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VIGILATE – DAL COMMENTO DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

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VIGILATE – DAL COMMENTO DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

predicatore della Casa Pontificia, al Vangelo della I Domenica di Avvento 27 novembre 2005 (Marco 13, 33-37).

“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Vigilate, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà: se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!”.
Questo modo di parlare di Gesù sottintende una visione ben precisa del mondo: il tempo presente è come una lunga notte; la vita che vi conduciamo somiglia a un sonno; l’attività frenetica che in essa svolgiamo è, in realtà, un sognare. Uno scrittore spagnolo del Seicento, Calderon de la Barca, ha scritto un famoso dramma su questo tema: “La vita è un sogno” (Vida es sueño).
Del sogno, la nostra vita riflette anzitutto la brevità. Il sogno avviene fuori del tempo. Nel sogno le cose non durano come nella realtà. Situazioni che richiederebbero giorni e settimane, nel sogno avvengono in pochi minuti. È un’immagine della nostra vita: giunti alla vecchiaia, uno si guarda indietro e ha l’impressione che tutto non sia stato che un soffio.
Un’altra caratteristica del sogno è la irrealtà o vanità. Uno può sognare di essere a un banchetto e di mangiare e bere a sazietà; si sveglia e si ritrova con tutta la sua fame. Un povero, una notte, sogna di essere diventato ricco: esulta nel sonno, si pavoneggia, disprezza perfino il proprio padre, facendo finta di non riconoscerlo, ma si sveglia e si ritrova povero come era prima! Così avviene anche quando si esce dal sonno di questa vita. Uno è stato quaggiù ricco sfondato, ma ecco che muore e si viene a trovare esattamente nella posizione di quel povero che si sveglia dopo aver sognato di essere ricco. Cosa gli resta di tutte le sue ricchezze, se non le ha usate bene? Un pugno di mosche.
Una caratteristica del sogno non si applica alla vita ed è l’assenza di responsabilità. Tu puoi aver ucciso o rubato nel sogno; ti svegli, non resta traccia di colpa; la tua fedina penale non è macchiata. Non così nella vita, lo sappiamo bene. Quello che uno fa nella vita, lascia traccia, e quale traccia! È scritto infatti che “Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Rom 2, 6).
Sul piano fisico ci sono delle sostanze che “inducono” e conciliano il sonno; si chiamano i sonniferi e sono ben noti a una generazione, come la nostra, malata di insonnia. Anche sul piano morale, esiste un terribile sonnifero. Si chiama l’abitudine. L’abitudine è come un vampiro. Il vampiro – almeno stando a quello che si crede – si attacca alle persone che dormono e, mentre succhia loro il sangue, contemporaneamente inietta in esse un liquido soporifero che fa sperimentare ancora più dolce il dormire, sicché il malcapitato sprofonda sempre più nel sonno e il vampiro può succhiare sangue finché vuole. Anche l’abitudine al vizio addormenta la coscienza, per cui uno non sente più neppure il rimorso, crede di star benone e non si accorge che sta morendo spiritualmente.
L’unica salvezza, quando questo “vampiro” ti si è attaccato addosso, è che qualcosa venga improvvisamente a destarti dal sonno. Questo è quello che si prefigge di fare con noi la parola di Dio con quei gridi di risveglio che ci fa ascoltare così spesso durante l’Avvento: “Vigilate!” Terminiamo con una parola di Gesù che ci apre il cuore alla fiducia e alla speranza: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli! Si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12, 37).

Publié dans:PADRE CANTALAMESSA - PREDICHE |on 4 février, 2019 |Pas de commentaires »

PADRE CANTALAMESSA PRESENTA L’APOSTOLO COME GUIDA PER L’AVVENTO

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PADRE CANTALAMESSA PRESENTA L’APOSTOLO COME GUIDA PER L’AVVENTO

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 5 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia, ha iniziato questo venerdì le sue prediche sull’Avvento di fronte a Benedetto XVI e ai membri della Curia Romana con una riflessione sul rapporto di San Paolo con Cristo, come modello per i cristiani.
Nella sua prima predica nella Cappella « Redemptoris Mater », al cui contenuto ZENIT ha avuto accesso, il predicatore riflette sull’evento sulla via di Damasco, che definisce « l’avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo ». Secondo il cappuccino, l’Anno Paolino rischia « di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo ». Questo, ha aggiunto, « è successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all’assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo ».
« Quella tesi è il travisamento più completo e l’offesa più grave che si possa fare all’Apostolo Paolo », ha affermato. L’obiettivo dell’Apostolo nei suoi scritti, spiega, è quello di « portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all’amore e alla passione per Cristo ».
« L’Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno ‘più grande di lui’, di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo », aggiunge. L’incontro personale di Paolo con Cristo sulla via di Damasco ha rappresentato per l’Apostolo un’identificazione: « egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero ». Questo incontro, segnala padre Cantalamessa meditando sulla Lettera ai Filippesi, che chiama « le confessioni di S. Paolo », « ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi ». « Un incontro personalissimo (è l’unico testo dove l’apostolo usa il singolare ‘mio’, non ‘nostro’ Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: ‘Saulo, Saulo!’ ‘Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù!’. Una ‘rivelazione’, la definisce lui. Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo ».
PAOLO, MODELLO DI VERA CONVERSIONE EVANGELICA
Prima predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 5 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la prima predica d’Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia. Nel cuore dell’anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell’Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti. * * *
« QUELLO CHE POTEVA ESSERE UN GUADAGNO L’HO CONSIDERATO UNA PERDITA A MOTIVO DI CRISTO »
L’anno paolino è una grazia grande per la Chiesa, ma presenta anche un pericolo: quello di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo. Il Santo Padre ha messo in guardia contro questo rischio nell’omelia stessa in cui ha indetto l’anno paolino e nell’udienza generale del 2 Luglio scorso ribadiva: « È questo il fine dell’anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo ».
È successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all’assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo. Gesù Cristo sarebbe stato per Paolo quello che Socrate era stato per Platone: un pretesto, un nome, sotto il quale mettere il proprio pensiero.
L’Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno « più grande di lui », di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo. Quella tesi è il travisamento più completo e l’offesa più grave che si possa fare all’apostolo Paolo. Se tornasse in vita, egli reagirebbe a quella tesi con la stessa veemenza con cui reagì di fronte a un analogo fraintendimento dei corinzi: « Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? » (1 Cor 1,13).
Un altro ostacolo da superare, anche per noi credenti, è quello di fermarci alla dottrina di Paolo su Cristo, senza lasciarci contagiare dal suo amore e dal suo fuoco per lui. Paolo non vuole essere per noi solo un sole d’inverno che illumina ma non riscalda. L’intento evidente delle sue lettere è di portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all’amore e alla passione per Cristo.
A questo scopo vorrebbero contribuire le tre meditazioni di Avvento di quest’anno, a partire da questa di oggi in cui rifletteremo sulla conversione di Paolo, l’avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo.
1. La conversione di Paolo vista da dentro
La migliore spiegazione della conversione di san Paolo è quella che da lui stesso quando parla del battesimo cristiano come di un essere « battezzati nella morte di Cristo » « sepolti insieme con lui » per risorgere con lui e « camminare in una vita nuova » (cf. Rom 6, 3-4). Egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero. Ci sono delle analogie anche esterne impressionanti. Gesù rimase tre giorni nel sepolcro; per tre giorni Saulo visse come un morto: non poteva vedere, stare in piedi, magiare, poi al momento del battesimo i suoi occhi si riaprirono, poté mangiare e riprendere le forze, tornò in vita (cf. Atti 9,18).
Subito dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò nel deserto e anche Paolo, dopo essere stato battezzato da Anania, si ritirò nel deserto di Arabia, cioè nel deserto intorno a Damasco. Gli esegeti calcolano che tra l’evento sulla via di Damasco e l’inizio della sua attività pubblica nella Chiesa ci sono una decina d’anni di silenzio nella vita di Paolo. Gli ebrei lo cercavano a morte, i cristiani non si fidavano ancora e avevano paura di lui. La sua conversione ricorda quella del cardinal Newman che gli ex fratelli di fede anglicani consideravano un transfuga e i cattolici guardavano con sospetto per le sue idee nuove e ardite.
L’Apostolo ha fatto un lungo noviziato; la sua conversione non è durata pochi minuti. Ed è in questa sua kenosi, in questo tempo di svuotamento e di silenzio che ha accumulato quella energia dirompente e quella luce che un giorno riverserà sul mondo.
Della conversione di Paolo abbiamo due diverse descrizioni: una che descrive l’evento, per così dire, dall’esterno, in chiave storica e un’altra che descrive l’evento dall’interno, in chiave psicologica o autobiografica. Il primo tipo è quello che troviamo nelle tre diverse relazioni che si leggono negli Atti degli apostoli. Ad esso appartengono anche alcuni accenni che Paolo stesso fa dell’evento, spiegando come da persecutore divenne apostolo di Cristo (cf. Gal 1, 13-24).
Al secondo tipo appartiene il capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in cui l’Apostolo descrive quello che ha significato per lui, soggettivamente, l’incontro con Cristo, quello che era prima e quello che è diventato in seguito; in altre parole, in che è consistito, esistenzialmente e religiosamente, il cambiamento intervenuto nella sua vita. Noi ci concentriamo su questo testo che, per analogia con l’opera agostiniana, potremmo definire « le confessioni di S. Paolo ».
In ogni cambiamento c’è un terminus a quo e un terminus ad quem, un punto di partenza e un punto di arrivo. L’Apostolo descrive anzitutto il punto di partenza, quello che era prima:
« Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (Fil 3, 4-6).
Ci si può facilmente sbagliare nel leggere questa descrizione: questi non erano titoli negativi, ma i massimi titoli di santità del tempo. Con essi si sarebbe potuto aprire subito il processo di canonizzazione di Paolo, se fosse esistito a quel tempo. È come dire di uno oggi: battezzato l’ottavo giorno, appartenente alla struttura per eccellenza della salvezza, la chiesa cattolica, membro dell’ordine religioso più austero della Chiesa (questo erano i farisei!), osservantissimo della Regola… ».
Invece c’è nel testo un punto a capo che divide in due la pagina e la vita di Paolo. Si riparte da un « ma » avversativo che crea un contrasto totale:
« Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo » (Fil 3, 7-8).
Tre volte ricorre il nome di Cristo in questo breve testo. L’incontro con lui ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi. Un incontro personalissimo (è l’unico testo dove l’apostolo usa il singolare « mio », non « nostro » Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: « Saulo, Saulo! » « Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù! ». Una « rivelazione », la definisce lui (Gal 1, 15-16). Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo.
2. Un cambiamento di mente
Proviamo ad analizzare il contenuto dell’evento. È stato anzitutto un cambiamento di mente, di pensiero, letteralmente una metanoia. Paolo aveva fino allora creduto di potersi salvare ed essere giusto davanti a Dio mediante l’osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni dei padri. Ora capisce che la salvezza si ottiene in altro modo. Voglio essere trovato, dice, « non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede » (Fil 3, 8-9). Gesù gli ha fatto sperimentare su di sé quello che un giorno avrebbe dovuto proclamare a tutta la Chiesa: la giustificazione per grazia mediante la fede (cf. Gal 2,15-16; Rom 3, 21 ss.).
Leggendo il capitolo terzo della Lettera ai Filippesi a me viene in mente un’immagine: un uomo cammina di notte in un fitto bosco al fioco lume di una candela, facendo attenzione a che non si spenga; camminando, camminando viene l’alba, sorge il sole, il fioco lume di candela impallidisce, finché non gli serve più e lo getta via. Il lucignolo fumigante era la sua propria giustizia. Un giorno, nella vita di Paolo, è spuntato il sole di giustizia, Cristo Signore, e da quel momento non ha voluto altra luce che la sua.
Non si tratta di un punto accanto ad altri, ma del cuore del messaggio cristiano; lui lo definirà il « suo vangelo », al punto di dichiarare anatema chi osasse predicare un vangelo diverso, fosse pure un angelo o lui stesso (cf. Gal 1, 8-9). Perché tanta insistenza? Perché in ciò consiste la novità cristiana, quello che la distingue da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni proposta religiosa comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi o ottenere la « Illuminazione ». Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare, ma quello che Dio ha fatto per loro in Cristo Gesù. Il cristianesimo è la religione della grazia.
C’è posto – e come – per i doveri e l’osservanza dei comandamenti, ma dopo, come risposta alla grazia, non come sua causa o suo prezzo. Non ci si salva per le buone opere, anche se non ci si salva senza le buone opere. È una rivoluzione di cui, a distanza di duemila anni, ancora stentiamo a prendere coscienza. Le polemiche teologiche sulla giustificazione mediante la fede dalla Riforma in poi l’hanno spesso ostacolata più che favorita perché hanno mantenuto il problema a livello teorico, di tesi di scuole contrapposte, anziché aiutare i credenti a farne esperienza nella loro vita.
3. « Convertitevi e credete al vangelo »
Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini e di parabole.
Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre « tornare indietro » (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. « Convertitevi a me [...], tornate indietro dal vostro cammino perverso », diceva Dio nei profeti (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).
Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.
Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. « Convertitevi e credete » non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! « Prima conversio fit per fidem », dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere (1).
Dio ha preso, lui, l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: « Venite, tutto è pronto! ». È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione!
L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede « nel Vangelo » (« credete al Vangelo »), ora si configura come fede « in Gesù Cristo », « nel suo sangue » (Rm 3, 25).
Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio « gratuitamente » (dorean) o « per grazia », Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori.
Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di « chiamata », anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio (2).
A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: « Convertitevi e credete al vangelo »? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso » (2Cor 3,16).
La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel « rivolgersi » a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.
4. Un’esperienza vissuta
Nel documento di accordo tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale della Chiese luterane sulla giustificazione mediante la fede, presentato solennemente nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II e l’arcivescovo di Uppsala nel 1999, c’è una raccomandazione finale che mi pare di importanza vitale. Dice in sostanza questo: è venuto il momento di fare di questa grande verità una esperienza vissuta da parte dei credenti, e non più un oggetto di dispute teologiche tra dotti, come è avvenuto nel passato.
La ricorrenza dell’anno paolino ci offre una occasione propizia per fare questa esperienza. Essa può dare un colpo d’ala alla nostra vita spirituale, un respiro e una libertà nuova. Charles Péguy ha raccontato, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo, dice, (e si sa che quest’uomo era lui stesso) aveva tre figli e un brutto giorno essi si ammalarono, tutti e tre insieme. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Al ripensarci si ammirava anche un po’ e bisogna dire che era stato davvero un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e dà in esclamazioni, dicendo che sono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso -s’intende, con la preghiera – i suoi tre bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo: «Vedi – diceva – te li do, mi volto e scappo, perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! Devi pensarci tu». (Fuori metafora, era andato a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare alla Madonna i suoi tre bambini malati). Da quel giorno, tutto andava bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice, ma non si pensa mai a ciò che è semplice (3).
La storia ci serve in questo momento per l’idea del colpo di audacia, perché è di qualcosa del genere che si tratta. La chiave di tutto, si diceva, ciò è la fede. Ma ci sono diversi tipi di fede: c’è la fede-assenso dell’intelletto, la fede-fiducia, la fede-stabilità, come la chiama Isaia (7, 9): di quale fede si tratta, quando si parla della giustificazione «mediante la fede»? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione!
Ascoltiamo, su questo punto, san Bernardo: «Io – dice -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (4). È scritto infatti che « Cristo Gesù … è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (l Cor l, 30). Per noi, non per se stesso!
San Cirillo di Gerusalemme esprimeva, con altre parole, la stessa idea del colpo di audacia della fede: «O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell’Antico Testa-mento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un’ora . Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone» (5). Immagina, scrive il Cabasilas sviluppando un’immagine di san Giovanni Crisostomo, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.
Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi. Pur non avendo ancora faticato e lottato – pur non avendo ancora alcun merito -, tuttavia, per mezzo della fede noi inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo che è la croce e per lui valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte (6). È così che si ottiene la salvezza.
La liturgia di Natale ci parlerà del « santo scambio », del sacrum commercium, tra noi e Dio realizzato in Cristo. La legge di ogni scambio si esprime nella formula: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ne deriva che quello che è mio, cioè il peccato, la debolezza, diventa di Cristo; quello che è di Cristo, cioè la santità, diventa mio. Poiché noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue, scrive il Cabasilas, che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità (7). E’ questo il colpo d’ala nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all’inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano.
Nella Chiesa cattolica abbiamo un mezzo privilegiato per fare esperienza concreta e quotidiana di questo sacro scambio e della giustificazione per grazia, mediante la fede: i sacramenti. Ogni volta che io mi accosto al sacramento della riconciliazione faccio concretamente l’esperienza di essere giustificato per grazia, ex opere operato, come diciamo in teologia. Salgo al tempio, dico a Dio: « O Dio, abbia pietà di me peccatore » e, come il pubblicano, me ne torno a casa « giustificato » (Lc 18,14), perdonato, con l’anima splendente, come al momento in cui uscii dal fonte battesimale.
Che san Paolo, in questo anno a lui dedicato, ci ottenga la grazia di fare come lui questo colpo di audacia della fede.

(1) S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I-IIae, q. 113,a.4.
(2) Cf. J.M.Everts, Conversione e chiamata di Paolo, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo 1999, pp. 285-298 (riassunto delle posizioni e bibliografia).
(3) Cf. Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù.
(4) In Cant. 61, 4-5; PL 183, 1072.
(5) Catechesi,. 5, 10; PG 33,517.
(6) Cf. N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 5; PG 150,517.
(7) N. Cabasilas, Vita in Cristo IV, 6 (PG 150, 613).

EGLI E’ LA NOSTRA PACE – di P. Raniero Cantalamessa

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/VITA%20CRISTIANA/eglielanostrapacecantalamessa.htm

EGLI E’ LA NOSTRA PACE – di P. Raniero Cantalamessa

“Immagina che non esiste paradiso, / è facile se provi./ Nessun inferno sotto di noi, / nient’altro che il cielo su di noi. Immagina tutta la gente / vivere per l’oggi, / immagina non ci sono patrie. /Non è difficile, vedrai. / Nulla per cui uccidere o morire / e nessuna religione più. (Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do./ Nothing to kill or die for /and no religion too). Immagina tutta la gente / vivere la vita in pace. / Ti sembro un sognatore? /Non sono il solo. / Spero che un giorno ti unirai a noi / e il mondo sarà una cosa sola. (Imagine all the people / living life in peace. / You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one./ I hope someday you’ll join us / and the world will live as one)” .  

Mi pare sia di Platone la massima: “Agli anziani sono maestri i filosofi, ai giovani i poeti”.

Oggi, a dire il vero, maestri dei giovani non sono più neppure i poeti, ma i cantautori; non la poesia, ma la musica. Vi sono milioni di giovani la cui visione della vita è ricalcata su quella del cantautore (se non addirittura del canto) preferito. Nelle settimane agitate che abbiamo vissuto, quella canzone, scritta da uno dei grandi idoli della musica leggera moderna, su una melodia suadente, è risuonata con frequenza nei cortei e nei programmi radiofonici, come una specie di manifesto pacifista. Non possiamo lasciarla senza una risposta. Gesù, una volta, prese lo spunto per un suo insegnamento da quello che cantavano i ragazzi del suo tempo nelle piazze: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto” (Mt 11,16-17). Dobbiamo seguirne l’esempio. La prima domanda che ci poniamo è questa: Perché sforzarsi di ”immaginare” qualcosa che abbiamo avuto sotto gli occhi fino a ieri? Un mondo senza paradiso e inferno, senza religione, senza patrie, with no possessions, senza proprietà privata, dove si insegnava alla gente a vivere solo “per quaggiù”: non è esattamente la società che si erano proposto di realizzare i regimi totalitari comunisti? Il sogno dunque non è nuovo, ma il risveglio da esso non è stato allegro… “Non più paradiso, non più inferno”: anche queste parole non è la prima volta che sono risuonate nel mondo. “Se Dio esiste l’uomo è nulla. Dio non esiste! Felicità, lacrime di gioia! Non più cielo. Non più inferno! Nient’altro che la terra”. Sono parole che un noto filosofo e scrittore metteva in bocca a un suo personaggio negli anni ruggenti dell’esistenzialismo ateo . Lo stesso autore scrisse però anche un altro dramma, intitolato Porte chiuse. In esso si parla di tre persone -un uomo e due donne- introdotte, a brevi intervalli, in una stanza. Non ci sono finestre, la luce è al massimo e non c’è possibilità di spegnerla, fa un caldo soffocante, e non c’è nulla all’infuori di un canapè. La porta è chiusa, il campanello c’è, ma non dà suono. Di chi si tratta? Sono tre persone appena morte, e il luogo dove si trovano è l’inferno. Dopo che, a forza di frugare uno nella vita dell’altro, le loro anime sono diventate nude davanti a tutti e le colpe di cui più ci si vergogna sono venute a galla e sfruttate dagli altri senza pietà, uno dei personaggi dice agli altri due: “Ricordate: lo zolfo, le fiamme, la graticola Tutte sciocchezze. Non c’è nessun bisogno di graticole: l’inferno sono gli Altri” . Per questa via, l’inferno non viene dunque abolito; è solo trasferito sulla terra.

* * * Ma il canto che ho ricordato, a parte i suggerimenti sbagliati per realizzarlo, contiene un anelito giusto e santo che non si può lasciar cadere nel vuoto. Ascoltiamo un’altra “canzone” sulla pace e l’unità, scritta molto tempo prima:

“Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2, 14-18).

Anche qui viene presentato un mondo in cui si vive “in pace”, come fosse “una cosa sola”; ma la via per realizzarlo è assai diversa. “Ha fatto la pace, distruggendo in se stesso l’inimicizia”. Distruggendo l’inimicizia, non il nemico; distruggendola in se stesso, non negli altri! In quello stesso tempo un altro grande uomo proclamava al mondo l’avvenuta pace. In Asia Minore è stata ritrovata, tra le pietre di una moschea, copia del famoso “Indice delle proprie imprese” dell’imperatore Augusto. In esso egli celebra la pax Romana da lui stabilita nel mondo, definendola parta victoriis pax, una pace ottenuta mediante vittorie militari . Gesù non entra nel merito di questa pace, ma rivela che ne esiste un’altra di genere diverso. Dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). Anche la sua è una “pace frutto di vittorie”. Ma vittorie su se stessi, non sugli altri, vittorie spirituali, non militari. “Ha vinto il leone della tribù di Giuda”, vicit leo de tribu Juda, esclama l’Apocalisse (5, 5), ma S. Agostino spiega: “Victor quia victima”, vincitore perché vittima . Gesù ci ha insegnato che non c’è nulla per cui uccidere, ma che c’è qualcosa per cui morire.   * * * La via alla pace del Vangelo non ha senso solo nell’ambito della fede; vale anche nell’ambito politico, per la società. È l’attuale assetto del mondo a esigere che si cambi il metodo di Augusto con quello di Cristo. Non è più accettata dalla coscienza moderna la vocazione che Virgilio additava ai suoi concittadini: “Tu regere imperio populos, Romane, memento” : “il tuo compito, ricordati, Roma, è esercitare l’impero dei popoli”. Ogni popolo rivendica il proprio diritto ad autogovernarsi. Oggi vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico (distruggeremo metà della popolazione del mondo, scontenta del suo assetto? e come individuare il nemico nel terrorismo?). Senza contare che si applica anche ai nemici ciò che Tertulliano diceva del sangue dei cristiani: “Semen est sanguis christianorum”: anche il sangue dei nemici, purtroppo, è seme di altri nemici. Qualcuno rimproverò un giorno Abramo Lincoln di essere troppo cortese con i propri nemici e gli ricordò che il suo dovere di presidente era piuttosto di distruggerli. Al che egli rispose: “Non distruggo forse i miei nemici quando me li faccio amici?”. Troverà, il grande presidente degli Stati Uniti, qualcuno che raccolga questa formidabile sfida? I nemici si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo. Prima di additarlo alle nazioni, la Chiesa, guidata dal papa, si sta sforzando di realizzare questo programma nel rapporto tra le varie religioni.

* * * Ma non abbiamo raccolto che metà del messaggio cristiano sulla pace. Uno slogan oggi assai di moda dice: “Think globally, act locally”: pensa globalmente, agisci localmente. Esso vale soprattutto per la pace. La pace non si fa come la guerra. Per fare la guerra, occorrono lunghi preparativi: formare grossi eserciti, predisporre strategie, sancire alleanze e poi muovere compatti all’attacco. Guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata: sarebbe votato a sicura disfatta. La pace si fa esattamente al contrario: alla spicciolata, cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano. Miliardi di gocce d’acqua sporca non faranno mai un oceano pulito. Miliardi di uomini senza pace nel cuore – e di famiglie senza pace al loro interno – non faranno mai un’umanità in pace. Uno dei messaggi di Giovanni Paolo II per la giornata della pace, quello del 1984, portava come titolo: “La pace nasce da un cuore nuovo”. Che senso ha sfilare in corteo per le strade gridando “Pace!”, se si alza il pugno minaccioso e si sfondano vetrine? Si può essere dei “pacifisti a mano armata”? Anche esporre il drappo della pace fuori della propria finestra che senso avrebbe, se dentro casa si alza la voce, si impone tirannicamente la propria volontà ed si erigono muri di ostilità o di silenzio? Non sarebbe meglio, in questo caso, ritirare il drappo ed appenderlo dentro casa? Ma anche noi che siamo qui riuniti dobbiamo fare qualcosa per essere degni di parlare di pace. Gesù è venuto ad annunciare “pace ai lontani e pace ai vicini”. La pace con “i vicini” è spesso più difficile che non la pace con “i lontani”…Gesù ha detto: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24). Fra poco noi ci accosteremo a baciare il Crocifisso. Se non vogliamo che dall’alto della sua croce Gesù debba ripeterci: “Vai prima a riconciliarti con il tuo fratello!”, il nostro deve essere un bacio dato non solo a Lui che è il capo, ma anche alle membra del suo corpo, specialmente quelle che tendiamo a rifiutare. Un tempo, al termine della Quaresima o di Missioni popolari, si facevano i falò delle vanità. In un rogo acceso al centro della piazza principale della città, ognuno gettava gli strumenti del vizio o gli oggetti di superstizione che aveva in casa. Essi facevano un falò delle vanità, noi facciamo un falò delle ostilità! Gettiamo tra le braccia del Crocifisso e nella fornace ardente del suo cuore ogni odio, rancore, risentimento, invidia, rivalità, ogni desiderio di farci giustizia da soli.

* * * “Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito”. “Gli uni e gli altri” non sono più solo giudei e gentili; sono anche cristiani e musulmani, latini e greci, cattolici e protestanti, clero e laici, uomini e donne, bianchi e neri. Ecco la risposta del Vangelo al “sogno” della canzone: “e il mondo sarà una cosa sola”, and the world will live as one. Conosciamo l’obbiezione: “Sono passati duemila anni da allora e cosa è cambiato?” Ma non ci inganniamo. Il mondo riconciliato, divenuto una cosa sola in Cristo, esiste già. È ciò che vede Dio quando guarda questo nostro tormentato pianeta, lui che abbraccia con il suo sguardo passato, presente e futuro insieme. Vale anche per il mondo ciò che Francesco d’Assisi dice di ogni uomo: “L’uomo, ciò che è davanti a Dio, quello è, e non altro” . Il mondo, ciò che è davanti a Dio, quello è, e non altro. E agli occhi di Dio, già ora, “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti siamo uno in Cristo Gesù”(cf. Gal 3, 28). Il 13 Aprile 1997, nello stadio di Sarajevo, il Santo Padre Giovanni Paolo II elevò a Dio una preghiera per la pace. Ci uniamo al suo grido accorato, non meno attuale oggi di allora, dopo che una guerra si è appena consumata e altre continuano dimenticate: “Io, vescovo di Roma, mi inginocchio davanti a te, Signore, per gridare: Liberaci dal flagello della guerra. Venga il tuo regno; regno di giustizia, di pace, di perdono e di amore. Tu non ami la violenza e l’odio, tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano fra loro fratelli e ti riconoscano come loro padre. La tua volontà è la pace”. Sia fatta la tua volontà!  

 

PREDICATORE DEL PAPA: PAOLO, MODELLO DI VERA CONVERSIONE EVANGELICA

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PREDICATORE DEL PAPA: PAOLO, MODELLO DI VERA CONVERSIONE EVANGELICA

Prima predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 5 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la prima predica d’Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia. Nel cuore dell’anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell’Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti.

* * *

« QUELLO CHE POTEVA ESSERE UN GUADAGNO L’HO CONSIDERATO UNA PERDITA A MOTIVO DI CRISTO »

L’anno paolino è una grazia grande per la Chiesa, ma presenta anche un pericolo: quello di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo. Il Santo Padre ha messo in guardia contro questo rischio nell’omelia stessa in cui ha indetto l’anno paolino e nell’udienza generale del 2 Luglio scorso ribadiva: « È questo il fine dell’anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo ». È successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all’assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo. Gesù Cristo sarebbe stato per Paolo quello che Socrate era stato per Platone: un pretesto, un nome, sotto il quale mettere il proprio pensiero. L’Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno « più grande di lui », di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo. Quella tesi è il travisamento più completo e l’offesa più grave che si possa fare all’apostolo Paolo. Se tornasse in vita, egli reagirebbe a quella tesi con la stessa veemenza con cui reagì di fronte a un analogo fraintendimento dei corinzi: « Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? » (1 Cor 1,13). Un altro ostacolo da superare, anche per noi credenti, è quello di fermarci alla dottrina di Paolo su Cristo, senza lasciarci contagiare dal suo amore e dal suo fuoco per lui. Paolo non vuole essere per noi solo un sole d’inverno che illumina ma non riscalda. L’intento evidente delle sue lettere è di portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all’amore e alla passione per Cristo. A questo scopo vorrebbero contribuire le tre meditazioni di Avvento di quest’anno, a partire da questa di oggi in cui rifletteremo sulla conversione di Paolo, l’avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo.

1. La conversione di Paolo vista da dentro La migliore spiegazione della conversione di san Paolo è quella che da lui stesso quando parla del battesimo cristiano come di un essere « battezzati nella morte di Cristo » « sepolti insieme con lui » per risorgere con lui e « camminare in una vita nuova » (cf. Rom 6, 3-4). Egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero. Ci sono delle analogie anche esterne impressionanti. Gesù rimase tre giorni nel sepolcro; per tre giorni Saulo visse come un morto: non poteva vedere, stare in piedi, magiare, poi al momento del battesimo i suoi occhi si riaprirono, poté mangiare e riprendere le forze, tornò in vita  (cf. Atti 9,18). Subito dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò nel deserto e anche Paolo, dopo essere stato battezzato da Anania, si ritirò nel deserto di Arabia, cioè nel deserto intorno a Damasco. Gli esegeti calcolano che tra l’evento sulla via di Damasco e l’inizio della sua attività pubblica nella Chiesa ci sono una decina d’anni di silenzio nella vita di Paolo. Gli ebrei lo cercavano a morte, i cristiani non si fidavano ancora e avevano paura di lui. La sua conversione ricorda quella del cardinal Newman che gli ex fratelli di fede anglicani consideravano un transfuga e i cattolici guardavano con sospetto per le sue idee nuove e ardite. L’Apostolo ha fatto un lungo noviziato; la sua conversione non è durata pochi minuti. Ed è in questa sua kenosi, in questo tempo di svuotamento e di silenzio che ha accumulato quella energia dirompente e quella luce che un giorno riverserà sul mondo. Della conversione di Paolo abbiamo due diverse descrizioni: una che descrive l’evento, per così dire, dall’esterno, in chiave storica e un’altra che descrive l’evento dall’interno, in chiave psicologica o autobiografica. Il primo tipo è quello che troviamo nelle tre diverse relazioni che si leggono negli Atti degli apostoli. Ad esso appartengono anche alcuni accenni che Paolo stesso fa dell’evento, spiegando come da persecutore divenne apostolo di Cristo (cf. Gal 1, 13-24). Al secondo tipo appartiene il capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in cui l’Apostolo descrive quello che ha significato per lui, soggettivamente, l’incontro con Cristo, quello che era prima e quello che è diventato in seguito; in altre parole, in che è consistito, esistenzialmente e religiosamente, il cambiamento intervenuto nella sua vita. Noi ci concentriamo  su questo testo che, per analogia con l’opera agostiniana, potremmo definire « le confessioni di S. Paolo ». In ogni cambiamento c’è un terminus a quo e un terminus ad quem, un punto di partenza e un punto di arrivo. L’Apostolo descrive anzitutto il punto di partenza, quello che era prima: « Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (Fil 3, 4-6). Ci si può facilmente sbagliare nel leggere questa descrizione: questi non erano titoli negativi, ma i massimi titoli di santità del tempo. Con essi si sarebbe potuto aprire subito il processo di canonizzazione di Paolo, se fosse esistito a quel tempo. È come dire di uno oggi: battezzato l’ottavo giorno, appartenente alla struttura per eccellenza della salvezza, la chiesa cattolica, membro dell’ordine religioso più austero della Chiesa (questo erano i farisei!), osservantissimo della Regola… ». Invece c’è nel testo un punto  a capo che divide in due la pagina e la vita di Paolo. Si riparte da un « ma » avversativo che crea un contrasto totale: « Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo » (Fil 3, 7-8). Tre volte ricorre il nome di Cristo in questo breve testo. L’incontro con lui ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi. Un incontro personalissimo (è l’unico testo dove l’apostolo usa il singolare « mio », non « nostro » Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: « Saulo, Saulo! » « Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù! ». Una « rivelazione », la definisce lui (Gal 1, 15-16). Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo. 2. Un cambiamento di mente Proviamo ad analizzare il contenuto dell’evento. È stato anzitutto un cambiamento di mente, di pensiero, letteralmente una metanoia. Paolo aveva fino allora creduto di potersi salvare ed essere giusto davanti a Dio mediante l’osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni dei padri. Ora capisce che la salvezza si ottiene in altro modo. Voglio essere trovato, dice, « non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede » (Fil 3, 8-9). Gesù gli ha fatto sperimentare su di sé quello che un giorno avrebbe dovuto proclamare a tutta la Chiesa: la giustificazione per grazia mediante la fede (cf. Gal 2,15-16; Rom 3, 21 ss.). Leggendo il capitolo terzo della Lettera ai Filippesi a me viene in mente un’immagine: un uomo cammina di notte in un fitto bosco al fioco lume di una candela, facendo attenzione a che non si spenga; camminando, camminando viene l’alba, sorge il sole, il fioco lume di candela impallidisce, finché non gli serve più e lo getta via. Il lucignolo fumigante era la sua propria giustizia. Un giorno, nella vita di Paolo, è spuntato il sole di giustizia, Cristo Signore,  e da quel momento non ha voluto altra luce che la sua. Non si tratta di un punto accanto ad altri, ma del cuore del messaggio cristiano; lui lo definirà il « suo vangelo », al punto di dichiarare anatema chi osasse predicare un vangelo diverso, fosse pure un angelo o lui stesso (cf. Gal 1, 8-9). Perché tanta insistenza? Perché in ciò consiste la novità cristiana, quello che la distingue da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni proposta religiosa comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi o ottenere la « Illuminazione ». Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare, ma quello che Dio ha fatto per loro in Cristo Gesù. Il cristianesimo è la religione della grazia. C’è posto – e come – per i doveri e l’osservanza dei comandamenti, ma dopo, come risposta alla grazia, non come sua causa o suo prezzo. Non ci si salva per le buone opere, anche se non ci si salva senza le buone opere. È una rivoluzione di cui, a distanza di duemila anni, ancora stentiamo a prendere coscienza. Le polemiche teologiche sulla giustificazione mediante la fede dalla Riforma in poi l’hanno spesso ostacolata più che favorita perché hanno mantenuto il problema a livello teorico, di tesi di scuole contrapposte, anziché aiutare i credenti a farne esperienza nella loro vita. 3. « Convertitevi e credete al vangelo » Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini  e di parabole. Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre « tornare indietro » (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. « Convertitevi a me [...], tornate indietro dal vostro cammino perverso », diceva Dio nei profeti  (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5). Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua  mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù. Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. « Convertitevi e credete » non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! « Prima conversio fit per fidem », dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere (1). Dio ha preso, lui, l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: « Venite, tutto è pronto! ». È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione! L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede « nel Vangelo » (« credete al Vangelo »), ora si configura come fede « in Gesù Cristo », « nel suo sangue » (Rm 3, 25). Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio « gratuitamente »(dorean) o « per grazia », Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori. Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di « chiamata », anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio (2). A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: « Convertitevi e credete al vangelo »? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso » (2Cor 3,16). La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel « rivolgersi » a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto. 4. Un’esperienza vissuta Nel documento di accordo tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale della Chiese luterane sulla giustificazione mediante la fede, presentato solennemente nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II e l’arcivescovo di Uppsala nel 1999, c’è una raccomandazione finale che mi pare di importanza vitale. Dice in sostanza questo: è venuto il momento di fare di questa grande verità una esperienza vissuta da parte dei credenti, e non più un oggetto di dispute teologiche tra dotti, come è avvenuto nel passato. La ricorrenza dell’anno paolino ci offre una occasione propizia per fare questa esperienza. Essa può dare un colpo d’ala alla nostra vita spirituale, un respiro e una libertà nuova. Charles Péguy ha raccontato, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo, dice, (e si sa che quest’uomo era lui stesso) aveva tre figli e un brutto giorno essi si ammalarono, tutti e tre insieme. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Al ripensarci si ammirava anche un po’ e bisogna dire che era stato davvero un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e dà in esclamazioni, dicendo che sono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso -s’intende, con la preghiera – i suoi tre bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo: «Vedi – diceva – te li do, mi volto e scappo, perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! Devi pensarci tu». (Fuori metafora, era andato a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare alla Madonna i suoi tre bambini malati). Da quel giorno, tutto andava bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice, ma non si pensa mai a ciò che è semplice (3). La storia ci serve in questo momento per l’idea del colpo di audacia, perché è di qualcosa del genere che si tratta. La chiave di tutto, si diceva, ciò è la fede. Ma ci sono diversi tipi di fede: c’è la fede-assenso dell’intelletto, la fede-fiducia, la fede-stabilità, come la chiama Isaia (7, 9): di quale fede si tratta, quando si parla della giustificazione «mediante la fede»? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione! Ascoltiamo, su questo punto, san Bernardo: «Io – dice -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (4). È scritto infatti che  « Cristo Gesù … è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (l Cor l, 30). Per noi, non per se stesso! San Cirillo di Gerusalemme  esprimeva, con altre parole, la stessa idea del colpo di audacia della fede: «O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell’Antico Testamento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un’ora. Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone» (5). Immagina, scrive il Cabasilas sviluppando un’immagine di san Giovanni Crisostomo, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore. Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi. Pur non avendo ancora faticato e lottato – pur non avendo ancora alcun merito -, tuttavia, per mezzo della fede noi inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo che è la croce e per lui valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte (6). È così che si ottiene la salvezza. La liturgia di Natale ci parlerà del « santo scambio », del sacrum commercium, tra noi e Dio realizzato in Cristo.  La legge di ogni scambio  si esprime nella formula: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ne deriva che quello che è mio, cioè il peccato, la debolezza, diventa di Cristo; quello che è di Cristo, cioè la santità, diventa mio. Poiché noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue, scrive il Cabasilas, che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità (7). E’ questo il colpo d’ala nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all’inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano. Nella Chiesa cattolica abbiamo un mezzo privilegiato per fare esperienza concreta e quotidiana di questo sacro scambio e della giustificazione per grazia, mediante la fede: i sacramenti. Ogni volta che io mi accosto al sacramento della riconciliazione faccio concretamente l’esperienza di essere giustificato per grazia, ex opere operato, come diciamo in teologia. Salgo al tempio, dico a Dio: « O Dio, abbia pietà di me peccatore » e, come il pubblicano, me ne torno a casa « giustificato »  (Lc 18,14), perdonato, con l’anima splendente, come al momento in cui uscii dal fonte battesimale. Che san Paolo, in questo anno a lui dedicato, ci ottenga la grazia di fare come lui questo colpo di audacia della fede.                      

L’UMILTA’ – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

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L’UMILTA’ – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

La sobria ebbrezza dello Spirito – Edizioni RnS – Roma

Insegnamento tenuto a Chiaravalle Milanese, durante l’Incontro regionale dei Rinnovamento lombardo, Pentecoste 1979.

Inizio questo insegnamento richiamando un brano della Parola di Dio che si trova in Luca, cap. 14; si tratta della parabola sulla scelta dell’ultimo posto a tavola, che termina con la frase: « Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato  » (Le 14,7-11).
Noi siamo convenuti qui, oggi, pieni di gioiosa attesa, perché vogliamo fare la nostra Pentecoste. La Pentecoste è un evento grande per la Chiesa. Ma che cosa possiamo mettere noi, di nostro, per fare la Pentecoste? Assolutamente niente! La Pentecoste la decide solo Dio; la Potenza che scende dall’alto, scende dall’alto e basta; non la si può strappare a forza dalla terra. Tutto ciò che c’è di positivo, di dono, nella Pentecoste, ci viene da Dio; è il Padre che stabilisce il modo, il tempo e la misura per ognuno.
Che cosa possiamo fare noi, allora, per avere la nostra Pentecoste, se non possiamo fare nulla di « positivo »? Possiamo fare il vuoto, che permetta allo Spirito Santo di venire! Creare il vuoto significa metterci in atteggiamento di profonda, sincera umiltà davanti a Dio. In questo, Maria preparò gli apostoli a ricevere la prima Pentecoste: li aiutò a farsi piccoli, umili e docili. Basta saper leggere tra le righe. Quando gli apostoli si erano trovati insieme l’ultima volta, in quello stesso cenacolo, prima della passione del Signore, sappiamo che discutevano ancora tra loro chi fosse il più grande (cfr. Le 22,24ss). Ora che Maria, « l’umile ancella », ha fatto loro scuola di umiltà, durante quella memorabile « novena », ritroviamo gli stessi uomini nello stesso posto, nel cenacolo, ma non discutono più su chi è il più grande; sono invece « assidui e concordi nella preghiera ».
Parliamo dunque dell’umiltà poiché essa appare la migliore preparazione a ricevere lo Spirito Santo. Con questo insegnamento intendo anche completare il discorso fatto a Rimini sulla « sobria ebbrezza dello Spirito », sviluppando un punto che in quell’occasione fu appena accennato. e precisamente il significato dell’aggettivo « sobria ». Che ci sia una « ebbrezza » dello Spirito, come ci fu il giorno stesso di Pentecoste, questo dipende da Dio; ma da noi dipende l’essere sobri »,e oggi vediamo che questo vuol dire anche essere « umili ».

L’umiltà di Gesù
Gesù terminava la sua parabola degli invitati al banchetto dicendo che chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Ma cosa significa « umiliarsi »? Sono sicuro che se domandassi a varie persone cos’è per loro l’umiltà, otterrei tante risposte diverse, ognuna contenente una parte di verità, ma incomplete. Se lo domandassi a un uomo che è portato per temperamento alla violenza, a far valere il proprio punto di vista con forza, forse mi risponderebbe: « l’umiltà è non alzare la voce, non fare il prepotente in casa, essere più mite e arrendevole Se lo domandassi a una ragazza, forse mi risponderebbe: « l’umiltà è non essere vanitosa, non volere attirare
lo sguardo degli altri, non vivere solo per se stessi o per la facciata… » Un sacerdote mi risponderebbe: « Essere umili significa riconoscersi peccatore, avere un sentimento basso di se stesso Ma è facile capire che così non si è toccata ancora la radice dell’umiltà.
Per scoprire la vera radice dell’umiltà bisogna, come sempre, rivolgersi all’unico Maestro che è Gesù. Egli ha detto: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mt 11,29). Per un po’ di tempo, confesso che questa frase di Gesù mi ha molto stupito. Infatti: dov’è che Gesù si mostra umile? Leggendo il vangelo non si incontra mai la benché minima ammissione di colpa da parte di Gesù. Questa è anzi una delle prove più convincenti dell’unicità e della divinità di Cristo: Gesù è l’uníco uomo che è passato sulla faccia della terra, ha incontrato amici e nemici senza dover mai dire: « Ho sbagliato! », senza chiedere mai perdono a nessuno, neppure al Padre. La sua coscienza ci appare un cristallo: nessun senso di colpa la sfiora. Di nessun altro uomo, di nessun fondatore di religione, si legge una cosa simile.
Dunque Gesù non è stato umile, se per umiltà intendiamo parlare o sentire bassamente di sé, ammettere di avere sbagliato. « Chi di voi – egli può dire con sicurezza – può convincermi di peccato? » (Gv 8,46). Eppure questo stesso Gesù dice con altrettanta sicurezza: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mt 11,29). Allora vuol dire che l’umiltà non è proprio quella cosa che il più delle volte noi pensiamo, ma qualcos’altro che dobbiamo scoprire dai vangeli.
Che cosa ha fatto Gesù per essere e dirsi « umile »? Una cosa semplicissima: si è abbassato, è sceso. Ma non con i pensieri o con le parole. No, no; con i fatti! Con i fatti Gesù è sceso, si è umiliato. Trovandosi nella condizione di Dio, nella gloria, cioè in quella condizione in cui non si può né desiderare né avere niente di meglio, è sceso; ha preso la condizione di servo, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte (cfr. Fil 2,6ss). Una volta iniziata questa discesa vertiginosa da Dio a schiavo, non si è fermato ancora; ha continuato a scendere, tutta la vita. Si mette in ginocchio per lavare i piedi ai suoi apostoli; dice: « Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). Non si arresta finché non tocca il punto oltre il quale nessuna creatura può andare, che è la morte, Ma proprio là, nel punto estremo del suo abbassamento, lo raggiunge la potenza del Padre, cioè lo Spirito Santo, afferra il corpo di Gesù nella tomba, lo vivifica, lo risuscita e lo innalza alla sommità dei cieli, gli dà il Nome che è al di sopra di ogni altro nome e ordina che ogni ginocchio si pieghi davanti a lui. Ecco un esempio concreto, la realizzazione massima della parola: « Chi si umilia sarà esaltato ».
Vista in questo specchio, che è Gesù, l’umiltà ci appare dunque non una questione di sentimenti, cioè un sentire se stessi in modo basso, ma una questione di fatti. di gesti concreti; non una questione di parole, ma di realtà, di azioni. L’umiltà è la disponibilità a scendere, a farsi piccoli e a servire i fratelli; è la volontà di servizio. E tutto questo, fatto per amore, non per altri scopi. Ci può essere un’attitudine al servizio dei fratelli anche in persone non credenti; dobbiamo ammettere onestamente che ci sono intorno a noi persone che non si dicono cristiane e tuttavia, in certi casi, ci danno l’esempio nel collocarsi accanto ai poveri, agli emarginati. La differenza sta nel fatto che, in un cristiano, tale disponibilità al servizio deve essere ispirata e come sostanziata di amore.
In un certo senso, possiamo dire che l’umiltà è gratuità, è abbassarsi senza alcun interesse proprio o calcolo. La parabola degli invitati al banchetto prosegue con queste parole di Gesù: « Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti » (Le 14,13ss). Questo è un servizio gratuito, perché non ci si aspetta nulla in cambio. In questo l’umiltà si rivela come la sorella gemella della carità, come un aspetto di quella agape, di cui S. Paolo tesse l’elogio nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Quando l’Apostolo dice che la carità « non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto … », intende dire che la carità è umile e l’umiltà è caritatevole.
Essere umile secondo il modello di Gesù significa dunque spendersi gratuitamente, non vivere solo per se stessi (cfr. 2 Cor 5,15). Quando noi cerchiamo il plauso, i riconoscimenti, manchiamo di umiltà perché rompiamo la gratuità. In quel momento stiamo ricercando la nostra ricompensa. lo posso andare in un posto a parlare e tornare a casa con una duplice ricompensa: o in soldi, o in compiacenza di me stesso. In tutti e due i casi Gesù mi dice: Hai ricevuto la tua ricompensa.

Umiltà e sobrietà
In noi, quasi mai l’umiltà è questa cosa così limpida e pura, cioè abbassarsi a servire per amore. Essa comporta sempre anche qualcosa di negativo, cioè un rinnegarsi, uno sconfessare ciò che c’è di distorto nelle nostre intenzioni e nelle nostre azioni. Un discendere da noi stessi, prima che andare verso gli altri. Quando è Gesù che « scende », lo fa da un’altezza reale, oggettiva, perché è il Santo di Dio (cfr. Gv 6,69). Quando invece siamo noi uomini a « scendere », non ci abbassiamo da un’altezza reale, vera, ma da una pseudo-altezza, da una altezza falsa; ci abbassiamo da un’altezza alla quale ci siamo indebitamente innalzati con l’orgoglio, con la vanità, con l’ira… In noi perciò l’umiltà è sempre anche una virtù « negativa », che serve a rinnegare qualcosa di cattivo che c’è in noi per cui tendiamo a elevarci al di sopra del prossimo.
In questo senso si dice giustamente che l’umiltà è verità. E’ ripristinare la verità circa noi stessi, è riconoscere che il nostro posto non è stare sopra gli altri, ma sotto. S. Teresa d’Avila ha scritto: « Mi chiedevo una volta perché il Signore ama tanto l’umiltà, e mi venne in mente d’improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere perché egli è somma Verità e l’umiltà è verità ». Anche S. Paolo parla in questi termini dell’umiltà quando dice: « Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso » (Gal 6,3). Per l’Apostolo, si potrebbe dire che l’umiltà è soprattutto sobrietà spirituale, cioè un sentire in modo sobrio, sano, non eccessivo, non esaltato, di se stessi. Dice: « Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione » (Rm 12,3). Nell’originale greco, la frase suona: « Valutatevi in modo sobrio ». Poco dopo insiste dicendo: « Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi » (Rm 12,16).
Quest’umiltà-sobrietà consiste dunque in un sano realismo che ci permette di essere nella verità dinanzi a Dio. Noi non perseguiamo una verità astratta, non vogliamo essere come lo psicanalista che cerca di portare l’uomo alla verità su di sé, in modo che egli si liberi dai suoi complessi. Noi perseguiamo un’altra verità; la verità che cerchiamo è quella che permette di essere veri davanti a Dio, prima ancora che davanti a se stessi e agli altri, anche se queste cose ne derivano di conseguenza. t scritto di Dio che egli è buono e generoso con l’uomo sincero, ma diventa l’astuto » con il perverso, cioè con chi ha il cuore menzognero (cfr. Sal 18,27). Una cosa Dio esige sopra tutte da chi si accosta a lui: 1a sincerità del cuore » (cfr. Sal 5 1,8)

L’umiltà di Dio
Dicevo che l’umiltà presenta in noi degli aspetti negativi, di rinnegamento, di sacrificio, di croce, proprio perché noi siamo peccatori e abbiamo bisogno di togliere il male che c’è in ogni nostra azione. Ma se è cosi, dove trovare quell’umiltà allo stato puro che non finirà neppure con la morte e che non dice alcuna relazione con il peccato?
La prima risposta che viene spontanea alle labbra è: in Gesù di Nazareth! Ma, a pensarci bene, dobbiamo dire che neppure in lui si trova quell’umiltà allo stato puro, senza alcuna relazione con il peccato. E’ vero infatti che Gesù è l’uomo senza peccato, innocente e santo; è vero che non aveva peccati propri, tuttavia aveva preso su di sé i peccati degli altri uomini e davanti a Dio figurava come « il peccato ». Anche in Gesù, dunque, il suo umiliarsi facendosi obbediente fino alla morte presenta un aspetto di espiazione, cioè di riferimento al peccato. Solo nella seconda venuta, alla fine dei tempi – dice l’epistola agli Ebrei – egli verrà senza più alcuna relazione con il peccato (cfr. Eb 9,28).
Allora – insisto – dove troviamo l’umiltà allo stato puro, quel puro e gratuito abbassarsi a servire per amore? Abbiamo bisogno di arrivare a toccare questo fondamento perché da esso la virtù dell’umiltà trae tutta la sua forza e il suo fascino. La troviamo in Dio, nella Trinità!
C’è una preghiera di S. Francesco d’Assisi, sicuramente autentica (si conserva in Assisi, nella basilica del Santo, scritta di suo pugno); in questa preghiera intitolata « Laudi di Dio Altissimo », il Poverello intreccia una lode magnifica del Dio Uno e Trino, dicendo tra l’altro: « Tu sei carità, tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei sicurezza, tu sei giustizia, tu sei temperanza Quando lessi la prima volta quell’espressione: « Tu sei umiltà », dissi fra me: « Padre mio S. Francesco, qui non ti capisco più! Forse ti sei lasciato prendere la mano; stavi facendo un elenco delle virtù che si trovano in Dio e vi hai messo dentro anche l’umiltà, senza pensare che l’umiltà è una virtù che non può trovarsi nella Trinità che è tutta
gloria, santità, splendore ». Ma sbagliavo io! Il Santo aveva ragione. Anzi egli ci ha dato, con quelle parole, una delle definizioni più delicate e più sublimi di Dio: Dio è umiltà!
Se umiltà significa scendere da se stessi per amore, Dio è umiltà perché, dalla posizione in cui si trova, non può far altro che scendere; sopra di lui non c’è nulla, perciò egli non può salire, innalzarsi. Quando fa qualcosa « fuori di sé » (ad extra), Dio non può che « abbassarsi », umiliarsi. Ed è quello che ha sempre fatto dalla creazione del mondo. La storia della salvezza non è che la storia delle successive « umiliazioni » di Dio. Così la vede infatti S. Francesco: « Ecco – scrive – ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare » (FF n. 144); e parlando dell’eucaristia esclama: « Guardate, frati, l’umiltà di Dio! » (FF n. 221).
In seguito, mi sono accorto che questa era stata già un’idea familiare ai Padri della Chiesa. Essi parlavano della synkatábasis di Dio, parola che, tradotta, vuol dire « condiscendenza », cioè farsi piccolo per potersi accostare all’uomo e scendere al suo livello. S. Giovanni Crisostomo – a cui tale termine era particolarmente caro – dice che già la creazione è un atto della condiscendenza di Dio; che la rivelazione biblica – il fatto che Dio si adatti a balbettare il linguaggio umano – è un atto della condiscendenza di Dio; tale è pure e soprattutto l’Incarnazione.
Ma anche la Pentecoste che stiamo celebrando è un atto di umiltà di Dio. Perché parliamo di « discesa » dello Spirito Santo, se non per lo stesso motivo, e cioè che ogni intervento di Dio a favore dell’uomo è una condiscendenza, un umiliarsi? Nel caso della Pentecoste, lo Spirito Santo si abbassa, assumendo dei poveri segni come sono il fuoco, il vento, le lingue. Si abbassa ad abitare in povere creature di carne facendone il suo tempio.
(Soffermiamoci un istante in preghiera su questa scoperta; ringraziamo il Signore perché ha voluto « uscire » da se stesso per amore nostro, dandoci un meraviglioso esempio di umiltà).
Dopo ciò ho capito perché S. Francesco, nel « Cantico delle creature », scrive: « Laudato si’, mi’ Signore, per sora aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta ». Uacqua è umile perché, come Dio, dalla posizione in cui si trova non sale mai, ma sempre scende, scende, fino a raggiungere il punto più basso; tende sempre ad occupare l’ultimo posto.
Dio è umiltà: che cosa abbiamo scoperto con ciò? Solo un’idea teologica in più? No, abbiamo scoperto il vero motivo per cui dobbiamo essere umili. Noi dobbiamo essere umili per essere figli del Padre nostro, per « riprendere » dal nostro legittimo Padre. Perché se non siamo umili, noi non riprendiamo dal Padre nostro che è nei cieli, ma da un altro padre ben diverso. Chi è, nell’universo, colui che ha come suo movimento proprio il salire, il dare la scalata? Chi è colui che dice: « Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il mio trono… mi farò uguale all’Altissimo? » (Is 14,13-14). Non lo nominiamo neppure, per non fargli questo onore nel giorno di Pentecoste, tanto sappiamo bene di chi si tratta. Bisogna dunque essere umili per riprendere dal Padre nostro, altrimenti Gesù deve dire anche a noi quello che diceva ai farisei che si credevano figli di Abramo: ‘ »Voi fate le opere di un padre che non è Abramo… » (cfr. Gv 8,38ss).

Umili con chi? L’esercizio dell’umiltà
Adesso possiamo porci la domanda iniziale: « Che cos’è l’umiltà », ma da un altro punto di vista, molto più profondo. L’umiltà è un atteggiamento verso noi stessi, verso gli altri, o verso Dio? Anni addietro, feci una meditazione sull’umiltà in cui sostenevo che essa non è un atteggiamento verso se stessi o verso gli altri, ma solo verso Dio. Adesso devo correggermi: l’umiltà è tutto questo insieme: è un modo di stare davanti a sé, davanti agli altri e davanti a Dio, pur rimanendo qualcosa di profondamente unitario.
Ho detto sopra che l’umiltà è sorella gemella della carità; come la carità si esprime in due atteggiamenti legati intimamente tra di loro: « Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso », così è dell’umiltà. L’umiltà vera consiste nell’essere umili con Dio e umili con il prossimo: le due cose insieme. Non si può essere umili dinanzi a Dio, nella preghiera, se non lo si è con i fratelli. Essere umili davanti a Dio significa essere bambini, essere gli anawin biblici, cioè i poveri che non hanno nessuno su cui appoggiarsi se non Dio solo; significa non confidare né nei carri né nei cavalli, né sulla propria intelligenza, né sulla propria giustizia. E tutto questo va benissimo. Ma se tu non sei umile con il fratello che vedi, come puoi dire di essere umile con Dio che non vedi? Se tu non lavi i piedi al fratello che vedi, cosa significa il tuo voler lavare i piedi a Dio che non vedi? I piedi di Dio sono i tuoi fratelli! Come si vede, si possono dire dell’umiltà le medesime cose che Giovanni dice della carità (cfr. I Gv 4,20).
Ci sono persone (io sono certamente tra queste), le quali sono capaci di dire di se stesse tutto il male possibile e immaginabile; che, in preghiera, fanno delle autoaccuse di una schiettezza e di un coraggio ammirevoli. Dunque, sono umili davanti a Dio e verso se stessi. Ma appena un fratello accenna a prendere sul serio le loro confessioni, o si azzarda a dire, di essi, una piccola parte di quello che si son detti da soli, sono scintille! Non era vera umiltà la loro. Il vero umile è colui che si guarda in Dio, in lui scopre ciò che è, e poi trasfonde questa verità nel rapporto con i fratelli.
L’umiltà che stiamo scoprendo è un bene che scende dal cielo; essa è quel « dono perfetto che viene dall’alto e discende dal Padre della luce » (cfr. Ge 1, l 7). Non è una pianta che spunta naturalmente sulla nostra terra; il mondo non la conosce. Questa è la sapienza dei Vangelo che confonde la sapienza del mondo. Su questo terreno le due sapienze si scontrano frontalmente, tanto che S. Paolo può dire: « Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio » (1Cor 3,18ss).
Lo vediamo chiaramente intorno a noi: il mondo, invece di coltivare l’umiltà, esalta l’orgoglio; quando si vuol fare un comiplimento a qualcuno, si dice che « ha dell’orgoglio ». Il mondo è strutturato sul valore dell’arrivismo, del fare carriera, cioè salire più in alto nella scala sociale. Dalla scuola in su, che cosa si inculca ai giovani se non di fare carriera, di affermarsi al di sopra degli altri, di primeggiare?
Il modo di pensare di Gesù è semplicemente diverso di novanta gradi. E tuttavia bisogna non cadere in errore. A che cosa mira l’umiltà evangelica? Forse a creare una comunità di rassegnati, di gente inerte, priva di slancio, che non traffica i talenti? Assolutamente no! Il filosofo che affermava questo (Nietzsche), non aveva capito niente del Vangelo. L’umiltà evangelica non significa che tu non devi trafficare i talenti ricevuti; al contrario. La differenza rispetto al mondo è che questi tuoi talenti tu non li impieghi solamente per te stesso, per porti al di sopra degli altri e dominarli, ma li impieghi per il servizio degli altri; non per essere servito, ma per servire,

Umiltà nel matrimonio
Vorrei ora accennare ad alcuni ambiti particolari in cui l’umiltà si rivela particolarmente necessaria. Anzitutto quello della famiglia: come e perché essere umili nel matrimonio.
lo dico che l’urniltà è stata inventata da Dio anche per salvare i matrimoni. Il matrimonio, inteso come l’amore tra l’uomo e la donna, nasce dall’umiltà. Innamorarsi di un’altra persona – quando si tratta di un vero fatto di innamoramento – è il più radicale atto di umiltà che si possa immaginare. Significa andare da un altro e dirgli: lo non mi basto, io non sono sufficiente a me stesso; ho bisogno del tuo essere. E’ come stendere la mano e chiedere in elemosina a un’altra creatura un po’ del suo essere. Ripeto: è l’atto di umiltà più radicale. Dio ha creato l’uomo bisognoso, mendicante; ha inscritto l’umiltà nella sua stessa carne, quando li ha creati maschio e femmina, cioè incompleti. Ne ha fatto, fin dall’origine, due esseri in movimento, in ricerca l’uno dell’altro, « insoddisfatti » ognuno di se stesso. Ha posto così la creatura umana come su un piano inclinato verso l’alto, non verso il basso, perché l’unione doveva elevarlo dall’altro sesso, all’Altro per eccellenza che è Dio stesso.
Dunque, il matrimonio nasce dall’umiltà, e se nasce dall’umiltà della condizione umana non può sopravvivere che nell’umiltà. S. Paolo diceva ai coniugi cristiani: « Rivestitevi… di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri » (Col 3,12ss). L’umiltà e il perdono sono come il lubrificante che permette, giorno per giorno, di sciogliere ogni principio di ruggine, di abbattere i piccoli muri di incomprensione e di risentimento, prima che diventino grandi muri che non si possono più abbattere. Gli sposi devono vigilare a che 1`altro padre », quello spurio, non instauri tra di loro la logica della ripicca, della rivincita… Non bisogna dare ascolto alla voce che grida dentro: Perché devo essere sempre io a cedere, a umiliarmi? Cedere non è perdere, ma vincere, vincere il vero nemico dell’amore che è il nostro egoismo, il nostro « io ».

Umiltà nel Rinnovamento
Il Rinnovamento ha bisogno di famiglie rinnovate e le famiglie, abbiamo visto, si rinnovano anche con l’umiltà. à l’amore, certo, che rinnova le famiglie, ma è l’umiltà che rende possibile l’amore.
Ma in questa circostanza, devo dire una parola anche a proposito dell’umiltà nel « Rinnovamento ». Se il Rinnovamento, come è stato detto molto giustamente, è « restituire il potere a Dio », allora Si capisce quanto l’umiltà sia urgente nel Rinnovamento nello spirito. L’umiltà è ciò che preserva il Rinnovamento dallo sciuparsi in cosa umana. Bisogna che periodicamente noi rimettiamo il, potere nelle mani di Dio, e questo si fa con l’umiltà. Bisogna che impariamo a dire, con l’Apocalisse e con la liturgia della Chiesa: « Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli! ».
Ogni volta che dimentichiamo questo e facciamo centro sulle persone, sono disastri, come a Corinto. I nostri incontri di preghiera talvolta soffrono di questo: non c’è abbastanza pulizia di tutto l’elemento umano. L’umiltà nel Rinnovamento è importante quanto è importante l’isolante nell’elettricità. Più alta è la tensione della corrente che passa in un filo, più deve essere spesso ed efficiente l’isolante; altrimenti: corto circuito! Ricordo vagamente le nozioni che ci inculcava, a questo proposito, il mio vecchio professore di fisica al liceo: « L’isolante – diceva – è una materia inerte e vile, ma è assolutamente indispensabile, come lo sono i fili di rame che trasportano la corrente. Questi servono a trasportare la corrente, quello a non disperderla. I progressi che si fanno nella tecnica della conduzione dell’elettricità devono sempre essere accompagnati da un proporzionato progresso nella tecnica dell’isolamento. Altrimenti, corto circuito! ».
In particolare, l’umiltà deve risplendere negli animatori e in chi svolge qualche ministero, come me in questo momento. Bisogna che ci lasciamo contestare senza reagire subito come chi si sente offeso, bisogna che ci lasciamo ammonire e correggere dai fratelli; bisogna che ci lasciamo sostituire e, anzi, che preveniamo in ciò i responsabili, senza che debbano dircelo più volte prima che capiamo.
Una tentazione possibile nel Rinnovamento è quella di volersi sempre trovare in quel punto preciso dove, secondo noi, « passa » la corrente dello Spirito, essere sempre nell’occhio del ciclone, cioè, fuori metafora, là dove c’è la persona più famosa, il gruppo più dotato… Se il Signore ci fa capire queste cose è perché ci vuole liberare da esse. E’ bene voler essere nel punto dove agisce lo Spirito di Dio; solo che il punto dove agisce lo Spirito non è dove c’è la persona più in vista, perché lo Spirito di Dio è di preferenza nel nascondimento. Se dunque noi vogliamo essere veramente nell’occhio del ciclone dello Spirito, corriamo a occupare l’ultimo posto. Lì, lo Spirito trovò Maria e la riempì della sua potenza.
Il Rinnovamento ha bisogno di vocazioni al nascondimento. Chi oggi sente per sé questa vocazione, dica subito il suo « si », insieme con Maria. Bisogna che ci lasciamo tutti strappare a fatica dall’ultimo posto; i fratelli devono incontrare resistenza a tirarci via dal l’ultimo posto, non dal primo.
Occorre poi umiltà anche nei rapporti tra noi del Rinnovamento e i fratelli che servono il Signore in altri gruppi e realtà ecclesiali. Mai una mentalità da « eletti », che sciupa tutto. Non sentiamoci « carismatici », nel senso di persone dotate di particolari poteri, di trascinatori, ma solo nel senso di servitori dello Spirito.
Abbiamo ricercato la radice dell’umiltà e l’abbiamo scoperta in Dio; abbiamo considerato il suo tronco, i rami; adesso cerchiamo di coglierne i frutti. I frutti dell’umiltà sono tantissimi, e uno più squisito dell’altro, ma a me piace soffermarmi su questi due soli frutti: l’umiltà attira la compiacenza di Dio, l’umiltà ci riconcilia con i fratelli.
L’umile è guardato da Dio con occhio di padre, con tenerezza e simpatia. Il profeta Isaia ci fa seguire lo sguardo di Dio che si volge qua e là per l’universo in cerca di un posto dove posarsi, e non lo trova perché tutto è suo, tutto è uscito dalle sue mani; finché trova un « cuore contrito e umiliato » e in esso si riposa (cfr. Is 66.2). E’ scritto: »Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano » (Sal 138,6). Come il Signore, dalla posizione in cui è, non può salire sopra di sé, così, si direbbe, non può guardare sopra di sé; come non può che scendere, così non può che guardare in basso. « Se tu ti innalzi, egli si allontana da te, se invece ti abbassi, egli si inchina verso di te » (S. Agostino, Ser. 21,2). Per questo Maria dice: « Ha guardato l’umiltà della sua serva  » (Lc 1,48).
L’altro frutto, dicevo, riguarda i fratelli. L’umiltà conquista gli uomini. à una cosa curiosa: il mondo non coltiva l’umiltà, gli uomini in genere non sono umili; tuttavia sanno riconoscere a prima vista chi è umile e non sanno resistere all’umile. Non c’è difesa, né del Rinnovamento, né della Chiesa, che valga tanto quanto un atto di vera umiltà.
Termino recitando con voi il Salmo 131 che canta proprio i frutti dell’ umiltà:
« Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze (la sobrietà!), lo sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia « .

A PROPOSITO DI FRANCESCO E CHIARA … (di P. Raniero Cantalamessa)

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A PROPOSITO DI FRANCESCO E CHIARA …

30. agosto 2014 ·

Insieme guardavano nella stessa direzione: verso Cristo.

di P. Raniero Cantalamessa

È divenuto un luogo comune parlare dell’amicizia tra Chiara e Francesco in termini di amore umano. Nel suo noto saggio su Innamoramento e amore Francesco Alberoni scrive che “il rapporto fra santa Chiara e san Francesco ha tutti i caratteri di un innamoramento trasferito (o sublimato) nella divinità”.
Come ogni uomo, anche se santo, Francesco può aver sperimentato il richiamo della donna e del sesso.
Le fonti riferiscono che per vincere una tentazione del genere una volta il santo si rotolò d’inverno nella neve. Ma non si trattava di Chiara!
Quando tra un uomo e una donna sono uniti in Dio, questo vincolo, se è autentico, esclude ogni attrazione di tipo erotico, senza neppure che ci sia lotta. È come messo al riparo. È un altro tipo di rapporto. Tra Chiara e Francesco c’era certamente un fortissimo legame anche umano, ma di tipo paterno e filiale, non sponsale.
Francesco chiamava Chiara la sua “pianticella” e Chiara chiamava Francesco “il nostro Padre”. L’intesa profonda tra Francesco e Chiara che caratterizza l’epopea francescana non viene “dalla carne e dal sangue”.
Non è, per fare un esempio altrettanto celebre, come quella tra Eloisa ed Abelardo, tra Dante e Beatrice. Se così fosse stato, avrebbe lasciato forse una traccia nella letteratura, ma non nella storia della santità.
Con una nota espressione di Goethe, potremmo chiamare quella di Francesco e Chiara una “affinità elettiva”, a patto di intendere “elettiva” non solo nel senso di persone che si sono scelte a vicenda, ma nel senso di persone che hanno fatto la stessa scelta. Antoine de Saint-Exupéry ha scritto che “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”.
Chiara e Francesco non hanno davvero passato la vita a guardarsi l’un l’altro, a stare bene insieme. Si sono scambiati tra loro pochissime parole, quasi solo quelle riferite nelle fonti.
C’era una stupenda riservatezza tra loro, tanto che il santo veniva a volte rimproverato amabilmente dai suoi frati di essere troppo duro con Chiara. Solo alla fine della vita, vediamo questo rigore nei rapporti attenuarsi e Francesco cercare sempre più spesso conforto e conferma presso la sua “Pianticella”. È a San Damiano che si rifugia prossimo alla morte, divorato da malattie, ed è vicino a lei che intona il cantico di Frate Sole e di sorella Luna, con quell’elogio di “Sora Acqua”, “utile et humile et pretiosa et casta”, che sembra scritto pensando a Chiara.
Invece di guardarsi l’un l’altro, Chiara e Francesco hanno guardato nella stessa direzione. E si sa qual è stata per loro questa “direzione”.
Chiara e Francesco erano come i due occhi che guardano sempre nella stessa direzione. Due occhi non sono solo due occhi, cioè un occhio ripetuto due volte; nessuno dei due è solo un occhio di riserva o di ricambio. Due occhi che fissano l’oggetto da angolature diverse danno profondità, rilievo all’oggetto, permettono di “avvolgerlo” con lo sguardo. Così è stato per Chiara e Francesco.
Essi hanno guardato lo stesso Dio, lo stesso Signore Gesù, lo stesso Crocifisso, la stessa Eucaristia, ma da “angolature”, con doni e sensibilità propri: quelli maschili e quelli femminili.
Insieme hanno colto di più di quanto avrebbero potuto fare due Francesco o due Chiara. In passato si tendeva a presentare la personalità di Chiara troppo subordinata a quella di Francesco, appunto come “sorella Luna” che vive di riflesso della luce di “fratello Sole”.
L’ultimo esempio in questo senso è il libro uscito di recente su “l’amicizia tra Francesco e Chiara” (John M. Sweeney, Light in the Dark Age: the Friendship of Francis and Clare of Assisi, Paraclete Press 2007).
In una fiction televisiva di alcuni anni fa (“Francesco e Chiara”, di Fabrizio Costa) è da lodare la scelta di presentare Francesco e Chiara come due vite parallele, che si intrecciano e si svolgono in sincronia, con uguale spazio dato all’uno e all’altra. È la prima volta che avviene, in questa forma.
Ciò risponde alla sensibilità attuale tesa a mettere in luce l’importanza della presenza femminile nella storia, ma nel caso nostro corrisponde alla realtà e non è una forzatura.
La scena iniziale della fiction è quella che mi ha colpito di più, quasi fosse una chiave di lettura di tutta la storia.
Francesco cammina su un prato, Chiara lo segue mettendo i suoi piedi, quasi per gioco, sulle orme lasciate da Francesco e alla domanda di lui: “Stai seguendo le mie orme?”, risponde luminosa: “No, altre molto più profonde”.

INTERVENTO DI PADRE CANTALAMESSA AL VI INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE

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INTERVENTO DI PADRE CANTALAMESSA AL VI INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE

Divido la mia relazione in tre parti. Nella prima parte illustrerò il progetto iniziale di Dio su matrimonio e famiglia e come esso si attuò nella storia d’Israele; nella seconda parte parlerò della ricapitolazione operata da Cristo e di come essa fu interpretata e vissuta nella comunità cristiana del Nuovo Testamento; nella terza parte cercherò di vedere cosa la rivelazione biblica può apportare alla soluzione dei problemi attuali del matrimonio e della famiglia.
I Parte
Matrimonio e famiglia: progetto divino e realizzazioni umane nell’Antico Testamento
1. Il progetto divino
Si sa che il libro della Genesi ha due racconti distinti della creazione della prima coppia umana, risalenti a due tradizioni diverse: quella jahwista (X secolo a.C.) e quella più recente (VI sec. a.C.) detta “sacerdotale”.
Nella tradizione sacerdotale (Gen 1, 26-28) l’uomo e la donna sono creati simultaneamente, non uno dall’altro; si pone in rapporto l’essere maschio e femmina con l’essere a immagine di Dio: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Il fine primario dell’unione tra l’uomo e la donna è visto nell’essere fecondi e riempire la terra.
Nella tradizione jahwista (Gen 2, 18-25), la donna è tratta dall’uomo; la creazione dei due sessi è vista come rimedio alla solitudine (“Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”); più che il fattore procreativo, si accentua il fattore unitivo (“l’uomo si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”); ognuno è libero di fronte alla propria sessualità e a quella dell’altro: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.
In nessuna delle due redazioni si accenna a una subordinazione della donna all’uomo, prima del peccato: i due sono su un piano di assoluta parità, anche se l’iniziativa, almeno nel racconto jahwista, è dell’uomo.
La spiegazione più convincente del perché di questa “invenzione” divina della distinzione dei sessi l’ho trovata in un poeta, Paul Claudel, non in un esegeta:
“L’uomo è un essere orgoglioso non c’era altro modo di fargli comprendere il prossimo che quello di farglielo entrare nella carne; non c’era altro mezzo per fargli capire la dipendenza, la necessità e il bisogno se non mediante la legge su di lui di questo essere differente [la donna], dovuta al semplice fatto che esso esiste”1.
Aprirsi all’altro sesso è il primo passo per aprirsi all’altro che è il prossimo, fino all’Altro con la lettera maiuscola che è Dio. Il matrimonio nasce nel segno dell’umiltà; è riconoscimento di dipendenza e quindi della propria condizione di creatura. Innamorarsi di una donna o di un uomo è fare il più radicale atto di umiltà. È un farsi mendicante e dire all’altro: “Io non basto a me stesso, ho bisogno del tuo essere”. Se, come pensava Schleiermacher, l’essenza della religione consiste nel “sentimento di dipendenza” (Abhaengigheitsgefuehl) di fronte a Dio, allora la sessualità umana è la prima scuola di religione.
Fin qui il progetto di Dio. Non si spiega però il seguito della Bibbia se, insieme con il racconto della creazione, non si tiene conto anche di quello della caduta, soprattutto di quello che viene detto alla donna: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16). Il predominio dell’uomo sulla donna fa parte del peccato dell’uomo, non del progetto di Dio; con quelle parole Dio lo preannuncia, non lo approva.
2. Le realizzazioni storiche
La Bibbia è un libro divino-umano non solo perché ha per autori Dio e l’uomo, ma anche perché descrive, frammiste insieme, la fedeltà di Dio e l’infedeltà dell’uomo; non solo per il soggetto che scrive, ma anche per l’oggetto della Scrittura. Questo appare particolarmente evidente quando si confronta il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia con la sua attuazione pratica nella storia del popolo eletto.
È utile registrare le deficienze e le aberrazioni umane per non stupirci troppo di quello che avviene intorno a noi e anche perché dimostra che matrimonio e famiglia sono istituzioni che, almeno nella pratica, evolvono nel tempo, come ogni altro aspetto della vita sociale e religiosa. Per rimanere nel libro della Genesi, già il figlio di Caino Lamech viola la legge della monogamia prendendo due mogli. Noè con la sua famiglia appare un’eccezione in mezzo alla generale corruzione del suo tempo. Gli stessi patriarchi Abramo e Giacobbe hanno figli da più donne. Mosè sancisce la pratica del divorzio; David e Salomone mantengono un vero harem di donne.
Le deviazioni però sembrano, come sempre, più presenti ai vertici della società, tra i capi, che non a livello di popolo, dove l’ideale iniziale del matrimonio monogamico doveva essere la norma e non l’eccezione. La letteratura sapienziale –Salmi, Proverbi, Siracide – più che i libri storici (che si occupano appunto dei capi) ci permettono di farci un’idea dei rapporti e dei valori familiari tenuti in considerazione e vissuti in Israele: la fedeltà coniugale, l’educazione della prole, il rispetto dei genitori. Quest’ultimo costituisce uno dei dieci comandamenti: “Onora il padre e la madre”.
Più che nelle singole trasgressioni pratiche, il distacco dall’ideale iniziale è visibile nella concezione di fondo che si ha del matrimonio in Israele. L’oscuramento principale riguarda due punti cardini. Il primo è che il matrimonio, da fine, diventa mezzo. L’Antico Testamento, nel suo insieme, considera il matrimonio come “una struttura d’autorità di tipo patriarcale, destinata principalmente alla perpetuazione del clan. In questo senso vanno comprese le istituzioni del levirato (Dt 25, 5-10), del concubinaggio (Gen 16) e della poligamia provvisoria”2. L’ideale di una comunione di vita tra l’uomo e la donna, fondata su un rapporto personale e reciproco, non è dimenticata, ma passa in secondo ordine rispetto al bene della prole.
Il secondo grave oscuramento riguarda la condizione della donna: da compagna dell’uomo, dotata di pari dignità, essa appare sempre più subordinata all’uomo e in funzione dell’uomo. Lo si vede perfino nel tanto celebrato elogio della donna del libro dei Proverbi: “Una donna perfetta chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore…” (Prov 31, 10 ss). Questo è un elogio della donna fatto interamente in funzione dell’uomo. La sua conclusione è: Beato l’uomo che possiede una tale donna! Essa gli tesse bei vestiti, fa onore alla sua casa, gli permette di camminare a testa alta tra gli amici. Non credo che le donne sarebbero oggi entusiaste di questo elogio.
Un ruolo importante nel riportare alla luce il progetto iniziale di Dio sul matrimonio lo svolsero i profeti, in particolare Osea, Isaia, Geremia. Assumendo l’unione dell’uomo e della donna come simbolo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, di riflesso, essi rimettevano in primo piano i valori dell’amore mutuo, della fedeltà e dell’indissolubilità che caratterizzano l’atteggiamento di Dio verso Israele. Tutte le fasi e le vicissitudini dell’amore sponsale sono evocate e utilizzate a questo scopo: l’incanto dell’amore allo stato nascente nel fidanzamento (cf Ger 2, 2); la pienezza della gioia del giorno delle nozze (cf Is 62, 5); il dramma della rottura (cf Os 2, 4 ss) e infine la rinascita, piena di speranza, dell’antico vincolo (cf Os 2, 16; Is 54, 8).
Malachia mostra la ricaduta benefica che il messaggio profetico poteva avere sul matrimonio umano e in particolare sulla condizione della donna. Scrive:
“Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentr’essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza” (Ml 2,14-15).
Alla luce di questa tradizione profetica va letto il Cantico dei cantici. Esso rappresenta un ritorno di fiamma alla visione del matrimonio come attrazione reciproca, come eros, come incanto dell’uomo di fronte alla donna (in questo caso, anche della donna di fronte all’uomo), presente nel racconto più antico della creazione.
Ha torto, tuttavia, una certa esegesi moderna che interpreta il Cantico esclusivamente in chiave di amore umano tra un uomo e una donna. L’autore del Cantico si colloca dentro la storia religiosa del suo popolo dove l’amore umano era stato assunto dai profeti come metafora dell’alleanza tra Dio e il popolo. Osea aveva già fatto della propria vicenda matrimoniale una metafora dei rapporti tra Dio e Israele. Come pensare che l’autore del Cantico prescinda da tutto ciò? La lettura mistica del Cantico, cara alla tradizione d’Israele e della Chiesa, non è dunque una sovrastruttura posteriore, ma in qualche modo implicita nel testo. Lungi dal togliere qualcosa all’esaltazione dell’amore umano, essa le conferisce uno splendore e una bellezza nuova.
II Parte
Matrimonio e famiglia nel Nuovo Testamento
1. La ricapitolazione del matrimonio da parte di Cristo
Sant’Ireneo spiega la “ricapitolazione (anakephalaiosis) di tutte le cose” operata da Cristo (Ef 1,10) come un “riprendere le cose dal principio per condurle al loro compimento”. Il concetto implica insieme continuità e novità e in questo senso si realizza in modo esemplare nell’opera di Cristo riguardo al matrimonio.
a. La continuità
Il capitolo 19 del vangelo di Matteo è sufficiente, da solo, per illustrare i due aspetti della ricapitolazione. Vediamo anzitutto come Gesú riprende le cose dal principio.
“Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo? Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina (Gen 1, 27) e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? (Gen 2, 24). Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,3-6).
Gli avversari si muovono nell’ambito ristretto della casistica di scuola (se è lecito ripudiare la moglie per qualsiasi motivo, o se occorre un motivo specifico e serio), Gesú risponde riprendendo il problema alla radice, dall’inizio. Nella sua citazione, Gesú si riferisce a entrambi i racconti dell’istituzione del matrimonio, prende elementi dall’uno e dall’altro, ma di essi mette in luce, come si vede, soprattutto l’aspetto di comunione delle persone.
Quello che segue nel testo, sul problema del divorzio, va anch’esso in questa direzione; riafferma infatti la fedeltà e indissolubilità del vincolo matrimoniale al di sopra del bene stesso della prole, con il quale si erano giustificati in passato poligamia, levirato e divorzio:
“Gli obiettarono: Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via? Rispose loro Gesù: Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio” (Mt 19, 7-9).
Il testo parallelo di Marco mostra come, anche in caso di divorzio, uomo e donna si collocano, secondo Gesú, su un piano di assoluta parità: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11-12).
Non mi soffermo sulla clausola “eccetto il caso di concubinato” (porneia) che, come si sa, le Chiese ortodosse e protestanti interpretano in maniera diversa dalla Chiesa cattolica. Piuttosto si deve sottolineare “l’implicita fondazione sacramentale del matrimonio” presente nella risposta di Gesú 3. Le parole “ciò che Dio ha congiunto” dicono che il matrimonio non è una realtà puramente secolare, frutto soltanto di volontà umana; vi è in esso una dimensione sacra che risale alla volontà divina.
L’elevazione del matrimonio a “sacramento” non riposa dunque soltanto sul debole argomento della presenza di Gesú alle nozze di Cana e sul testo di Efesini 5; comincia, in qualche modo, con il Gesú terreno e fa parte anch’essa del suo riportare le cose all’inizio. Giovanni Paolo II ha ragione quando definisce il matrimonio “il sacramento più antico”4.
b. La novità
Fin qui la continuità. In che consiste allora la novità? Paradossalmente, essa consiste nella relativizzazione del matrimonio. Ascoltiamo il seguito del testo di Matteo:
“Gli dissero i discepoli: Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19, 10-12).
Gesú istituisce con queste parole un secondo stato di vita, giustificandolo con la venuta in terra del regno dei cieli. Questa non annulla l’altra possibilità, il matrimonio, ma la relativizza. Avviene come per l’idea di stato nell’ambito politico: esso non è abolito, ma radicalmente relativizzato dalla rivelazione della contemporanea presenza, nella storia, di un Regno di Dio.
La continenza volontaria non ha bisogno dunque che sia rinnegato o deprezzato il matrimonio, per essere riconosciuta nella sua validità. (Alcuni autori antichi, nei loro trattati sulla verginità, sono caduti in questo errore). Essa, anzi, non prende senso che dalla contemporanea affermazione della bontà del matrimonio. L’istituzione del celibato e della verginità per il regno nobilita il matrimonio nel senso che fa di esso una scelta, una vocazione, e non più un semplice dovere morale, al quale non era lecito sottrarsi in Israele, senza esporsi all’accusa di trasgredire il comando di Dio.
È importante notare una cosa spesso dimenticata. Celibato e verginità significano rinuncia al matrimonio, non alla sessualità che rimane con tutta la sua ricchezza di significato, anche se vissuta in forme diverse. Il celibe e la vergine sperimentano anch’essi l’attrazione, e quindi la dipendenza, verso l’altro sesso ed è proprio questo che da senso e preziosità alla loro scelta di castità.
c. Gesú, nemico della famiglia?
Tra le tante tesi avanzate in anni recenti nell’ambito della cosiddetta “terza ricerca storica su Gesú”, vi è anche quella di un Gesù che avrebbe ripudiato la famiglia naturale e tutti i vincoli parentali, in nome dell’appartenenza a una comunità diversa, in cui Dio è il padre e i discepoli sono tutti fratelli e sorelle, proponendo ai suoi discepoli una vita errante, come facevano a quel tempo, fuori di Israele, i filosofi cinici5.
Effettivamente ci sono nei vangeli parole di Cristo che a prima vista destano sconcerto. Gesú dice: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26). Parole dure, certamente, ma già l’evangelista Matteo si premura di spiegare il senso della parola odiare in questo caso: “Chi ama il padre e la madre…il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10, 37). Gesú non chiede dunque di odiare i genitori o i figli, ma di non amarli fino al punto da rinunciare per essi a seguirlo.
Altro episodio che suscita sconcerto. Un giorno Gesú disse a uno: “Seguimi. E costui rispose: Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9, 59 s.). Per certi critici, tra cui il rabbino americano Jacob Neusner con cui dialoga Benedetto XVI nel suo libro su Gesú di Nazaret6, questa è una richiesta scandalosa, una disobbedienza a Dio che ordina di prendersi cura dei genitori, una violazione lampante dei doveri filiali.
Una cosa si deve concedere al rabbino Neusner: parole di Cristo, come queste, non si spiegano finché lo si considera un semplice uomo, per quanto eccezionale. Solo Dio può chiedere che lo si ami più del padre e che per seguirlo si rinunci anche ad assistere alla sua sepoltura. Per i credenti questa è una prova ulteriore che Gesú è Dio; per Neusner è la ragione per cui non lo si può seguire.
Lo sconcerto di fronte a queste richieste di Gesú nasce anche dal non tener conto della differenza tra ciò che egli chiedeva a tutti indistintamente e ciò che chiedeva soltanto ad alcuni chiamati a condividere la sua vita interamente dedicata al regno, come avviene anche oggi nella Chiesa. Lo stesso si deve dire della rinuncia al matrimonio: egli non la impone né propone a tutti indistintamente, ma solo a quelli che accettano di mettersi come lui a totale servizio del regno (cf. Mt 19, 10-12).
Tutti i dubbi sull’atteggiamento di Gesú verso la famiglia e il matrimonio cadono se teniamo conto di altri passi del vangelo. Gesú è più rigoroso di tutti circa l’indissolubilità del matrimonio, ribadisce con forza il comandamento di onorare il padre e la madre, fino a condannare la pratica di sottrarsi, con pretesti religiosi, al dovere di assisterli (cf. Mc 7, 11-13). Quanti miracoli Gesú compie proprio per venire incontro al dolore di padri (Giairo, il padre dell’epilettico), di madri (la Cananea, la vedova di Nain!), o di congiunti (le sorelle di Lazzaro), quindi per onorare i vincoli di parentela. In più d’una occasione egli condivide il dolore di parenti fino a piangere con loro.
In un momento come l’attuale in cui tutto sembra congiurare per indebolire i vincoli e i valori della famiglia, ci mancherebbe solo che mettessimo contro di essa anche Gesú e il vangelo! Gesú è venuto riportare il matrimonio alla sua bellezza originaria, per rafforzarlo, non per indebolirlo.
2. Matrimonio e famiglia nella Chiesa apostolica
Come abbiamo fatto per il progetto originario di Dio, anche a proposito della ricapitolazione operata da Cristo cerchiamo ora di vedere come essa è stata recepita e vissuta nella vita e nella catechesi della Chiesa, rimanendo per il momento nell’ambito della Chiesa apostolica. Paolo è in ciò la nostra fonte principale d’informazione avendo dovuto occuparsi del problema in alcune delle sue lettere, soprattutto nella Prima Lettera ai Corinzi.
L’Apostolo distingue quello che viene direttamente dal Signore, dalle applicazioni particolari che ne fai lui, richieste dal contesto nuovo in cui è predicato il vangelo. Al primo caso appartiene la riaffermazione dell’indissolubilità del matrimonio: “Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor 7,10-11); al secondo caso appartengono le indicazioni che egli da circa i matrimoni tra credenti e non credenti e le disposizioni sui celibi e le vergini: “Agli altri dico io, non il Signore…” (1 Cor 7,10; 1 Cor 7, 25).
Da Gesú, la Chiesa apostolica ha raccolto anche l’elemento di novità che consiste, abbiamo visto, nella istituzione di un secondo stato di vita: il celibato e la verginità per il regno. Ad essi Paolo – lui stesso non sposato – dedica la parte finale del capitolo 7 della sua lettera. Basandosi sul versetto: ” Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono (charisma) da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor 7,7), alcuni pensano che l’Apostolo consideri matrimonio e verginità due carismi. Ma non è esatto; i vergini hanno ricevuto il carisma della verginità, gli sposati hanno altri carismi (sottinteso, non quello della verginità). È significativo che la teologia della Chiesa abbia sempre considerato la verginità un carisma e non un sacramento, e il matrimonio un sacramento e non un carisma.
Nel processo che porterà (molto più tardi) al riconoscimento della sacramentalità del matrimonio ha avuto un peso notevole il testo della lettera agli Efesini: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero (in latino, sacramentum!) è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5, 31-32). Non si tratta di un’affermazione isolata e occasionale, dovuta all’ambigua traduzione del termine “mistero” (mysterion) con il latino sacramentum. Il matrimonio come simbolo del rapporto tra Cristo e la Chiesa si fonda su tutta una serie di detti e di parabole, in cui Gesú aveva applicato a sé il titolo di sposo, attribuito a Dio dai profeti.
A mano a mano che la comunità apostolica si accresce e si consolida si vede fiorire tutta una pastorale e una spiritualità familiare. I testi più significativi al riguardo sono quelli delle lettere ai Colossesi e agli Efesini. In essi vengono messi in luce i due rapporti fondamentali che costituiscono la famiglia: il rapporto marito-moglie e il rapporto genitori-figli. A proposito del primo l’Apostolo scrive:
“Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore… Come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”
Paolo raccomanda al marito di “amare” la propria moglie (e questo ci pare normale), ma poi raccomanda alla moglie di essere “sottomessa” al marito e questo, in una società fortemente (e giustamente) consapevole della parità dei sessi, sembra inaccettabile. Su questo punto san Paolo è, in parte almeno, condizionato dai costumi del suo tempo. La difficoltà, tuttavia, si ridimensiona, se si tiene conto della frase iniziale del testo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, che stabilisce una reciprocità nella sottomissione come nell’amore.
A proposito del rapporto tra genitori e figli Paolo ribadisce i consigli tradizionali della letteratura sapienziale:
“Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre (Prov 6, 20): è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra (Es 20, 12). E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore” (Ef 6, 1-4).
Le Lettere Pastorali, e specialmente la Lettera a Tito, offrirà regole dettagliate per ogni categoria di persone: le mogli, i mariti, vescovi e presbiteri, gli anziani, i giovani, le vedove, i padroni, gli schiavi (cf Tit 2, 1-9). Anche gli schiavi infatti facevano parte della famiglia, nella concezione allargata che si aveva di essa.
Anche nella Chiesa delle origini, l’ideale del matrimonio riproposto da Gesú non si realizzerà senza ombre e resistenze. A parte il caso di incesto di Corinto (1 Cor 8, 1 ss), lo testimonia il bisogno che sentono gli apostoli di insistere su questo aspetto della vita cristiana. Nell’insieme però i cristiani presentarono al mondo un modello familiare nuovo che si rivelò uno dei fattori principali di evangelizzazione.
L’autore della Lettera a Diogneto, nel II secolo, dice che i cristiani “si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati; hanno in comune la mensa, ma non il letto” (V, 6-7). Nelle sue Apologie, Giustino fa un ragionamento che noi cristiani di oggi dovremmo poter fare nostro nel dialogo con le autorità politiche. Dice in sostanza questo: Voi, imperatori romani, moltiplicate le leggi sulla famiglia, ma esse si rivelano inefficaci per arrestarne la dissoluzione; venite a vedere le nostre famiglie e vi convincerete che i cristiani sono i vostri migliori alleati nella riforma della società e non i vostri nemici. Alla fine, dopo tre secoli di persecuzione, l’impero, si sa, accolse, nella propria legislazione, il modello cristiano di famiglia.
III Parte
Cosa l’insegnamento biblico dice a noi oggi
La rilettura della Bibbia in un convegno come questo, che non è di esegeti ma di operatori pastorali nell’ambito della famiglia, non si può limitare a una semplice riproposizione del dato rivelato, ma deve poter gettare luce sui problemi di oggi. “La Scrittura, diceva san Gregorio Magno, cresce con chi la legge” (cum legentibus crescit); rivela implicazioni nuove a mano a mano che le vengono poste domande nuove. E oggi di domande, o provocazioni, nuove ce ne sono tante.
1. L’ideale biblico contestato
Ci troviamo di fronte a una contestazione apparentemente globale del progetto biblico su sessualità, matrimonio e famiglia. Lo studio di Mons. Tony Anatrella, distribuito ai relatori in vista di questo convegno, ce ne da un riassunto ragionato e utilissimo7. Come comportarsi di fronte al fenomeno?
Il primo errore da evitare a mio parere è quello di passare tutto il tempo a controbattere le teorie contrarie, finendo per dare loro più importanza di quello che meritano. Già lo Pseudo Dionigi Areopagita notava come la proposizione della propria verità è sempre più efficace della confutazione degli errori altrui. Un altro errore sarebbe quello di puntare tutto su leggi dello stato per difendere i valori cristiani. I primi cristiani, abbiamo visto, con i loro costumi cambiarono le leggi dello stato; non possiamo aspettarci oggi di cambiare i costumi con le leggi dello stato.
Il concilio ha inaugurato un metodo nuovo che è di dialogo, non di scontro con il mondo; un metodo che non esclude neppure l’autocritica. In un suo testo, ha detto che la Chiesa è in grado di trarre profitto anche dalle critiche di chi la combatte. Dobbiamo, credo, applicare questo metodo anche nella discussione dei problemi del matrimonio e della famiglia, come fece già a suo tempo la Gaudium et spes.
Applicare questo metodo di dialogo significa cercare di vedere se al fondo anche delle contestazioni più radicali non c’è una istanza positiva da accogliere. È l’antico metodo paolino dell’esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. 1 Ts 5,21). Questo è avvenuto con il marxismo che ha spinto la Chiesa a sviluppare una propria dottrina sociale e potrebbe avvenire anche per la “gender” rivoluzione che, come fa notare Mons. Anatrella nel suo studio, presenta non poche analogie con il marxismo ed è probabilmente destinata alla stessa fine.
La critica al modello tradizionale di matrimonio e di famiglia che ha portato alle odierne, inaccettabili, proposte del decostruzionismo, è iniziata con l’illuminismo e il romanticismo. Con intenti diversi, questi due movimenti si sono espressi contro il matrimonio tradizionale in quanto visto esclusivamente nei suoi “fini” oggettivi: la prole, la società, la Chiesa e troppo poco in se stesso, nel suo valore soggettivo e interpersonale. Tutto si richiedeva ai futuri sposi eccetto che si amassero e si scegliessero liberamente tra di loro. A tale modello venne opposto il matrimonio come patto (Illuminismo) e come comunione d’amore (Romanticismo) tra gli sposi.
Ma questa critica va nel senso originario della Bibbia, non contro di essa! Il concilio Vaticano II ha recepito questa istanza quando ha riconosciuto come bene ugualmente primario del matrimonio il mutuo amore e aiuto tra i coniugi. Giovanni Paolo II, in una sua catechesi del Mercoledì, diceva:
“Il corpo umano, con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità,…è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin dal principio l’attributo sponsale, cioè di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e, mediante questo dono, attua il senso stesso del suo essere ed esistere” 8.
Nella sua enciclica “Deus caritas est”, il papa Benedetto XVI è andato anche oltre, scrivendo cose profonde e nuove a proposito dell’eros nel matrimonio e negli stessi rapporti tra Dio e l’uomo. “Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi non trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa”9.
La reazione insolitamente positiva a questa enciclica del papa dimostra quanto una presentazione irenica della verità cristiana sia più produttiva della confutazione dell’errore contrario, anche se questa pure dovrà trovare posto, a suo tempo e a suo luogo. Noi siamo lontani dall’accettare le conseguenze che alcuni traggono oggi da queste premesse: per esempio che basti qualsiasi tipo di eros a costituire un matrimonio, compreso quello tra persone dello stesso sesso, ma questo rifiuto acquista un’altra forza e credibilità se unito al riconoscimento della bontà di fondo dell’istanza e anche a una sana autocritica.
Non possiamo infatti tacere il contributo che i cristiani avevano dato al formarsi di quella visione puramente oggettivista del matrimonio. L’autorità di Agostino, rinforzata su questo punto da Tommaso d’Aquino, aveva finito per gettare una luce negativa sull’unione carnale dei coniugi, considerata il tramite di trasmissione del peccato originale e non priva, essa stessa, di peccato “almeno veniale”. Secondo il dottore di Ippona, i coniugi dovevano venire all’atto coniugale con dispiacere e solo perché non c’era altro modo di dare cittadini allo stato e membri alla Chiesa.
Un’altra istanza che possiamo fare nostra è quella della pari dignità della donna nel matrimonio. Essa, abbiamo visto, è nel cuore stesso del progetto originario di Dio e del pensiero di Cristo, ma è stata quasi sempre disattesa. La parola di Dio a Eva: “Verso l’uomo sarà la tua brama ed egli ti dominerà”, ha avuto un tragico avveramento nella storia.
Nei rappresentanti della cosiddetta “Gender revolution” questa istanza ha portato a proposte folli, come quella di abolire la distinzione dei sessi e sostituirla con la più elastica e soggettiva distinzione dei “generi” (maschile, femminile, variabile), o quella di liberare la donna dalla “schiavitù della maternità” provvedendo in altri modi, inventati dall’uomo, alla produzione dei figli. (Non si capisce chi avrebbe più interesse o desiderio, a questo punto, di avere figli!).
Proprio la scelta del dialogo e dell’autocritica ci da il diritto di denunciare questi progetti come “disumani”, contrari cioè non solo alla volontà di Dio, ma anche al bene dell’umanità. Tradotti in pratica su larga scala, essi porterebbero a guasti imprevedibili. L’unica nostra speranza è che il buon senso della gente, unito al “desiderio” dell’altro sesso, al bisogno di maternità e di paternità che Dio ha inscritto nella natura umana resistano a questi tentativi di sostituirsi a Dio, dettati più da tardivi sensi di colpa dell’uomo, che da genuino rispetto e amore per la donna. (A proporre queste teorie sono quasi esclusivamente degli uomini!).
2. Un ideale da riscoprire
Non meno importante del compito di difendere l’ideale biblico del matrimonio e della famiglia è il compito di riscoprirlo e viverlo in pienezza da parte dei cristiani, in modo da riproporlo al mondo con i fatti, più che con le parole.
Noi leggiamo oggi il racconto della creazione dell’uomo e della donna alla luce della rivelazione della Trinità. In questa luce, la frase: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” rivela finalmente il suo significato rimasto fino enigmatico e incerto prima di Cristo. Che rapporto ci può essere tra l’essere “a immagine di Dio” e l’essere “maschio e femmina”? Il Dio biblico non ha connotati sessuali, non è né maschio né femmina.
La somiglianza consiste in questo. Dio è amore e l’amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un “tu”. Non c’è amore che non sia amore di qualcuno; dove non c’è che un solo soggetto, non ci può essere amore, ma solo egoismo o narcisismo. Là dove Dio è concepito come Legge o come Potenza assoluta non c’è bisogno di una pluralità di persone (il potere si può esercitare anche da soli!). Il Dio rivelato da Gesú Cristo, essendo amore, è unico e solo, ma non è solitario; è uno e trino. In lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di caratteristiche e di persone.
Due persone che si amano – e quello dell’uomo e la donna nel matrimonio ne è il caso più forte – riproducono qualcosa di ciò che avviene nella Trinità. Lì due persone –il Padre e il Figlio – amandosi, producono (“spirano”) lo Spirito che è l’amore che li fonde. Qualcuno ha definito lo Spirito Santo il “Noi” divino, cioè non la “terza persona della Trinità”, ma la prima persona plurale 10.
Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio. Marito e moglie sono infatti una carne sola, un cuore solo, un’anima sola, pur nella diversità di sesso e di personalità. Nella coppia si riconciliano tra loro unità e diversità. Gli sposi stanno di fronte, l’uno all’altro, come un “io” e un “tu” e stanno di fronte a tutto il resto del mondo, cominciando dai propri figli, come un “noi”, quasi si trattasse di una sola persona, non più però singolare ma plurale. “Noi”, cioè “tua madre ed io”, “tuo padre ed io”.
In questa luce si scopre il senso profondo del messaggio dei profeti circa il matrimonio umano, che cioè esso è simbolo e riflesso di un altro amore, quello di Dio per il suo popolo. Questo non significava sovraccaricare di un significato mistico una realtà puramente mondana. Non era fare solo del simbolismo; era piuttosto rivelare il vero volto e lo scopo ultimo della creazione dell’uomo maschio e femmina: quello di uscire dal proprio isolamento ed “egoismo”, di aprirsi all’altro e, attraverso la temporanea estasi dell’unione carnale, elevarsi al desiderio dell’amore e della gioia senza fine.
Qual è la causa della incompiutezza e dell’inappagamento che lascia l’unione sessuale, dentro e fuori del matrimonio? Perché questo slancio ricade sempre su se stesso e perché questa promessa di infinito e di eterno rimane sempre delusa? Gli antichi hanno coniato un detto che fotografa questa realtà: “Post coitum animal triste”: come ogni altro animale, l’uomo dopo l’unione carnale è triste.
Il poeta pagano Lucrezio ha lasciato, della frustrazione che accompagna ogni accoppiamento, una descrizione spietata che in un congresso per sposi e per famiglie non dovrebbe suonare scandaloso riascoltare:
“S’avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell’altro corpo con tutto il corpo” 11.
A questa frustrazione si cerca un rimedio che però non fa che accrescerla. Anziché cambiare la qualità dell’atto, se ne aumenta la quantità, passando da un partner all’altro. Si arriva così allo scempio del dono di Dio della sessualità, in atto nella cultura e nella società di oggi.
Vogliamo una buona volta, come cristiani, cercare una spiegazione a questa devastante disfunzione? La spiegazione è che l’unione sessuale non è vissuta nel modo e con l’intenzione intesa da Dio. Questo scopo era che, attraverso questa estasi e fusione d’amore, l’uomo e la donna si elevassero al desiderio e avessero una certa pregustazione dell’amore infinito; si ricordassero da dove venivano e dove erano diretti.
Il peccato, a cominciare da quello dell’Adamo ed Eva biblici, ha attraversato questo progetto; ha “profanato” quel gesto, cioè lo ha spogliato della sua valenza religiosa. Ne ha fatto un gesto fine a se stesso, concluso in se stesso, e perciò “insoddisfacente”. Il simbolo è stato staccato dalla realtà simboleggiata, privato del suo dinamismo intrinseco e quindi mutilato. Mai come in questo caso si sperimenta la verità del detto di Agostino: “Tu ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore è insoddisfatto finché non riposa in te”.
Anche le coppie credenti –talvolta esse più delle altre – non riescono a ritrovare quella ricchezza di significato iniziale dell’unione sessuale a causa dell’idea di concupiscenza e di peccato originale per secoli associata a quell’atto. Solo nella testimonianza di alcune coppie che hanno fatto l’esperienza rinnovatrice dello Spirito Santo e vivono la vita cristiana carismaticamente si ritrova qualcosa di quel significato originale dell’atto coniugale. Esse hanno confidato con stupore a coppie di amici o al sacerdote di unirsi lodando Dio ad alta voce, o addirittura cantando in lingue. Era una reale esperienza di presenza di Dio.
Si comprende perché solo nello Spirito Santo è possibile ritrovare questa pienezza della vocazione matrimoniale. L’atto costitutivo del matrimonio è il donarsi reciproco, il fare dono del proprio corpo (cioè, nel linguaggio biblico, di tutto se stessi) al coniuge. Essendo il sacramento del dono, il matrimonio è, per sua natura, un sacramento aperto all’azione dello Spirito Santo che è per eccellenza il Dono, o meglio il Donarsi reciproco del Padre e del Figlio. È la presenza santificante dello Spirito che fa, del matrimonio, un sacramento non solo celebrato, ma vissuto.
Fare spazio a Cristo nella vita di coppia è il segreto per accedere a questi splendori del matrimonio cristiano. È da lui infatti che viene lo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Un libro del vescovo Fulton Sheen, popolare negli anni Cinquanta, inculcava tutto ciò nel titolo stesso che recava: “Tre per sposarsi”12.
Non bisogna aver paura di proporre ad alcune coppie di futuri sposi cristiani, particolarmente preparate, un traguardo altissimo: quello di pregare un po’ insieme la sera delle nozze, come Tobia e Sara, e poi dare a Dio Padre la gioia di vedere di nuovo realizzato, grazie a Cristo, il suo progetto iniziale, quando Adamo ed Eva stavano nudi uno di fronte all’altra e tutti e due davanti a Dio, e non ne provavano vergogna.
Termino con alcune parole tratte, ancora una volta, da La scarpetta di raso di Claudel. Si tratta di un dialogo tra la protagonista femminile del dramma, combattuta tra la paura e il desiderio di arrendersi all’amore, e il suo angelo custode:
-È dunque permesso questo amore delle creature l’una per l’altra? Davvero, Dio non è geloso?
- Come potrebbe essere geloso di ciò che ha fatto lui stesso?
-Ma l’uomo nelle braccia della donna dimentica Dio…
-È forse dimenticarlo essere con lui ed essere associati al mistero della sua creazione?13
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NOTE (INTERESSANTI) SUL SITO

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