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CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL’ UNITÀ CRISTIANA…

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CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL’ UNITÀ CRISTIANA, NELLO SCAVO DELLA CITTÀ ANTICA)

La comunità di Corinto è una delle comunità paoline che conosciamo meglio, per l’ampiezza dei testi che si sono conservati. Paolo, dicono gli Atti deg li Apostoli, abitò a Corinto un anno e mezzo, la prima volta che vi giunse, poi si fermò qui una seconda volta. Ha scritto ai Corinzi non solo le due lettere che possediamo, ma, probabilmente, almeno altre due. Gli studiosi dicono che la 1 lettera ai Cori n zi è una lettera unitaria. Invece nella seconda lettera ne riconoscono due, poiché ipotizzano che la seconda parte della lettera sia la lettera “ dalle molte lacrime” che Paolo dice di aver inviato precedentemente a quella che è la nostra 2 Cor. Infatti nel la seconda parte di 2 Cor, nei capitoli da 10 a 13, vediamo Paolo che si offende, si agita, si commuove, che è profondamente adirato con i Corinzi. Se è vera questa ipotesi, allora la prima parte della seconda lettera ai Corinzi – dal capitolo 1 al capito l o 9 – sarebbe in realtà la terza lettera scritta da Paolo a questa città e la nostra 2 Cor sarebbe un insieme di queste due lettere. L’ ultima parte, più antica, evidenzierebbe questa profonda frizione con Paolo, la prima parte, più recente, ci mostrerebbe Paolo ormai tornato in buoni rapporti con la comunità locale.
Vorrei farvi notare prima di tutto questo – e questo già basterebbe per oggi. Ogni volta che affrontiamo Paolo tocchiamo il valore della vita ecclesiale, il valore della vita della Chiesa. S.Pa olo non ci racconta, nelle sue lettere, l’ inizio della fede, perché le lettere sono scritte quando già le comunità esistono. Le lettere affrontano quello che avviene dopo, quello che avviene durante lo svilupparsi della vita. Le lettere non sono scritte p e r “ mettere la prima pietra” , ma perché , dopo averla messa, è importante come si continua a costruire. Pensate alle nostre famiglie per esempio, alla loro evoluzione, ai rapporti con i figli, con i nipoti; tutto questo dice una continuità . Chi vuole brucia r e in un attimo le cose, o pensa che avendo fatto una cosa all’ inizio con il proprio figlio, giusta o sbagliata che sia, è a posto per sempre, ha già risolto tutto, in realtà non riesce più ad amare. Perché in realtà se ha sbagliato può cambiare, se ha fat t o bene deve continuare sulla giusta via. Questa continuità di rapporto, già di per sé , dice – noi lo cogliamo nelle varie lettere ai Corinzi – una continuità di rapporti. C’ è un passato, ma la vita va avanti. Vi faccio vedere tre passaggi di questo. Nella 1 Corinzi in cui Paolo comincia ad alzare un po’ il tono perché li vuole rimproverare .
1 Corinzi 4,18 – 21:

Come se io non dovessi più venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d’ orgoglio. Ma verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto al lora non già delle parole di quelli, gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare, perché il regno di Dio non consiste in parole ma in potenza. Che volete? Debbo venire a voi non il bastone, o con amore e con spirito di dolcezza?
Paolo dice “Cosa volete, vengo a bastonarvi?” E’ una domanda reale, seria. O vengo perché state capendo, vi state convertendo? E’ una comunità che va avanti e Paolo come Apostolo la vuole veder crescere – non gli basta l’inizio – e, per questo, si domanda: “Cosa debbo fare con voi? Il bastone o la tenerezza?”
Il rapporto si modifica – e diviene più severo, nell’amore – nella 2 Corinzi 10, che è appunto la lettera “dalle molte lacrime” – io condivido questa posizione; da 10 fino a 13 non è la stessa lettera, ma è un’altra lettera che sta tra 1 Cor e 2 Cor. Leggiamo allora in 2 Corinzi 10, 1 – 11:
Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi…
Questa era l’accusa che gli facevano, è una lettera viva! Evidentemente i Corinzi avevano mandato a dire che Paolo, quando stava con loro, era dolce, ma quando si allontanava era uno che picchiava duro e diceva: “Qui bisogna cambiare, convertirsi, così non va”. Allora Paolo riprende queste critiche a lui rivolte e spiega:
Vi supplico di far in modo che non avvenga che io debba mostrare, quando sarò tra voi, quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne. In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo. Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta.
Guardate le cose bene in faccia: se qualcuno ha in se stesso la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che se lui è di Cristo lo siamo anche noi. In realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò proprio da vergognarmene. Non sembri che io vi voglia spaventare con le lettere! Perché “Le lettere – si dice – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa”. Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza.
Questa è la lettera in cui sale ancora di più di livello. Paolo dice “Attenzione, se continua così io vengo veramente e dalle parole forti passeremo alla mia presenza forte che chiederà conto ad ogni persona”.
Poi, invece, nell’ultima lettera che noi abbiamo – che probabilmente è la 2 Corinzi 1-9 – poiché evidentemente c’è stata una conversione, c’è stato un salire di livello della comunità, allora Paolo, in 2 Corinzi 7, 8 – 13, così si esprime:
Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto – vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati – ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. Così se anche vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell’offensore o a motivo dell’offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio. Ecco quello che ci ha consolati.
Questa è una lettera in cui Paolo ha superato questo momento di rimrpovero alla comunità di Corinto e dice: “Che qualcuno sia stato triste per la mia parola, va benissimo, purché la tristezza sia servita a portare un pentimento, di cui non ci si pente” – cioè il pentirsi è l’unica cosa di cui non ci si pente, il chiedere perdono a Dio.
Ci sono due tipi di tristezza, c’è la tristezza del peccato, quando uno si accorge che ha sbagliato, che produce la conversione. C’è la tristezza invece secondo il mondo, l’essere tristi, che produce solo morte. Notate sempre il discernimento degli spiriti, la capacità di capire che tipo di tristezza la parola dell’Apostolo ha generato. Allora riassumiamo. C’è innanzi tutto questa prima cosa che credo sia utile per noi come Chiesa, per ogni relazione familiare, per i figli, i nipoti. Sapere cioè che la relazione non si esaurisce in un istante, ma, anzi, ha bisogno di tempi lunghi, di tutta una vita, e se ci sono momenti in cui si dicono dei “no”, questi momenti non sono la fine. Ci sono dei momenti in cui è bene aprire delle porte, poi altri in cui è bene richiuderle, poi si riaprirle – un rapporto non è mai lo stesso. La cosa importante è essere presenti in questa storia, metterci il Signore dentro e avere questa capacità di pentirsi che genera continuamente la possibilità di riavvicinarsi.
Una seconda cosa importantissima è data dalle affermazioni intorno al fatto di costruire, di mettere una pietra, un fondamento che è Cristo e che non può essere diverso, ma insieme alla necessità di doverci poi costruire bene sopra. Vediamo 1 Cor 3, 5 e seguenti:
Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio.
Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
In questa comunità si litigava: perché? Paolo l’aveva fondata. Allora Paolo era quello che aveva messo il primo fondamento. Poi era arrivato un altro, Apollo, che aveva cominciato a dire alcune cose. Allora nella comunità alcuni si schieravano con Paolo e dicevano di “essere di Paolo”, altri si schieravano con Apollo e dicevano di “essere di Apollo” e altri dicevano: “Noi siamo di Cristo e non siamo né dell’uno né dell’altro”. S.Paolo spiega che così la Chiesa non crescerà mai. Nella Chiesa bisogna che ci sia un fondamento e bisogna però che poi si continui a costruire bene.
Un figlio bisogna farlo nascere. Però, una volta che è nato, bisogna poi educarlo ed è importante chi gli ha dato fisicamente la vita ma è anche importante chi gli sta poi vicino perché cresca. Paolo spiega allora: “Il fondamento deve essere messo bene, non può essere messo male. Se uno mette un fondamento diverso da Cristo è un disastro. Però poi una volta messo il fondamento bisogna continuare a costruire bene. La comunità, la Chiesa, ha bisogno di una crescita nel bene e non bisogna distruggere il tempio di Dio che siete voi”. Notate che luce! E’ una cosa semplice ed insieme profondissima. Pensate – ripeto – a qualsiasi rapporto che dura nel tempo. S.Paolo allora fa riflettere su questo e poi si arrabbia sia con chi si richiama all’uno o all’altro, sia addirittura con chi si richiama solo a Cristo senza fare i conti con le persone concrete che Dio mette fra i piedi, come il padre, la madre, il nonno. Io non posso essere educato solo da Dio senza mia madre, mio padre, mio nonno, i miei fratelli e così via. La cosa importante è accogliere ogni persona come un ministro di Dio e Cristo come la pietra fondante che è all’origine di tutto. La Chiesa non può non avere come fondamento Cristo. Chi mette un altro fondamento sbaglia. Non si costruisce la Chiesa sulla psicologia, sul gioco, sulle pizze o sulla cultura. Ci si incontra perché conquistati da Cristo. Ma, posto quel fondamento, si accolgono tutte le persone che il Signore stesso manda alla sua Chiesa. Non esiste un cristianesimo senza Chiesa.
E qui veniamo appunto al tema grande che affrontano queste lettere, all’orizzonte più grande. Leggiamo l’inizio del cap. 3, dove Paolo, daccapo, riflette su questa crescita che ci deve essere. C’è una cosa iniziale e poi pian piano bisogna andare avanti.
Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali: dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?
Quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non vi dimostrate semplicemente uomini?
Paolo dice che c’è, proprio come avviene ad un bambino – all’inizio ad un bambino non si può dare da studiare la Divina Commedia o tutta la scienza, ad un bambino si dà il latte – se il bambino cresce bene si comincia a poter dare da mangiare la carne, la verdura. Lui dice che nel cammino spirituale è la stessa cosa. Qual è il dramma? Paolo afferma che il dramma è che questa comunità è neonata, è appena nata – sebbene non lo sia anagraficamente – perché c’è un aspetto importante che non va. Notate, fra l’altro, cos’è lo “spirituale” per Paolo. La gelosia, l’invidia, la discordia, fanno sì che le persone siano dei bambini. Vogliono essere trattati come bambini e lui non riesce a dare loro un cibo diverso perché sono così presi da beghe interne, da cose di poco conto che sono tipiche dell’infante, che non riescono, invece, a digerire un cibo buono, che li renda evangelizzatori, li renda uomini di carità, ecc. In particolare questa cosa viene fuori proprio parlando della Chiesa. Lo vediamo ora leggendo 1 Corinzi 1, 10 – 16. Abbiamo visto che la lettera ai Corinzi affronta tanti problemi, abbiamo visto il problema delle vergini, delle vedove, poi c’è il problema dell’incesto, dei tribunali. Paolo affronta una serie di problemi che gli vengono posti, ma il primo problema è quello dell’unità della Chiesa.
Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”
Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno.
Paolo qui addirittura aggiunge il nome di Cefa, poiché alcuni si richiamano a Pietro l’apostolo – notate, di passaggio, come veramente siano ancora vivi tutti gli apostoli e come questa storicità dia forza alla nostra fede. Pensate anche ai problemi odierni dei movimenti, dei vari gruppi nella Chiesa, cose buonissime, ma terribili se diventa preponderante essere di qualcuno rispetto all’essere di Cristo. A Paolo non va neanche bene che ci sia solo Cristo. Ognuno deve riconoscere chi ha fondato, chi ha continuato, ma deve riconoscere prima di tutto che Cristo è l’unità di tutti e deve vivere in questa comunione. La stessa cosa avviene anche quando parla dell’eucarestia, un altro brano molto bello e insieme duro, in 1 Cor 11, 17 – 34. E’ l’ultimo che leggiamo:
E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. E’ necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo.
Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.
Come sapete, anticamente, la messa veniva celebrata insieme ad una vera cena. Avveniva come abbiamo fatto per spiegare la Pasqua ebraica. Si cenava tutti insieme e si celebrava la messa. Cosa avveniva? Di fatto le persone andavano per partecipare tutti insieme all’eucarestia, però ognuno aveva la sua cena, cucinava per i suoi amici, per il suo giro di persone. Nessuno aspettava gli altri, nessuno condivideva con gli altri. Non c’era questa attenzione. Allora c’era chi era ubriaco, chi completamente satollo di cibo e c’era chi non mangiava niente. Cosa avveniva, che c’era il corpo di Cristo nell’eucarestia, ma non c’era il corpo di Cristo nella Chiesa. Allora Paolo dice: “Esaminatevi, perché chi riconosce il corpo di Cristo, ma non riconosce il fratello, sta mangiando la propria condanna”. Volete fare le vostre cose? Fatele a casa, ma che questa cosa non avvenga dove c’è la Chiesa di Cristo. Questo aiuta tantissimo a capire proprio il senso profondo che Paolo ha della Chiesa. Tutte le persone che vivono di Cristo, che ricevono il suo Battesimo, sono la Chiesa – questo ha delle conseguenze anche nei rapporti con gli ortodossi, ma non possiamo parlare di questo ora. La Chiesa è diversa dagli amici. La Chiesa non è fatta dagli amici. Non è vero che oltre l’amicizia non ci sia nulla. Non è vero che gli amici sono gli amici e gli altri non sono nulla, non li saluto neanche. La fratellanza, l’essere fratelli, non vuol dire essere amici. Gesù non ha ordinato che noi dobbiamo tutti essere amici tra di noi, tutti amici a S. Melania, tutti amici a Roma, tutti amici nel mondo. Sarebbe assurdo! Ma c’è il livello della fratellanza. Questa sì, il Signore l’ha ordinata. Ecco il posto dell’ attenzione, della comunicazione, della condivisione con coloro di cui a volte non conosco neanche il nome, che è il livello della Chiesa, dove io riconosco che ognuno è corpo di Cristo con me. C’è l’eucarestia che è Cristo presente nel pane e nel vino e c’è Cristo che è presente nella Chiesa. Vi ricordate quel brano che ci ha letto il nostro Vescovo, d.Rino Fisichella? E’ un brano di di Sant’Agostino, che dice:
Fate questo in memoria di me”: è con queste parole di S.Agostino che possiamo comprendere il senso della memoria eucaristica: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12, 27). Se voi, dunque, siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: il vostro sacro mistero voi ricevete. A ciò che voi siete, voi rispondete “Amen” e, rispondendo, lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii veramente corpo di Cristo, perché l’Amen (che pronunci) sia vero!
E’ fondata da Cristo la comunione cristiana. Non nasce dalle mie simpatie e non muore con le mie difficoltà ad andare d’accordo. E’ radicata nell’essere tutti noi membra del suo corpo.
Ecco, Paolo nella comunità di Corinto, ha insistito molto su questo. Mi viene in mente un’espressione di d.Francesco – molto vera – che ha fatto molto discutere in parrocchia. Ha detto ai giovani che vedeva in loro una mediocrità spirituale. Qualcuno se l’è presa come fosse un’offesa personale, dicendo. “Come può conoscerci tutti per dare questo giudizio?” E lui ha risposto: “Dico questo perché non siamo stati capaci di celebrare nemmeno un vespro insieme, in un anno di cammino, ma ognuno faceva le sue cose, senza essere disponibile ad un cammino comune” Questa è mediocrità spirituale ecclesiale. “Lo dico, perché vi voglio bene” – dice don Francesco – “non lo dico perché non vi sopporto o perché vi odio, ma perché è mio compito dire che non è possibile che dei cristiani non trovino la disponibilità una volta, in Quaresima, a celebrare un vespro o un ritiro insieme, su invito del loro vice-parroco”. E’ segno di un livello basso, di un livello da neonati, se tutto viene anteposto a vivere certi momenti.
La comunità è anche segno per l’evangelizzazione. Se ognuno è cristiano da solo ma non vive il segno della fratellanza, è più difficile per il non credente, per una persona lontana, trovare questo slancio, questo entusiasmo. Ecco che qui a Corinto abbiamo riflettuto molto su questo grande tema, che è il tema della Chiesa. La fede Dio la da personalmente ad ognuno, è nostra, non possiamo mai demandarla ad un altro, ma essa nasce dall’annuncio della Chiesa – la Chiesa è la nostra madre – e ci fa nascere anche come persone che vivono la Chiesa, che sono la Chiesa, che si riconoscono vicendevolmente come corpo di Cristo e che sanno in alcuni momenti rinunciare a delle particolarità per vivere il segno profondo dell’essere insieme il corpo di Cristo, in quel momento storico, in quella tappa.
Si potrebbero dire tante altre cose – le lettere ai Corinti sono lunghissime – ma volevo sottolineare soprattutto questi due aspetti, la Chiesa e questa fiducia nel lungo periodo, che ognuno di noi deve avere come educatore. Ci sono dei momenti in cui uno dice ad un nipote un “no” e l’altro, sul momento, è triste, ma dopo due anni se l’è dimenticato, non è più un problema. L’importante è che si cresca, che si cammini. Bisogna avere sia il coraggio di dire dei “no”, sia il coraggio di consolare, di dire dei “sì”, l’uno e l’altro in momenti diversi. Paolo con questa città ha avuto un rapporto molto lungo negli anni, con dei momenti alti, dei momenti bassi. Da qui il Vangelo ha continuato la sua corsa nel mondo intero.

CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL’ UNITÀ CRISTIANA, NELLO SCAVO DELLA CITTÀ ANTICA)

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CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL’ UNITÀ CRISTIANA, NELLO SCAVO DELLA CITTÀ ANTICA)

CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL' UNITÀ CRISTIANA, NELLO SCAVO DELLA CITTÀ ANTICA) dans GEOGRAFIA, STORIA, CULTO DALLE TERRE DI PAOLO l004

Palazzo vicino la tribuna monumentale, la bemà, dalla quale predicò S.Paolo, secondo la tradizione

La comunità di Corinto è una delle comunità paoline che conosciamo meglio, per l’ampiezza dei testi che si sono conservati. Paolo, dicono gli Atti deg li Apostoli, abitò a Corinto un anno e mezzo, la prima volta che vi giunse, poi si fermò qui una seconda volta. Ha scritto ai Corinzi non solo le due lettere che possediamo, ma, probabilmente, almeno altre due. Gli studiosi dicono che la 1 lettera ai Cori n zi è una lettera unitaria. Invece nella seconda lettera ne riconoscono due, poiché ipotizzano che la seconda parte della lettera sia la lettera “ dalle molte lacrime” che Paolo dice di aver inviato precedentemente a quella che è la nostra 2 Cor. Infatti nel la seconda parte di 2 Cor, nei capitoli da 10 a 13, vediamo Paolo che si offende, si agita, si commuove, che è profondamente adirato con i Corinzi. Se è vera questa ipotesi, allora la prima parte della seconda lettera ai Corinzi – dal capitolo 1 al capito l o 9 – sarebbe in realtà la terza lettera scritta da Paolo a questa città e la nostra 2 Cor sarebbe un insieme di queste due lettere. L’ ultima parte, più antica, evidenzierebbe questa profonda frizione con Paolo, la prima parte, più recente, ci mostrerebbe Paolo ormai tornato in buoni rapporti con la comunità locale. Vorrei farvi notare prima di tutto questo – e questo già basterebbe per oggi. Ogni volta che affrontiamo Paolo tocchiamo il valore della vita ecclesiale, il valore della vita della Chiesa. S.Pa olo non ci racconta, nelle sue lettere, l’ inizio della fede, perché le lettere sono scritte quando già le comunità esistono. Le lettere affrontano quello che avviene dopo, quello che avviene durante lo svilupparsi della vita. Le lettere non sono scritte p e r “ mettere la prima pietra” , ma perché , dopo averla messa, è importante come si continua a costruire. Pensate alle nostre famiglie per esempio, alla loro evoluzione, ai rapporti con i figli, con i nipoti; tutto questo dice una continuità . Chi vuole brucia r e in un attimo le cose, o pensa che avendo fatto una cosa all’ inizio con il proprio figlio, giusta o sbagliata che sia, è a posto per sempre, ha già risolto tutto, in realtà non riesce più ad amare. Perché in realtà se ha sbagliato può cambiare, se ha fat t o bene deve continuare sulla giusta via. Questa continuità di rapporto, già di per sé , dice – noi lo cogliamo nelle varie lettere ai Corinzi – una continuità di rapporti. C’ è un passato, ma la vita va avanti. Vi faccio vedere tre passaggi di questo. Nella 1 Corinzi in cui Paolo comincia ad alzare un po’ il tono perché li vuole rimproverare . 1 Corinzi 4,18 – 21: Come se io non dovessi più venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d’ orgoglio. Ma verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto al lora non già delle parole di quelli, gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare, perché il regno di Dio non consiste in parole ma in potenza. Che volete? Debbo venire a voi non il bastone, o con amore e con spirito di dolcezza? Paolo dice “Cosa volete, vengo a bastonarvi?” E’ una domanda reale, seria. O vengo perché state capendo, vi state convertendo? E’ una comunità che va avanti e Paolo come Apostolo la vuole veder crescere – non gli basta l’inizio – e, per questo, si domanda: “Cosa debbo fare con voi? Il bastone o la tenerezza?” Il rapporto si modifica – e diviene più severo, nell’amore – nella 2 Corinzi 10, che è appunto la lettera “dalle molte lacrime” – io condivido questa posizione; da 10 fino a 13 non è la stessa lettera, ma è un’altra lettera che sta tra 1 Cor e 2 Cor. Leggiamo allora in 2 Corinzi 10, 1 – 11: Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi… Questa era l’accusa che gli facevano, è una lettera viva! Evidentemente i Corinzi avevano mandato a dire che Paolo, quando stava con loro, era dolce, ma quando si allontanava era uno che picchiava duro e diceva: “Qui bisogna cambiare, convertirsi, così non va”. Allora Paolo riprende queste critiche a lui rivolte e spiega: Vi supplico di far in modo che non avvenga che io debba mostrare, quando sarò tra voi, quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne. In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo. Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta. Guardate le cose bene in faccia: se qualcuno ha in se stesso la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che se lui è di Cristo lo siamo anche noi. In realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò proprio da vergognarmene. Non sembri che io vi voglia spaventare con le lettere! Perché “Le lettere – si dice – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa”. Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza. Questa è la lettera in cui sale ancora di più di livello. Paolo dice “Attenzione, se continua così io vengo veramente e dalle parole forti passeremo alla mia presenza forte che chiederà conto ad ogni persona”. Poi, invece, nell’ultima lettera che noi abbiamo – che probabilmente è la 2 Corinzi 1-9 – poiché evidentemente c’è stata una conversione, c’è stato un salire di livello della comunità, allora Paolo, in 2 Corinzi 7, 8 – 13, così si esprime: Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto – vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati – ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. Così se anche vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell’offensore o a motivo dell’offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio. Ecco quello che ci ha consolati. Questa è una lettera in cui Paolo ha superato questo momento di rimrpovero alla comunità di Corinto e dice: “Che qualcuno sia stato triste per la mia parola, va benissimo, purché la tristezza sia servita a portare un pentimento, di cui non ci si pente” – cioè il pentirsi è l’unica cosa di cui non ci si pente, il chiedere perdono a Dio. Ci sono due tipi di tristezza, c’è la tristezza del peccato, quando uno si accorge che ha sbagliato, che produce la conversione. C’è la tristezza invece secondo il mondo, l’essere tristi, che produce solo morte. Notate sempre il discernimento degli spiriti, la capacità di capire che tipo di tristezza la parola dell’Apostolo ha generato. Allora riassumiamo. C’è innanzi tutto questa prima cosa che credo sia utile per noi come Chiesa, per ogni relazione familiare, per i figli, i nipoti. Sapere cioè che la relazione non si esaurisce in un istante, ma, anzi, ha bisogno di tempi lunghi, di tutta una vita, e se ci sono momenti in cui si dicono dei “no”, questi momenti non sono la fine. Ci sono dei momenti in cui è bene aprire delle porte, poi altri in cui è bene richiuderle, poi si riaprirle – un rapporto non è mai lo stesso. La cosa importante è essere presenti in questa storia, metterci il Signore dentro e avere questa capacità di pentirsi che genera continuamente la possibilità di riavvicinarsi. Una seconda cosa importantissima è data dalle affermazioni intorno al fatto di costruire, di mettere una pietra, un fondamento che è Cristo e che non può essere diverso, ma insieme alla necessità di doverci poi costruire bene sopra. Vediamo 1 Cor 3, 5 e seguenti: Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. In questa comunità si litigava: perché? Paolo l’aveva fondata. Allora Paolo era quello che aveva messo il primo fondamento. Poi era arrivato un altro, Apollo, che aveva cominciato a dire alcune cose. Allora nella comunità alcuni si schieravano con Paolo e dicevano di “essere di Paolo”, altri si schieravano con Apollo e dicevano di “essere di Apollo” e altri dicevano: “Noi siamo di Cristo e non siamo né dell’uno né dell’altro”. S.Paolo spiega che così la Chiesa non crescerà mai. Nella Chiesa bisogna che ci sia un fondamento e bisogna però che poi si continui a costruire bene. Un figlio bisogna farlo nascere. Però, una volta che è nato, bisogna poi educarlo ed è importante chi gli ha dato fisicamente la vita ma è anche importante chi gli sta poi vicino perché cresca. Paolo spiega allora: “Il fondamento deve essere messo bene, non può essere messo male. Se uno mette un fondamento diverso da Cristo è un disastro. Però poi una volta messo il fondamento bisogna continuare a costruire bene. La comunità, la Chiesa, ha bisogno di una crescita nel bene e non bisogna distruggere il tempio di Dio che siete voi”. Notate che luce! E’ una cosa semplice ed insieme profondissima. Pensate – ripeto – a qualsiasi rapporto che dura nel tempo. S.Paolo allora fa riflettere su questo e poi si arrabbia sia con chi si richiama all’uno o all’altro, sia addirittura con chi si richiama solo a Cristo senza fare i conti con le persone concrete che Dio mette fra i piedi, come il padre, la madre, il nonno. Io non posso essere educato solo da Dio senza mia madre, mio padre, mio nonno, i miei fratelli e così via. La cosa importante è accogliere ogni persona come un ministro di Dio e Cristo come la pietra fondante che è all’origine di tutto. La Chiesa non può non avere come fondamento Cristo. Chi mette un altro fondamento sbaglia. Non si costruisce la Chiesa sulla psicologia, sul gioco, sulle pizze o sulla cultura. Ci si incontra perché conquistati da Cristo. Ma, posto quel fondamento, si accolgono tutte le persone che il Signore stesso manda alla sua Chiesa. Non esiste un cristianesimo senza Chiesa. E qui veniamo appunto al tema grande che affrontano queste lettere, all’orizzonte più grande. Leggiamo l’inizio del cap. 3, dove Paolo, daccapo, riflette su questa crescita che ci deve essere. C’è una cosa iniziale e poi pian piano bisogna andare avanti. Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali: dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana? Quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non vi dimostrate semplicemente uomini? Paolo dice che c’è, proprio come avviene ad un bambino – all’inizio ad un bambino non si può dare da studiare la Divina Commedia o tutta la scienza, ad un bambino si dà il latte – se il bambino cresce bene si comincia a poter dare da mangiare la carne, la verdura. Lui dice che nel cammino spirituale è la stessa cosa. Qual è il dramma? Paolo afferma che il dramma è che questa comunità è neonata, è appena nata – sebbene non lo sia anagraficamente – perché c’è un aspetto importante che non va. Notate, fra l’altro, cos’è lo “spirituale” per Paolo. La gelosia, l’invidia, la discordia, fanno sì che le persone siano dei bambini. Vogliono essere trattati come bambini e lui non riesce a dare loro un cibo diverso perché sono così presi da beghe interne, da cose di poco conto che sono tipiche dell’infante, che non riescono, invece, a digerire un cibo buono, che li renda evangelizzatori, li renda uomini di carità, ecc. In particolare questa cosa viene fuori proprio parlando della Chiesa. Lo vediamo ora leggendo 1 Corinzi 1, 10 – 16. Abbiamo visto che la lettera ai Corinzi affronta tanti problemi, abbiamo visto il problema delle vergini, delle vedove, poi c’è il problema dell’incesto, dei tribunali. Paolo affronta una serie di problemi che gli vengono posti, ma il primo problema è quello dell’unità della Chiesa. Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!” Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Paolo qui addirittura aggiunge il nome di Cefa, poiché alcuni si richiamano a Pietro l’apostolo – notate, di passaggio, come veramente siano ancora vivi tutti gli apostoli e come questa storicità dia forza alla nostra fede. Pensate anche ai problemi odierni dei movimenti, dei vari gruppi nella Chiesa, cose buonissime, ma terribili se diventa preponderante essere di qualcuno rispetto all’essere di Cristo. A Paolo non va neanche bene che ci sia solo Cristo. Ognuno deve riconoscere chi ha fondato, chi ha continuato, ma deve riconoscere prima di tutto che Cristo è l’unità di tutti e deve vivere in questa comunione. La stessa cosa avviene anche quando parla dell’eucarestia, un altro brano molto bello e insieme duro, in 1 Cor 11, 17 – 34. E’ l’ultimo che leggiamo: E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. E’ necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo. Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta. Come sapete, anticamente, la messa veniva celebrata insieme ad una vera cena. Avveniva come abbiamo fatto per spiegare la Pasqua ebraica. Si cenava tutti insieme e si celebrava la messa. Cosa avveniva? Di fatto le persone andavano per partecipare tutti insieme all’eucarestia, però ognuno aveva la sua cena, cucinava per i suoi amici, per il suo giro di persone. Nessuno aspettava gli altri, nessuno condivideva con gli altri. Non c’era questa attenzione. Allora c’era chi era ubriaco, chi completamente satollo di cibo e c’era chi non mangiava niente. Cosa avveniva, che c’era il corpo di Cristo nell’eucarestia, ma non c’era il corpo di Cristo nella Chiesa. Allora Paolo dice: “Esaminatevi, perché chi riconosce il corpo di Cristo, ma non riconosce il fratello, sta mangiando la propria condanna”. Volete fare le vostre cose? Fatele a casa, ma che questa cosa non avvenga dove c’è la Chiesa di Cristo. Questo aiuta tantissimo a capire proprio il senso profondo che Paolo ha della Chiesa. Tutte le persone che vivono di Cristo, che ricevono il suo Battesimo, sono la Chiesa – questo ha delle conseguenze anche nei rapporti con gli ortodossi, ma non possiamo parlare di questo ora. La Chiesa è diversa dagli amici. La Chiesa non è fatta dagli amici. Non è vero che oltre l’amicizia non ci sia nulla. Non è vero che gli amici sono gli amici e gli altri non sono nulla, non li saluto neanche. La fratellanza, l’essere fratelli, non vuol dire essere amici. Gesù non ha ordinato che noi dobbiamo tutti essere amici tra di noi, tutti amici a S. Melania, tutti amici a Roma, tutti amici nel mondo. Sarebbe assurdo! Ma c’è il livello della fratellanza. Questa sì, il Signore l’ha ordinata. Ecco il posto dell’ attenzione, della comunicazione, della condivisione con coloro di cui a volte non conosco neanche il nome, che è il livello della Chiesa, dove io riconosco che ognuno è corpo di Cristo con me. C’è l’eucarestia che è Cristo presente nel pane e nel vino e c’è Cristo che è presente nella Chiesa. Vi ricordate quel brano che ci ha letto il nostro Vescovo, d.Rino Fisichella? E’ un brano di di Sant’Agostino, che dice: Fate questo in memoria di me”: è con queste parole di S.Agostino che possiamo comprendere il senso della memoria eucaristica: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12, 27). Se voi, dunque, siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: il vostro sacro mistero voi ricevete. A ciò che voi siete, voi rispondete “Amen” e, rispondendo, lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii veramente corpo di Cristo, perché l’Amen (che pronunci) sia vero! E’ fondata da Cristo la comunione cristiana. Non nasce dalle mie simpatie e non muore con le mie difficoltà ad andare d’accordo. E’ radicata nell’essere tutti noi membra del suo corpo. Ecco, Paolo nella comunità di Corinto, ha insistito molto su questo. Mi viene in mente un’espressione di d.Francesco – molto vera – che ha fatto molto discutere in parrocchia. Ha detto ai giovani che vedeva in loro una mediocrità spirituale. Qualcuno se l’è presa come fosse un’offesa personale, dicendo. “Come può conoscerci tutti per dare questo giudizio?” E lui ha risposto: “Dico questo perché non siamo stati capaci di celebrare nemmeno un vespro insieme, in un anno di cammino, ma ognuno faceva le sue cose, senza essere disponibile ad un cammino comune” Questa è mediocrità spirituale ecclesiale. “Lo dico, perché vi voglio bene” – dice don Francesco – “non lo dico perché non vi sopporto o perché vi odio, ma perché è mio compito dire che non è possibile che dei cristiani non trovino la disponibilità una volta, in Quaresima, a celebrare un vespro o un ritiro insieme, su invito del loro vice-parroco”. E’ segno di un livello basso, di un livello da neonati, se tutto viene anteposto a vivere certi momenti. La comunità è anche segno per l’evangelizzazione. Se ognuno è cristiano da solo ma non vive il segno della fratellanza, è più difficile per il non credente, per una persona lontana, trovare questo slancio, questo entusiasmo. Ecco che qui a Corinto abbiamo riflettuto molto su questo grande tema, che è il tema della Chiesa. La fede Dio la da personalmente ad ognuno, è nostra, non possiamo mai demandarla ad un altro, ma essa nasce dall’annuncio della Chiesa – la Chiesa è la nostra madre – e ci fa nascere anche come persone che vivono la Chiesa, che sono la Chiesa, che si riconoscono vicendevolmente come corpo di Cristo e che sanno in alcuni momenti rinunciare a delle particolarità per vivere il segno profondo dell’essere insieme il corpo di Cristo, in quel momento storico, in quella tappa. Si potrebbero dire tante altre cose – le lettere ai Corinti sono lunghissime – ma volevo sottolineare soprattutto questi due aspetti, la Chiesa e questa fiducia nel lungo periodo, che ognuno di noi deve avere come educatore. Ci sono dei momenti in cui uno dice ad un nipote un “no” e l’altro, sul momento, è triste, ma dopo due anni se l’è dimenticato, non è più un problema. L’importante è che si cresca, che si cammini. Bisogna avere sia il coraggio di dire dei “no”, sia il coraggio di consolare, di dire dei “sì”, l’uno e l’altro in momenti diversi. Paolo con questa città ha avuto un rapporto molto lungo negli anni, con dei momenti alti, dei momenti bassi. Da qui il Vangelo ha continuato la sua corsa nel mondo intero

ROMEI E GIUBILEI

http://www.scudit.net/mdviaggiareromei.htm

ROMEI E GIUBILEI (materiali didattici)

Quando visitare i « luoghi santi » era l’unico modo per vedere il mondo: santuari e pellegrini nel Medioevo.

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Il turismo di massa, con grandi folle di persone che si spostano da un luogo all’altro, ha un suo lontano antenato nei pellegrinaggi medievali.
Certo, allora la ragione principale per mettersi in viaggio era la fede: visitare i luoghi dove era vissuto e morto Cristo, pregare sulle tombe degli apostoli e dei santi. Ma viaggiare era, allora come oggi, una opportunità di scambio e di incontro tra popoli e culture diverse. Ha scritto Goethe, che di viaggi se ne intendeva: « La coscienza dell’ Europa è nata peregrinando tra i popoli latini, germanici, celti, anglosassoni e slavi ».
Naturalmente le mete di viaggio erano diverse da quelle odierne. Le principali erano: Gerusalemme e i Luoghi Santi della Palestina; il santuario dell’apostolo san Giacomo Maggiore in Spagna (Santiago de Compostela); Roma, con le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e, dall’anno 1300, come luogo del Giubileo.
Chi si metteva in viaggio non era un turista, ma un pellegrino, parola che significa « straniero ». Ad essere pignoli, la parola pellegrino indicava proprio chi andava a Compostela: infatti San Giacomo, che aveva portato il cristianesimo dalla Palestina alla Spagna, era l’incarnazione del pellegrino, di chi si mette in cammino. Invece quelli che andavano a Gerusalemme erano chiamati palmieri , perché riportavano dal loro viaggio i rami di palma della Terra Santa, mentre romei erano i visitatori di Roma e romea o francigena era la strada che dal nord Europa arrivava nell’Urbe attraversando il « paese dei Franchi ».
Tutti i turisti, o quasi, stringono nelle mani una guida per orientarsi in una nuova città. Anche i pellegrini avevano le loro, degli itinerari che riguardavano soprattutto la Terra Santa e Roma. Il più antico itinerario romano è del VII secolo, la Notitia ecclesiarum urbis Romae (letteralmente « lista delle chiese
della città di Roma »). Risale invece al XII secolo un itinerario romano che accanto ai luoghi di culto elenca anche i principali monumenti pagani: si tratta dei Mirabilia urbis Romae (Cose meravigliose della città di Roma), scritto forse dal canonico Benedetto, a Roma, negli anni 1140-43: questo itinerario sarà poi riprodotto da molti autori italiani e stranieri con aggiunte, modifiche e rimaneggiamenti per meglio adattarlo a guida per visitatori.
I turisti spesso si riconoscono dall’abbigliamento: scarpe da ginnastica, abiti « comodi », un kway per la pioggia, una piccola borsa con dentro soldi e documenti appesa alla cintura. Lo stesso era per i pellegrini medievali: un mantello di tessuto ruvido, il cappello a larghe falde, una bisaccia dove tenere un po’ di cibo e gli spiccioli per l’elemosina e, in mano, il bordone, un lungo bastone con un puntale di ferro per aiutarsi nel camminare e, in caso di necessità, per difendersi dagli animali e dai malintenzionati.
Sì, perché diversamente da oggi, partire per un viaggio era una vera impresa: il cammino era faticoso e pieno di pericoli. Si viaggiava soprattutto a piedi percorrendo trenta / quaranta chilometri al giorno in pianura e venti / trenta in zone montuose o particolarmente difficili. Boschi e montagne non solo erano difficili da attraversare, ma erano molto adatti per gli agguati dei briganti: chi perdeva i soldi ma salvava la vita poteva considerarsi fortunato. E chi sfuggiva ai briganti, qualche volta moriva per il freddo, o per l’attacco dei lupi.
Proprio per questo si preferiva viaggiare in gruppo. Per le donne viaggiare in compagnia (del marito o, le più ricche, di una scorta) era obbligatorio: dai racconti di alcune di loro, come l’inglese Margery Kempe, emerge il terrore di essere violentate lungo il cammino.
Anche le città lungo le strade erano fonte di pericoli: molti albergatori imbrogliavano sul prezzo, sulla qualità del cibo e sul cambio delle monete; e non di rado bisognava dividere il medesimo letto con degli sconosciuti. Giunti alla meta dopo un lungo cammino, un altro pericolo attendeva i poveri viandanti: i venditori di reliquie, di immagini di santi, di candele, di ampolle per l’olio delle lampade che illuminavano le tombe dei santi, di ricordini… insomma, i venditori di souvenir.
Un vero inferno. Bisognava stare sempre all’erta. Proprio per questo molti pellegrini facevano testamento prima di mettersi in viaggio e le proprietà di chi partiva per il pellegrinaggio erano considerate sotto la protezione della Chiesa. Addirittura, i ricchi qualche volta pagavano altre persone perché facessero il pellegrinaggio al posto loro! Ma queste difficoltà erano la ragione stessa del viaggio: lasciare la propria patria e gli affetti, affrontare rischi e pericoli, sfuggire alle tentazioni lungo il cammino erano una specie di penitenza da fare per purificarsi dei propri peccati.

  

PROVINCE ROMANE: GALATIA

http://www.instoria.it/home/province_romane_galatia.htm

PROVINCE ROMANE: GALATIA

di Antonio Montesanti

La regione che occupa il centro quasi in maniera precisa della Penisola Anatolica, anticamente portava il nome di Frigia Orientale (Frigia Majus) e aveva come capitale Gordio.
La storia della regione della Galazia, col nome con il quale la conosciamo, inizia alla fine del IV sec. a.C., quando le migrazioni dei popoli celtici mitteleuropei portano gli stessi a spingersi verso il Sud del Continente.
Un primo contatto, con testimonianza diretta della loro presenza a sud del Danubio, ci viene fornito durante le campagne di Alessandro Magno nell’area Traco-illirica nel 335 a.C., quando, sotto giuramento le popolazioni migratorie celtiche giunte nell’area balcanica, si alleano con i Macedoni contro gli Illiri. In realtà si trattava solo di avvisaglie di migrazioni più sostenute che si stavano appropinquando fino a raggiungere il loro culmine in epoca ellenistica. Non potendo penetrare in Italia, per la forte presenza della nascente Roma, i Galli si riversarono dapprima nei Balcani e quindi in Grecia, in un periodo in cui la nazione ellenica era estremamente soggetta ad una persistente disomogeneità ed instabilità politica.
Intorno alla metà del III sec. a.C., le prime a capitolare furono le stesse popolazioni dei Traci, al confine settentrionale con la Grecia, nell’odierna Bulgaria. A Tylys, (odierna Tulowo, Bulgaria), i Celti dopo aver pesantemente sconfitto le tribù dell’area balcano-danubiana, s’insediarono fino a costituire un proprio regno che crollerà definitivamente solo nel 212 a.C., per la rivolta degli stessi Traci dopo cinquant’anni di sottomissione al potere celtico.
Tuttavia alla stessa ondata bisogna attribuire l’urto solo in parte assorbito da Greci e Macedoni. Un “Nuovo Brenno” (dopo quello del sacco di Roma del 390 a.C.) scendeva nella penisola ellenica e, dopo una serie di scontri, a cadere sul campo era l’epigono di Macedonia, Tolemeo Cerauno, soccombendo in battaglia contro di loro nel 281 a.C. Dopo quella sconfitta, i Celti si riversarono in massa sulla Grecia continentale: diversi santuari vennero depredati tra cui fece scalpore quello di Delfi il cui immane bottino venne poi ritrovato a Tolosa dai Romani nel 106 a.C.
Dalla Grecia furono comunque “deviati”, ad opera di Antigono Gonata, verso oriente il che consentiva alle due ondate, quella ellenica e quella tracia, con a capo Leonnorio e Lutario, di portarsi in Asia Minore nel 278 a.C. su richiesta di Nicomede I di Bitinia, che decideva di ricorrere a loro per porre fine alla disputa col fratello per la successione dinastica. Le tribù dei Trocmi, dei Tolistobogii e dei Volci Tectosagi, si spostarono per essere affrontati in seguito da Antioco I. nella c.d. battaglia degli elefanti: affatto intimoriti, sconfiggevano il sovrano seleucide, in un epico scontro in cui i Galli vedevano per la prima volta gli elefanti. Il loro dominio sulla Galazia veniva così definitivamente e ufficialmente riconosciuto dalle città ellenistiche dell’Asia Minore: i Tectosageti si stabilirono nei pressi di Ancyra (l’odierna Ankara), i Tolistobogii presso Pessinus (att. Bellihisar), luogo sacro a Cibele e i Trocmi presso Tavio.
Da questo momento si stanziavano definitivamente nella regione centrale che prenderà da loro il nome combattendo in qualità di mercenari durante le varie lotte tra i diversi sovrani ellenistici. Quando il Regno di Pergamo si distaccò definitivamente dall’immenso impero Seleucide di Siria, i Celti, ormai Galati, obbligarono i giovani regnanti della piccola provincia d’Asia a sottostare al loro potere delle armi tramite tributo. Questo fino al 235 a.C., quando Attalo I si rifiutò di pagare il fio annuale, riunendo tutte le altre città ellenistiche dell’Asia Minore soggette a tributo, contro i Celti. La guerra che ne scaturì vide vincitore il giovane regno pergameno in seguito al quale, il vincitore, fondatore ufficiale della dinastia attalide, dedicò ad Atena Nikephoria il così detto « Grande donario », un gruppo scultoreo in bronzo le cui copie in marmo di età romana sono conservate nei Musei Capitolini e a Palazzo Altemps a Roma.
Da questo momento i due regni vivranno in una pace basata su reciproco rispetto, con una certa predominanza del regno pergameno, comunque sempre in una forma di pace forzata e di reciproca “sfiducia”. Questa si rifletterà nella guerra che Roma condurrà contro Antioco III di Siria, l’ultimo tra i Seleucidi a tentare la riconquista dell’Asia Minore, in cui i Galati risultano alleati del Seleucide e con lui sconfitti presso Magnesia al Sipilo nel 189 a.C. da Gaio Manlio Vulsone.
Con i predominio definitivo di Pergamo, appoggiato da Roma, da questo momento i Galati entrano ufficialmente nell’orbita di Roma, in qualità di alleati, definitivamente dopo l’occupazione della Galazia ad opera dei sovrani del Ponto, durante le Guerre Mitridatiche. Nel 64 a.C. la Galazia divenne uno stato associato alla Res Publica, mantenendo la propria indipendenza e la suddivisione interna in tre tribù (ciascuna delle quali con a capo un tetrarca). Al tempo di Cesare, uno dei tre tetrarchi, Deiotaro, prese il sopravvento sugli altri due e venne riconosciuto dai Romani quale “re” della Galazia. Nel 48 a.C. Deiotaro combattè al fianco di Pompeo contro Cesare, il quale, una volta sconfitto il triunviro, tolse loro dei territori ed utilizzò nella guerra contro Farnace re del Ponto gli stessi Galati, che per vendicarsi ordirono una congiura contro il condottiero romano.
Fu lo stesso Cicerone a difendere il re Celta nell’invettiva Pro Deiotaro, salvandolo dall’esecuzione; tuttavia nella battaglia di Filippi del 42 a.C. il principe galata si schierò ovviamente con i cesaricidi, questo provocò, nonostante un chiaro pentimento, dopo la morte di Cassio, e passaggio dalla parte di Augusto, la clienterizzazione del suo regno, fino a quando la sua dinastia si estinse. Con la morte del re Aminta, nel 25 a.C., la Galazia divenne definitivamente provincia romana, retta da un governatore e dal un legato di rango pretorio. Tuttavia il settore religioso venne lasciato indipendente: Pilamene, erede dell’ultimo re galata, ricostruì un tempio presso Ancyra dedicandolo ad Augusto in segno di lealtà all’impero. Nei secoli successivi, del resto, la Galazia si dimostrerà una delle province più fedeli a Roma.
La provincia romana di Galazia, a cui vennero incorporati territori a sud dell’Asia Minore: Pisidia, Isauria e parti della Licaonia e della Frigia, si trovava nella parte centrale dell’Anatolia e confinava a nord con la provincia di Bythinia et Ponto, ad est con la provincia di Cappadocia, a sud con la Lycia et Pamphilia e ad ovest con la provincia d’Asia. La capitale, destinata a divenire capitale dell’odierno stato turco era l’antica Ancyra (Ankara). Nel tempo tuttavia la situazione mutò diverse volte: pochi anni dopo la creazione, in epoca giulio-claudia, le vennero aggiunte la Paflagonia, parte del Ponto (Galaticus e Ptolemaiucus) e l’Armenia Minor. Vespasiano la riunì nella provincia della Cappadocia affidandola ad un legato consolare. Traiano ricostituì la Cappadocia e fece dei due subregni pontici uno stato autonomo; Adriano ne distaccò l’Isauria e parte della Licaonia, annettendole alla Cilicia.
I Galati formalmente dipendenti da Roma ma al loro interno “liberi”, vedevano il loro territorio suddiviso in nelle tre tribù ognuna delle quali era divisa in “cantoni”, ciascuna delle quali governata da un « tetrarca », con poteri assoluto. Fino all’avvento di Roma, gli originari abitanti della Frigia orientale, mantennero il controllo delle loro città e delle loro terre, ma erano tenuti a pagare dei tributi ai galli, che formavano così una sorta di aristocrazia militare separata dagli autoctoni in fattorie fortificate.
La loro religione era basata su una sorta di politeismo celto-romano, finché la loro terra fu visitata, durante il suo terzo viaggio, da Paolo di Tarso, accompagnato da Sila e Timoteo, dove fu ricevuto con entusiasmo. Girolamo (347-420 d.C.) riferisce che, al suo tempo, i Galati parlavano ancora il gallico, la loro antica lingua affine a quella dei Galli di Treviri, oggi in Germania.
Con la riforma di Diocleziano, la parte meridionale e quella settentrionale vennero distaccate divenendo parte rispettivamente delle provincie di Paphlagonia e quella di Lycaonia sotto la Diocesis Pontica, la Pisidia fece parte della Diocesi Asiatica e l’Isauria, con la costa cilicia della Diocesis Orientalis. In 398 d.C., circa un secolo dopo, sotto Onorio la neo ricostituita provincia fu divisa nuovamente in due provincie, la Galatia Prima and Galatia Secunda or Salutaris. La Galatia Prima costituiva la parte nordorientale della vecchia provincia, laddove rimaneva Ancyra come capitale e governata da un consularis, mentre la Salutaris comprendeva la parte rimanente ed includeva la Phrygia ed governata da un praeses che risiedeva a Pessinus.

AYAVIRI: IL TETTO DELLA CORDIGLIERA PERUVIANA

http://www.zenit.org/article-31616?l=italian

AYAVIRI: IL TETTO DELLA CORDIGLIERA PERUVIANA

Intervista a mons. Kay Martín Schmalhausen, vescovo della prelatura Ayaviri

ROMA, domenica, 8 luglio 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo l’intervista con monsignor Kay Martín Schmalhausen, S.C.V., vescovo della prelatura di Ayaviri in Perù, realizzata da Johannes Habsburg per il programma Where God Weeps (Dove Dio Piange), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS).
***
Il Perù possiede una straordinaria ricchezza naturale, ma anche molta povertà. Come mai?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Il Perù è un Paese di contraddizioni, di enormi contrasti. Un Paese ricco di risorse, di opportunità certamente con una geografia molto complicata perché abbiamo una zona costiera, una catena montuosa e poi una vasta foresta.
…questo complica l’attività agricola o lo sviluppo del territorio? …
Mons. Kay Martín Schmalhausen: … con questo cominciamo già a rispondere alla domanda. Tenendo in considerazione la varietà del clima, delle zone geografiche e climatiche, e delle alture e pianure è difficile che il Paese possa essere produttivo velocemente, subito. Richiede inoltre molti investimenti, oltre che pazienza, per sfruttare le risorse naturali in modo che si possano raggiungere anche i più poveri e bisognosi.
Immagino che un problema persistente sia anche il fenomeno, sfortunatamente molto latinoamericano, della corruzione. Esiste anche in Perù?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Certamente è un problema di lunga data che abbiamo sentito con maggior acutezza negli ultimi 15-20 anni, soprattutto sotto il regime di Fujimori, durante il quale la corruzione ha quasi toccato il fondo.
E’ una situazione che ci riguarda, come riguarda in effetti tutto il continente latinoamericano. Il Perù e i suoi governi devono provare molto di più quello che è la trasparenza politica, economica e istituzionale.
La regione nella quale si trova la prelatura da Lei diretta è estremamente povera, una delle più povere del Perù. Perché c’è questa economia incentrata su un’agricoltura quasi di sussistenza?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Varie ragioni spiegano perché noi viviamo in una situazione di estrema povertà. Direi che il 60 o 70% della popolazione vive in una situazione tra la povertà e l’estrema povertà; il 30% in una situazione leggermente migliore.
Da un lato direi che questa situazione è legata all’altitudine e al clima freddo: viviamo tra i 4.000 e i 5.400 metri sopra il livello del mare. È molto in alto, ci manca l’aria, e poi che cosa cresce a 4.000 o 5.000 metri di altitudine? Praticamente nulla. L’agricoltura è molto povera, limitata, l’allevamento di bestiame è un allevamento di bovini, ovini per la lana e di alpaca, anche per la lana. Ma i prezzi della lana oggi sul mercato nazionale sono molto bassi e questo spiega perché la gente – agricoltori o allevatori – pratica un’economia di sussistenza.
E nelle altre zone?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Nelle zone più basse e nella selva, le vie d’accesso sono praticamente impossibili, facendo sì che, anche se luoghi molto fertili, sia difficilissimo estrarre la produzione ad un costo ragionevole. A dir la verità, nonostante sia una cosa deplorevole – accanto all’attività mineraria che è una inversione che sta cominciando – ciò che si produce di più attualmente è la foglia di coca. Con tutto quello che comporta a livello di complessità e difficoltà per la realtà sociale.
Parliamo un attimo della coca e del narcotraffico. In alcuni Paesi dell’America Latina ha provocato danni tremendi. Com’è la situazione in Perù, sapendo che Lei si trova in una delle regioni del Perù che ne produce di più? Sente la presenza e la violenza del narcotraffico?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Sì senz’altro. Oggigiorno, anche se la questione del terrorismo è in gran parte finita, comincia ad emergere questa nuova alleanza del “narcoterrorismo”, nella quale il narcotraffico produce ed estrae la coca e il terrorismo (le cellule terroristiche rimaste), li proteggono e a loro volta si finanziano con il narcotraffico. Poi viene una serie di problemi sociali: giovani che abbandonano gli studi per andare a raccogliere foglie di coca perché è un metodo rapido e facile per fare soldi, per guadagnare ad esempio più dei loro professori nel collegio; o giovani che abbandonano l’educazione secondaria per dedicarsi all’alcool, alla droga. Tra l’altro lato è anche una questione che corrompe la vita morale della popolazione o delle comunità che vivono vicino alla selva peruviana.
Se dovessimo dare una ragione fondamentale per la quale la gente sceglie di piantare la coca, potremmo dire che è per disperazione, perché non ci sono altre forme per sopravvivere, o perché è denaro facile, comodo e tutto ciò che comporta, quindi potere, benessere, prestigio…
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Penso entrambe. Come ho detto, nella selva si vive giorno per giorno una situazione di povertà, di assenza dello Stato, di mancanza di servizi sanitari decenti, di carenza di un’educazione un minimo decente e ben definita, e c’è inoltre quel tipo di povertà non solo economica ma anche culturale che porta appunto alla ricerca di soluzioni facili. D’altro canto, bisogna tenere a mente che ci potrebbero essere altre opportunità: abbiamo in effetti nella bassa selva uno dei migliori caffè, che ha vinto di recente in premio internazionale in Olanda, il caffè Tunqui, ma…
… è molto meno redditizio…
Mons. Kay Martín Schmalhausen: …certamente, anche se è un commercio bello e prezioso, risulta molto meno redditizio. Sia il caffè che il cacao stanno infatti diminuendo, mentre sta aumentando la piantagione di foglie di coca.
Nella prelatura, il 90% della popolazione è indigena, cioè parla la lingua Quechua. Cosa significa questo per il rapporto con lo Stato e per la pastorale di evangelizzazione?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Per noi come Chiesa rappresenta una sfida a livello di evangelizzazione perché suppone un’evangelizzazione bilingue, anche se bisogna ricordare che il Quechua – non voglio essere pessimista – mi pare destinato a scomparire: le nuove generazioni, i giovani, per il desiderio di inserirsi nel mondo abbandonano la lingua di famiglia…
… preferiscono lo spagnolo…
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Sì, preferiscono parlare lo spagnolo perché apre nuove possibilità nel mondo. Ma, in ogni caso, noi affrontiamo una grande sfida. Di recente abbiamo fatto una revisione del nostro libro di canti bilingue, che è il primo documento in due lingue, e dopo sistemeremo i manuali di preparazione ai sacramenti: prima comunione, cresima, matrimonio anche bilingue. Mi pare che sia questa una sfida molto bella, perché i nostri catechisti, soprattutto quelli che vivono nelle zone più remote e che parlano il Quechua, avranno uno strumento concreto di aiuto per l’evangelizzazione.
Il suo motto episcopale è: “La mia vita è Gesù”. Chi è Gesù per Lei? Poiché per decidere di seguire questa chiamata, bisogna avere una relazione molto concreta con il Signore. Chi è quindi Gesù Cristo? Chi è per Lei che lo vuole comunicare agli altri?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: E’ il mio Signore, il mio amico, la mia gioia, la mia allegria, la mia roccaforte… Ciò che voglio dire è che senza il Signore non so cosa ne sarebbe stato della mia vita. Così ho scelto questo motto perché in fondo esprime ciò che è proprio di tutti noi cristiani e della nostra fede cattolica: che Gesù è il centro della nostra vita. Per me la vita è Cristo, e tutto il resto, senza di Lui, è una perdita.
Qual è il desiderio del cuore di Cristo per la prelatura di Ayaviri e come possiamo, noi come Chiesa, realizzare questi desideri e sostenere la sua missione?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: I desideri del Signore per la prelatura sono quelli del Signore per tutta la Chiesa. Non credo che siano molto distinti, forse il Signore ha nel suo cuore alcune cose particolari, ma penso che voglia una Chiesa giovane, piena di gioia, di vocazioni, una Chiesa prosperosa, non nel senso economico – questo forse arriverà anche col tempo e io lo spero perché viviamo davvero una situazione molto dura – ma spiritualmente. Cioè che questa Chiesa così profondamente religiosa, ma alle volte anche così povera o senza alcuna formazione, possa arrivare a conoscere Gesù, ad amarLo e seguirLo.
E come possiamo aiutarla a realizzare questi desideri?
Mons. Kay Martín Schmalhausen: Potete aiutarci, in primo luogo, con borse di studio per il seminario. Abbiamo adesso 10 giovani che stanno studiando filosofia e teologia e certamente sarebbe un grande aiuto per noi che siamo, come ho detto, una prelatura in banca rotta, perché davvero non abbiamo introiti e viviamo delle azioni di carità altrui. Inoltre abbiamo aperto alcuni anni fa il primo collegio parrocchiale e ho l’intenzione di aprire, nel futuro, almeno altri due collegi, per offrire un’educazione veramente cattolica e anche per impartire una buona educazione in un luogo dove l’educazione è molto deprezzata.
Un terzo aiuto sarebbe appoggiarci nelle forme di carità che dobbiamo sostenere, come le medicine. Alle volte abbiamo casi di persone malate, handicappate, che la gente umile nasconde in casa per vergogna, per timore, per paura e noi cerchiamo attraverso la nostra Caritas di mandarli a Arequipa o a Cusco per essere operata o assistita o ricevere delle fisioterapie, etc. Infine, un altro mezzo indispensabile è la preghiera: abbiamo bisogno che si preghi per la missione, che coloro che non vivono nella missione, ma in luoghi dove la Chiesa ha una certa stabilità e sicurezza, preghino per chi invece ha bisogno di preghiere, affinché Dio li ascolti e ci dia aiuto.
———
Questa intervista è stata condotta da Johannes Habsburg per Where God Weeps, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network, in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Per maggiori informazioni:
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org
Aiuto alla Chiesa che soffre Italia: www.acs-italia.glauco.it
Where God Wheeps: www.wheregodweeps.org

Le Chiese in Siria: Arabesco cristiano

http://www.stpauls.it/jesus03/0312je/0312je40.htm

Le Chiese in Siria

Arabesco cristiano

di Vittoria Prisciandaro

(3 dicembre 2003 – leggo dal link) 

Nella terra che vide la conversione dell’apostolo Paolo, la piccola minoranza cristiana oggi rappresenta un incredibile melting-pot di confessioni, riti e culture. In passato motivo di tensioni, questa convivenza nella varietà ha fatto sì che la Siria diventasse un piccolo ma avanzato laboratorio di dialogo ecumenico.
Il monaco ortodosso ha appena sfornato il pane. È ancora caldo quando lo consegna alla parrocchia cattolica. Un tempo le due comunità cristiane di Qaryatayn, un piccolo paese nel nord ovest della Siria, si combattevano senza tregua. I siro-ortodossi accusavano i siro-cattolici di aver loro sottratto il monastero di san Elian, appena fuori paese. Un oltraggio consumato a metà ’800, quando parte della popolazione ortodossa diventò cattolica in seguito a complesse vicende storiche. Una ferita che ha continuato a dividere famiglie e Chiese per decenni, a suon di profanazioni nei rispettivi cimiteri. «Ci si combatteva anche fisicamente», racconta padre Bassel Bursom, parroco della comunità siro-ortodossa.
Poi le cose sono cambiate. I parroci hanno iniziato a dare il buon esempio e oggi padre Bassel prepara il pane per le celebrazioni delle due comunità, la sua e quella cattolica, dedicate entrambe a san Elian. «Jack è come un fratello», dice Bassel. Padre Jack Murad, parroco siro-cattolico, vive nel monastero di mar Musa, poco lontano.
I bambini delle due comunità fanno il catechismo insieme, la gente partecipa indifferentemente alla Messa dell’una o dell’altra Chiesa, la formazione degli adulti si fa a settimane alterne dall’uno o dall’altro, e si sta pensando di aprire un asilo comune e di unificare anche le feste del patrono. «Nel nostro piccolo viviamo una comunione quasi perfetta», conclude padre Bassel.
Un caso abbastanza particolare. La Siria, insieme al Libano, è infatti la terra che esprime pienamente la ricchezza e la complessità della storia cristiana. Le Chiese orientali, cattoliche e ortodosse, ci sono tutte, immerse nella maggioranza musulmana. Caldei, melchiti, siriaci, latini vivono nelle stesse città, abitano le stesse case e gli stessi quartieri.
Le famiglie cristiane al loro interno presentano una varietà di sfumature difficili da comprendere per un occidentale. Differenze che vengono vissute con ecumenica simpatia, tanto che spesso si frequenta la chiesa più vicino casa, a prescindere dal rito di appartenenza. Più forti le resistenze delle gerarchie, in particolare quelle ortodosse. Mentre i cattolici in caso di necessità possono comunicarsi alla Messa ortodossa, non è permesso il contrario. Per questo i siro-ortodossi rappresentano un’eccezione: «Nel 1984 c’è stata una dichiarazione comune tra il Papa e il nostro Patriarca», dice Gregorios Yohanna Ibrahim, metropolita siro-ortodosso di Aleppo. «Da quel momento nella nostra Chiesa ufficialmente c’è ospitalità eucaristica con tutti i cattolici del mondo. Tra gli ortodossi siamo gli unici».
Eppure basta passeggiare lungo Sharia bab Sharqi, nel quartiere cristiano di Damasco, per capire quanto forti siano i legami tra le varie comunità. Le cattedrali distano poche decine di metri e spesso gli stessi abitanti della zona le confondono tra di loro. Anche ad Aleppo le chiese cristiane sono tutte nel breve raggio della nuova piazza Madre Teresa, dove ha sede l’arcivescovado siro-cattolico. Insomma, nella pratica spesso i fedeli seguono una prassi diversa da quella richiesta dall’ufficialità delle Chiese. «Nei fatti si chiude un occhio e, se non c’è un segno di riconoscimento esterno, se non è una religiosa o un prete, gli ortodossi partecipano senza problemi alle messe cattoliche», dice l’arcivescovo greco-cattolico (melchita) di Damasco, monsignor Isidore Battikha.
La sua è la Chiesa cattolica più numerosa. E proprio dal patriarca melchita, Grégoire III Laham, è partita la proposta di celebrare la Pasqua cristiana tutti insieme, secondo il calendario giuliano, quello ortodosso. In linea di principio sarebbero tutti d’accordo, ma le cose sono meno semplici di quanto si potrebbe pensare: da quasi 40 anni, infatti, gli armeni ortodossi hanno deciso a livello mondiale di celebrare la Pasqua secondo il calendario gregoriano, cattolico. Un segno di unità, almeno intorno alla grande mensa pasquale, per un popolo segnato da guerre e persecuzioni. Insomma mentre gli ortodossi in generale sono fermi al calendario giuliano e la Pasqua comune in Siria sarebbe possibile soltanto se tutti i cattolici decidessero di accordarsi su questa data («ma dovremmo decidere insieme, il patriarca melchita l’ha proposto senza consultarsi con nessuno», precisa il vescovo siro-cattolico di Aleppo, monsignor Denys Antoine Chahda), la piccola minoranza armena cattolica, dopo che gli armeni ortodossi hanno convenuto sul calendario gregoriano, non vuole tornare indietro.                               
«Tutti parlano di unità, ma le Chiese sono strutturate in maniera completamente autonoma», dice padre Pierre Masri, greco-cattolico, professore all’università di Aleppo e consultore del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. «Sono piramidali e autosufficienti: patriarca, sinodo, vescovi, preti. E possono vivere la vita ecclesiastica senza tener conto degli altri. Tant’è che non c’è una struttura che permette un confronto: ad Aleppo siamo cinque comunità cattoliche, ma tra noi preti non ci incontriamo mai. Insomma: tante tradizioni sono troppe per una minoranza così limitata come è quella cristiana».                  
I numeri dicono che, in totale, la comunità cristiana conta non più di un milione e mezzo di fedeli, tra il 10 e il 15 per cento della popolazione, a maggioranza musulmana. Padre Masri, che dirige tra l’altro la biblioteca spirituale di Aleppo, giovane istituzione che sta raccogliendo consensi anche tra universitari musulmani, sostiene che, se in passato la diversità era giustificata dal fatto di avere culture vive – siriaca, greca, armena –, «una volta passati a quella araba, le diversità sono comprensibili solo per gli addetti ai lavori. Per i giovani sono senza senso. E ai musulmani non testimoniano l’unità dei cristiani».
È questo il senso della proposta lanciata da monsignor Battikha: ritrovarsi sotto la comune denominazione di « Chiesa araba ». «La Chiesa ha sempre una collocazione geografica, sin dai tempi di san Paolo», dice l’arcivescovo melchita. «Dopo aver sopportato le divisioni del passato, quello che oggi può unirci è la visione del futuro: siamo tra un popolo arabo, che non vuol dire musulmano. E condividiamo gli stessi problemi: l’essere una minoranza, l’educazione della gioventù, l’emigrazione dei cristiani, la pace con Israele».
Una proposta che per alcuni è solo una faccia della medaglia. «Si deve capire che quando si difende un’identità – caldea, siriaca, armena – si difende una libertà»: con toni pacati il vescovo caldeo di Aleppo, monsignor Antoine Aude, gesuita, spiega che la difesa di una cultura non è espressione di fanatismo, ma «del diritto a essere differenti dagli altri, pur nella comunione». Questa antica Chiesa « nestoriana », che nel 1551 ha scelto la comunione con Roma e che oggi è presente soprattutto in Iraq, non intende rinunciare al suo patrimonio. «Dobbiamo essere coscienti che apparteniamo alla cultura araba senza complessi e questa è la lingua da usare per essere testimoni. Dobbiamo trovare una via ecumenica, ma senza rinunciare alla nostra tradizione liturgica e spirituale», dice Aude.
Se le gerarchie faticano a incontrarsi, un luogo in cui si ritrovano in pellegrinaggio tutti i cristiani è la cittadina di Maalula, ai piedi della catena dell’Antilibano, dove ha sede il convento di santa Tecla, Deir Mar Takla, e dove si parla l’antico dialetto aramaico dei tempi di Gesù. Seguace di Paolo, tra le prime martiri cristiane, sulla tomba di Tecla anche i musulmani si recano per chiedere benedizioni.
Delle relazioni amicali con i vicini di fede islamica, la gente e i sacerdoti parlano volentieri. Più dolente è il tasto della libertà di coscienza: «C’è libertà di culto, anche maggiore che in altri Paesi», sostengono tutti i vescovi interpellati. «Ma vorremmo che ciascuno fosse libero di poter scegliere la sua religione», osserva monsignor Chahda. Oggi è già meglio di ieri, dicono. E sperano nel futuro, mentre la comunità cristiana continua ad assottigliarsi, a causa della forte migrazione. Di come la vicenda dei cristiani in Siria vada comunque letta nel complesso scacchiere mediorientale lo racconta la piccola croce tatuata sul braccio di un anziano muratore, che lavora al restauro della splendida cattedrale siro-cattolica di Aleppo. La data segnata accanto alla croce è quella del pellegrinaggio compiuto a Gerusalemme. Era prima della guerra con Israele. Oggi le frontiere sono chiuse. E la Terra Santa, per i cristiani di Siria, rimane un sogno a portata di mano, eppure proibito.

Vittoria Prisciandaro

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