Archive pour la catégorie 'EBRAISMO: LE FESTIVITÀ'

PURIM – IL CARNEVALE EBRAICO

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PURIM – IL CARNEVALE EBRAICO

Giovedì 05 Marzo 2009

Purìm significa « sorti » ed è la festività più allegra del calendario Ebraico, che inizia il 14 di Adar (marzo-aprile) e termina il giorno seguente.
Si tratta di una festa non-Biblica, istituita dai Rabbini in epoca tarda, e infatti gli avvenimenti che questa celebrazione ricorda sono accaduti molto dopo la rivelazione della Torah sul monte Sinai.
A Purìm ci si rallegra per la salvezza degli Ebrei che scamparono al perfido Haman, il quale voleva sterminarli, e si loda il Signore che ha sempre protetto il popolo d’Israele permettendogli di sopravvivere a tutte le terribili persecuzioni della storia.
La storia di Purìm ci insegna che a volte Dio non agisce in modo miracoloso ed evidente; ma anche quando la sua presenza sembra essere nascosta, Egli è sempre onnipotente e onnipresente e non dimentica di redimere il Suo popolo.

Origine Biblica (da Wikipedia):
Durante la festività, il giorno dopo il digiuno, viene letto l’intero Libro di Ester (in ebraico meghillàt Estèr, lett.:Rotolo di Ester), uno dei libri storici che compongono i Ketuvim.
Il racconto inizia con Mardocheo che salva re Assuero da un complotto di corte. Il Re lo eleva al rango di funzionario scatenando le invidie di Amàn, il potente consigliere del Re.
Re Assuero, diede una serie di banchetti in onore dei dignitari dei regni mediorentiali e, di fronte al rifiuto della regina Vasti, sua moglie, a presenziare ad uno dei banchetti, decise di prendere una nuova moglie a cui conferire il rango di Regina per non rimanere umiliato di fronte al mondo.
Mordechai, allora, portò alla corte del Re anche sua cugina Ester, orfana, che incontrò le grazie del Re. Ester divenne la regina. Nuovamente Mordechai venne a conoscenza di un complotto contro il Re e lo fece avvertire da Ester. Ester ne guadagnò il rispetto.
In quegli stessi giorni Amàn, venne elevato al massimo rango e da quel giorno tutti dovevano inginocchiarsi e prostrarsi in sua presenza. Unico a non prostrarsi rimase Mordechai poiché, in quanto Ebreo, rispettava il precetto di non prostrarsi se non di fronte al proprio Dio. Amàn avvampò d’ira e, saputa l’origine di Mordechai, piuttosto che rivalersi su di lui, decise di sterminare l’intero popolo ebraico.
Amàn così parlò al Re:
  « Vi è un popolo segregato e anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e che non osserva le leggi del re; non conviene quindi che il re lo tolleri. Se così piace al re, si ordini che esso sia distrutto; io farò passare diecimila talenti d’argento in mano agli amministratori del re, perché siano versati nel tesoro reale. Allora il re si tolse l’anello di mano e lo diede ad Amàn, l’Agaghita, figlio di Hammedàta e nemico degli Ebrei. Il re disse ad Amàn: «Il denaro sia per te: al popolo fa’ pure quello che ti sembra bene» »   (Ester 3,8-11)   
L’editto emanato dal Re, secondo il consiglio di Amàn, venne diramato in tutto il regno gettando nello sconforto e nella disperazione l’intero popolo ebraico.
Mordechai chiese alla cugina Ester di voler andare dal Re a chiedere grazia per il suo popolo, ma lei gli rispose che nessuno, se non chiamato, poteva recarsi dal Re, pena la morte. Mordechai fece dire ad Ester:
  « Non pensare di salvare solo te stessa fra tutti gli ebrei, per il fatto che ti trovi nella reggia. Perché se tu in questo momento taci, aiuto e liberazione sorgeranno per gli ebrei da un altro luogo; ma tu perirai insieme con la casa di tuo padre. Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione d’una circostanza come questa? »   (Ester 4,13-15)   
Ester, convinta delle ragioni di suo cugino Mordechai, gli mandò a dire:
  « Và, raduna tutti gli ebrei che si trovano a Susa: digiunate per me, state senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch’io con le ancelle digiunerò nello stesso modo; dopo entrerò dal re, sebbene ciò sia contro la legge e, se dovrò perire, perirò! »   (Ester 4,17)   
Per i tre giorni seguenti Ester, Mordechai e tutto il popolo ebraico osservarono il digiuno ed implorarono la clemenza del Signore verso il proprio popolo.
Ester si recò dal Re al termine del digiuno e, lo pregò di voler offrire un banchetto e di invitare anche il perfido Amàn. La notte il Re non riuscì a prendere sonno e chiede che gli venisse letto il libro delle cronache nel quale era registrato il servigio che Mordechai aveva reso la Re. Subito dopo la lettura del passo relativo, Amàn si presentò al Re per chiedere che Mordechai venisse impiccato. Ma il Re chiese ad Amàn cosa si dovesse fare per onorare un uomo. Amàn rispose pensando che il Re volesse onorare lui stesso. Al termine della risposta il Re ordinò ad Amàn di fare quanto appena detto in onore di Mordechai.
Amàn divenne una furia, fece come comandato e tornò alla propria casa. Non appena arrivato giunsero gli eunuchi del Re che lo accompagnarono al banchetto. Durante il bachetto la Regina Ester chiese:
  « Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, o re, e se così piace al re, la mia richiesta è che mi sia concessa la vita e il mio desiderio è che sia risparmiato il mio popolo. Perché io e il mio popolo siamo stati venduti per essere distrutti, uccisi, sterminati. Ora, se fossimo stati venduti per diventare schiavi e schiave, avrei taciuto; ma il nostro avversario non potrebbe riparare al danno fatto al re con la nostra morte »   (Ester 7,3-4)   
Il Re di rimando le chiese:
  « Chi è e dov’è colui che ha pensato di fare una cosa simile? »   (Ester 7,5)   
Ed Ester:
  « L’avversario, il nemico, è quel malvagio di Amàn »   (Ester 7,6)   
Amàn venne impiccato a quello stesso palo che aveva fatto preparare per Mordechai e quest’ultimo ne prese il posto come consigliere del Re.

Come festeggiare:
Il giorno precedente a Purìm (13 Adar), si osserva il digiuno di Ester che dura dall’alba al tramonto. Se questa data cade di Shabbat, il digiuno viene anticipato al giorno precedente.
Vi sono poi quattro importanti mitzvot da osservare prima del tramonto:
Leggere la meghillah di Ester; quando viene menzionato il nome di Haman gli Ebrei fanno molto rumore per cancellare il suo ricordo.
Donare cibo; viene infatti donato del cibo già pronto da mangiare ad almeno una persona.
Fare dei doni ai poveri; cioè dare delle monete ad almeno due persone bisognose.
Consumare il pasto festivo; bisogna consumare almeno un pasto durante la festività.
Durante lo Shabbat precedente a Purìm viene letto il brano di Deuteronomio 25;17-19 (in aggiunta alla parashà della settimana) in cui si parla dell’assalto della tribù di Amalek che attaccò gli Ebrei senza motivo durante l’esodo dall’Egitto.
Non a caso, Haman era proprio un discendente di Amalek.
Poichè a Purìm i bambini Ebrei usano mascherarsi, questa festa viene chiamata anche « Carnevale Ebraico ».
Secondo la tradizione, la festività di Purìm, come anche quella di Channukkah, verrà festeggiata anche dopo la venuta del Messia.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 20 février, 2012 |Pas de commentaires »

La Hanukkah dei patriarchi (Rav Riccardo Di Segni)

http://liturgiadomenicale.blogspot.com/2008/04/hanukkah-la-festa-che-fa-da-sfondo-al.html

La Hanukkah dei patriarchi

Rav Riccardo Di Segni

Secondo un principio stabilito dai Rabbini del Talmud, « i Patriarchi biblici osservarono l’intera Torà (che non era stata ancora promulgata), conoscendola grazie ad una sacra ispirazione », e l’intera Torà comprende, secondo Rashì (commento a Gen. 26:5), anche la tradizione rabbinica. È un principio che solleva molte perplessità, anche davanti ad esplicite contraddizioni, ma che se viene esaminato in profondità mostra una concezione della storia e della Torà particolarmente forte ed originale. Restando nell’ottica di questo principio ci si potrebbe chiedere se e quando i Patriarchi celebrarono Hanukkah. La domanda sembra apparentemente assurda; Hanukkah è una festa istituita molto più tardi, nel II secolo avanti l’era volgare, per ricordare un avvenimento storico preciso. Eppure la riflessione su questa domanda provocatoria, apparentemente senza senso, aiuta a comprendere sia le motivazioni della strana idea rabbinica sul rapporto dei Patriarchi con la Torà, che il significato profondo di Hanukkah.
Il precetto fondamentale di Hanukkah, come è ben noto, è l’accensione dei lumi, preceduta dalla recitazione di benedizioni, di cui la più specifica dice: « Benedetto… il Signore… che ci hai comandato di accendere i lumi di Hanukkah ». Ma il precetto di accensione dei lumi è senza dubbio una norma rabbinica, di cui la Torà ovviamente non parla. Ma allora perché attribuire al Signore l’origine di un obbligo che è invece chiaramente di istituzione umana? Altri precetti rabbinici si segnalano per lo stesso paradosso, ma solo per questo di Hanukkah il Talmud (Shabbat 23a) si interroga (« Dove mai ci ha comandato? ») alla ricerca di una spiegazione. La risposta ‘tecnica’ è che quando i Rabbini stabiliscono una norma e danno un precetto, hanno una sorta di delega divina, per cui è come se l’ordine fosse stato dato dal Signore stesso. Eppure il fatto che proprio su questa norma di Hanukkah il Talmud sollevi una questione di legittimità, per risolverla con una generica dichiarazione di principio sull’autorità rabbinica, deve far riflettere sui significati più profondi e nascosti della festa.
Hanukkah è il luogo di tanti paradossi e contraddizioni, e la sua istituzione sembra venire di necessità a colmare uno strano vuoto. Ciò perché malgrado la sua tarda istituzione i significati più o meno nascosti della festa sono tanti, di origine remota e possibilmente conflittuali. Non c’è solo l’opposizione tra la commemorazione di una rivolta militare (che portò al potere una dinastia che avrebbe perseguitato i rabbini) e un significato religioso (il miracoloso aiuto divino a chi lotta per difendere la propria identità); ma c’è anche la celebrazione di un evento del ciclo annuale (il solstizio invernale), potenzialmente carico di rischi di festa pagana; e c’è un legame con il ciclo agricolo, quello del tempo della raccolta delle olive. Di tutto questo la tradizione ha privilegiato senza dubbio l’elemento religioso, la lotta in difesa del culto monoteistico, l’eliminazione dell’idolatria, la scelta sofferta di accettazione della Torà da parte della comunità di Israele, la preparazione al servizio divino con un nuovo altare restaurato, e tutto questo nella fiducia nell’aiuto divino, che protegge il suo popolo dai suoi nemici nel momento in cui Israele torna a cercare il Signore.
Nella coscienza rabbinica, ma anche nella percezione collettiva del popolo ebraico, questo tema non può essere legato ad un unico evento storico, ma rappresenta una situazione che si ripete. E allora la domanda se vi sia nella Torà e in particolare nelle storie dei Patriarchi un modello di Hanukkah antica e primordiale non è più una stranezza e un paradosso, ma una legittima richiesta di ricerca storica e ideologica. In effetti è possibile identificare una situazione con molti punti di contatto nella storia dei Patriarchi, in Genesi 35 (Parashath Wayshlach).
Subito dopo il drammatico episodio di Dinà, Giacobbe riceve l’ordine di partire verso Beth El con tutta la sua famiglia; Giacobbe quindi ordina alla famiglia di « allontanare gli dei stranieri » prima della partenza. Beth El era il luogo in cui Giacobbe aveva visto in sogno la scala e dove aveva eretto una stele, giurando di trasformarla in casa divina. Al suo ritorno nella terra di Canaan giunge per Giacobbe il tempo di mantenere la promessa, ma si frappongono molti ostacoli, e per ultimo l’episodio di Dinà, con tutte le sue conseguenze: pericolo di vendetta da parte dei popoli vicini, ma anche pericolo di assimilazione e di paganesimo. « Gli dei stranieri » che Giacobbe comanda di eliminare, erano, secondo il midrash, quelli presi dal bottino di Shekhem (cft. Rashi a Gen. 35:2) il che dimostra da un lato che malgrado la circoncisione loro imposta i Sichemiti non avevano rinunciato all’idolatria (cfr. Nachai Qedumim a Gen. 34:13), e dall’altro che il pericolo di idolatria e di influenze negative esterne era forte nella stessa famiglia di Giacobbe e nella stessa terra di Canaan. Per questo Giacobbe ordina l’eliminazione dell’idolatria e la purificazione, secondo uno schema che sarà ricorrente nella Bibbia, con le stesse parole (cfr. Gios. 27:23, Giud. 10:16, I Sam. 7:3, 2 Cron. 33:15), e che rappresenta costantemente il desiderio di ritorno della comunità al Signore e la condizione per il ritorno del Signore alla protezione della sua comunità. Solo dopo questo è possibile partire per Beth El ed erigervi una casa e un altare, che sono, a confronto con la primitiva stele, il segno di un nuovo culto, in cui il popolo partecipa in comunione e riceve i precetti divini (cfr. N. Leibowitz, ‘Yiurum besefer Bereshith 270-275). Accettando questo giogo, viene in soccorso l’aiuto divino: « la paura del Signore fu sulle città… » (Gen. 35:). Malgrado gli aspetti terribili del fatto di Shekhem, e l’esplicita condanna che ne fa Giacobbe (che rappresentano un modello primordiale delle perplessità rabbiniche sul tema della violenza armata che caratterizza la rivolta dei Maccabei e il trionfo della casa Asmonea), esistono nelle motivazioni dei protagonisti delle componenti positive, come l’intenzione di lottare contro l’idolatria e in particolare contro coloro che con la forza o la seduzione vogliono conquistare le persone e le anime di Israel. Non a caso uno dei due combattenti è Levi, antenato di Pinchas e antenato dopo molti secoli della famiglia dei Maccabei. Dunque l’intero racconto è quello di una sorta di Hanukkah patriarcale, dove compare il motivo della lotta contro l’idolatria esterna ed interna, il paradosso della violenza e della sua difficile valutazione, e poi la purificazione e l’erezione dell’altare, sotto l’ala protettrice divina. Manca solo il lume, ma l’olio già c’è, nelle due prime volte che viene citato nella Bibbia: quando Giacobbe lo versa sulla stele che ha eretto a Beth El, e quando viene nuovamente versato sull’altare alla fine del racconto.
Il tema del miracolo di Hanukkah dunque è molto più antico di quello dei tempi dei Maccabei, così come l’olio che brucia in ogni hanukkià esprime una speranza sofferta e complessa, profondamente radicata nella coscienza ebraica senza limiti di tempo.

Chanukkà : Nome ebraico חנוכה

dal sito:
http://it.wikipedia.org/wiki/Hanukkah
Chanukkà : Nome ebraico חנוכה


Significato: Festa dell’Inaugurazione
Inizio 25 di kislev
Fine 2 o 3 di tevet
Oggetti liturgici: Hanukkiah, Sevivon, Sufganiot
Festività ebraiche
Chanukkà o Hanukkah (in ebraico חנכה, ḥănukkāh) è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci. In ebraico la parola chanukkah significa « dedica » e infatti la festa commemora la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la regalata libertà, loro data dai Greci. Al regno dei quali apparteneva Eretz Israel nel II secolo a.C. Il dominatore greco riteneva di far scomparire la specificità giudaica proibendo la pratica della Legge, ma una rivolta armata guidata da Mattatia, un anziano sacerdote della famiglia degli Asmonei, di Modin, cittadina a nord-ovest di Gerusalemme, permise – secondo Zc 4,6 – la vittoria dello spirito sulla forza brutale che minaccia Israele nella sua vita religiosa e spirituale. La festività dura 8 giorni e la prima sera, chiamata Erev Chanukah, inizia al tramonto del 24 del mese di kislev. Secondo il procedere del calendario ebraico, quindi, il primo giorno della festa cade il 25 di kislev. È l’unica festività religiosa ebraica che si svolge a cavallo di due mesi, inizia a kislev e finisce in tevet. In particolare se kislev dura 29 giorni finisce il 3 tevet, mentre quando kislev ha 30 giorni finisce il 2 tevet. È, assieme a Purim, la seconda delle feste stabilite per decreto rabbinico, ovvero delle feste stabilite dopo il dono della Torah. La storia di Chanukkà non è inclusa nel libro del Tanach, ma appare nel primo e nel secondo libro dei Maccabei. I libri, sebbene non facciano parte della Torah, sono parte del complesso deuterocanonico. Questo complesso pur non essendo stato codificato per l’ebraismo come parte del testo sacro, lo divenne per la Chiesa cattolica e per la Chiesa ortodossa.
Intorno al 200 a.C., Gli ebrei vivevano in terra di Israele, in quel tempo sotto il controllo della dinastia seleucide stabilitasi in Siria. Il popolo ebraico pagava le tasse alla Siria e ne accettava l’autorità legale e per lungo tempo fu libero di seguire la propria fede, di mantenere i propri lavori e di prendere parte ai commerci.Nel 180 a.C. Antioco IV Epifane ascese al trono succedendo al fratello Seleuco IV, assassinato. Sotto il suo regno, gli ebrei vennero gradualmente forzati a violare i precetti della propria fede. Il Tempio di Gerusalemme fu profanato, spogliato delle sue ricchezze, e utilizzato per il culto pagano e le cerimonie ellenizzanti che Antioco fece organizzare in tutto il suo impero. La forzatura alla trasgressione dei precetti, le profanazioni e la pretesa di ellenizzare la cultura dell’intero impero portò alla rivolta di una parte della popolazione ebraica.Nel 167 a.C., in particolare, Antioco consacrò a Zeus un altare costruito nel Tempio di Gerusalemme. Mattatia, un Cohen, e i suoi cinque figli Giovanni, Simone, Giuda, Elazar e Gionata guidò la ribellione contro Antioco. Giuda divenne noto come Giuda Maccabeo (in ebraico significa Giuda il martello). Nel 166 a.C. Mattatia muore lasciando la guida al figlio Giuda. Nel 165 a.C. la rivolta ebraica contro la monarchia seleucide giunse a successo. Il Tempio di Gerusalemme venne liberato e riconsacrato.La festa di Chanukkà venne istituita proprio da Giuda Maccabeo e dai suoi fratelli per celebrare questo evento (Maccabei I, 4;59). Dopo la riconquista di Gerusalemme e del Tempio, Giuda ordinò che il Tempio fosse ripulito, fosse costruito un nuovo tempio e che le luci del Candelabro venissero riaccese, venne ripristinata l’Arca santa. Quando la luce venne riaccesa sul Candelabro, la riconsacrazione dell’altare venne celebrata per otto giorni con sacrifici e canti (Maccabei I 4;36).Un certo numero di storici ritiene che il motivo per gli 8 giorni di durata della festa sia da riferirsi ad un tardivo festeggiamento dei Sukkot. Durante la guerra gli ebrei non furono in condizioni di celebrare Sukkot come prescritto. Anche Sukkot dura otto giorni ed è una festività nella quale l’uso delle luci ha un ruolo preminente durante l’era del Secondo Tempio. Le luci venivano accese anche nelle abitazioni e da qui la festa viene spesso indicata con il nome Festa delle Luci.
Nel Talmud
Il miracolo di Chanukkà è narrato nel Talmud, ma non nel libro dei Maccabei. La festa celebra la sconfitta, per mano di Giuda Maccabeo, dei Seleucidi e la successiva riconsacrazione del Tempio. La festività, durante gli otto giorni, è caratterizzata dall’accensione dei lumi di un particolare candelabro ad otto braccia chiamato chanukiah. La storia, riportata nel Talmud, racconta che dopo la riconquista del Tempio, i Maccabei lo spogliarono di tutte le statue pagane e lo sistemarono secondo gli usi ebraici. Scoprirono, inoltre, che la gran parte degli oggetti rituali era stata profanata. Secondo il rituale, la menorà del Tempio doveva essere illuminata in permanenza con olio di oliva puro. Nel Tempio però trovarono olio sufficiente solamente per una giornata. Lo accesero comunque mentre si apprestavano a produrne dell’altro. Miracolosamente, quel poco olio durò il tempo necessario a produrre l’olio puro: otto giorni. Per questo motivo gli ebrei accendono ogni giorno della festa una candela in più rispetto al giorno precedente. Nel Talmud sono presentati due pareri. Uno indica come nel primo giorno si accendano tutte le otto luci della chanukiah e ogni giorno se ne accenda una in meno rispetto al precedente. L’altro parere, al contrario, prescrive di accendere solo la prima candela nel primo giorno e aumentare di una candela ogni giorno successivo. I seguaci di Shammai seguono il primo parere, quelli di Hillel il secondo (Talmud, trattato dello Shabbath 21b). Giuseppe ritenne che le luci fossero simbolo della libertà ottenuta dal popolo ebraico nei giorni che Chanukkà commemora.
Chanukkà oggi
Prima del XX secolo questa veniva considerata una festa minore. Con la crescente popolarità del Natale come maggiore festività del mondo occidentale e l’istituzione delle accensioni pubbliche della chanukkià, Chanukkà cominciò a rappresentare sia una celebrazione della volontà di sopravvivere del popolo ebraico, sia una festività che marchi il dominio della luce sull’oscurità, ciò che acquista un significato particolare in corrispondenza con l’inizio dell’inverno e durante il periodo dell’anno in cui le giornate sono più corte. Al giorno d’oggi, durante le sere di Chanukkà, c’è l’uso promosso dal movimento Chabad, presso numerose comunità in tutto il mondo, di celebrare l’accensione delle candele in maniera pubblica. Numerose persone si ritrovano in una piazza centrale della città dove è stata installata una grande chanukkià. Il presidente della comunità o il rabbino capo, tengono un breve discorso, recitano la beracha (benedizione) sulle candele e inaugurano la festa. I presenti solitamente intonano inni gioiosi ed eseguono tipici balli ebraici. Dolce tipico della festa è una sorta di bombolone chiamato sufgagnà che, essendo fritto nell’olio, vuole ricordare l’olio consacrato che tenne in vita la luce del Tempio.
Cronologia
198 a.C.: L’esercito del re seleucide Antioco III (Antioco il grande) estromette Tolomeo V dalla Giudea e dalla Samaria.
180 a.C.: Antioco IV (Epifane) ascende al trono seleucide.
168 a.C.: Sotto il regno di Antioco IV, il Tempio viene sconsacrato, gli ebrei vengono massacrati e l’ebraismo viene messo fuorilegge.
167 a.C.: Antioco ordina la costruzione di un altare consacrato a Zeus nel Tempio. Mattatia, con i suoi cinque figli, guida la rivolta contro Antioco. Suo figlio Giuda viene conosciuto come Giuda Maccabeo (Giuda il martello)
166 a.C.: Mattatia muore e Giuda ne prende il posto alla testa della rivolta. Inizia il regno ebraico Asmoneo che avrà fine nel 63 a.C.
165 a.C.: La rivolta ebraica contro la monarchia seleucide ha successo. Il Tempio viene liberato e riconsacrato (Chanukkà)

Publié dans:EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 5 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

28-29 SETTEMBRE 2011/5772 ROSH HASHANA’

dal sito:

http://www.archivio-torah.it/feste/roshhashana/appunti60.pdf

28-29 SETTEMBRE 2011/5772 ROSH HASHANA’

metto questo testo di per la festa del Capodanno ebraico

Appunti su Rosh Hashanà 5760

«Beato il popolo che conosce il suono dello Shofar, Oh Signore nella luce del Tuo Volto essi procederanno» (Salmi 89,16) «Beato il popolo che sa come conciliare il proprio Creatore attraverso il suono dello Shofar» (Yalkut Shimonì, Salmi 840) «Nell’ora in cui i figli d’Israele  suonano lo Shofar, il Santo Benedetto Egli Sia si alza dal Trono della Giustizia e si siede sul Trono della Misericordia» (Yalkut Shimonì, Vaikrà 645)
 È un precetto positivo della Torà  ascoltare lo Shofar il primo ed il secondo giorno di Rosh Hashanà. La mizvà dello Shofar è strettamente legata alla dimensione  dell’ascolto tanto che lo stesso Tokea (colui che suona lo Shofar) non esce d’obbligo non suonando ma solo ascoltando il suono il suono  prodotto. Per questo motivo la benedizione dice «…e ci hai comandato di ascoltare il suono dello Shofar». Proprio l’udito è il senso che aggiormente deve essere risvegliato perché via preferenziale  per il ritorno a D-o: ricordare la Parola di D-o sentita sul Monte Sinai. È sempre l’udito il senso con il quale accettiamo ogni giorno su di noi l’unicità di D-o e la Sua regalità nella recitazione dello Shemà (che per essere valida necessita che si «senta con le orecchie ciò che si dice con la bocca»).
L’effetto principale però lo Shofar lo svolge dentro ognuno di noi. Il suo suono ci invita a tornare al Signore ed alla Sua Torà. Il giorno di Rosh Hashanà è l’anniversario della creazione dell’uomo avvenuta quando l’Eterno ha soffiato l’anima pura dentro il corpo materiale di Adamo. Noi veniamo giudicati ogni  anno in questa data e, quasi a
dimostrare l’intenzione di tornare sulla via del nostro Creatore soffiamo nuovamente questa anima nel corno del montone. Testimoniamo così che solo il Signore è il vero padrone della nostra anima così come delle nostre persone. Suonando lo Shofar noi
«ricordiamo» a D-o che la nostra  creazione è stata un compromesso tra materialità e spiritualità. Tra giustizia e misericordia. Simulando l’atto della creazione attraverso lo Shofar noi invochiamo nuovamente che questo compromesso ci accordi il perdono.
Il salmista loda la capacità di Israele di fare teshuvà, ritorno a D, attraverso il suono dello Shofar. È la teshuvà sincera che provoca il perdono e non il mero suono. Per questo motivo è necessaria una grande «kavvanà», concentrazione/intenzione, nell’esecuzione di questo precetto. Non solo per il Tokea, che si prepara al suono ammantandosi nel suo talled e recitando apposite formule note come «kavvanot», concentrazioni, intenzioni. Anche il pubblico necessita la massima concentrazione e per questo è fondamentale mantenere  il più assoluto silenzio durante le suonate così pure come tra le suonate. È l’impegno che ognuno di noi esprime durante il suono dello Shofar di migliorare se stesso e di impegnarsi maggiormente nell’osservanza delle mizvot che provoca il passaggio del Santo Benedetto Egli Sia dal Trono della Giustizia a quello della Misericordia.  Ascoltare lo Shofar non è un usanza ma è una mitzvà. Per uscire d’obbligo però bisogna stare attenti ad alcune regole basilari: Il Tokea (colui che suona lo Shofar) pronuncia la benedizione relativa al suono e quella per le cose nuove. Il pubblico NON DEVE rispondere
«baruch u uvaruch shemò» dopo il nome di D-o (per non interrompere una benedizione) ma solo «amen» alla fine di ogni benedizione. Secondo il rito di Roma si fanno 30 suonate subito dopo la lettura della Haftarà (il passo profetico), 30 durante la ripetizione ad alta voce della preghiera di Musaf (tre serie da 10) ed una suonata conclusiva
alla fine della preghiera. Altre comunità aggiungono altre suonate portandone il numero a 101. È assolutamente proibito interrompere con qualsiasi discorso dal momento in cui viene pronunciata la benedizione fino alla fine del Tempio (dopo l’ultima suonata). 
Ci sono quindi due buoni motivi per non parlare durante la funzione: il primo è che si disturba la preghiera che è finalizzata al perdono di se stessi, il secondo è che non si adempie alla mitzvà dello shofar . Lo stesso silenzio che si percepisce durante le suonate deve regnare anche tra le suonate.  Quest’anno il primo giorno di Rosh Hashanà cade di Shabbat ed i nostri Maestri hanno stabilito che non venga suonato lo Shofar in tale
circostanza per evitare che trasportando eventualmente lo Shofar al Tempio si trasgredisca lo Shabbat. Possiamo da qui capire l’importanza dell’osservanza dello Shabbat se per evitare che venisse trasportato lo Shofar, trasgredendo alle norme
sabbatiche si è preferito rinunciare allo Shofar stesso. Non c’è modo migliore per garantirsi il perdono del ritorno alle mizvot. Il Signore preferisce che rispettiamo lo Shabbat anche se ciò comporta rinunciare allo Shofar. Un messaggio forte per quanti di  noi accorrono al Tempio di Rosh Hashanà per poi ripresentarsi l’anno successivo. 
Abbiamo capito quanto sia importante lo Shofar, ebbene lo Shabbat è di gran lunga più importante. L’osservanza dello Shabbat, la chiave per un sincero ritorno alla Torà,
è cara dinanzi al Trono del Signore ben più del Suono dello Shofar. Facendo gli auguri al vostro prossimo allora ricordate di dire prima «Shabbat Shalom» e poi «Shanà Tovà».

Shabbat Shalom e Shanà Tovà, Jonathan Pacifici 
www.torah.it  

Publié dans:EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 30 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Shabbat

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=70:sabato&catid=45:feste&Itemid=77

Shabbat 
  
« Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo. Lavorerai sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è Sabato in onore del Signore tuo Dio; non farai dunque alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che vive presso di te; poiché in sei giorni il Signore fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno cessò; perciò il Signore ha benedetto il giorno di Sabato e l’ha santificato. » (Esodo 20:8-11)
Secondo la Torah, lo Shabbat (Sabato), ovvero il settimo giorno della settimana, rappresenta la festività del riposo durante la quale tutti gli Ebrei devono astenersi dal loro lavoro.
Fu proprio Dio ad osservare per primo lo Shabbat, quando terminò l’opera della creazione il settimo giorno. (Genesi 2:2-3).
Il termine Ebraico Shabbat deriva proprio dal verbo « cessare », o « fermarsi », ed è quindi adatto ad indicare il riposo o la sospensione delle proprie attività ordinarie.
La Bibbia attribuisce a questa festività un duplice significato:
Nel libro dell’Esodo, il Sabato è definito come il giorno sacro in cui Dio completò la creazione (Es. 20:10-11);
Nel Deuteronomio, invece, è scritto che lo scopo del Sabato è quello di ricordare la liberazione dalla schiavitù in Egitto (Deuteronomio 5:15).
Secondo la Halakhà, nonostante ricorra ogni settimana, lo Shabbat è la festa più importante dell’Ebraismo. Infatti, è la prima ad essere menzionata nella Torah; il riposo Sabatico è ordinato nel quarto Comandamento, ma Dio rivelò agli Ebrei la solennità di questo giorno addirittura prima del loro arrivo al Sinai.
Lo Shabbat inizia al tramonto del Venerdì e si conclude al sopraggiungere della sera del giorno seguente.
Prima della festività, la madre di famiglia accende due candele che simboleggiano il ricordo dello Shabbat e la sua osservanza.
Il padre di famiglia, prima del pasto serale, deve recitare il Kiddush, una preghiera di santificazione in cui si ringrazia Dio per il frutto della vite e per il dono del Sabato, ricordando anche i due significati Biblici della festività.
La preghiera da pronunciare al termine dello Shabbat, invece, è detta Havdalah, e tramite essa si saluta il giorno sacro per ritornare al tempo ordinario.
Questo giorno di riposo deve essere dedicato allo studio della Torah, alla preghiera, e alla famiglia. E’ inoltre consigliato ospitare parenti o amici in casa propria, e secondo la Kabbalah, anche avere rapporti sessuali con il coniuge.
Nella tramandazione Ebraica troviamo un elenco di trentanove attività proibite durante lo Shabbat: seminare, arare, mietere, fare i covoni, trebbiare, togliere la pula, setacciare, nacinare, vagliare, impastare, cuocere, tosare la lana, lavarla, cardarla, tingerla, filarla, ordire, dare due punti, tessere due fili, scucire due fili, fare un nodo, disfare un nodo, cucire due punti, strappare con l’intenzione di ricucire due punti, cacciare il cervo, sgozzarlo, pelarlo, salarlo, lavorare la sua pelle, spelarla, tagliarlo, scrivere lettere, cancellare con l’intenzione di scivere, costruire, demolire,spegnere,accendere, forgiare con un martello, trasportare un oggetto da un posto all’altro.
Molti accusano gli Ebrei di aver trasformato il giorno festivo in un peso insostenibile. Infatti, leggendo tutte le regole dell’osservanza dello Shabbat, si è spesso portati a pensare che si tratti di sterile formalismo, nonchè di un insieme di norme insensate e difficili da rispettare.
Questo tuttavia non corrisponde a verità. Gli Ebrei hanno sempre considerato il Sabato come un giorno gioioso, e addirittura come uno dei più preziosi doni che Dio abbia dato al Suo popolo. Un uomo abituato fin da bambino ad osservare la Torah non trova affatto difficile vivere questa festività senza profanarla.
Lo Shabbat, assieme alla circoncisione, è spesso citato nella Bibbia come il simbolo del Patto tra il Creatore e Israele, poichè si tratta di un’usanza che ha da sempre distinto in modo particolare il popolo Ebraico dalle altre nazioni.
L’importanza di questo comandamento è ribadita nel Talmud, dove è scritto che se gli Ebrei osservassero a dovere due Sabati consecutivi, il Messia arriverebbe immediatamente.
L’era Messianica è paragonata proprio allo Shabbat, poichè sarà un tempo di riposo dalle fatiche e dalle ansie per Israele e per tutta la terra.
Per approfondire l’argomento visita il seguente sito:

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 29 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Ridere nel nome di Isacco (In occasione di Purim)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/044q04a1.html

OSSERVATORE ROMANO

(23 febbraio 2011)

In occasione di Purim « Pagine ebraiche » dedica un dossier alla comicità e alla parodia

Ridere nel nome di Isacco

Accanto a una serie di cloni parodistici di giornali italiani c’è anche un esilarante « Osservatore Nostrano »

di SILVIA GUIDI
Benvenuti nell’isola di Pesach, un’isola di Pasqua in cui anche le misteriose figure scolpite nella pietra portano la kippah. La visita guidata al mondo alla rovescia di « Pagine Ebbraiche » – con due b: non è un errore di stampa, è la versione tutta da ridere contenuta nel prossimo numero del mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale – continua a Torino, all’interno in una Mole Antonelliana riportata alla sua destinazione originaria di sinagoga, come testimonia la prima pagina del locale « Corriere della Sara » (sic).
A fondo pagina i lettori più attenti alle nuove risorse della tecnologia possono trovare un articolo dedicato alla Buber app: « iPhone-you-Phone. Una nuova application ebraica consente ormai a tutti i devoti del grande pensatore Martin Buber di portare sempre nel taschino la sua filosofia dell’interrelazione fra l’Io e il Tu ». Semel in anno – in questo caso per Purim, la festa ebraica delle sorti che quest’anno cade domenica 20 marzo – licet insanire, e può accadere di scoprire, nell’editoriale del « Corriere » riveduto e corretto dai redattori di « Pagine Ebraiche », il contenuto del prezioso rotolo delle Micra-è Immaot (« Minime delle Madri ») – un rarissimo testo speculare alle Massime dei Padri rinvenuto nel deserto di Giuditta durante una campagna di scavi archeologici – composto da detti sapienziali in cui una mesta saggezza si fonde a uno spiccato senso pratico (« Lei diceva anche: se non sono io per me, chi è per me? E se a casa questa faccenda non la sbrigo io, chi lo farà? E se non ora, quando? »).
Un testo affascinante, chiosano i redattori del « Corriere » al femminile, ma dall’autenticità controversa: per l’ebraismo ultraortodosso « è certamente un falso frutto di una cultura edonistica, perché le madri dell’epoca non avrebbero potuto avere il tempo libero per scriverlo ».
In un altro intervento, semiserio ma non per questo meno acuto, si sottolinea il nesso tra l’umorismo e l’immensa misericordia di Dio, come dimostrano le Scritture. « Quanto tutto questo sia antico – si legge nell’editoriale, firmato rav Raggy Ics, rabbino capo e scienziato – lo dimostra il nome del secondo dei tre nostri patriarchi, Izchaq, che deriva dalla radice di ridere. La risata è quella della madre a cui viene annunciata una gravidanza a novant’anni. Avrebbe riso chiunque, anche se quella risata è un segno di poca fede davanti all’annuncio solenne di un miracolo. Ma l’incredulità anziché essere condannata si trasforma in un nome ».
La scommessa del prossimo numero di « Pagine Ebraiche » è scherzare « a templio perso » su se stessi e sul mondo per strappare un sorriso ai lettori, affiancando al vastissimo repertorio del cabaret yiddish la difficile arte della parodia: accanto ai cloni parodistici « Corriere della Sara » e « Ragazzetta Ufficiale », c’è pure « L’Osservatore Nostrano » che commenta il festival di Sanremo in un latino maccheronico esilarante, e « la Ripubblica » in versione enogastronomica in cui si citano le più importanti regole alimentari dell’ebraismo per ricordare che « non tutto il maiale viene per cuocere ».
« Non si può vivere di solo umorismo yiddish; di barzellette sugli ebrei – afferma Alberto Cavaglion nell’editoriale che introduce « Pagine Ebbraiche » – s’è scritto (forse) troppo ». Ci siamo dimenticati di un genere di scrittura, la parodia, dove la cultura ebraica ha lasciato maestri insigni. La parodia impone un discorso sul concetto di imitazione. Gli ebrei posseggono il genio dell’imitazione, scriveva Ahad Ha-Am: è nota la definizione di uomo come « animale mimetico » data da Disraeli.
In Italia basti fare il nome di Franca Valeri. La verità non si può imitare, dice Mendel di Kotzk nei Racconti dei Chassidim di Martin Buber, tutto il resto sì. I romanzi di Philip Roth e tanto cinema americano sono pieni di ragazzi costretti da genitori assillanti a imitare la voce della zia Rachele o di nonno Moshe. I Promessi sposi di Guido Da Verona, l’Antologia apocrifa di Paolo VIta Finzi hanno avuto vita lunghissima e migliaia di lettori. Guido Almansi e Guido Fink raccolsero il testimone e sempre da Bompiani pubblicarono Quasi come, esempio di parodistica comparata. La profondità della parodia è data dalla contiguità con due problemi interpretativi centrali nell’ebraismo: da un lato la questione dell’imitazione di Dio (Levitico, 11, 44), dall’altro il problema del divieto di farsi immagine. Non ci si fa immagine di nessuno, ma con la parola si può fare quello che con il pennello è proibito fare ».
Nel Novecento, spesso il pennello è stato sostituito dalla cinepresa, o dallo story board di una sceneggiatura; la presenza della tradizione ebraica nel cinema americano è nota, ma molto più radicata di quanto non si sia abituati a pensare, basti citare tra i produttori i Mayer, i Goldwyn, tra i registi Ernest Lubitsch, Billy Wilder, Joseph Mankiewicz, Otto Preminger, Steven Spielberg, tra i divi i fratelli Marx, Mel Brooks, Danny Kaye, Jerry Lewis, Joan Crawford, Lauren Bacall.
« Delle varie forme della cultura yiddish, quella che meglio si è trasmessa, meglio ha prolificato è stata proprio la comicità – scriveva Dario Calimani commentando un festival della comicità ebraica che si è svolto qualche anno fa – dagli anonimi creatori di storielle fino ai grandi comici americani di origine ebraica, c’è un filo ininterrotto. Dallo Shlemiel dei villaggi mitteleuropei, lo sciocco protagonista di infinite storielle fino ad arrivare a Woody Allen ». E oltre.
La vis comica di Vogliamo vivere (1942) di Lubitsch ha trovato una nuova giovinezza in Train de vie (1998) del regista rumeno di origine ebraica Radu Mihâileanu (suo padre Mordechai Buchman prese il nome Ion Mihâileanu dopo essere fuggito da un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale), ma resta di Jerry Lewis (alias Joseph Levitch) secondo Manuel Disegni, la battuta che meglio simboleggia la comicità ebraica americana, coniugando psicanalisi e nevrosi, incertezza identitaria e irrisione della normalità: « Allo psicanalista che gli ha appena diagnosticato uno sdoppiamento della personalità e presentato la parcella di cento dollari, il paziente risponde: « Gliene do solo cinquanta, gli altri cinquanta li chieda al mio doppio »". La vita è tutta un witz, scriveva anni fa Ranieri Polese parodiando la sigla della trasmissione Indietro tutta per descrivere il motto di spirito ebraico (witz), la battuta imprevista che se da un lato prende di mira le ingiustizie del mondo, dall’altro offre con la risata che provoca una sorta di compensazione a chi di quella ingiustizia è vittima: « Grazie a Dio, per quest’anno abbiamo già avuto il nostro pogrom » dice il padre del protagonista di Fievel sbarca in America (1986) un raro esempio di witz a cartoni animati.

Pesach

dal sito:

http://www.paoline.it/Conoscere-la-Bibbia/LE-FESTE-NELLA-BIBBIA/articoloRubrica_arb58.aspx

Pasqua ebraica

[FILIPPA CASTRONOVO]

Pesach, la pasqua ebraica era la festa più mportante, il fondamento di tutte le altre. Celebrava la liberazione dall’Egitto: il popolo era passato dalla schiavitù, alla libertà di servire Dio.Le feste nella Bibbia celebrano la fedeltà di Dio verso il suo popolo e la risposta che, in occasione delle feste, il popolo rinnova a Dio. Le feste sono perciò, il memoriale delle diverse tappe della storia della salvezza. Celebrandole il popolo rivive le radici della sua fede per riprendere il suo cammino con cuore rinnovato. Intorno ad esse è possibile costruire la storia biblica.
Il calendario ebraico comprende cinque importanti feste d’origine biblica. Tre richiedono il pellegrinaggio a Gerusalemme: Pesach o pasqua, Shavuot o pentecoste, Sukkoth o festa delle Capanne. E due feste penitenziali: Rosh Hashana o capodanno e Yom Kippur o giorno della purificazione.
Vi sono poi feste minori Purim o Sorti, collegata al libro di Ester per ricordare l’esito felice di una grave crisi che aveva colpito Israele e Yom Tov, vale a dire, giorno buono nel quale si gioisce dei piaceri del mondo dati da Dio e ci si dedica alla preghiera e allo studio, e la festa della dedicazione Hannukka, che ricorda la purificazione del tempio profanato dai pagani (1Mac 4,59).
Pesach (pasqua) è la festa più importante, il fondamento di tutte le altre (cfr Es 12,122; 13,1-9; Dt 16,1-8).
Si celebra il 14 del mese di Nisan (marzo–aprile) e può cadere in qualsiasi giorno dell’anno. Le sue origini si perdono nel tempo. Era la festa primaverile dei pastori per la nascita degli agnelli e dei contadini per il primo raccolto. Queste due feste si fusero nell’unica festa che celebra la liberazione dall’Egitto: il passaggio dalla schiavitù alla libertà di servire Dio.
Pasqua è detta anche festa delle azzime (mazzot).
L’uso del pane azzimo è legato alla convinzione che attribuisce al lievito il seme della corruzione. Ecco allora che il pane non lievitato assume significato di inizio completamente nuovo. Nella festa di pesach il pane azzimo ricorda che gli ebrei in fuga non ebbero il tempo di far lievitare il pane e mangiarono pane azzimo (cfr Lv 23,6). Il pane azzimo si mangia per tutta la durata della festa.
Il termine pasqua significa anche passare, scavalcare, salvare, zoppicare (Es 12,13.23.27). Gli Ebrei ricordano che il Signore vedendo il sangue dell’agnello, che avevano arrostito e mangiato in fretta, sugli stipiti delle loro porte, è passato oltre risparmiandoli dai flagelli che colpirono l’Egitto.
A pasqua si celebra, dunque, il Dio che ci ha liberati. E questo evento non può essere dimenticato.
Il comando del Signore è: “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come rito perenne” (Es 12,14). Celebrando il memoriale di pesach, ogni ebreo si considera salvato e liberato da Dio, come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto. “In quel giorno tu istruirai tuo figlio: E’ a causa di quanto il Signore ha fatto per me, quando sono uscito dall’egitto” (Es 13,8; Dt 16, 1ss).
Durante la celebrazione si cantano salmi, inni e il grande Hallel (Sal 136) e si bevono quattro coppe di vino. La prima si riferisce al qiddush (santificazione della festa); la seconda alla haggadah (la liberazione dall’Egitto); la terza è l’azione di grazie che conclude il pasto; la quarta, è quella dello hallel, i salmi di lode che concludono la celebrazione di questa sera speciale.
La tradizione rapporta le quattro coppe alle quattro espressioni adoperate dalla Torah al momento della promessa fatta da Dio a Mosé, di liberare Israele dalla schiavitù (Es 6,6-7):
« lo vi farò uscire dal paese d’Egitto, vi libererò dalla schiavitù, vi salverò con il braccio teso, vi prenderò come mio popolo”.

Da sapere che
La cena pasquale anche oggi si svolge secondo un preciso ordine detto Seder. Ci si nutre di cibi amari per ricordare l’amarezza della schiavitù egiziana e la stupore della libertà ritrovata.
Per celebrare la pasqua gli israeliti al tempo di Gesù ogni anno si recavano a Gerusalemme. Anch’egli vi si recava. La sua morte avvenne in occasione della pasqua ebraica. Egli è per noi l’agnello pasquale che risparmia dalla morte, il pane nuovo che rende nuovi (cfr 1Cor 5,7-8).

Filippa Castronovo

Publié dans:EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 14 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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