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L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (PRIMA PARTE)

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L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (PRIMA PARTE)

La fede cristiana nelle forme dell’arte

di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.

Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina

ROMA, martedì, 14 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Nell’arte è custodita un’allusione al divino e al paradiso: è questa una stupenda intuizione che N.V. Gogol espresse nel suo racconto Il ritratto del 1835, ma è questo anche uno dei tanti comuni e banali asserti che si ripetono, forse per assuefazione accademica o con ironica accondiscendenza. Si dimentica così che l’arte come scintilla del divino è una conquista della visione biblica della realtà: laddove la prospettiva del pensiero antico riconosceva nella bellezza una qualità dell’essere, la rivelazione biblica scopre un gesto personale di Dio creatore, che con gusto artistico dissemina nel cosmo le sue vestigia.
Atanasio, con sguardo estatico, vede nel mondo creato l’impronta della sapienza divina: «Ma se il mondo è stato organizzato con sapienza e conoscenza ed è stato riempito di ogni bellezza [d?a?e??sµata?], allora si deve dire che il creatore e l’artista [d?a??sµ?sa?ta] è il Verbo di Dio» (Oratio contra gentes, 40, in: PG, 25, 79-80D). Dio come artista precede ogni artista umano, che con i suoi strumenti aggiunge una pennellata di bellezza a questo mondo splendido, in cui la Sapienza ama trastullarsi accanto ai figli degli uomini (cfr. Sir 24,3-11; Gv 1,3.14).
Un’interessante dibattito si è innescato recentemente a partire da questi argomenti a proposito del nuovo Fonte battesimale, creato dall’Architetto e Designer Alberto Cicerone sotto la guida del Teologo Don Salvatore Vitiello per le celebrazioni nella Cappella Sistina. Ci si chiede infatti se l’arte sia capace non solo di rimandare genericamente al divino, ma possa in verità servire la fede della Chiesa nella sua vita liturgica.
Sembra superfluo ricordare che la produzione artistica si fa segno autentico del divino non per un suo vuoto sforzo di teoresi, ma nella misura in cui essa riesce a parlare di Dio, e in questi termini offre già un servizio ottimo al cammino di fede dell’uomo. Ma c’è da aggiungere che il ministero dell’arte non è affatto una soggezione che ne svilisce l’originalità, né la Chiesa si arroga un’autorità che definisca canoni e modalità espressive: al contrario «la Santa Madre Chiesa è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122).
Questa amicizia, che si potrebbe a buon diritto definire alleanza, ha come obiettivo eccellente un servizio a Dio e all’uomo, in una felice circolarità che non sminuisce nessun autentico valore umano, esaltando al contrario tutto ciò che di bello e di buono l’uomo è in grado di produrre, nel solco di quella creatività che tanto lo avvicina al Creatore-artista. Non esiste infatti  niente di «genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1): così ogni valore artistico di cui l’uomo è capace è di per se stesso una scintilla di vangelo, e per questo motivo appartiene anche all’indole del cristiano.
Il nuovo Fonte Battesimale è espressione artistica del nostro tempo e prodotto di uno sforzo di riflessione sullo spazio legittimo tra arte e liturgia operato nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
La forma innovativa non ha un riscontro nell’iconografia storica del fonte cristiano, ma si presenta come un segno gravido di rimandi biblici e liturgici e capace di parlare anche all’uomo di oggi, che in gran parte ha perduto i codici simbolici cristiani, ma sa ancora decriptare un messaggio iconografico che parli il linguaggio dei segni naturali.
La struttura è molto semplice, costituita da tre elementi, che finemente lavorati definiscono una composizione che attrae lo sguardo. La pietra calcarea funge da base alla struttura: essa è solcata da profonde incisioni, le quali tuttavia non richiamano la mano dell’uomo che lavora la roccia, ma l’azione del tempo, che modella le forme naturali in anatomie che parlano di storia eterna.
Nella pietra affonda le radici il bronzo dell’albero che la sovrasta: è un olivo giovane, ma già segnato da un suo percorso di vita che disegna il fusto contorto e slanciato verso l’alto, dove le ricche fronde, sempre verdi e abbondanti esprimono l’esuberanza dell’energia vitale che lo percorre, e dove sono nascosti ventiquattro frutti, che fanno corona alla sfera che si trova nel cuore della chioma. Viene da chiedersi se la rilucente sfera sia adagiata sui rami dell’olivo, oppure sorga proprio da quel tronco attorcigliato: la simbologia solare è tuttavia evidente, e risplende nella luce dell’oro di cui è rifinita. La sfera è cava, e si apre a metà, lasciando scoprire al suo interno l’alveo dell’acqua rigeneratrice del battesimo.
Cristo, sole nascente dall’alto (Lc 1,78; cfr. Liturgia delle Ore, Invocazioni alle Lodi mattutine della II domenica del salterio) siede in trono sull’albero della vita. In lui luce del mondo (Gv 8,12) sono immersi gli uomini per essere illuminati (Ef 5,14) e rinascere dall’alto (Gv 3,3.7), e diventare a loro volta luce (Mt 5,14; Gdc 5,31) in questo mondo immerso nelle tenebre, che attende un raggio di speranza.
Cristo è ad un tempo il volto di Dio e il volto dell’uomo su cui risplende la bellezza e la potenza del sole (Ap 1,16): avvicinarsi a lui, entrare nella fonte che lui apre nel proprio costato, equivale ad entrare nella sua orbita e lasciarsi trasformare dalla sua forza divina in un’umanità nuova, capace di contenere, senza rimanerne schiacciata, tutta la pienezza di Dio (cfr. Es 33,23; Gdc 13,22). Di questo sole è rivestita Maria (Ap 12,1), prima e perfettamente redenta, donna trasformata dalla grazia, madre di tutti i viventi che da quel sole attingono la loro energia vitale; di questo sole si veste anche la Chiesa (Ap 12,1; 22,5), splendente della luce del suo Signore (Preconio pasquale).
[Domani pubblicheremo la seconda ed ultima parte]
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Publié dans:ARTE |on 27 février, 2012 |Pas de commentaires »

L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (SECONDA PARTE)

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L’ARTE COME SCINTILLA DEL DIVINO (SECONDA PARTE)

La fede cristiana nelle forme dell’arte

di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.

Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina

ROMA, mercoledì, 15 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Israele, nella vitalità che la misericordia di Dio gli dona, sanandolo dalle sue infedeltà, possiede la bellezza dell’olivo verdeggiante (Os 14,7), e fonda la propria giustizia solo nella fedeltà di Dio alle sue promesse (Sal 52[53],10), nel suo affetto e nel suo cuore paterno che non dimentica l’alleanza di pace.
Questo olivo è il popolo che Dio si è scelto, la radice santa su cui sono innestate tutte le genti per mezzo della fede (Rm 11,11-24), ma solo in virtù della linfa vitale che gli deriva dalla radice vera dell’albero di vita che è Cristo stesso (Ap 22,16; Is 11,10; Gv 15,4-5). Egli è la radice cresciuta in terra arida (Is 53,2), nata sulla roccia senza vita della nostra umanità perduta. In virtù dell’offerta che il Figlio fa di se stesso sulla croce sgorga il fiume vivificante, sulle cui sponde crescono gli alberi sempre verdi e ricchi di frutti (Ez 47,1-12; Ap 22,1-2). Egli è ancora il nuovo albero della vita, che viene restituito ad Adamo dopo la riconciliazione (Ap 2,7; 22,14): nel legno della sua croce rifiorisce la vita che il peccato aveva spento.
Dio stesso è la roccia sicura, difesa e gloria del suo popolo (Dt 32,4; 1Sam 2,2; Sal 18[19],3; 31[32],3; Is 26,4), una roccia viva che genera Israele (Dt 32,18), e che si spacca, si apre per far scaturire acqua di vita (Es 17,6; Ger 2,13; Gv 4,10). I discepoli di Gesù riconoscono che egli era la roccia che nel deserto dissetò Israele (1Cor 10,4), quella roccia spirituale che ancora oggi continua ad aprirsi per donare l’acqua viva dello Spirito, anzi per far sgorgare le sorgenti di quest’acqua nel cuore degli stessi credenti (Gv 7,38), che battezzati in lui, diventano per mezzo di lui tempio dello Spirito di Dio (Ez 36,26).
Cristo è la piccola pietra che solo in apparenza è insignificante (Dn 2,34-35), una pietruzza che “si stacca dall’alto”, senza intervento di mano d’uomo: è Dio stesso che la invia per l’uomo, per poter ricostruire tutto secondo il progetto di Dio (Mt 21,42; At 4,11; Ef 2,20): i costruttori infatti l’hanno scartata, ma Dio vuole che diventi basamento di costruzione per la casa nuova dell’umanità nuova, contro la quale nessun attacco potrà portare distruzione (Mt 7,24-25). In lui anche i discepoli sono resi pietre vive, per la costruzione del tempio santo dove Dio desidera abitare in mezzo agli uomini (1Pt 2,4-5).
Questo breve e sintetico excursus che analizza la simbologia artistica in riferimento a quella biblica mostra come il messaggio sotteso dal linguaggio del Fonte battesimale utilizzato nella Cappella Sistina è duplice: ci parla di Dio e dell’uomo, parte sempre dal creatore per giungere alla creatura umana.
Ci dice come la realtà dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo non sia una semplice rivelazione di qualcosa di misterioso, ma una rivelazione misterica, invita cioè gli uomini a entrare dentro il mistero, a prendere parte da protagonisti alla storia della salvezza. In quel fonte comincia una vita nuova, che non avrà fine, e che segnerà per sempre la comunione tra Dio e l’uomo, in un’alleanza sponsale che nessuna forza potrà mai spezzare. Attraverso quel grembo la creatura umana accede nell’intimità di Dio e diventa come lui, partecipando al suo dono di vita, assumendo in sé il suo essere, e transumanando.
Il fonte trova collocazione nell’ambito delle celebrazioni che si svolgono nella Cappella Sistina, che con la sua sinfonia di affreschi fa da sottofondo alla liturgia celebrata dal Santo Padre. Se non si dà una corrispondenza sincronica o puntuale della triplice simbologia nel contesto iconografico della Cappella, molti rimandi allusivi ci consentono di trovare una sorprendente consonanza che illumina il linguaggio artistico.
Se alcuni particolari della creazione di Eva e del peccato originale, che si trovano nella volta, ci possono mettere sulle tracce dell’albero della vita secondo un’interpretazione tutta michelangiolesca, tuttavia è la simbologia solare che risalta immediatamente, ed anzi è la più evidente per la sua collocazione proprio sopra lo spazio celebrativo dell’altare: Cristo possente, attorno al quale, nel giudizio universale, si muovono tutti gli altri personaggi. È lui il centro della storia, quel sole di giustizia che sorge dall’alto, e che Michelangelo ha rappresentato nella sua aurora definitiva, la luce dorata che lo incornicia alle spalle, e che abbraccia anche Maria seduta alla sua destra.
Ci chiediamo se sia legittima la pretesa di aggiungere una nuova componente artistica in un contesto di così alto valore come la Cappella Sistina. La risposta è ancora una volta banale, ma non per questo meno vera: in momenti diversi della storia ed anche con contributi differenti la Cappella è stata arricchita.
Anche la mano degli artisti del nostro tempo ha diritto a partecipare a questa sinfonia che comprende consonanze e dissonanze di mirabile bellezza: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura.
Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 123; cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 3a ed., 289; Caeremoniale Episcoporum, 37). Nel suo contributo, che per certi versi ha anche il pregio di mantenersi umile, al contesto liturgico e artistico, il fonte parla il linguaggio della fede, quello della bellezza comprensibile e ricca di dignità, e con la sua originalità, concorre alla composizione del momento celebrativo senza sminuire, anzi esaltandola attraverso i riflessi, lo spessore della simbologia tradizionale che gli sta intorno.
Pare proprio che teologia ed arte possano tornare a dialogare.
[La prima parte è stata pubblicata ieri, martedì 14 febbraio: http://www.zenit.org/article-29565?l=italian]

Publié dans:ARTE |on 27 février, 2012 |Pas de commentaires »

La bellezza dell’alterità (sul tema delle Trinità)

dal sito:

http://www.suffragio.it/quaresimali/bellezza/bel5.htm

TORNINO I VOLTI:

La bellezza dell’alterità

[SUL TEMA DELLA TRINITÀ]

Francesco Scanziani

«L’inverno dei volti»
Via alla bellezza
La Trinità specchio dell’uomo
La Trinità di Rublëv
L’uomo imago Dei: antropologia trinitaria
Noi uguali: insopprimibile dignità
Noi distinti: la bellezza della singolarità
La bellezza della comunione
Il peccato: solitudine e divisione
Conclusione: dall’individualismo alla comunione

« L’inverno dei volti »
Un grido, o forse, meglio un’invocazione: «Tornino i volti». Il titolo insinua sin dall’inizio – con nostalgia – una mancanza: l’assenza dei volti. «Tornino i volti»1 suona così la preghiera e il desiderio dell’uomo moderno, malato di solitudine.
Un noto scrittore ortodosso, Olivier Clément, parla ormai di un «inverno dei volti». La distanza dei volti è segno della lontananza, della incomunicabilità. Più che sentire la bellezza dell’alterità, l’altro fa paura. «Gli altri sono l’inferno per me» scriveva Sartre. In effetti, molti ne sono i segnali. Si ha paura di guardarsi negli occhi: in ascensore o in metrò gli sguardi si incrociano furtivi e si abbandonano rapidamente. Si ha paura degli occhi dell’altro: una paura che trasforma lo sguardo in forza di dominio e non di comunicazione, in segno di « potere » sull’altro, con la forza o la seduzione. La condizione presente pare ben descritta da un antico adagio attribuito a un monaco delle origini, Macario il Grande, il quale definisce gli uomini decaduti come
«dei prigionieri incatenati in modo tale che non possano mai guardarsi in volto»2 .
Incapaci di guardarci negli occhi, perdiamo il luogo della nostra identità e della comunicazione e così «l’uomo passa negli oggetti»3 . Abbiamo « maschere », non volti: visi coperti, truccati, camuffati, per apparire tutti simili, omologati. Non a caso «nell’antica Grecia si chiamava uno schiavo aproposos, precisamente: colui che non ha volto»4 . Di fronte a tale lacerazione O. Clément denuncia ormai una «crisi della bellezza»5 , sintomo e frutto dell’«individualismo della società occidentale, della sua atomizzazione sociale»6 : l’uomo è diventato un’isola e la società, tutt’al più costituisce un arcipelago. Non interessa più la « persona », ma « l’individuo ».
«Nella sua Lettera a un ostaggio, Antoine de Saint-Exupéry nota che gli anarchici catalani che l’avevano catturato mentre faceva un’inchiesta giornalistica sulla guerra di Spagna, non guardavano il suo volto, ma la sua cravatta. Non è mai il volto che si guarda, ma il suo colore o la lunghezza dei capelli che lo incorniciano oppure ogni segno che permetta di classificare un uomo nella categoria degli aprosopoi (i senza volto)»7 .
Perciò, di fronte a una simile «rabbrividente solitudine» si assiste a maldestri tentativi di incontro che portano verso delle «fusioni impersonali», che non fanno vivere la persona, ma al contrario, illudendola, la annientano definitivamente.
Tale, purtroppo, pare il punto di partenza. Nonostante quell’insopprimibile desiderio da cui nasce l’invocazione – «tornino i volti» -, di fatto, rimane la paura dell’altro, e non l’evidenza della bellezza dell’alterità. Dove starebbe il suo fascino? In cosa risiede una simile bellezza?
Ma forse, sotto il timore dell’alterità, si cela una paura più profonda ed acuta: la paura di sé, la paura di non essere belli, l’angoscia di essere « brutti », di non piacere. Per quanto mascherata da linguaggi elaborati e dotti tale paura riecheggia di tanto in tanto in un dubbio: «Io sono amabile? Dov’è la mia bellezza? Io sono bello?». E, oltretutto, cosa centra l’altro con la mia bellezza!?!?
Affinché ritornino i volti occorre recuperare solidamente la bellezza della propria identità e, in questa, la bellezza del fratello.

Via alla bellezza
Come dare risposta certa a questa domanda? Dove placare il grido sordo e insopprimibile che si agita in noi? Non bastano gli sforzi di autopersuasione, coi quali si cerca di convincersi che bisogna accettarsi « così come si è ». Occorre anche sapere « perché » e « se » è possibile.
Come rispondere? La Buona Novella ci indica la Via: Gesù Cristo.
La Bellezza, infatti, ci parla di Dio; ma non solo: Dio ci rivela a noi stessi. Non troviamo la risposta da soli, ma la possiamo accogliere. Come scrive O. Clément:
«Il cristianesimo è la religione dei volti e solo il volto di Dio nell’uomo ci permette di decifrare il volto di ogni uomo di Dio, di decifrare, nella comunione dei santi, l’enigma dei volti che circondano l’uomo contemporaneo»8 .
Ecco lo sguardo propriamente cristiano: l’uomo trova il suo volto contemplando il volto di Cristo. «Ecce homo»: profeta suo malgrado, Pilato addita la verità dell’uomo – pur non sapendola vedere. Questo è l’uomo: Gesù Cristo. Nel NT la domanda «Chi è l’uomo?» rimanda e trova la sua risposta nell’uomo Gesù di Nazareth. Più precisamente in questo uomo: il Crocifisso9 .
Si è in questo modo ricondotti velocemente alle radici dell’antropologia cristiana, al criterio ermeneutico dell’antropologia teologica: l’uomo Gesù di Nazareth. Tale principio è stato formulato con efficacia in GS 22:
«In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo … Cristo, che è l’Adamo definitivo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
Gesù Cristo è la verità dell’uomo. E lo è con la sua stessa vita, con la sua storia, con la sua persona. Tale intuizione costituisce la chiave di lettura della visione cristiana dell’uomo, il punto di riferimento per comprenderne la bellezza. In definitiva, solo in Cristo si scioglie il mistero dell’uomo: sia il senso della libertà, che il suo fallimento; il cammino della vita e il dramma della morte. Cristo è la Via da seguire.
Ben coglieva B. Pascal la portata insopprimibile di questo nesso:
«Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo neppure noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo. Noi non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra morte, Dio, noi stessi. Così, senza la scrittura, che ha solo Gesù Cristo per oggetto, noi non conosciamo nulla e non vediamo che oscurità, confusione nella natura di Dio e nella nostra propria natura»10 .

La Trinità specchio dell’uomo
Proprio rivelando il volto di Dio, Gesù Cristo disvela anche il mistero dell’uomo; la risposta all’interrogativo «Chi è Dio?» risolve anche l’enigma sulla creatura. Poiché ha rivelato il volto di un Dio che è Trinità, qui ritroveremo il mistero della nostra identità! Per questo cerchiamo di illuminare il nostro discorso sull’uomo a partire dal « Volto di Dio », attraverso l’icona della Trinità di sant’Andrej Rublev (1360-1430 c.a.)11 .

La trinità di Rublëv
«La Trinità è specchio dell’uomo»: questa l’ottica con cui contempliamo quest’antichissima icona. Qui si ha la risposta alla domanda «chi è l’uomo?». Poiché l’uomo è imago Dei, occorre contemplare l’«originale» per cogliere la Bellezza racchiusa in noi: così – come scriveva Pascal – «diventiamo comprensibili a noi stessi».
Di fronte all’icona, però, non si dovrebbe parlare: occorre solo contemplare. O meglio, non si dovrebbe stare a parlare dell’icona: è l’icona che parla a noi. Anziché ragionare come di fronte a qualcosa di statico, da guardare distaccati, occorre lasciarsi guardare, lasciare che essa ci riveli. Occorre superare il timore, l’imbarazzo, un certo senso di « intrusione », per avvicinarsi come Mosè al roveto ardente. Allora ci si accorge che questa icona ci invita ad entrare, a sederci a mensa. Il banchetto, infatti, è aperto: il quarto lato, rivolto verso di noi, rimane libero, quasi un invito ad entrare, a sedersi e stare con la Trinità. Contemplare, pregare una simile icona significa accomodarsi e condividere questa mensa.
Vorrei semplicemente condividere la prima impressione che mi ha fatto dire stupito: «Ma sono uguali!». E non per un errore; non è piuttosto la verità del dogma trinitario – non solo dell’icona -: tre persone uguali e distinte?
Così l’icona ci parla di Dio: un Dio-Trinità, in cui tre Persone sono uguali e distinte e perfettamente in comunione. Alla luce di questa rivelazione di Dio si può scoprire anche la bellezza del volto umano.

- Uguali -
Nell’icona tutti e tre hanno lo stesso volto: uno sbaglio o non piuttosto la convinzione che si tratti del volto del Figlio? Gesù è l’unico Volto divino che abbiamo visto. Lui rivela e manifesta il volto del Padre (Gv 14,9: «Chi vede me, vede il Padre») ed ha insegnato che lo Spirito Santo plasma l’uomo, conducendolo alla conformità con Figlio.
Ma anche altri segnali rafforzano questa radicale uguaglianza. Ad es., il bastone del pellegrino, così lineare e preciso da diventare ormai lo scettro del potere divino; ma ancor di più il colore degli abiti: tutti portano un manto azzurro. Tutti particolari che concorrono a consolidare una convinzione: la comune natura divina. Sono tutti e tre Dio. Ecco l’uguaglianza!

- Distinti -
Nello stesso tempo, però, i tre rimangono inconfondibilmente anche distinti. Occorre del tempo per abituarsi e notare le differenze, ma queste non mancano. Ancora una volta il gioco dei colori degli abiti li differenzia e permette di identificare le diverse persone della Trinità. Nell’angelo centrale, infatti, azzurro è la veste superiore che ricopre l’abito marrone segno dell’umanità e della passione. È Gesù, il Figlio! L’azzurro sta « sopra » proprio ad indicare che Lui è la manifestazione della divinità, è lui a far vedere Dio all’uomo. Alla sinistra di chi osserva, invece, sta il Padre, di cui sin intravede appena il mistero della divinità, celato da un manto d’oro. Infine, anche nello Spirito Santo l’azzurro della divinità rimane è celato, ricoperta dal verde, dal colore della natura e della vita, segno del creato in cui è all’opera.
Oltretutto, anche la posizione li caratterizza: il Figlio e lo Spirito Santo si chinano maggiormente verso il Padre e con loro, alle spalle, anche l’albero e la roccia sono coinvolti in questa prostrazione, come se tutto il mondo fosse unito all’adorazione del Padre.
Per quanto uguali, dunque, ognuno rimane inconfondibile (inconfuse). Questo dice la singolarità delle persone.

L’uomo imago Dei: antropologia trinitaria
Uguali e distinti: ecco il volto di Dio. Questa è la bellezza della comunione divina e in essa si specchia la bellezza dell’uomo. Chi è l’uomo? Cosa si rivela della bellezza che è in ciascuno di noi e, tanto più, nell’altro?

Noi uguali: insopprimibile dignità
Stando di fronte all’icona, o meglio « dentro », un’altra (apparente) suggestione avvicina alla risposta. Rimanendo seduti a questa mensa e vedendo che tutti e tre i commensali hanno lo stesso volto, gli stessi lineamenti, si insinua infatti un dubbio: «Non avrò anch’io lo stesso volto? Non avrò anch’io il volto del figlio?!?».
È forse eccessivo? Solo una suggestione? O non è forse la verità che l’uomo è creato ad immagine di Dio, del Figlio? Creati in Cristo portiamo in noi i tratti del figlio! L’uomo è immagine di Dio: non è forse questa la bellezza di cui ci ha dotati il Padre?
Questa, dunque, la risposta cristiana alla domanda ineludibile del cuore umano: chi sono io? Da dove vengo e dove vado? «Figlio» (Lc 15,31) è la risposta ferma e trepida del padre che ridona la propria identità anche al figlio maggiore, lui che si era smarrito vivendo come uno dei servi («io ti servo» Lc 15,29). Alla domanda «Chi è l’uomo? Qual è la bellezza celata sul suo volto?» questa è la risposta dell’antropologia cristiana: l’uomo è imago dei, dunque, del Figlio. A fondamento di questa convinzione si torni a meditare i passi bellissimi di Rom 8, 28-30 e gli inni di Col 1 e Ef 1.
« Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli  » (Rom 8,28-29).
Ecco, il contenuto del disegno divino: la filiazione. Questa è la volontà di Dio: Dio vuole gli uomini come figli nel Figlio. Allo stesso modo Ef 1:
« Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà » (Ef 1,3-6).
Gesù Cristo rivela il mistero del progetto del Padre e, così, disvela la verità, la bellezza dell’uomo. L’uomo è creato ad immagine di Dio: ecco la buona notizia! Occorre lasciarsi rivelare da Dio la bellezza che c’è in noi! È dono. È il dono di Dio per ciascuno. «Figlio»: ecco la bellezza che c’è nell’uomo!
Per questo la Trinità si rivela specchio per l’uomo, ne rivela la verità. «Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?»: qui trovano pace e risposta gli aneliti di ciascuno. Ecco la bellezza, la grandezza di ciascuno. Ecco la dignità dell’uomo: anche noi tutti siamo uguali! E non semplicemente perché abbiamo la stessa natura umana, ma molto più perché siamo tutti creati ad immagine del Figlio, perché chiamati a diventare anche noi figli di Dio, per adozione. In questo modo, la Trinità rivela la bellezza del volto umano!
Questa è la risposta dell’antropologia cristiana, come già ha mostrato la Parola di Dio. Ma la consistenza di tale bellezza si illumina con efficacia in racconto autobiografico di don Tonino Bello, che commentando una frase del salmo 8 scrive così:
«Quell’anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta, dedicato alla Madonna dei Martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato alla dignità di Basilica Minore. La città era in festa, e per il singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di preghiera che si tenne nel santuario. Parlò con trasporto di Maria suscitando un vivo entusiasmo. Poi, prima di mandare tutti a dormire, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa.
Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica Minore. Gli risposi dicendo che «basilica» è una parola che deriva dal greco e significa «casa del re», e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l’altro disse che aveva studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re era per lui scontatissimo. E insistette testardamente: «Lo so che cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica Minore?»
Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatto una cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma, e Basiliche Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un’assemblea che mi interpellava, e davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull’argomento.
Mi venne, però, un lampo improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica Minore è quella fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne. L’uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica Maggiore è questo bambino, è quella vecchietta, è il Signor Cardinale. Casa del re!».
Il Cardinale annuiva benevolmente col capo. Forse mi assolveva per quel guizzo di genio. La veglia finì che era passata la mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada, commentammo insieme la serata, mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi.
Ma ecco che, giunti davanti al portone dell’episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c’era lui: Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, Basilica Maggiore o Basilica Minore?».
«Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire.
All’alba, volli andare a vedere se si fosse svegliato. Avevo intenzione di cantargliene quattro. Giuseppe riposava, sereno. Un respiro placido gli sollevava il petto nudo. Sotto le palpebre socchiuse luccicavano due pupille nerissime, e la barba dava al suo volto un tocco di eleganza. Forse stava sognando. Mi venne spontaneo rivolgermi al Signore e ripetere col salmo: «Lo hai fatto poco meno degli angeli».
Mi attardai per vedere se avesse le ali.
Forse le aveva nascoste sotto il guanciale»12 .
Essere immagine di Dio. Essere figli nel Figlio Suo Gesù: questa è la bellezza cui siamo chiamati. Questa icona ricordi a ciascuno la bellezza che è in noi. Anzi, ci ricordi che è incancellabile!
E forse, a questo punto, non occorrerà spendere ulteriori parole per ricordare che occorre « guardare in questo modo anche il fratello »: non ci sarà possibile, finché non avremo guardato così noi stessi.

Noi distinti: la bellezza della singolarità
Se l’uguaglianza dei volti dice la bellezza, la dignità insopprimibile presente in ogni uomo, la diversità di ciascuno iscritta già nella Trinità custodisce la singolarità delle persone: inconfondibili. L’icona dice a ciascuno: «Tu sei inconfondibile: unico, « distinto »».
Eppure, nonostante questo annuncio liberante, si deve constatare che l’uomo vive ancora cercando di « diventare come » gli altri, che ci si sforza di assomigliare a qualcuno, perdendo la ricchezza unica che si ha in sé. Siamo « immagine di Dio », perché tentare di diventare « la brutta copia » di qualcun altro? Perché vivere tanto angosciati dal confronto? Per questo l’altro appare un avversario, non un fratello; un ostacolo, non un figlio di Dio.
Ma l’icona non parla solo di noi. Ci ricorda nel contempo che anche gli altri sono inconfondibili e la loro diversità non è un ostacolo, ma un dono. Qual è l’originalità che c’è nel fratello?
Forse non è così scontato notare – o meglio, accettare – un piccolo particolare di questo discorso che la Trinità ci fa. Il fratello, è semplicemente « altro »: in questo sta la sua originalità e bellezza: né migliore, né peggiore. Semplicemente diverso! Si noti: distinti, ossia semplicemente diversi; né migliori né peggiori. Siamo noi, invece, a mettere gli aggettivi: fratello « maggiore » e fratello « minore », figlio « prodigo » e figlio « obbediente ». Il Padre, invece, vede solo figli. Finché non si scopre l’originalità che si ha in sé non si riuscirà ad accogliere serenamente quella degli altri. Eppure siamo chiamati a custodire l’originalità del volto, come commenta ad es. M. Buber:
«Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro – fosse pure la persona più grande – ha già realizzato. Quand’era vecchio e cieco il saggio Rabbi Bunam disse un giorno: « non vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco Bunam come Abramo? ». La stesa idea è espressa con ancora maggior acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: « nel mondo futuro non mi si chiederà « Perché non sei stato Mosè? »; mi si chiederà invece « Perché non sei stato Sussja? »»13

La bellezza della comunione
Ecco la Trinità è lo specchio dell’uomo, che rivela l’originalità del volto di Dio e, insieme, dell’uomo. Ma la Trinità conduce la risposta ad un livello ancora più profondo che permette di cogliere dove stia e si fondi non solo la bellezza insita nella libertà di ciascuno, ma contemporaneamente la bellezza dell’alterità, del fratello.
Uguali e distinti. Si noti il paradosso: logicamente ci si attenderebbe uguali « o » distinti: o sono uguali o sono diversi. Come è possibile? Il segreto, o meglio il mistero della Trinità sta in questo: tre persone uguali e distinte sono talmente unite nell’amore da essere un solo Dio. Il mistero ultimo della Bellezza di Dio sta in questo mistero di comunione piena che rende i tre, pur rimanendo inconfondibilmente se stessi, « uno ». L’amore è essere Uno! È la Bellezza di Dio! È la Bellezza della vita: chi intuisce questo intuisce la verità, non un’illusione. Per questo, chi afferma che l’amore è un’illusione non dice solo una bugia: dice un’eresia Trinitaria!
Coerentemente, alla luce della piena rivelazione della Trinità, si scopre definitivamente anche la bellezza dell’uomo, che include immediatamente anche l’alterità: anche l’uomo è fatto per la comunione. La diversità di ciascuno è fatta per la comunione. Questa è la verità ultima dell’uomo. Se l’uomo è imago Dei, ma di un Dio che è Trinità, ossia comunione di persone in se stesso, allora la verità dell’uomo è di esser fatto per la comunione, per la relazione. Dio in se stesso è relazione: così l’uomo. Questa è la verità dell’antropologia cristiana. Può essere illustrata in molti modi. Ad es. attraverso i testi genesiaci.
Genesi 1
Nel primo racconto della creazione, si afferma esplicitamente che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ma questa proprietà è detta dell’uomo e della donna, insieme: l’uomo, dunque, è creato ad imago dei non « isolatamente », bensì nella relazione.
«Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1,27) «… e Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).
La bipolarità sessuale, dunque,la diversità non è ostacolo, ma realizzazione, compimento dell’uomo! In definitiva, il racconto della creazione rivela che l’uomo sin dall’inizio è posto nella relazione. Alla luce del NT si potrà ulteriormente ribadire che, essendo l’uomo creato ad immagine di un Dio-Trinità, un Dio che in se stesso è relazione – e non monade-, l’uomo stesso, nella sua identità, è relazione. Questa stessa verità dell’uomo viene espressa in Gen 2 narrativamente.

Genesi 2, 18. 24-26
Poi il Signore Dio disse:
« Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile »… Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: « Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta ». Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.
Il racconto di Gen non solo presenta la creazione dell’uomo, ma in questa forma narrativa rivela chi egli sia, la sua natura e identità. Leggendo il testo unitariamente e non nella successione cronologica della narrazione – come se la creazione dell’uomo fosse avvenuta in una successione di momenti: prima l’uomo, poi il mondo, infine la donna – si comprende l’uomo creato in una triplice relazione: con Dio, con il mondo e con l’altro da sé (uomo o donna). La Parola di Dio non definisce, dunque, l’uomo a partire dai suoi « componenti » (anima e corpo), bensì nella sua intrinseca relazionalità. L’uomo è creato così, questo è ciò che lo definisce: l’uomo è relazione! L’uomo si dà entro questa trama di relazioni. Si noti: l’uomo è relazione, non « ha » delle relazioni. Ossia, la sua identità, il senso della libertà umana è data dalla relazione: non sono dei componenti, degli elementi aggiuntivi, delle qualità. Gli sono originarie e costitutive: sono ciò che lo definisce.
Tutto ciò, in positivo, rivela il senso della vita umana. Se l’uomo è relazione, la relazione si realizza e si vive nella comunione/amore. Questo è il senso della libertà. Per questo la persona si realizza pienamente solo amando, solo creando comunione. Non a caso, il racconto della creazione finisce con queste parole: « per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola » (v. 26). È la conclusione del racconto: come a dire che il vertice della creazione è la comunione. L’uomo è fatto per la comunione, per l’unione perfetta. Questo è il suo compimento, la sua realizzazione piena, la felicità. Qui, allora, si scopre perché l’alterità e per me bellezza! Questa è la verità dell’uomo: l’uomo è fatto per la comunione.

Il peccato: solitudine e divisione
La controprova si può aver andando al versante negativo – quello da cui, in realtà, eravamo partiti: il fallimento della relazione, il peccato (Gen 3).
Sia dal punto di vista letterario che teologico le pagine di Gen 2 e 3 sono indisgiungibili. Come a dire, anche strutturalmente, che la comprensione del peccato non si può dare prima di aver compreso la grazia. Il peccato, così non è mai la prima parola, ma sempre la seconda. Solo una volta capito chi è l’uomo si può anche comprendere la natura e la drammaticità del peccato. Solo alla luce del positivo, infatti, risalta il negativo. Sì, il peccato non è e non può mai essere il punto di partenza di un discorso cristiano (tantomeno l’ultima parola). E’ il bene a rivelare la natura del male: la grazia quella del peccato14 .
Il racconto di Gen 3, allora, appare come il chiaro-scuro di Gen 2. Infatti, se il primo testo descriveva l’uomo nelle sue relazioni fondamentali, questo secondo presenta la natura del peccato nel fallimento di questi rapporti.

Gen 2: la grazia
Gen 3: il Peccato
vv 4b-7: la relazione uomo-Dio
vv. 8-15: rottura della relazione uomo-Dio
vv. 8-17: la relazione uomo-mondo
vv. 17-24: rottura della relazione uomo-mondo
vv. 18-25: la relazione uomo-donna
v. 16: rottura della relazione uomo-donna

Il peccato rivela così la sua natura maligna: se l’uomo è relazione il peccato è divisione e separazione. Questa è la natura più intima e demoniaca del peccato: la rottura della relazione, dividere, ostacolare la comunione. Anzi, questa è la radice ed il senso di ogni peccato: dividerci da Dio, dagli altri, paradossalmente anche in noi stessi (cfr. Rom 7). L’uomo diventa un’isola e la comunità umana appare un arcipelago di solitari.
Non a caso, il principe del male è chiamato dalla Bibbia il dia-bolos: il divisore! Coerentemente effetto del peccato, segno e conseguenza di questa rottura del rapporto diventa la divisione e la solitudine.
A più riprese i padri insistevano su questa dimensione relazione dell’antropologia persa invece dall’individualismo moderno. Ubi peccata ibi multitudo – scriveva Origene – e Massimo il confessore considera il peccato come una separazione, una frammentazione o peggio una individualizzazione: «Satana ci ha dispersi» scrive san Cirillo. Efficace a questo proposito l’intuizione di Agostino che « gioca » con il nome Adam, facendone un acrostico:
«l’intuizione bellissima di sant’Agostino: egli racconta che il vecchio Adamo, il primo Adamo, ha spaccato l’umanità come una brocca in quattro parti: un pezzo se n’è andato ad oriente, uno a occidente, uno a nord e uno a sud. L’umanità è tutta scompaginata. Agostino gioca con un acrostico sul nome A.D.A.M., collegando le quattro lettere del nome con i quattro punti cardinali nella loro denominazione greca: A. come anatolè, Oriente; D. come diusis, Occidente; A. come arctos, Nord; M. come mesembria, Sud»15 .
Conclusione: dall’individualismo alla comunione
Se l’uomo creato ad immagine di Dio, ma di un Dio che è Trinità, trova qui la sua verità: di fronte a questa icona l’uomo si trova allo specchio!
Qui l’uomo scopre la verità ultima del proprio mistero. In questo volto, ciascuno si trova riportato alla dignità ultima, alla bellezza inalienabile che Dio stesso ha voluto per noi. E insieme, si fonda pienamente anche la bellezza dell’alterità: ad immagine della Trinità l’uomo è relazione, ciascuno è fatto per la comunione. Nessun uomo è un’isola. L’altro, dunque, – in qualche modo – « fa parte di me.
Per questo, la bellezza della vita si realizza nella comunione, in quell’incontro che lo sguardo dona e accoglie: come in Dio. La divisione, invece, crea solitudine e morte. Impedisce che gli occhi si incontrino. Come l’angelo decaduto:
«A Ravenna su un mosaico Lucifero è rappresentato come un angelo bellissimo, ma infinitamente triste, infinitamente nostalgico, perché vicino a Cristo e non vuole vederlo»16 .
Di fronte ad una visione individualistica dell’uomo propria dell’epoca moderna, la Trinità propone l’annuncio di una antropologia relazionale, solidale. La bellezza dell’uomo sta nell’essere imago dei: e poiché si è immagine di un Dio che è Trinità, tale bellezza dell’uomo si dischiude pienamente nella comunione.
«Tornino i volti». Dunque, torni l’altro, il fratello, perché l’altro non è ostacolo bensì « bellezza » anche per me! Certo, questo andrà contro alcuni luoghi comuni sulla libertà. Infatti, se la libertà si realizza nella comunione, ci si trova esattamente opposto di chi pensa: se mi lego non sono più libero. Se non altro, dopo questo tentativo di specchiarci nell’icona della Trinità, alla ricerca della Bellezza umana, vorremmo permetterci di insinuare un’ultima domanda: «Chi è senza legami è più libero oppure è semplicemente solo?»

NOTE:

1 I.Mancini,Tornino i volti, Marietti, Genova 1989; O.Clément, Il volto interiore, Jaca Book,Milano 1978, Id., Riflessioni sull’uomo, Jaca Book, Milano 1975
2 O. Clément, Il volto interiore, cit., 19
3 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, cit., 116
4 O. Clément, Il volto interiore, cit., 19
5 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, cit., 118. « Essa è separata dal bene e se il bene isolato,rende mediocre, la bellezza isolata conduce alla pazzia » (Ib.,115)
6 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, cit., 119
7 O. Clément, Il volto interiore, cit., 19
8 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, cit., 126
9 « In realtà, ciò che nel Nuovo Testamento è veramente nuovo e insieme scandalizza ogni umanesimo è la conoscenza del Dio vero e dell’uomo vero nel Crocifisso. » (J. Moltmann, Uomo, 40).
10 B. Pascal, Pensées, n.729 (548).
11 Per un’interpretazione dell’icona si veda: T.Spidlik – M.I. Rupnik, Narrativa dell’immagine, Lipa, Roma 1996,19-32;G. Garib, Le icone festive della chiesa ortodossa, Ancora, Milano, 218-219; P.N. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)1990; D. Ange, Dalla Trinità all’Eucaristia. L’icona della Trinità di Rublëv, Ancora, Milano
12 T. Bello, Scrivo a voi … Lettera di un vescovo ai catechisti, EDB,1992.
13 Cfr. M. Buber, Il cammino dell’uomo, 26-27.
14 « Se volete sapere che cosa è il peccato, non chiedetelo ad un peccatore ma ad un santo. Se volete sapere cosa è il peccato di origine non chiedetelo al primo Adamo, ma al secondo, che nella sua morte in croce ha manifestato il cuore veramente sanguinante di Dio », E. Guerriero, Editoriale in « Communio » 118 (1991),5-6.
15 Cfr. T. Bello, Laudate e benedicete, 21.
16 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, cit., 43. 
    

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La Santissima Trinità di Andrej Rublëv

dal sito:

http://www.orthodoxworld.ru/it/icona/10/index.htm

La Santissima Trinità di Andrej Rublëv

Tutti conoscono l’icona della Santissima Trinità di Andrej Rublëv: è una delle più celebri e misteriose espressioni della pittura mondiale. Così come la conosciamo noi oggi, questa grandissima opera dell’arte mondiale è apparsa agli occhi dei restauratori nel 1919.
Il soggetto dell’icona si basa sul capitolo 18 del libro della Genesi, dove si descrive Dio che, in forma di tre angeli, appare ad Abramo e a Sara sotto la quercia di Mamre. Molti santi Padri (S. Cirillo d’Alessandria, S. Ambrogio di Milano, S. Massimo il Confessore) erano convinti che in questo testo dell’Antico Testamento si parla dell’immagine della Santissima Trinità. Però prima di Rublëv, i pittori di icone dipingevano soltanto la scena della vita quotidiana: i tre angeli ospiti di Abramo e Sara, seduti a tavola all’ombra di una grande guercia. Il santo Andrej ha saputo invece incarnare nell’icona il dogma più importante del cristianesimo!
In che cosa si è rivelato lo straordinario genio di Rublëv? Guardiamo attentamente l’icona. Anzitutto osserviamo che Rublëv ha tolto le figure di Abramo e di Sara. Il ricco allestimento della mensa è stato sostituito da una sola coppa, indicata dall’angelo che sta in mezzo. La grande quercia si è trasformata in un piccolo albero. Così l’icona si può riconoscere, ma da essa sono scomparse tutte le cose temporali, lasciando posto a quello che è eterno.
Dio-Padre, Dio-Figlio, Dio-Spirito Santo. Nell’insegnamento ortodosso la Santissima Trinità è chiamata: consustanziale, indivisibile, fonte di vita e santa. Come rappresentare la Trinità in un’icona, senza perdere nessuno di questi nomi-concetti? Alcuni pittori d’icone dopo di Rubliëv disegnarono l’angelo che sta nel mezzo con la croce dentro l’aureola, come nelle icone del Salvatore. Però indicando il Dio-Figlio perdevano un’altra caratteristica: la consustanzialità della Trinità. Capendo che non si può disegnare l’angelo di mezzo differente dagli altri due laterali, altri pittori dipinsero le croci nelle aureole di tutti e tre, però questo peggiorava soltanto l’errore, perché la croce nel nimbo è assolutamente inammissibile nelle immagini di Dio-Padre e di Dio-Spirito Santo.
Rubliëv trovò una bellissima soluzione. La consustanzialità è trasmessa nella sua icona con il fatto che le figure degli angeli sono dipinte assolutamente nella stessa maniera, e tutte e tre hanno la stessa dignità. Ognuno degli angeli porta nella mano lo scettro, simbolo del potere divino. Però gli angeli non sono uguali: hanno diverse pose, diverse vesti. I vestiti dell’angelo di mezzo (la tunica rossa, il manto azzurro e la fascia sopra di esso) sono simili ai vestiti del Salvatore. Due degli angeli seduti a tavola con la testa ed il movimento del corpo sono rivolti verso l’angelo seduto alla sinistra. La testa di quest’ultimo non è chinata, il suo corpo non è in movimento, e il suo sguardo è rivolto verso gli altri due angeli. Il colore tiglio chiaro del suo vestito testimonia la sua dignità regale. Tutte queste cose indicano la prima persona dalla Santissima Trinità. Infine, l’angelo a destra porta un vestito di colore verde. Questo è il colore dello Spirito Santo, chiamato Datore di vita. Con pennellate leggere e impercettibili, il gran maestro ci mostra i volti della Santissima Trinità, ma facendo questo, non infrange il dogma della sua consustanzialità.
Anche l’indivisibilità è trasmessa nello stesso modo geniale. L’angelo di mezzo mostra la coppa sulla mensa. Se l’inclinazione del capo ed il movimento dei due angeli verso il terzo, quello a sinistra, li uniscono tra loro, i gesti delle loro mani sono rivolti verso la coppa eucaristica con la testa dell’agnello sgozzato, messa sulla mensa bianca, come su di un trono. Vediamo che gli angeli sono tre, ma la coppa una sola: essa crea il centro composizionale e sensibile dell’icona. E qui vediamo che i tre angeli dell’Antico Testamento si trovano in una conversazione senza parole, il cui contenuto è la sorte del genere umano, in quanto la coppa del sacrificio è simbolo del volontario sacrificio del Figlio!
L’icona, in cui non c’è né azione, né movimento, è piena d’ispirazione e di una pace solenne. Il pittore ha presentato qui la grandezza dell’amore sacrificale. Il Padre manda il Suo Figlio a soffrire per l’umanità, e il Figlio, Gesù Cristo, è disposto ad andare a soffrire e dare se stesso come sacrificio per gli uomini.
Nell’icona ci sono alcuni altri simboli: l’albero, il monte e la casa. L’albero, la quercia di Mamre, è trasformato da Rublëv nell’albero della vita e mostra che la Trinità è la fonte della vita. Il monte incarna la santità della Trinità, e la casa il fatto che Dio è il primo Costruttore di tutto. La Casa infatti si trova alle spalle dell’angelo con i tratti del Padre (Creatore, Iniziatore della Costruzione), l’Albero alle spalle dell’angelo di mezzo (il Figlio è la Vita) e il Monte alle spalle del terzo angelo (lo Spirito Santo).

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IL CRISTIANESIMO E LA DIFESA DEL BELLO, DEL VERO E DEL BUONO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26628?l=italian

IL CRISTIANESIMO E LA DIFESA DEL BELLO, DEL VERO E DEL BUONO

Un libro della Pannuti in difesa delle immagini sacre

di Antonio Gaspari
 
ROMA, lunedì, 9 maggio 2011 (ZENIT.org).- Le immagini sono al centro dei pensieri e dei progetti culturali e comunicativi dei tempi che viviamo. Non c’è mai stata nella storia un’epoca in cui si è fatto tanto uso delle immagini.
Sorge però il problema sul loro utilizzo, perché se usate per fini utilitaristici ed egoistici potrebbero confondere l’uomo fino a perderlo, piuttosto che farlo progredire e salvarlo.
Ma come si fa a distinguere tra un fine buono piuttosto e une fine riduzionista e meschino? E’ anche per rispondere a questa domanda che Francesca Pannuti ha scritto per le edizioni Fede & Cultura il libro “La difesa delle immagini tra ragione e Fede”.
Nel volume l’autrice ricorda la denuncia fatta dal Cardinale Joseph Ratzinger contro una cultura iconoclasta, la quale, pur accettando di essere invasa da immagini di ogni genere, ha spesso perso il gusto per l’immagine bella e significativa, dalla sfera artistica a quella letteraria, in particolare nell’ambito del sacro.
Per approfondire un tema di così grande attualità, ZENIT ha intervistato la Pannuti, laureata in Filosofia e autrice di diversi saggi.
Perché le immagini sono da difendere e quali immagini lei intende difendere?
Pannuti: Joseph Ratzinger, nel suo “Introduzione allo spirito della liturgia”, denuncia il declino culturale e religioso seguito all’Illuminismo, foriero di un “nuovo iconoclasmo”, in cui «noi, oggi, non sperimentiamo solo una crisi dell’arte sacra, ma una crisi dell’arte in quanto tale, e con un’intensità finora sconosciuta. La crisi dell’arte è un altro sintomo della crisi dell’umanità. […]. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito» (p. 126). Tale condizione colpisce sia l’immagine pittorica che quella letteraria, sia sacra che profana, fino a toccare le più intime fibre della nostra spiritualità, laddove ci si forma una qualche rappresentazione di Dio e del nostro rapporto con Lui.
Se nell’arte sacra sempre più spesso la figura umana appare disgregata in un’accentuazione esasperata di colorazioni sgargianti, nella teologia e nell’esegesi biblica si verifica un processo paradossale. Da un lato, spesso si avverte una certa insofferenza per le forti immagini scritturistiche e si cade in una predicazione dai toni moralistici, d’altro lato, a motivo dell’influenza delle impostazioni fenomenologiche ed esistenzialiste, ossia immanentiste, si vorrebbe superare il pensiero e il linguaggio metafisici, considerati astratti e obbiettivanti, mediante un linguaggio poetico che renda possibile l’“apertura” ad un’ulteriorità che pare attingibile solo in una sfera preconcettuale, vale a dire attraverso il simbolo.
Si finisce però per l’allontanare sempre di più il divino in un indefinito “totalmente Altro”, inattingibile dalla nostra ragione, e per esaltare in modo indebito il simbolo, non comprendendo che dove tutto è simbolo anche l’immagine significativa finisce per perdere valore come nel caso del processo di demitizzazione. I miti antichi, ormai considerati desueti e inadatti alla mentalità moderna, verranno, in tal modo, sostituiti con nuovi miti: Jung rispose all’accusa di aver “psicologizzato” il cristianesimo, affermando che “la psicologia è il mito moderno e che la fede si può comprendere solo mediante tale mito”. Per fare ciò occorre mettere in discussione, come denunciato dall’enciclica Pascendi Dominici gregis, l’ispirazione divina delle Scritture. Pertanto, credo che sia urgente ricuperare il vero valore dell’“immagine” in quanto tale, rifacendoci anche a quanto san Tommaso afferma: «l’autore della sacra Scrittura è Dio, il quale ha potere non solo di applicare le voci a significare qualcosa (cosa che può fare anche l’uomo), ma anche le cose stesse» (Summa Theologica, I, q. I, a. 10, co.). E’ su questo che si fonda l’interpretazione spirituale oltre che letterale della Bibbia, la quale ci permette di leggere con gli occhi dell’anima il messaggio di Amore e salvezza di Dio.
Il cristianesimo si distingue nella storia per aver difeso fin dal primo Concilio le immagine sacre. Perché?
Pannuti: «Il secondo concilio di Nicea – afferma ancora Ratzinger – e tutti i sinodi posteriori che hanno trattato delle icone vedono nell’icona una professione di fede nell’Incarnazione e considerano l’iconoclasmo come una negazione dell’Incarnazione, come la somma di tutte le eresie». Il rifiuto dell’immagine si oppone all’uomo come immagine di Dio creatore e al Figlio come immagine perfettissima del Padre. La diffidenza gnostica nei confronti della creazione si estende, anche in questo ambito, alla corporeità e all’Incarnazione. Invece in una corretta visione cristiana, «il Figlio di Dio poté incarnarsi nell’uomo, perché l’uomo era già stato pensato in sua funzione, come immagine di Colui che è, a sua volta, icona di Dio – continua Ratzinger -. […] Proprio allora diventa chiaro che i sensi appartengono alla fede, che il nuovo modo di vedere non li sopprime, ma li porta alla destinazione originaria. L’iconoclasmo si poggia ultimamente su una teologia unilateralmente apofatica, che conosce solo il totalmente ? altro di Dio, che è al di là di tutti i pensieri e di tutte le parole, così che, alla fine, anche la rivelazione è vista come il riflesso umanamente insufficiente di Colui che resta sempre inafferrabile. Allora la fede viene meno. La nostra forma contemporanea di sensibilità, che non riesce più a cogliere la trasparenza dello Spirito nei sensi, porta quasi necessariamente alla fuga nella teologia puramente “negativa” (apofatica): Dio è al di là di ogni pensiero, e per questo tutto ciò che possiamo dire di Lui e tutte le forme delle immagini di Dio sono allo stesso tempo valide e indifferenti. Questa umiltà apparentemente profondissima di fronte a Dio diventa, già di per se stessa, superbia che non lascia più la parola a Dio e che non gli concede di potersi fare realmente presenza nella storia. Da una parte si assolutizza la materia e, al stesso tempo, la si dichiara impermeabile per Dio, materia pura, privandola così della sua dignità» (pp. 119, 120).
Un’altra caratteristica della religione cristiana è quella di proporre la via Pulchritudinis, ovvero la ricerca di Dio attraverso la bellezza. E’ questo che lei intende spiegare nel suo libro?
Pannuti: Se torniamo a considerare che il vero, il bello e il bene non sono schemi della nostra mente, bensì attributi dell’ente, del reale, ricominceremo ad aprire il nostro pensiero alla contemplazione del creato, che rimanda, attraverso il vestigio e l’immagine, al Pulcherrimus, al Bello per eccellenza, Dio. «Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, – dice Benedetto XVI nel Discorso agli artisti del 21 novembre 2009 – l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, [...]. Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica».
Nel libro lei propone il sapiente uso delle immagini, proposto da sant’Antonio di Padova. Può spiegarci di che cosa si tratta?
Pannuti: Il Santo dei miracoli, facendo della penitenza, del sacramento della Confessione il centro della sua predicazione, ha riempito le piazze, diffondendo una dottrina rigorosa, solidissima, in mezzo alle insidie tese dai catari. Egli, che conosceva a memoria le Scritture, l’ha presentata proponendo le immagini bibliche, ben interpretate, e senza depauperarle della loro “fisicità”, stabilendo arditissimi collegamenti tra immagini simili tratte da contesti molto diversi. L’efficacia di tale predicazione fu di aver consolidato una fede vissuta e di aver affascinato i cuori con la Bellezza della Verità e la dolcezza della misericordia divina.
Come fare per contrastare il relativismo moderno in cui la Bellezza viene distorta svilita, mercificata, deificata?
Pannuti: San Bonaventura nel suo Lignum vitae afferma: “l’immaginazione aiuta l’intelligenza”. Sull’esempio dei grandi Dottori medievali, occorre, nel recupero della metafisica dell’essere, ridare respiro e ampiezza al pensare, così che esso sia nuovamente in grado di volgersi al Suo oggetto proprio, il Vero, tanto strettamente unito al Bello e al Bene, in un saldo e ben ordinato rapporto con l’affettività e l’immaginazione. Queste ultime, se correttamente individuate nelle loro caratteristiche e funzionalità proprie, potranno fornire grande slancio alla ragione, come pure alla Fede, e infine ad un’arte rinnovata, a condizione che tutto ciò sia solidamente ancorato al Lógos creatore, fatto Uomo. In tal modo, potremo ricuperare speranza verso il futuro, fiducia nelle nostre capacità e nell’Amore di Dio.

Publié dans:ARTE |on 9 mai, 2011 |Pas de commentaires »

MARC CHAGALL E GLI ANGELI

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25656?l=italian

MARC CHAGALL E GLI ANGELI

di don Marcello Stanzione

ROMA, lunedì, 21 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Nel ventesimo secolo nessun artista ha dedicato tanta attenzione agli angeli quanto Marc Chagall. Moshe Zacharovix Sagal (questo il suo vero nome) nasce a Vitebsk (Bielorussia) nel 1887, da una modesta famiglia di cultura hassidico-ebraica, cioè appartenente al movimento mistico che privilegia il rapporto diretto con Dio e la meraviglia contemplativa per i benefici della vita terrena. Studiò a San Pietroburgo con Bakst che gli fece conoscere la pittura di Cèzanne, Gauguin e Van Gogh.
Nel 1910 recatosi a Parigi, si legò con gli intellettuali d’avanguardia ed incontrò Lenin e Lunacarskij che in seguito divenne ministro della cultura sovietica. Nel 1914 ritornò in Russia ed espose i suoi dipinti che riecheggiavano una mitica vita di villaggio e il rituale ebraico nelle mostre d’avanguardia. Nel 1917 aderì con entusiasmo alla rivoluzione e l’anno seguente fu nominato commissario di belle arti nella sua città natale dove fondò un’accademia invitandovi pittori costruttivisti e suprematisti che però finirono per prevaricarlo costringendolo a ritirarsi a Mosca dove fra il 1919 e il 1921 eseguì pitture murali e il sipario del Teatro d’Arte ebraico.
Tornato a Parigi nel 1922 dipinse nature morte con fiori e figure, eseguendo pure una serie di mirabili incisioni per la Bibbia. Nel 1933 alcune sue opere furono bruciate dai nazisti su ordine di Goebbels. In questo periodo prevale nella sua pittura il tema simbolico della crocifissione. Nel 1945 curò l’allestimento dell’uccello di fuoco di Stravinskij e due anni dopo terminò la caduta dell’Angelo che è un vero repertorio dei suoi temi pittorici prediletti. Rientrato dagli Stati Uniti si stabilì in Provenza dove si dedicò alla ceramica e alla scultura iniziando grandi opere monumentali integrate con lo spazio architettonico. Morì nel 1985 a Saint-Paul-de-Vence.
Pittore atipico, a suo modo slegato dalle impetuose correnti dell’epoca, Chagall è portavoce fino in fondo di una sua personale sensibilità interiore. In un momento storico in cui tutto doveva essere appartenenza, fortemente relazionata ad idee e movimenti (che fossero artistici, politici o culturali), egli riesce a rimanere ancorato alle realtà profonde dell’animo umano, legato fino alla fine al semplice mondo contadino dei villaggi ebrei dell’Europa dell’est, quel mondo che, ormai cancellato, annientato e spazzato via dalla criminale follia nazista, l’artista ci restituisce attraverso le sue tele.
Trasferitosi poco più che ventenne a Parigi, precedentemente allo scoppio del primo conflitto mondiale, conosce le nuove correnti pittoriche e di pensiero, interessandosi in particolare al Fauvismo, per i colori forti e complementari, ed al Cubismo, per lo stile compositivo. Nelle sue opere, pertanto, si accordano cultura ebraica e avanguardie internazionali. I temi del suo bagaglio simbolico, però, nascono dalla sua esperienza interiore, dal suo fantasticare che unisce pittura e poesia, mentre l’allungarsi delle figure, liberate dalla gravità newtoniana, e il rifiuto della prospettiva si ricollegano alla tradizione bizantina delle icone russe. Chagall, fin dalla sua prima giovinezza, ha avvertito una forte attrazione nei confronti delle Sacre Scritture: “Mi è sembrato e mi sembra tuttora – afferma, riferendosi alla Bibbia – che questa sia la principale fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora, ho sempre cercato questo riflesso nella vita e nell’arte”.
Il discorso sull’opera religiosa di Chagall è alquanto complesso. Egli racconta che un angelo gli apparve, a Pietroburgo, e ne descrive l’esperienza nelle sue memorie. Questo episodio, fondamentale nella sua formazione poetica, è riprodotto, sulla traccia iconografica dell’Annunciazione, nella grande tela dell’Apparizione, dove egli si raffigura seduto al lavoro, con la testa girata per guardare ispirato verso un angelo, maestoso e quasi invisibile, che riempie la parte destra della composizione. L’angelo si fonde, in una raffigurazione quasi cubista, con il mondo fenomenale del pittore; il contorno del corpo è assorbito dalla grande nuvola, di cui la creatura e la stanza sembrano una parte. L’angelo appare al pittore mentre è al cavalletto e la tela che sta dipingendo rimanda a quella, compiuta, che stiamo vedendo. Quindi il sogno dell’opera è l’opera stessa, cioè l’ispirazione del poeta.
Chagall doveva avere quest’immagine ben ancorata in testa, dipingendola come l’ha presente nella memoria, perché il lavoro preparatorio dell’opera non comporta nessun abbozzo per la parte destra del quadro riguardante lo spirito celeste. In un altro grande quadro, “La caduta dell’angelo”, al quale l’artista lavora per più di un ventennio, dal 1923 al 1947, un angelo rosso sta cadendo sulla terra dove gli uomini continuano a commettere i loro orrori indisturbati. L’angelo può rappresentare infinite emozioni: la purezza, la bellezza, l’armonia, l’utopia, la sacralità e in alcuni casi (come in questo) la disperazione. A determinare il significato dell’immagine inserita sulla tela, è il contesto in cui la figura è collocata, insieme alla pioggia dei simbolismi adiacenti: in basso a destra, troviamo Cristo in croce, una Madonna con bambino, ed una candela. In alto a sinistra, Chagall stesso non ha più parole dinanzi all’indicibile e si rappresenta steso a terra con la tavolozza abbandonata.
“Il martirio di Gesù è il martirio del mio popolo in questi anni”, risponde a quanti accusarono di aver inserito simboli cristiani all’interno della sua opera. Sotto, un rabbino che protegge il rotolo della Torah, o forse Mosè con i 10 comandamenti; più al centro, il volto di un animale, un sole giallo sporco e pallido, un violino. Ma in alto c’è un orologio a pendolo, segno che tutto scorre comunque e inesorabilmente sotto il potere del tempo che controlla il trascorrere della vita dell’uomo, nella sua inutilità e nonostante le sue preghiere. I colori sono forti ed espressivi tanto quanto le linee, le figura e le simbologie. L’immagine dell’angelo cade incontrollata al centro del quadro. La visione apocalittica della figura rossa fiammeggiante che si abbatte sull’umanità indifesa, trafiggendo la notte, riassume tutti i temi di Chagall, acquisiti con l’esperienza degli orrori della guerra nel suo ultimo drammatico decennio.
Tra il 1935 e il 1956, Chagall realizza il ciclo del “Messaggio Biblico” raccolto nel moderno museo di Nizza: 17 grandi tele, 194 incisioni e guazzi che rappresentano scene della Genesi, l’Esodo e il Cantico dei Cantici, e poi sculture, mosaici, arazzi, una sala per concerti con grandi vetrate. L’artista avvicina la Bibbia con un atteggiamento molto poetico, vedendola come una grande storia, un racconto pieno di episodi stupefacenti, di figure mitiche e di eventi sovrannaturali. Più che illustrare, come ha fatto Doré, egli reinventa il testo con il criterio della sua fantasia e sceglie le figure e gli episodi sulla base delle emozioni che sono in grado di trasmettergli. Egli scriveva: “La Bibbia è come una risonanza della natura e io ho cercato di trasmettere questo segreto. Questi quadri, nel mio pensiero, non rappresentano il sogno di un solo popolo, ma quello dell’umanità”.
La creazione dell’uomo è la prima delle 17 grandi tele. Chagall mostra Adamo addormentato nelle braccia dell’angelo e inconsapevole di quanto sta accadendo. Più in alto sta la sfolgorante girandola della Creazione, che culmina nella crocifissione di Cristo, tema che compare sovente nelle opere di Chagall dopo il 1939, quale simbolo universale della sofferenza umana e, forse, della speranza di riscatto dell’umanità. Proprio nell’accostamento tra il sacrificio di uno e quello dei tanti si compie l’identificazione tra giudaismo e cristianesimo: il suo Cristo ha smesso il perizoma della tradizione pittorica occidentale per cingersi del tipico manto ebraico, il “Tallit” (come, del resto, si vede anche nel Crocifisso della Caduta). Fedele al divieto di rappresentazione, Chagall si limita a suggerire la presenza divina con la luminosità dei bianchi e dei gialli con le mani che sbucano da una nuvola, circondata da altre piccole figure angeliche. Scegliendo di costruire la sua opera a piccoli tocchi, a schegge iridate, l’artista accorda una materia luminosa e nebulosa a una spiritualità della Rivelazione: Dio si nasconde in questa nuvola e si mostra come Luce. A questa maniera effusiva il pittore dà una struttura rigorosa: linee diagonali portano l’uomo verso il cielo e sostengono il suo incontro con l’angelo. Alla diagonale, sono associati il cerchio e l’elisse, attivi portatori di un senso di armonia tra l’uomo e Dio. Ogni opera del ciclo è organizzata intorno all’incontro fra un uomo profeta, patriarca Dio e trasmette il messaggio che sta alla dell’opera di Chagall: “Ho voluto lasciare in questa casa i miei dipinti perché gli uomini vi possano cercare e trovare una certa pace, una certa spiritualità, un senso della vita…”.
L’incontro di Abramo con gli Angeli appare diverso dagli altri quadri del ciclo: è l’unico dipinto in una monocromia rossa, ed è anche l’unico in cui né il cerchio né la diagonale sostengono la composizione, ma dove, invece, una rete di verticali e di orizzontali severe determina l’organizzazione del quadro. Ciò rivela la preoccupazione diversa di dare alle ali dei tre angeli tutto lo splendore possibile. Il grandissimo effetto dello sfondo rosso è, infatti, di sporgere gli angeli verso lo spettatore; in questo modo gli angeli svolgono completamente la loro funzione di messaggeri, non solo tra Dio e l’uomo Abramo, ma anche tra quel mondo impalpabile di pittura e noi, che lo contempliamo. La lotta di Giacobbe con l’Angelo, è un episodio centrale della storia del Patriarca. Nel lungo combattimento mistico che l’uomo ha con l’angelo, Chagall sceglie il momento della riconciliazione. Le opere del “Messaggio Biblico” sono state donate dall’artista alla Francia con questa dedica: “Ho voluto dipingere il sogno di pace dell’umanità…Forse in questa casa verranno giovani e meno giovani a cercare un ideale di fraternità e d’amore come i miei colori l’hanno sognato. Forse non ci saranno più nemici… e tutti, qualunque sia la loro religione, potranno venire qui e parlare di questo sogno, lontano dalla malvagità e dalla violenza. Sarà possibile questo? Credo di si, tutto è possibile se si comincia dall’amore”. “Lavorare è pregare” affermava Chagall. E dalla preghiera emergevano meravigliose immagini di un sogno tutto spirituale.

Publié dans:ANGELI ED ARCANGELI, ARTE |on 21 février, 2011 |Pas de commentaires »

Il testo biblico (Ef 6,10-20) (da « Pregare con l’icona)

Il testo biblico (Ef 6,10-20) (da

dal sito:

http://www.piccoloeremodellequerce.it/gliko/Preghiere%20con%20l

‘icona/san_Pancrazio.htm

(DA: PREGARE CON L’ICONA)

INTRODUZIONE

 La riscoperta delle icone orientali è uno dei frutti più vistosi della comunione spirituale tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente. Oggi le icone sono un po’ dappertutto: nelle chiese, nelle cappelle, nelle abitazioni. Sono l’angolo bello, il luogo della chiesa domestica, l’armoniosa presenza della continuità fra liturgia e vita che rendono familiare la comunione con i santi, con Cristo, con la Madre di Dio e invitano alla preghiera. Se vogliamo andare al di là della moda, le icone diventano ambienti di preghiera contemplativa, quindi un forte invito al raccoglimento, una presenza che attira, una via alla contemplazione del mistero.

Questa icona in particolare raffigura il giovane martire Pancrazio, ritto in piedi con l’armatura di soldato, in un’ambientazione tutta d’oro. Sullo sfondo, le montagne, dalle quali svetta la croce del martirio. Ai suoi piedi, il Maligno nell’immagine apocalittica del drago e, in alto a sinistra, la mano benedicente di Dio che fuoriesce dal globo.

L’icona presenta il grande tema della lotta contro il male e ne annuncia la vittoria definitiva grazie al sangue di Cristo che, per mezzo della croce, ha schiacciato il capo del nemico antico (cfr. Ef 2,13-19, Gn 3,15-3; Sal 68,22

Il testo biblico (Ef 6,10-20)

«Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere».

E’ sul fondamento della Scrittura che si radica il tema della lotta – la panoplia – contro “i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Già l’Antico Testamento infatti presenta Jahvé come un guerriero “che prenderà per armatura il suo zelo e armerà il creato per castigare i nemici; indosserà la giustizia come corazza e si metterà  come elmo un giudizio infallibile; prenderà come scudo una santità inespugnabile; affilerà la sua collera inesorabile come spada e il mondo combatterà con lui contro gli insensati” (Sap 5,17ss). Ora l’Apostolo Paolo, riecheggiando questa simbologia, esorta i cristiani ad equipaggiarsi adeguatamente per affrontare il combattimento spirituale, identificando l’esistenza dell’uomo con un campo di battaglia in cui si schierano, in lotta perenne, il bene e il male.

Ma chi sono veramente gli avversari contro cui ferve la lotta? I demoni, con a capo Satana, la cui forza distruttiva cerca di soffocare la speranza dell’uomo ed impedirgli di guardare in alto. La Bibbia indica l’influsso del Maligno sulla storia con termini impressionanti:

è “il principe di questo mondo” (Gv 12,31);
“il grande drago, il serpente antico…che seduce tutta la terra” (Ap 12,9);
“omicida fin da principio…e padre della menzogna” (Gv 8,44),
“colui che della morte ha il potere (Eb 2,14);
“colui che domina tutto il mondo” (1Gv 5,9).

Bisogna dunque vedere in lui “un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore” (Paolo VI) che, attraverso un’illusione di vita, organizza sistematicamente la perdizione e la morte. La lingua mobile e lo sguardo trasversale, non diretto, del drago che qui lo rappresenta, ne esprime bene la forza seduttrice che inganna con le sue macchinazioni subdole e perverse.

Tuttavia, se è pur vero che siamo fragili e vulnerabili e se è inquietante la forza del male e tremenda la lotta contro le sue insidie, molto più potente, anzi infinitamente più potente, è la forza che viene da Dio in Cristo Gesù. E’ lui “il più forte” (Lc 11,22) che viene – e viene continuamente nella nostra vita! – per vincere il Maligno, strappandogli l’armatura  iniqua della malvagità nella quale confida per manipolare e traviare il cuore dei credenti. Possiamo vincere infatti solo ricorrendo “al più forte di lui”, consapevoli d’aver bisogno del sostegno divino perché la nostra volontà non ceda dinanzi all’astuzia del male. Non a caso l’Apostolo Paolo ci esorta ad attingere potenza nel Signore e nella forza del suo vigore pregando incessantemente. La preghiera è infatti è come una cerniera che unisce e rende salda in noi l’armatura di Dio.

Di questa armatura è equipaggiato il giovane martire Pancrazio, come dimostra la sua stessa vita consegnata fiduciosamente alla morte per la fede in Cristo. Ecco come ce la presenta la Leggenda aurea:

« Pancrazio era di origine nobilissima. Perse i genitori in Frigia, e fu lasciato sotto la tutela dello zio Dionisio. Rientrarono tutti e due a Roma, dove avevano vasti possedimenti. Proprio in quella zona si stava nascondendo, con i suoi fedeli, il papa Cornelio. Dionisio e Pancrazio ricevettero da lui la fede. Dionisio più tardi morì in pace. Pancrazio invece fu catturato e portato al cospetto dell’Imperatore. Aveva allora circa quattordici anni. Diocleziano gli disse: Ragazzetto, stai attento, che rischi di morire male. Tu sei giovane, ed è facile che ti ingannino; sei di famiglia nobile, e sei stato un caro amico di mio figlio. Voglio da te che tu lasci perdere questa pazzia, e ti considererò come uno dei miei figli. Pancrazio rispose: Anche se il mio aspetto è quello di un ragazzo, il cuore che ho in petto è quello di un uomo maturo. A noi cristiani, per virtù del mio Signore Gesù Cristo, la vostra prepotenza fa paura né più né meno che questi dipinti che noi vediamo. I tuoi dèi, quelli che mi vuoi spingere ad adorare, sono degli impostori; si stupravano tra fratelli, e non risparmiavano neanche i genitori: se tu vedessi far cose simili ai tuoi servi, li faresti subito uccidere. Mi stupisco anzi come tu non ti vergogni ad adorare dèi del genere. L’imperatore, sentendosi battuto dal ragazzo, lo fece decapitare lungo la via Aurelia; era attorno all’anno 287 dopo Cristo. La senatrice Ottavilla fece seppellire il suo corpo.

Dice Gregorio di Tours che se qualcuno giura il falso presso il suo sepolcro, prima di arrivare al cancello del coro, o è preso dal demonio o esce di senno, oppure cade a terra e muore subito. Successe una volta che due persone ebbero una grave lite. Il giudice, che già sapeva bene chi era il colpevole, preso da uno scrupolo di giustizia, li portò davanti all’altare di Pietro, e là il colpevole cominciò a protestare la sua innocenza ­quella che fingeva di avere. Chiese all’apostolo di indicare con un qualche segno la verità. Avendo lui giurato e non essendogli successo nulla, il giudice, che conosceva bene la malizia di quell’uomo, disse: Qui il vecchio Pietro o è troppo indulgente, o per modestia mostra deferenza nei confronti di un suo inferiore: andiamo allora dal giovane Pancrazio, e chiediamo a lui. Giunti là, il colpevole ebbe l’impudenza di giurare il falso, ma non poté ritrarre la mano, e lì poco dopo morì. Tuttora molti badano che, nei casi difficili e dubbi, si giuri sulle reliquie di san Pancrazio » (Iacopo da Varazze, Leggenda Aurea).

Qual è l’armatura di Dio di cui è cinto il giovane martire?

Si tratta di armi spirituali.

“Cingete i fianchi con la verità/fedeltà” – La cintura della verità di Dio è un tutt’uno con la fedeltà. In ebraico infatti verità e fedeltà hanno un’unica radice, aman, che indica fermezza, stabilità, costanza. Fermi, dunque, stabili e costanti, come Cristo, “il Fedele e Verace” (Ap 19,11). Fedele e perciò affidabile, nella verità del suo Vangelo che esige uno stile coerente di vivere e di agire.

“Indossate come corazza la giustizia” – E’ la giustizia di Dio, che ci rende giusti; è il suo modo di rivelarsi a noi nella misericordia, nel dono della libera grazia che continuamente ci salva. E’ quella giustizia che salva i poveri e umilia i peccatori, gridando, come Cristo: “A Dio ciò che è di Dio”.

“Calzari ai piedi il vostro slancio per annunciare il vangelo della pace” -  E’ quella prontezza d’animo che ci rende zelanti, come il Battista, nel preparare la via al Signore (cfr. Mt 3,3), ambasciatori solleciti della bella notizia del Vangelo: “come sono belli i piedi del messaggero che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza” (Is 52,7). Pace, “shalom”, che nel linguaggio ebraico racchiude una serie di beni: la salute, la prosperità, la salvezza, la benevolenza, la gioia, la sicurezza, la serenità, la beatitudine, il perdono.

“Afferrate lo scudo della fede” – E’ l’elemento essenziale dell’armatura. Con essa il credente spegne e neutralizza le frecce infuocate del Maligno. Infatti, dice Origene, “non si combatte con il vigore del corpo, ma con la forza della fede”, che è piena adesione a Dio, a qualunque costo, e rifiuto della mentalità del mondo di peccato che ci spinge a interpretare cose e situazioni nella miopia dello sguardo incredulo e indifferente.

“Prendete l’elmo della salvezza” -  Più precisamente: ‘la salvezza della speranza’, che è fiduciosa consegna nelle mani di Colui che dona la salvezza, mentre “schiaccia la testa del drago sulle acque” della nostra umanità continuamente esposta alla tentazione del peccato (Sal 74,13).

“Prendete la spada dello Spirito” – Cioè la Parola di Dio, attraverso cui lo Spirito agisce efficacemente, suggerendo cosa dire e cosa fare nei momenti di prova.

Infine, “Pregate incessantemente” – Pregare per essere capaci di parrhesia, ossia di coraggio e franchezza nel “far conoscere il mistero delle fede”, soprattutto nel tempo della persecuzione, divenendo per Cristo “ambasciatori in catene”, sempre aperti alla lode e inclini alla supplica.

LETTURA DELL’ICONA

Contempliamo ora l’icona. L’adolescente Pancrazio pone i suoi piedi sopra il drago: può infatti camminare sul male perché rivestito dell’armatura di Dio, i cui elementi gli conferiscono fortezza e audacia nella persecuzione. Il suo modo di ergersi sul male è deciso, quasi naturale, come se tale vittoria fosse semplice da ottenersi. Sembra infatti annientare il male senza alcuno sforzo. Ciò gli è dato per la forza e la potenza di quella mano benedicente che lo sostiene e lo conforta. Il principe delle tenebre non può essere infatti sconfessato dalle forze umane: il demonio non è mai obbediente alla parola dell’uomo, però indietreggia sempre davanti alla Parola di Dio. E la Parola di Dio che questo ragazzo proclama è: ”Meglio obbedire a Dio che agli uomini, meglio servire Dio che altri idoli”.

Per questo il ragazzo è rappresentato in un atteggiamento fiero, così come si manifesterà lungo tutto l’interrogatorio e il martirio. Si offre serenamente perché è rivestito di Cristo. L’abito che indossa – la corazza della fede – lo annuncia con le sue sfumature dorate: egli è davvero dentro la luce piena di Dio, nella genuinità della fede di fanciullo e, al contempo, nella maturità adulta dell’uomo fedele. Il mantello rosso richiama invece il sangue dato e versato ed è simbolo della sua stessa missione. Quando si è chiamati ad una particolare missione, infatti, si prende il colore che identifica quel progetto in atto. In questo caso la sua vita “data” per tutti.

Il volto orribile del drago spaventa sempre l’uomo, ma in questo caso si coglie il dominio che il giovane martire ha sul male. Solitamente nell’iconografia il Maligno è rappresentato dentro un antro tenebroso. Qui invece è in un prato di erba molto scura dove striscia insinuandosi con astuzia, così come è stata insidiosa la modalità di processare il giovane Pancrazio. Ancora: il male è sempre rappresentato come qualcosa di animale, di selvaggio, ed appartiene alla terra, mentre ciò che è spirituale è elevato, così come è retta, imponente la figura di questo giovane. E’ una contrapposizione netta, visibile anche nella nostra vita: lo strisciare in basso proprio di colui che cede al peccato, e l’elevarsi verso l’alto di colui che invece si abbandona alla contemplazione del Bello e del Buono.

Il modo celeste, spirituale, il mondo della benedizione è il globo divino da cui fuoriesce la mano. E’ l’altro grande elemento di questa icona. Questo scenario è importante: la mano benedicente esprime infatti la protezione solenne nei confronti di chi vuole vivere autenticamente. E noi, quando la percepiamo? Quando ci ritroviamo riuniti nella semplicità della preghiera, quando ci percepiamo rivestiti di “benevolenza, umiltà, mitezza, magnanimità, sopportazione, perdono, carità, pace e rendimento di grazie (cfr. Col 3,9b-14). Allora è come se fossimo benedetti da quella mano celeste. Ed è allora che nasce il desiderio di lasciar calare nella vita la Parola del Signore che ci indica e ci offre il suo amore. Sì, quando lasciamo riecheggiare in noi parole salmiche che leniscono e rinnovano, quando ci abituiamo a benedire, a raccontar bene del Signore dentro la nostra storia; quando impariamo a lodare Dio per la bellezza e le meraviglie che Lui compie in noi, quando guardiamo gli altri, il mondo e le cose, con gli stessi occhi dell’Altissimo, mentre Lui con la mano benedicente ci guarda e ci ama, come suggerisce l’icona, intercettando la nostra prontezza nel condividere, amare e d essere fedeli.

Il cielo da cui fuoriesce la mano è l’universo con gli astri oscurati dalla presenza del Padre che conforta il giovane nella sua testimonianza di fede.

Le rocce accentuano la simbologia di tutta l’icona. Nel linguaggio iconografico la roccia infatti sottolinea sempre la manifestazione di Dio, una teofania chiara, luminosa che penetra e rinnova.

Le piccole piante poste ai piedi della roccia richiamano la fertilità al cambiamento di vita che avverrà quando san Pancrazio sarà chiamato alla pienezza della vita nell’eternità dell’Amore.

Contemplando quest’icona si percepisce una grande presenza di Dio, di un Dio che veglia sulla fede dei suoi figli e su tutto ciò che accade nella storia di ciascuno. Davanti ad essa si snodano sia i momenti luminosi della fierezza, della forza, dell’impegno, sia i momenti tristi della lotta e martirio. Ma nell’uno e nell’altro caso, Dio è sempre lì, pronto a benedire e consolare, sempre disposto ad essere pienezza di misericordia. Ecco perché possiamo affermare che contemplando questa icona noi impariamo a vedere dentro le fatiche della nostra storia la presenza e l’azione di Dio che ci salva continuamente.

Per la meditazione

Mi sembrano utili, a questo punto, quattro osservazioni.

- Anzitutto che spesso anche noi ci troviamo in una situazione rischiosa. È infatti ‘pericoloso’ vivere il Vangelo fino in fondo. Avere il senso del rischio, delle difficoltà è realismo, un realismo che ci permette di vedere le vie dell’avversario, le vie attraverso le quali il Male si fa insidia subdola. Ma sentendoci pieni della forza di Dio. Una profonda analisi e sintesi del mistero della perversione, fatta con l’aiuto della sacra Scrittura, ci mette davanti alle avversità senza paura perché ci è dato di cogliere, insieme alla vastità del male, la potenza di Cristo che opera continuamente nella storia.

- Seconda osservazione: si tratta di una lotta che non ha né sosta, né quartiere, contro un avversario astuto e terribile che è fuori di noi e dentro di noi. Questo, oggi, lo si dimentica spesso, vivendo in un’atmosfera di ottimismo deterministico per cui tutte le cose devono andare di bene in meglio, senza pensare alla drammaticità e alle lacerazioni della storia, senza sapere che la storia ha le sue tragiche regressioni e i suoi rischi che minacciano proprio chi non se l’aspetta, e vive cullandosi nella visione di un evoluzionismo storico che procede sempre per il meglio.

- La terza osservazione: solo chi si arma di tutto punto potrà resistere, dal momento che il nemico si aggira attorno a noi per scoprire se c’è almeno un varco aperto, un elemento mancante nell’armatura cosi da farci cadere nel combattimento.

- L’ultima osservazione, assai importante: tutte le armi, tutti gli elementi dell’armatura vanno continuamente affinati nell’esercizio della preghiera che non li supplisce – non supplisce lo zelo, l’impegno, lo spirito di fede, la capacità di donarsi -, ma è la realtà nella quale tutti siamo avvolti e veniamo ritemprati per la lotta.

Quella in cui il cristiano è ingaggiato è una guerra propriamente escatologica, ossia un battaglia risolutiva per le sorti del mondo e prelude alla definitiva sconfitta delle potenze del male. Non va poi trascurato il risvolto battesimale del termine « indossare » o « rivestirsi » spesso usato da san Paolo. In GaI. 3,27 leggiamo: «Quanti siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo». Cosa comporti rivestirsi di Cristo è esplicitato poi in Col 3,9b-14, un testo che si potrebbe definire il « guardaroba del cristiano » con i suoi dieci capi di vestiario: misericordia, benevolenza, umiltà, mitezza, magnanimità, sopportazione, perdono, carità, pace e rendimento di grazie.

Con il battesimo il cristiano s’impegna a rimanere sempre in tenuta militare, perché -  al dire dei Padri – egli è un «miles pugnans», un soldato che combatte (CIPRIANO, Lettere, 58,4) e le armi che indossa sono quelle stesse che caratterizzano l’equipaggiamento di Cristo.

Quale l’allenamento adeguato per affrontare tale guerra ?

1.   Aprire cuore, bocca, mano rispettivamente a giustizia, verità e pace:

togliendo dal cuore quanto è negativo, malvagio, egocentrico;

esprimendo con la bocca sincerità ed evitando falsità, ipocrisia, maldicenza;

offrendo segni concreti di pacificazione, di riconciliazione, di amicizia, di solidarietà.

2.   In ogni situazione difficile ricorrere alla parola illuminante che «trafigge il cuore» (cf At 2,37), attingendola alle Scritture e lasciandocene impregnare in profondità.

3.   Affidarci alla potenza della preghiera « incessante », che è la « preghiera del cuore »: «Signore,liberaci dal Male», prendendo via via coscienza dai mali che ci minacciano: quelli annidati nel cuore e quelli che ci vengono dall’esterno.  Possiamo fare nostra una preghiera di Isacco di Ninive (306c.-372), monaco siriano:

Per la preghiera

Sant’Agostino ci avverte che nel combattimento spirituale occorre affidarsi costantemente alla grazia del Signore. Combatte e non è vinto colui che non presume delle proprie forze, colui che «confida in Chi ordina di combattere e vince il nemico aiutato da Chi dà tale ordine» (Enarrationes in pasalmos, 35,6). Ripetiamo: 

Liberaci dal male!

Ti lodo, Padre, medico dei corpi, fonte di Sapienza, che ci prodighi una vita senza male, che dissipi il timore, madre delle angosce, e che custodisci il mio cuore nella purezza, grande è presso di te la redenzione. Ti preghiamo

Liberaci dal male!

Santo sei tu, Signore, che conosci ciascuno per nome, che tutto hai creato per mezzo del tuo Verbo. Santo sei Tu, che sei più forte di ogni forza e che superi ogni lode. Ti preghiamo

Liberaci dal male!

Infinitamente profondi sono i tuoi pensieri, Signore. Signore, ho cercato di penetrarli: Tu sei l’insondabile, il tuo Spirito abita abissi inaccessibili e il tuo pensiero è un mistero inesauribile, perché forte è il tuo amore per noi e la tua fedeltà dura in eterno,

Liberaci dal male!
«Manda soccorso, Signore,
a quelli che si levano nelle difficili battaglie dei demoni,
[condotte] sia manifestamente sia di nascosto,
e la nube della tua grazia li ricopra (cf Lc 1,35)
e poni sul capo della loro mente « l’elmo della salvezza » (Ef 6,17)
e umilia davanti a loro la potenza dell’avversario
e li sostenga sempre il vigore della tua destra,
perché per i loro pensieri non vengano meno
allo sguardo continuo [rivolto] a te,
e fa’ rivestire loro l’arma dell’umiltà,
così che da loro spiri sempre un odore soave,

secondo il tuo beneplacito».  

                            Isacco di Ninive   

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