Abdin. I greco-ortodossi di Bartolomeo I si sono ridotti invece a soltanto circa 5mila. Tra i 70 milioni di abitanti, dunque, i cristiani rappresentano un numero piccolissimo, quasi ridicolo, che se fatti i calcoli, rappresenta lo zero virgola per cento. Una Chiesa che davvero è più piccola del più piccolo dei semi.

La scomparsa delle Chiese è andata di pari passo con la riduzione di tutte le istituzioni benefiche gestite dalla Chiesa (ospedali, ospizi, scuole), sia per il progressivo venir meno del personale sia per i gravami economici imposti dallo Stato. Numerosi sono gli ostacoli che rendono difficile la vita delle comunità cristiane in un Paese che, nonostante tutto, si definisce laico: l’assenza di personalità giuridica;le restrizioni al diritto di proprietà; le ingerenze nella gestione delle fondazioni; l’impossibilità di formare il clero; la sorveglianza poliziesca esercitata sui cristiani. La legislazione turca complica la vita alla Chiesa cattolica. Non è ancora stato trovato uno statuto che le permetta una esistenza legale e che quindi possa avere voce nella società. E per quanto riguarda la libertà religiosa, se è vero che una circolare turca del dicembre 2003 autorizza il cambio di identità religiosa, ossia il passaggio da una confessione a un’altra, sulla base di una semplice dichiarazione, la realtà dei fatti dimostra che la pressione sociale e mediatica ha ben altro potere.

Basti pensare ad Ankara. La capitale del Paese, dovrebbe essere la roccaforte della laicità della nazione, eppure le 250 famiglie cristiane presenti, sparpagliate tra i sei milioni di abitanti, si sentono costrette a dare un nome non cristiano ai propri figli, perché non vengano poi denigrati a scuola e non trovino in seguito discriminazioni sul posto di lavoro. Nascondono la propria fede persino nelle case, non esibendo alle pareti immagini e segni sacri che possano turbare la convivenza pacifica con i vicini di casa. Soffrono tutte le volte che si recano al cimitero nel vedere le tombe dei loro cari ripetutamente profanate, le croci divelte, le lapidi sfregiate.  Si sentono squadrati da capo a piedi dalla polizia in borghese presente sul portone d’ingresso, quando vogliono anche solo andare ad accendere una candela in chiesa.  Comunità cristiane ridotte al silenzio, dunque, come scriveva già allora, con estrema lucidità Roncalli: “Una modesta minoranza che vive alla superficie di un vasto mondo con cui abbiamo solo contatti di carattere esteriore”. Una Chiesa che arranca, che fatica, una chiesa impaurita.

Crescere nell’unità

Per chi si professa cristiano la vita in Turchia non è facile, ed è proprio a questi fedeli che, in occasione del bimillenario di san Paolo, la Cet (Conferenza Episcopale Turca) ha pubblicato una lettera pastorale con la finalità di risvegliare nei cristiani di Turchia la coscienza della propria identità e per ridare coraggio e franchezza. Mons. Luigi Padovese, vescovo dell’Anatolia e presidente della Cet, esprime le sue speranze: “Mi aspetto che i fedeli che vivono in Turchia, attraverso la lettura degli scritti e della vita di san Paolo, possano rafforzare e quindi amare di più la loro identità cristiana. Dalle lettere paoline emerge la grande fatica affrontata dal santo per portare il messaggio di Cristo nelle zone più impervie della Turchia. Se si pensa ai pericoli, all’enorme forza spirituale che ha animato l’apostolato di Paolo nel suo peregrinare da una regione all’altra, non si può non rimanere colpiti, subendo un vero e proprio cambiamento interiore. Il mio desiderio più grande è vedere nel pellegrino che si reca in Anatolia e nei cristiani qui presenti la presa di coscienza che il cristianesimo non è solo un fattore geografico o ereditario ma anche missione, impegno, difficoltà. Prendendo coscienza di ciò, matura un cristiano più forte”.

Ma come non sentirsi isolati, persi, sopraffatti, in un mondo che ti considera ingiustamente un corpo estraneo, fastidioso, ingombrante, minaccioso?

Fortunato è chi può appoggiarsi ad una comunità, fortunato chi trova una chiesa aperta a cui far riferimento e in cui vivere quel senso di appartenenza che lo aiuta ad andare avanti. Ecco perché lo sforzo dei pastori delle Chiese è quello di insistere sull’unità. Sempre nella lettera pastorale della Cet di quest’anno si dice: « Prima di essere cattolici, ortodossi, siriani, armeni, caldei, protestanti, siamo cristiani. Su questa base si fonda il nostro dovere di essere testimoni. Non lasciamo che le nostre differenze generino diffidenze e vadano a scapito dell’unità di fede; non permettiamo che chi non è cristiano s’allontani da Cristo a motivo delle nostre divisioni ».

Ed è proprio quello che cercano di vivere i cristiani in Turchia. Ad Antiochia, Mersin,  Smirne, Trabzon, Istanbul o Ankara, lo sparuto gruppuscolo di fedeli la domenica si ritrova nell’unica chiesa presente in città e insieme, non importa se ortodossi, armeni, cattolici o caldei, pregano, cantano, si stringono attorno all’Eucarestia dove attingere la forza di essere cristiani e poi, al termine della celebrazione eucaristica bevono insieme un tè, scambiano quattro battute, riflettono sulla propria fede e sulla propria esistenza. Sono piccoli semi destinati a crescere.

E ora che si avvicina il Natale, vissuto senza grandi segni esteriori, si organizzano per addobbare la chiesa, costruire il presepe, preparare una recita, vivacizzare la liturgia della notte con un coro, offrire un cenone ai più poveri, dopo il digiuno tenuto durante tutto l’avvento, secondo la tradizione ortodossa. Un dialogo delle opere, una fraternità quotidiana, fatta di gesti semplici, piccoli, forse anche banali, ma che aiutano a credere, a continuare a sperare contro ogni speranza.

CORINTO

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2002/articolo1_4.asp

CORINTO

di Doglio C.

Prima di scrivere alla comunità cristiana di Corinto, Paolo ha vissuto in questa città per quasi due anni e vi è rimasto legato anche in seguito nei suoi vari spostamenti. È necessario, quindi, conoscere qualcosa di quell’ambiente umano che costituisce la cornice delle lettere: ogni introduzione a questi scritti paolini descrive la città di Corinto.[1] In questo caso, dunque, ho cercato solo un modo nuovo per riportare tali informazioni: mi sono messo nei panni del proconsole Gallione e, con un po’ di fantasia, gli ho fatto scrivere una lettera su Corinto, indirizzandola al fratello Seneca, il famoso filosofo.1. Marco Anneo Novato Gallione al diletto fratello Seneca, salute!

«È ormai quasi un anno che abito a Corinto e il periodo del mio proconsolato volge al termine. Sto per ritornare a Roma; ma ora un po’ mi dispiace di lasciare questa strana e splendida città, che mi ha deluso e mi ha entusiasmato. Proprio per questo ho deciso di scriverti, perché parlandoti della mia esperienza a Corinto ho l’occasione piacevole di richiamare alla memoria il fascino di questa città con le vicende che qui hanno segnato la mia vita.
Alla fine di giugno dell’anno scorso sono sbarcato al porto di Lecheo: provenendo dall’Italia è qui che si fermano le navi, mentre quelle che vengono dall’Oriente fanno scalo nell’altro porto, al villaggio di Cencre. Corinto, infatti, ha due porti, pur non essendo direttamente sul mare: si trova al centro dell’istmo che collega la Grecia al Peloponneso e domina, quindi, ogni via terrestre di passaggio e controlla contemporaneamente il mar Ionio e il mar Egeo. La chiamano “regina dei due mari”. Da questa sua posizione geografica è derivata tutta la fortuna di Corinto: la gloria in passato e la ricchezza al presente.
Devo ammettere di essere partito prevenuto. La fama di Corinto non è buona: lo sai bene! Me ne avevano parlato come di una città senza cultura e senza tradizione, troppo moderna per avere storia e troppo plebea per avere importanza: ma era il mio primo incarico di amministratore fuori di Roma e dovevo accontentarmi. Nonostante tutto, però, ho avuto modo di ricredermi.

1.1. Ho trovato una città completamente nuova

Corinto è stata ricostruita negli ultimi decenni, perché circa duecento anni fa le nostre truppe l’avevano rasa al suolo. L’orgoglio dell’antica Corinto, infatti, si ergeva come un pericolo per la conquista romana. Al tempo di Filippo di Macedonia, Corinto aveva preso il posto di Atene, umiliata dal nuovo padrone, divenendo il centro della Lega Panellenica: così per due secoli la città dell’istmo aveva guidato la Grecia e, quando arrivò l’esercito di Roma, fu la sede naturale della resistenza antiromana, senza riuscire tuttavia a impedire che la nostra repubblica portasse la libertà in terra ellenica. E quando il dominio di Roma si fu consolidato, il generale Lucio Mummio volle dare al mondo un esempio e decise di cancellare questa città dalla carta geografica della terra, per eliminare ogni pericolo di rivolta e per tranquillizzare i banchieri romani che temevano la concorrenza dell’opulenta[2] Corinto. I suoi abitanti furono massacrati e fatti schiavi, gli edifici saccheggiati o incendiati, le opere d’arte depredate. Corinto cessò di esistere e per quasi un secolo rimase soltanto un mucchio di ruderi.
Rinacque grazie a Giulio Cesare. Proprio nell’anno fatale in cui sarebbe stato assassinato, il grande condottiero, consapevole dell’importanza della posizione geografica di Corinto, scelse questo sito per farvi sorgere una città da regalare ai suoi veterani, a quella massa di soldati che l’avevano accompagnato in molti anni di guerre e conquiste. Nacque, così, Colonia Laus Iulia Corinthiensis ed ebbe come abitanti degli stranieri, provenienti un po’ da tutto il mondo, soldati cesariani insieme a una gran quantità di liberti e di schiavi: tutta gente senza patria, originari dell’Italia e dell’Oriente, alla ricerca solo di guadagni e di benessere. La nuova Corinto, come puoi facilmente immaginare, non doveva essere una bella città, proprio a causa dei nuovi abitanti che, assolutamente disinteressati all’arte e alla cultura, cominciarono col saccheggiare le tombe antiche e i monumenti, per ricavarne gioielli e oggetti d’arte da vendere agli antiquari romani.
Col tempo, però, Corinto è cambiata ed è diventata una bella città. Oggi è una città moderna, con tutti i principali palazzi costruiti di recente, le monumentali fontane che raccolgono l’abbondante acqua della zona, le vie e le piazze realizzate secondo i criteri dei nostri migliori architetti, che sono stati capaci di valorizzare le antichità, inserendole in un nuovo impianto urbanistico. Il gioiello di Corinto è il meraviglioso tempio dorico di Apollo, il più antico e il più importante della Grecia: sopravvissuto alla distruzione, esso continua a ergersi, con le sue trentotto colonne monolitiche, al centro della città sopra una terrazza rocciosa, proprio attigua al nuovo foro romano, sede della vita economica e civile di Corinto, con il bema su cui io ho rappresentato, in qualità di proconsole, la giustizia di Roma.

1.2. Il commercio è l’anima di Corinto

Caro fratello Seneca, è stato inutile cercare in questa città gli ambienti della grande cultura. In questo Corinto mi ha deluso, perché la nuova popolazione è interessata solo a far soldi: i pochi ricchi che vi abitano sono grandi commercianti e armatori, impegnati a difendere e moltiplicare il loro patrimonio, avidi di nuovi guadagni e di rendite sempre più facili; i moltissimi poveri, d’altra parte, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione, sono angosciati quotidianamente dai problemi della sopravvivenza e si danno un gran da fare per guadagnare quel poco che permette loro di vivere e, magari, quel po’ di più che consente anche di divertirsi. I filosofi come te avrebbero grosse difficoltà a farsi ascoltare da gente del genere!
Corinto è sempre stata una città commerciale. La sua posizione strategica è stata sfruttata bene dall’abilità dei suoi abitanti. Le coste del Peloponneso, infatti, sono estremamente frastagliate e la navigazione intorno a quegli scogli è molto pericolosa; ma non c’era altra possibilità per le navi che volevano tenere i contatti fra l’Occidente e l’Oriente. Corinto ha escogitato un’altra strada! Appena giunto qui, sono stato a visitare questa originale iniziativa, che ormai, però, è quasi del tutto in disuso. La chiamano díolkos: si tratta di una pista di allaggio, costruita attraverso l’istmo per consentire alle navi da carico di transitare da un mare all’altro, evitando la circumnavigazione del Capo Maleo, tremendamente pericoloso.
Mi hanno regalato una copia dell’opera geografica di Strabone: vi ho letto con attenzione tutto quello che riguarda la storia di Corinto e ho trovato anche un proverbio che doveva circolare fra i marinai del Mare Nostro. Dice: “Quando passi il Malea, dimentica quelli di casa!”.
[3] È chiaro che la strada alternativa offerta da Corinto veniva preferita, per forza: le navi venivano tirate su dall’acqua di un porto e sistemate su una specie di binario; quindi, con l’aiuto di grossi rulli e la fatica di innumerevoli manovali venivano fatte scivolare lungo tutto l’istmo fino all’altro porto. In tal modo si guadagnava tempo e si evitavano i pericoli del mare; ma soprattutto prosperava il commercio di Corinto, offrendo ai ricchi molti vantaggi e fornendo ai poveri molti posti di lavoro.
Purtroppo, però, l’accresciuta mole delle navi e l’eccessivo tonnellaggio delle imbarcazioni moderne ha reso sempre più difficile o addirittura impossibile questa operazione. Mi hanno detto che è stato utilizzato in grande stile per l’ultima volta circa ottant’anni fa, quando Ottaviano, inseguendo Antonio dopo la battaglia di Azio, vi fece transitare le sue navi da guerra in pieno inverno. Ormai, invece, è ridotto a un cimelio del passato. Ho pensato che al suo posto si potrebbe scavare un canale per mettere in comunicazione i due mari: ma non sembra una trovata originale. Mi hanno informato su vari tentativi del genere, a partire dal tiranno Periandro, ripresi in considerazione ancora di recente, ma sospesi perché gli esperti hanno detto che il livello del mar Ionio è più alto dell’Egeo e, in caso di collegamento, sommergerebbe completamente l’isola di Egina.
Anche senza díolkos il movimento a Corinto non manca. Tutte le imprese commerciali che vi avevano posto una sede continuano a usare i due porti, magari facendo trasportare la merce da uno all’altro: perciò la popolazione è in continuo cambiamento. Alcune stime parlano di quasi mezzo milione di abitanti, ma per due terzi sono schiavi: soprattutto operai addetti ai lavori portuali e alle varie attività connesse col mercato internazionale; proprio come merce umana anch’essi seguono gli spostamenti delle navi, delle mercanzie e degli interessi dei loro padroni. Residenti stabili a Corinto sono numerosi piccoli proprietari, impegnati nell’artigianato e nel commercio: fabbricano e vendono soprattutto vasi di ceramica, non più belli come quelli di una volta, ma utili per contenere vari generi alimentari, e oggetti di bronzo, come statue, armi e specialmente specchi. Invece i ricchi armatori che vi vengono per lavoro, passano e se vanno; certamente cercano qualcosa di meglio.

1.3. «Corinteggiare»

Quando sono arrivato al Lecheo, mi hanno accolto con tutti gli onori e, poi, mi hanno scortato in città, fra vigneti, campi di ulivi e di fichi, lungo i dodici stadi[4] della nuova e ampia strada lastricata che conduce dal porto al centro della città. Proprio davanti a me, come sfondo delle costruzioni cittadine, si ergeva la massa montagnosa dell’Acrocorinto che domina imponente tutta la pianura: lassù, mi hanno spiegato, sorge il tempio di “Afrodite Pándemos”, la Venere popolare di cui i corinzi sono molto devoti. Ho letto in quel libro di Strabone che nell’antichità il tempio della dea dell’amore era stato così ricco da possedere più di mille sacerdotesse, o ierodule – come le chiamavano – schiave sacre che praticavano la prostituzione come atto di culto, per ottenere benefici dalla dea. Ma ho l’impressione che l’importanza di tale culto licenzioso sia stato esagerato: oggi, per lo meno, non ha più grande consistenza e non è questo culto che caratterizza la città. Tuttavia, è impressionante l’enorme diffusione della prostituzione a Corinto: penso sia normale in una città di mare con una popolazione di passaggio che cerca occasioni di divertimento e di sfogo fuori dal proprio ambiente. Ma qui sembra proprio un fenomeno tipico della vita cittadina e, come magistrato, devo ammettere che vi ho trovato proprio di tutto: fornicatori, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, sfruttatori, imbroglioni, calunniatori, ubriaconi.
Dagli studi giovanili mi è tornata in mente qualche battuta di Aristofane, che adoperava il verbo “corinteggiare” per alludere a un comportamento osceno; ma ancora oggi dire di una ragazza che è “corinzia” significa qualificarla come cortigiana, e il nomignolo corinthiastés viene dato ai protettori.
[5] Pensavo che si trattasse di luoghi comuni della letteratura comica; e invece mi sono reso conto di persona che la città di Corinto è proprio così. Le taverne e i lupanari sono a ogni angolo di strada; persino sulle coppe da bere ho visto scritto il motto di questa mentalità di divertimento: “Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”.
Il nostro poeta Orazio ha scritto: “Non è da tutti recarsi a Corinto”;
[6] alludeva al carattere molto costoso del vizio, e veramente qui vengono spesi capitali per il divertimento e per ogni genere di eccesso. Mi ricordo di aver visto lungo la grande strada che porta in città alcune tombe di persone famose, fra cui il sepolcro del filosofo Diogene e poco dopo quello della celebre cortigiana Laide. Senza dubbio quest’ultima rappresenta l’attuale mentalità di Corinto.

1.4. La ricchezza umana di Corinto

In primavera ho avuto la fortuna di assistere a una delle più significative manifestazioni di tutta la Grecia: i Giochi Istmici. Sono convenuti qui i migliori atleti, poeti e i musicisti più celebrati di questi anni, per disputarsi il trofeo della vittoria: una corona di rami di pino. Usano il pino, perché è l’albero sacro a Poseidone, in onore del quale vengono celebrate le gare: prima di tutto, infatti, sono una festa religiosa. Una suggestiva processione notturna ha dato inizio ai riti: alla luce delle fiaccole e delle lampade che ognuno portava in mano, ho sentito rievocare con commozione la leggenda dell’eroe Palemone, il principe annegato, deposto da un delfino sulla riva del mare e raccolto dal mitico Sisifo, re di Corinto. Nel suo piccolo santuario, si è sacrificato un toro nero in olocausto e i concorrenti hanno quindi prestato giuramento solenne di osservare le regole delle prove; e poi, sul finire della notte, ogni partecipante ha versato l’olio della sua piccola lampada sul grande fuoco nel quale si consumava il sacrificio.
La suggestione del rito si è aggiunta a un’altra impressione: mi aveva colpito, infatti, l’eccezionale impegno con cui gli sportivi si sono preparati alle gare, sottoponendosi per mesi a esercizi lunghi e faticosi, lontano dai divertimenti e rigorosi nella dieta. Tutto questo per una corona di pino! Evidentemente è la gloria e la fama che cercano: anche questo è Corinto!
Ma le gare sono una parentesi: la vita ordinaria è il mercato. Passeggiare per le vie di Corinto è uno spettacolo, perché è tutto un negozio, che vende di tutto. Però in questo mare di merci, la vera ricchezza è costituita dall’umanità. Nel mio breve soggiorno ho avuto modo di incontrare molte persone, tipi fra i più diversi, alcuni strani e caratteristici, altri banalmente comuni; ma mi ha lasciato l’impressione generale di una città vivace e amichevole, qualche volta anche passionale, interessata alla questioni della vita e capace di entusiasmarsi per qualcosa di più grande del denaro e del divertimento.
A proposito, mi è venuto a salutare il signor Aquila, con la moglie Prisca, che lui chiama familiarmente Priscilla: li avevo conosciuti a Roma, tempo fa, come produttori di tessuti e di tende, e avevamo stretto dei buoni rapporti; per cui incontrarli qui mi ha fatto piacere. Sono ebrei, ma molto aperti e capaci di dialogare con quelli diversi da loro: qualità che non è comune! Mi hanno raccontato i motivi del loro trasferimento, perché sono stati implicati in quella normativa che due anni fa il nostro glorioso Cesare ha emanato per calmare le continue sommosse che scoppiavano nel quartiere giudaico di Roma, per motivi assurdi che l’amministrazione imperiale non riusciva assolutamente a capire. Ho saputo che c’era di mezzo un certo Cristo: ma anch’io non ho compreso bene quale fosse il problema dei disordini. In ogni caso fra i giudei espulsi dalla capitale c’era anche il mio amico Aquila e così me lo sono ritrovato a Corinto.
Il fiuto dell’imprenditore gli ha suggerito la città adatta per riprendere la sua attività di commercio. Qui a Corinto, infatti, gli ebrei non sono pochi: ne passano da tutto il Mediterraneo e la loro sinagoga è un centro vivace di comunicazioni e di incontri; ma anche di scontri. Proprio su suggerimento di Aquila sono stato a far visita di cortesia, tanto per rendermi conto della situazione, al capo della sinagoga. Ho conosciuto così il signor Sóstene, che ha assunto l’incarico da poco tempo e, suo malgrado, ha dovuto raccontarmi dei disordini che hanno portato alla sostituzione del suo predecessore. Costui, di nome Crispo, aveva appoggiato un predicatore giudeo, un tal Paolo, proveniente da Gerusalemme che insegnava strane dottrine su Cristo: anche qui di nuovo lo stesso problema e il riferimento a questo strano nome! Crispo si era lasciato convincere da questo Paolo, mentre molti altri giudei non ne volevano sapere; e così, dopo qualche vivace discussione si è passati a un’aperta lite, che è finita con l’espulsione dalla sinagoga di tutti quei giudei che si fanno chiamare “cristiani”. Adesso la sinagoga di Corinto è in mano a Sóstene, che mi sembrava ben intenzionato a porre fine alle questioni.

1.5. Uno strano caso giudiziario

Dico “sembrava”, perché ho dovuto ricredermi. Pochi giorni fa, infatti, mentre sedevo sul bema, simbolo della mia autorità di proconsole d’Acaia, me lo sono visto comparire davanti, come capo della delegazione giudaica con l’intento di denunciare quel tal Paolo. Evidentemente le questioni non erano finite.
Sóstene non era solo: molti giudei l’avevano accompagnato e con forza mi avevano portato davanti anche il loro imputato. Nello sporgere denuncia contro Paolo, il capo della sinagoga mi ha detto che questo predicatore ha preso in affitto un locale proprio sulla stessa piazza dove sorge la sinagoga e vi ha installato una specie di scuola alternativa. Mi è parso di intuire una questione di concorrenza, quasi un diverbio fra commercianti che si rubano i clienti. Ma il discorso degli accusatori era molto più serio: mi hanno, infatti, parlato di un insegnamento relativo a un culto contrario alla legge romana.
Per quel poco che avevo capito dai racconti e dalle spiegazioni di Aquila, mi sono accorto subito che si trattava di un problema interno alla comunità giudaica e tutta la questione ruotava sull’interpretazione della loro legge religiosa e sull’uso di parole o di nomi. I giudei aspettano un liberatore che in greco chiamano “Cristo”; ma non sono affatto d’accordo sulle sue caratteristiche e sul suo ruolo. Ora questo Paolo, mi hanno detto, gira il mondo a dire che il Cristo è venuto e si identifica con un certo Gesù di Nazaret che il procuratore Ponzio Pilato ha condannato alla crocifissione circa vent’anni fa. Crispo lo ha accettato e come lui tanti altri ebrei che lo seguono; Sóstene, invece, insieme a molti altri, non ne vuole sapere e cerca di ostacolarlo.
È evidente che tutto questo non ha nulla a che fare con il diritto di Roma; perciò non ho voluto nemmeno aprire il processo e con fermezza ho allontanato quella delegazione dal mio tribunale. Ne è venuto fuori un subbuglio generale: proprio in mezzo al foro, infatti, i giudei si sono messi a urlare e se la sono presa con Sóstene, dandogli dell’incapace e accusandolo di non essere riuscito a sostenere l’accusa. Dalle parole sono passati alle mani e hanno sfogato le loro ire aggredendo con violenza il capo della sinagoga, mentre quel Paolo se ne è andato per la sua strada.
Non ho più voluto entrare in queste faccende, perché non mi riguardano e non mi interessano. Tuttavia la vicenda mi ha lasciato un po’ perplesso: come è possibile che in una città come Corinto ci siano delle persone che si appassionano a questioni religiose? Forse, come avevo già intuito, in questa città malfamata si nascondono desideri e speranze che non possono essere saziati con soldi e piaceri; forse in mezzo a questa moltitudine volgarmente banale, ci sono persone che si aspettano qualcosa di più e cercano un senso della vita che neppure noi, caro fratello filosofo, sappiamo trovare. Per questo strano contrasto Corinto mi ha affascinato.
Ma presto sarò di nuovo a Roma; e di queste cose forse non ne sentiremo parlare mai più! A presto.

Ave atque vale».

[1] Oltre alle introduzioni alle lettere ai Corinzi, si possono trovare notizie sulla città di Corinto in: J.L. Vesco, In viaggio con san Paolo. Città e regioni del Mediterraneo nella storia e nell’archeologia, Morcelliana, Brescia 1974, pp. 117-135; H.D. Saffrey, «Paolo fonda la Chiesa di Corinto», in Il Mondo della Bibbia 4 (1990) 41-47; R. Penna, «Corinto: città greca e Vangelo a confronto», in Eteria 1 (1996) 42-46.
[2] La distruzione di Corinto avvenne nell’anno 146 a.C. Il titolo di «opulenta» (aphneiós) dato a Corinto è classico: si trova già nell’Iliade (2, 570).
[3]Strabone, Geografia, VIII, 6, 20; prezioso testo edito di recente: Strabone, Geografia. Il Peloponneso: libro VIII, tr. it. a cura di A.M.Biraschi, Rizzoli, Milano 2000, pp. 242-251.
[4] Uno stadio romano corrisponde a mt.185; fra il porto di Lecheo e l’antica città di Corinto c’erano infatti circa 2 km.
[5]Aristofane, fram. 370; così è testimoniato anche in altri testi di poeti comici, meno noti, del V sec. come Filetero e Polioco. L’espressione «ragazza corinzia [hē korinthia kórē]» si incontra in Platone, La Repubblica, 404d.
[6]Quinto Orazio Flacco, Epistole, I, 17, 36: «Non cuivis homini contingit adire Corinthum». Anche Strabone riporta la stessa frase e la qualifica come un proverbio.

Padre F. Manns: « Omelia di Pafo » – [Atti, Paolo e Barnaba, Cipro]

dal sito:

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Omelia di Pafo (F. Manns) (Atti 13,13; 43. 46.50; 14,26; )

Durante una celebrazione comunitaria, lo Spirito Santo per bocca di alcuni membri invita la comunità di Antiochia ad aprirsi alla missione. Barnaba e Paolo sono scelti e mandati. Vanno al porto di Seleucia che abbiamo visto in Turchia e prendono la nave per Cipro. Tutti i viaggi missionari partono da Antiochia, e hanno come punto di arrivo Gerusalemme.
La comunit
à impone le mani ai due missionari in segno di comunione. Paolo ritornerà ad Antiochia per rendere conto della missione alla comunità (Atti 14:26). Anche Marco che ha raggiunto la comunità
di Antiochia accompagna i due missionari.
Siccome Barnaba era originario di Cipro il campo della missione
è
chiaro: si comincia con Cipro. Barnaba, il capo missione era un levita. Fu il protagonista della comunione dei beni tentata nella Chiesa di Gerusalemme. Vendette il suo campo e ne consegno il prezzo agli apostoli (Atti 4:36).
Barnaba non si fece intimorire dalla fama di Saulo come persecutore. Lo present
ò agli apostoli e alla comunità
di Antiochia come risulta da Atti 9:26 e 11:25.
Insomma tutto fa pensare che Barnaba sia stato colui che ha orientato i passi dei missionari verso Cipro e che sia stato il numero uno riconosciuto di tutta l
impresa.
Cipro per la sua posizione strategica e per le sue ricchezze di metalli era stato oggetto di invidia da parte di tutte le grandi potenze. Nel 58 i romani la presero ai Tolomei d
Egitto e dal 22 prima di Cristo Cipro era diventato una provincia senatoriale.
Arrivati a Salamina, citt
à nota per il suo commercio con la Siria e lOriente, attraversano lisola lungo la costa: sono 150 kilometri. Al giorno facevano 30 kilometri. Arrivano a Pafo dove cera uno dei santuari più importanti dellantichità nella palaia Pafo
(Kouklia di oggi) luogo della nascita di Afrodite nata dalla schiuma del mare (aphros) a 15 kilometri della nuova Pafo. Limperatore Augusto aveva fatto edificare la Nea Pafo con le sue bellissime case con mosaici dopo che un terremoto aveva distrutto la vecchia città
.
Nel corso della missione Paolo prese la mano a Barnaba, scavalcando il suo primato e la sua leadership. Luca scrive raramente: Barnaba e Paolo poi scriver
à
Paolo e Barnaba (Atti 13:43.46.50). In Atti 13:13 addirittura scrive: Paolo e quelli che erano con lui. Barnaba viene relegato a personaggio anonimo tra gli accompagnatori di Paolo.
Barnaba con un esemplare disinteresse
è caduto in posizione subalterna. E proprio nell episodio che contrappose i missionari al mago Elimas che Paolo s
impone.
Il proconsole di Cipro si chiamava Sergius Paulus e abitava nella Nea Pafo. Era un uomo di cultura e curioso. Il culto di Afrodite probabilmente l
aveva stancato. Luomo era più
che una bestia che ha come solo piacere il sesso e il cibo.
Nel suo entourage c
era un ebreo Bar Gesù, un mago (elymas
significa mago) che si oppone alla predicazione cristiana. Saulo lo interpella: figlio del diavolo, smetti di deformare le vie del Signore. Tu diventerai cieco e non vedrai più il sole. Paolo come Gesù
comincia la sua missione con un esorcismo.
Il proconsole Sergius Paulus testimone di questo esorcismo accetta la fede cristiana.
Da quel momento in poi Luca chiama Saulo Paolo probabilmente per ricordare la sua amicizia con il proconsole.
Il nome di Quinto Sergio Paolo
è stato trovato inciso su una stele accanto al nome dellimperatore Claudio. Membri della sua famiglia avevano fondato una colonia romana nelle vicinanze di Antiochia di Pisidia nel 25 prima di Cristo dove avevano grandi proprietà. Non è
improbabile che il proconsole Sergius Paulus abbia aperto le strade per la missione di Paolo ad Antiochia di Pisidia.
Vorrei sottolineare solo alcuni aspetti di questa tappa della prima missione.
La scelta dei posti strategici della missione
è importante. Gesù predicava a Cafarnao, lungo la via maris
. Paolo va nei centri urbani e cultuali importanti dellantichità. Non ha paura di affrontare il culto di Afrodite, l
Amsterdam di allora.
L
equipe dei missionari è costituita da tre membri: Barnaba, Saulo e Marco. Barnaba essendo nominato per primo era il capo missione. Ma Paolo, con il suo carattere forte, comanda. Questo non piace a Marco, che abbandonerà l’équipe quando lascia lisola di Cipro. Anche i missionari hanno i loro caratteri. E il Signore li prende come sono. Nessuno è
perfetto. Pietro e Paolo avranno un scontro ad Antiochia.
Paolo entra dapprimo nelle sinagoghe per annunciare agli Ebrei la parola. Lo vediamo a Salamina :
Giunti a Salamina cominciarono ad annunciare la parola di Dio nelle sinagoghe dei giudei
(Atti 13:5). Quando il suo messaggio viene rifiutato si rivolge ai pagani. Abbiamo dimenticato questa preferenza della Chiesa per i fratelli maggiori per tanti secoli.
La missione va verso occidente partendo da Antiochia. Non era indispensabile che fosse cos
ì. Avrebbe potuto dirigersi verso Oriente, verso il Tigri e lEufrate, la terra di Abramo. Avrebbe potuto dirigersi verso lEgitto, la terra del Nilo dove Israele una volta stava come schiavo del Faraone. La missione si dirige verso Roma. A Cipro un alto funzionario viene presentato come uomo di senno (Atti 13:7). La tesi di Luca è che il vangelo avanza irresistibilmente. Dietro lelogio del proconsole Sergio, Paolo Luca lascia intravedere la sua ammirazione per Roma, mentre non dice nulla di Alessandria o di Atene. Ora sappiamo che Apollo era nativo di Alessandria (Atti 18:24) e che Paolo sale su navi alessandrine dirette verso Roma (Atti 27:6 e 28:11) Ad Atene Luca ambienta il discorso di Paolo allareopago solo in 21 versetti. Altre brevi menzione di Atene sono fatte in Atti 17:15.16; 18:1. Roma invece fa inclusione in Atti 1:8 e 28:31 sotto il tema di estremità della terra. Paolo giungerà lì come testimone evangelico. A Luca interessa che il vangelo giunga a Roma, perché avrà raggiunto le estremità della terra. Il Vangelo partito da Gerusalemme arriverà a Roma passando a Cipro e trionfando sui falsi profeti giudei. Questo significa anche la responsabilità dellOccidente a cui è
stato affidato il compito missionario.
La nostra visita a Cipro ci ricorda che nei testi sacri non c
’è
soltanto retorica o generi letterari. Esiste anche un elemento storico e kerigmatico che ci invita alla conversione.

BREVE STORIA DI CIPRO

La leggenda vuole che Cipro sia il luogo della nascita della dea Afrodite, ma le tracce più remote della presenza umana risalgono allinizio del VI millennio a.C.. La sua fortuna, in epoca successiva, è legata allabbondanza del rame che vi si poteva trovare in tale quantità da poterne raccogliere anche in superficie. Il rame la rese quindi famosa e ne fece un centro notevole di scambi commerciali. Al rame è però legato anche il suo destino, almeno a partire dalla metà del III millennio a.C.. Per questa sua naturale ricchezza infatti verrà contesa nellantichità tra le grandi potenze della regione. Colonizzata dai micenei a partire dal XIV sec. a.C., conobbe poi linfluenza dei fenici, per passare poi sotto il dominio degli assiri, e poi degli egiziani, quindi dei persiani e divenire ellenista con Alessandro Magno e ritornare sotto gli egiziani con i Tolomei.

Conquistata infine da Roma nel 58 a.C., nel 51 vi viene inviato come proconsole Cicerone, che si dimostra un attento amministratore e risolleva le sorti dellisola. Passata nel 330 d. C. allimpero romano dOriente, rimase sotto i bizantini, anche se con alterne vicende e periodi di saccheggi e invasioni da parte islamica, sino alla sua occupazione da parte dei crociati di Riccardo Cuor di Leone, re dInghilterra, in missione verso la Terra Santa, nel 1191. Egli la vende a Guido dei Lusignano, re di Gerusalemme. Si instaura così questa dinastia franca dei Lusignano che durerà sino al 1489, quando lultima regina Caterina Corsaro, veneziana, consegnerà lisola in mano ai veneziani. Loccupazione veneziana terminerà nel 1571 con la caduta di Famagosta e lassassinio del suo comandante Marcantonio Bragadin. L

isola, caduta così nelle mani dei turchi, resterà sotto il dominio ottomano sino al 22 luglio 1878 quando passò sotto la dominazione britannica. Solo nel 1960 conquisterà, dopo una lunga lotta, la sua indipendenza sotto la guida del famoso arcivescovo Makarios. La presenza però sullisola di due etnie diverse, quella greca e quella turca, rende la situazione instabile sino a una guerra aperta che scoppia nel 1974 tra i due gruppi sostenuti rispettivamente da Grecia e Turchia.

Effetto di questa lotta sarà una divisione dellisola, la parte greca nel sud-ovest e la parte turca nel nord-est.

S. BARNABA

Barnaba, della tribù di Levi, cipriota di nascita era cugino di Marco levangelista (Col 4:10). Viveva a Gerusalemme quando, convertito al cristianesimo, vendette la sua casa consegnandone il prezzo agli Apostoli (Atti 4:16-17).

Fu Barnaba a presentare Paolo neo-convertito agli Apostoli (Atti 9:26-27) e fu lui che da Antiochia, ove era stato inviato dagli Apostoli per verificare landamento della sua comunità, andò a Tarso a cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia (Atti 11:25), ove lavorarono per un anno intero nellevangelizzazione con grande frutto. E con Paolo, inviato dallo Spirito, si imbarc

ò alla volta di Cipro e poi nellAsia Minore per il primo viaggio missionario.

Nel secondo viaggio missionario però i due si separarono: Paolo ritorna verso lAsia Minore, mentre Barnaba, accompagnato dal cugino Marco, ritorna a Cipro (Atti 15:36-41). Il Nuovo Testamento non ci parlerà più di lui e quindi per il resto della sua vita ci si affida a tradizioni o scritti apocrifi. Pare sia stato martirizzato per mano degli ebrei nel 61 d.C. e il cugino Marco lo seppellì segretamente. La sua tomba viene ritrovata a Salamina nel 488 al tempo dell

imperatore Zenone insieme a una copia del Vangelo di S. Matteo. In Oriente e in Occidente la sua festa è celebrata l11 giugno.

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