Venerdì Santo

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Publié dans : immagini sacre | le 2 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

ENZO BIANCHI – MEDITAZIONE PER IL VENERDÌ SANTO

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ENZO BIANCHI – MEDITAZIONE PER IL VENERDÌ SANTO

Gesù, il crocifisso
Enzo Bianchi

Vorrei contemplare insieme con voi Gesù crocifisso, secondo le tre splendide interpretazioni fornite cinque secoli fa da Donatello (…) Queste opere di eccezionale bellezza, che hanno accompagnato la fede di innumerevoli cristiani nel corso degli ultimi cinquecento anni, accompagnano ancora la nostra fede, qui e oggi, perché il Crocifisso resta per il cristiano il luogo per eccellenza in cui egli può conoscere Dio. La croce è davvero la cattedra della sapienza di Dio (cf. 1Cor 1,18-25), è il luogo dove Dio è stato massimamente narrato da suo Figlio Gesù Cristo (cf. Gv 1,18: exeghésato).
Tutte le testimonianze scritte sulla fine della vita terrena di Gesù sono concordi nel dichiarare che egli è morto in croce. Per le sante Scritture questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal legno»: Dt 21,23; Gal 3,13), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini. Gesù, un galileo che aveva radunato attorno a sé una comunità di pochi uomini e alcune donne coinvolti nella sua vita itinerante, ritenuto maestro e profeta da questi discepoli e da un numero più ampio di simpatizzanti, è stato condannato e messo a morte mediante la crocifissione a Gerusalemme, il venerdì 7 aprile dell’anno 30. Questa fine fallimentare è subito apparsa uno scandalo, «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor 1,23), un grave ostacolo per la fede in Gesù, specialmente quando si cominciò a confessarlo Messia di Israele e Figlio di Dio. Ecco perché, ancora all’inizio del II secolo d.C., il giudeo rabbi Trifone afferma nel dialogo con il cristiano Giustino: «Noi sappiamo che il Messia deve soffrire ed essere condotto come pecora (cf. Is 53,7); ma che egli debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso e ignominioso, attraverso la morte maledetta dalla Legge, non possiamo neppure arrivare a concepirlo» (Giustino, Dialogo con Trifone 90,1).
Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il Crocifisso colui che ha raccontato Dio; anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce, Gesù «ha reso testimonianza alla verità» (cf. Gv 18,37), trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato possibile che un uomo appeso a una croce diventasse colui sul quale i cristiani tengono fissi lo sguardo come Signore e Salvatore? Per rispondere a questo interrogativo occorre innanzitutto guardarsi dalla tentazione di leggere Gesù a partire dalla croce. Al contrario – come vedremo meglio tra breve – bisogna leggere anche la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, l’uomo Gesù: questa morte è l’atto che ricapitola l’intera sua esistenza spesa nella libertà e per amore di Dio e degli uomini.
Per contemplare il Crocifisso è necessario meditare sulla paradossale «parola della croce» (1Cor 1,18), il mistero centrale della nostra fede. In verità, di fronte alla «parola della croce», debolezza di Dio, debolezza del cristiano, debolezza della chiesa, ma pienezza della vita perché «vita in abbondanza» (cf. Gv 10,10), «vita eterna» (cf. Gv 3,15-16.36; 4,14; ecc.), nessuno di noi è all’altezza di definirsi discepolo di Cristo. Se mai, potrà fare sue le parole di Ignazio di Antiochia: «Ora comincio a essere discepolo» (Ai Romani 5,3). D’altra parte, se questa nostra debolezza è assunta consapevolmente, in essa può manifestarsi «Cristo crocifisso, … potenza di Dio» (1Cor 1,23-24), secondo la parola rivolta dal Signore a Paolo: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). E saranno proprio alcune riflessioni di Paolo nelle sue due lettere alla chiesa di Corinto a costituire la trama della mia meditazione.
1. «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso»
Nella Prima lettera ai Corinti, rivolgendosi a una chiesa che a pochi anni dalla sua fondazione appare attraversata da contese, ed è tentata dal culto delle personalità apostoliche (cf. 1Cor 1,12), ma soprattutto di avere ragioni per gloriarsi davanti a Dio (cf. 1Cor 1,27-29) e di fare della fede cristiana una religione capace di convincere quanti cercano miracoli, e un’ideologia per quanti cercano la sapienza, Paolo rinnova l’annuncio del Vangelo. A Corinto è infatti il cuore stesso del Vangelo a essere compromesso: la croce di Cristo rischia di essere svuotata (cf. 1Cor 1,17)! Di fronte a tale depauperamento, l’Apostolo pronuncia parole decisive, frutto di esperienze patite in prima persona: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2).
Alla sapienza mondana (sophía toû kósmou: 1Cor 1,20) insinuatasi nella comunità cristiana, cultura antropocentrica e autosufficiente (sophía anthrópon: 1Cor 2,5), Paolo oppone «la parola della croce» (1Cor 1,18), non un annuncio fondato su discorsi persuasivi o ragionamenti che hanno la loro forza nella sublimità della parola e della cultura. Nella chiesa di Corinto sono già in atto tentativi di trasformare il messaggio del Vangelo in speculazione culturale: ciò si traduce nel rifiuto del volto di Dio manifestatosi nel Figlio Gesù Cristo crocifisso, in un’interpretazione della resurrezione in termini trionfali, nel misconoscimento della debolezza quale cardine della vita cristiana. In reazione a tutto questo, l’Apostolo, che attraverso la sua vicenda personale e con la grazia del Signore ha approfondito la scientia crucis, legge sì la croce come follia perché evento inaudito, fallimento agli occhi del mondo, ma contemporaneamente la predica come «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), cioè pienezza della vita, possibilità di giungere a quella vita piena che Dio aveva pensato per l’uomo all’atto di crearlo per mezzo e in vista del Figlio (cf. Col 1,16).
La morte di Cristo non è stata una morte qualsiasi, non è stata neppure rivestita dalla gloria del martirio, come quella del suo maestro Giovanni il Battista, ma è stata una morte vergognosa: «mortem autem crucis» (Fil 2,8). Ebbene, il carattere infamante di tale morte non può essere taciuto né rimosso: questo evento – personalizzato e quasi ipostatizzato nel termine «croce» – era e resta scandalo e follia! Non si dimentichi: al tempo di Gesù la croce era uno strumento di morte terribile, un patibolo turpissimo agli occhi dei romani, un supplizio che, agli occhi dei giudei, rendeva chi vi era appeso un maledetto da Dio e dagli uomini. Eppure Gesù ha trasformato la croce in luogo veramente glorioso, in luogo in cui egli ha amato gli uomini fino all’estremo, in luogo in cui è morto per noi, per donarci la salvezza (cf. 1Ts 5,9-10)!
Ma è necessario approfondire quest’ultima affermazione, troppo spesso ripetuta a vuoto, senza cioè comprenderla nel suo reale significato. Lo faccio prendendo a prestito un’acuta riflessione del teologo Giuseppe Colombo:
Nell’immaginario «cristiano» la croce sembra prevalere sul Crocifisso, dando libero sfogo alle tendenze ambigue insite nel subconscio dell’uomo … Non è la croce a fare grande Gesù Cristo; è Gesù Cristo che riscatta persino la croce, la quale è propriamente da comprendere, non retoricamente da esaltare (Sulla evangelizzazione, Milano 1997, p. 64).
In altre parole, la morte in croce di Gesù non è nient’altro che l’esito di un’esistenza vissuta nella libertà e per amore degli uomini. Per non dimenticare questo, basterebbe prestare attenzione a quanto la chiesa, facendo memoria della vita di Gesù, sente il bisogno di proclamare al cuore della preghiera eucaristica:
Egli, nell’ora in cui andava liberamente alla sua passione, prese il pane… (Preghiera eucaristica II).
Per attuare il tuo disegno di amore, [Padre Santo], si consegnò liberamente alla morte … Venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre Santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine, e mentre cenava con loro, prese il pane… (Preghiera eucaristica IV)
Nella libertà e per amore: ecco come la follia della croce è diventata potenza di Dio e sapienza di Dio!
La potenza di Dio si è rivelata in Gesù crocifisso, uomo e Figlio di Dio, che è stato fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5,21), che si è mostrato Messia perduto, annoverato tra i peccatori, agnello afono, vittima tra le vittime della storia. La croce è il patibolo impuro, chi vi sale è un anáthema, rigettato dalla comunità cui Dio si è legato in alleanza; chi vi muore, muore fuori dell’accampamento e della porta della città (cf. Eb 13,11-13), nel luogo sconsacrato in cui Dio è ritenuto assente. Davvero, la croce è l’anti-sacrificio per eccellenza, secondo le norme cultuali di Israele: è follia, stoltezza e scandalo! Ma solo chi conosce questa verità e assume fino in fondo questa follia, vedendo Gesù morire in croce, può confessare con il centurione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39; cf. Mt 27,54).
Mi si conceda di riassumere la paradossale potenza della croce in questo modo: guai a chi deifica Gesù e lo chiama Dio senza conoscere la vita umanissima di Gesù, senza conoscere come egli è vissuto, facendo della vita un dono e amando gli altri fino all’estremo; nello stesso tempo, guai a chi non sa fare del sigillo ignominioso della croce, télos di questa vita, la cattedra del magistero cristiano! Ma quando della croce si misura la follia, allora essa appare potenza di Dio, allora è distrutta la sapienza dei saggi e l’intelligenza degli intellettuali (cf. 1Cor 1,19), allora si conosce veramente il mistero di Dio e si vede in Gesù «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).
Mistero paradossale: la croce di Cristo è realmente stoltezza e debolezza di Dio che urta quelli che richiedono manifestazioni di una sua presunta onnipotenza, o confidano su una raffinata sapienza religiosa. Ma è precisamente nella croce che Dio mostra la sua sapienza e la sua potenza, «perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25). È proprio nella croce che egli chiede che sia riconosciuto il suo agire folle di amore per l’umanità! Sì, è nello svuotamento della sua forma divina (cf. Fil 2,7) e nell’atto del con-discendere là dove sono gli uomini, che il Figlio di Dio ha svelato la grammatica della potenza di Dio. Gregorio di Nissa ha potuto scrivere in proposito:
La croce è teologa per coloro che hanno lo sguardo penetrante, e proclama con la sua forma l’autentica potenza di colui che appare su di essa ed è «tutto in tutti» (1Cor 15,28) (Primo discorso sulla resurrezione di Cristo).
E Lutero fa eco: Non è sufficiente conoscere Dio nella sua gloria e maestà, ma è anche necessario conoscerlo nell’umiliazione e nell’infamia della croce … In Cristo, nel Crocifisso, stanno la vera teologia e la vera conoscenza di Dio (La disputa di Heidelberg, Tesi 20).
Una volta compresa, o almeno intuita, questa indicibile realtà, spetta al cristiano e alla chiesa nel suo insieme vivere in modo che questa follia e debolezza di «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2) si riverberi nella vita dei suoi discepoli: qui e qui soltanto sta la verità della sequela Christi.
2. «Sono stato crocifisso con Cristo»
Nella Seconda lettera ai Corinti Paolo si dedica ampiamente a descrivere la stoltezza della croce e la debolezza, quali si rivelano nella sua vita e nel suo ministero, con affermazioni che non possono non riguardare la vita di ogni cristiano. In questo testo l’Apostolo si propone certamente di difendere il suo ministero di fronte ad avversari provenienti sia dal giudaismo, sia dall’interno della stessa comunità di Corinto; più di ogni altra cosa, però, ciò che gli sta a cuore è la salvaguardia dell’integrità del Vangelo, al cui servizio egli si è totalmente dedicato. Per questo egli afferma innanzitutto la potenza del proprio ministero apostolico (cf. 2Cor 2,14-4,6), ma nel contempo ne sottolinea la debolezza (cf. 2Cor 4,7-5,10). In tal modo, come già a proposito della potente stoltezza della croce, siamo posti di fronte al carattere di paradosso del ministero apostolico e, più in profondità, dell’intera vita cristiana.
Dopo aver affermato la centralità normante della Parola di Dio, del Vangelo e della predicazione su Gesù Cristo, Paolo delinea i criteri non mondani che ispirano il suo servizio all’interno della chiesa (cf. 2Cor 4,2-6): rifiutare le doppiezze, i raggiri, la falsificazione della verità, l’operare ipocritamente, l’agire diversamente da come si predica, il piegare ai propri fini, anche religiosi ed ecclesiali, il Vangelo. L’Apostolo non predica se stesso, non manipola la Parola di Dio rendendola ideologia umana, non cerca il successo servendosi del proprio posto nella chiesa, né aspira ad ottenere facili consensi. Al contrario, il suo ministero è efficacemente sintetizzato in due compiti ben precisi: predicare Gesù quale Messia e Signore e, conseguentemente, servire i propri fratelli (cf. Mt 20,25-28 e par.; Gv 13,12-15). A questo ministero solo Dio può rendere idoneo un credente (cf. 2Cor 3,5) perché è il servizio della Nuova Alleanza, servizio condotto nello Spirito che vivifica (cf. 2Cor 3,6), diakonía ben più gloriosa di quella svolta da Mosè (cf. 2Cor 3,7-8).
Sì, il ministero è potenza di Dio, potenza che si mostra in primo luogo nella misericordia usata verso la debolezza di chi è incaricato di tale servizio. Ma ecco, puntuale, il riverbero della stoltezza della croce: «Noi abbiamo questo tesoro in vasi di argilla, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Il contrasto tra l’argilla e il tesoro non va inteso nel senso di un’antropologia dualista, ma serve solo a definire la paradossale grandezza della vita cristiana. Il tesoro del Vangelo, il tesoro della Nuova Alleanza o, meglio ancora, il mistero pasquale della morte e resurrezione di Gesù (cf. 2Cor 4,10) è infatti affidato all’uomo, creatura debole e fragile: nella nostra carne mortale siamo chiamati a manifestare la vita di Gesù, vita piena e autentica, vita divina! Paolo sembra testimoniare questa inenarrabile verità quando confessa: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me … Io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (Gal 2,19-20; 6,17).
Ma in vari altri passi il Nuovo Testamento ama evocare il «Vangelo di Gesù Cristo» (Mc 1,1; cf. Rm 16,25; 2Ts 1,8) il «mistero del regno di Dio» consegnato da Gesù ai credenti (Mc 4,11), con le espressioni «perla preziosa» (Mt 13,46), «tesoro nel campo» (Mt 13,44), e si compiace di definire la fede «molto più preziosa dell’oro» (1Pt 1,7), poiché «in Cristo sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3). È questo il tesoro che il cristiano porta nel suo vaso d’argilla! E il cristiano maturo è proprio colui che ha la consapevolezza, da un lato, del tesoro affidatogli e, dall’altro, della propria debolezza (linguaggio paolino); è colui che ha la consapevolezza di essere straniero e pellegrino sulla terra, ma nel contempo è abitato dalla speranza della vita eterna (linguaggio petrino: cf. 1Pt 2,11 e 1Pt 3,15).
Occorre peraltro comprendere bene il significato di questa debolezza. Certo, se l’uomo è anche solo minimamente attento alla trama della propria quotidianità, l’esperienza è impietosa nel mostrargli la propria natura debole e fragile, la costante tentazione di cadere nella schiavitù del peccato, cioè di quanto si oppone alla vita piena e alla comunione fraterna. È ciò che viene espresso lapidariamente da Paolo: «Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). Si faccia però attenzione a non intendere questa debolezza quale sinonimo di bassa qualità umana, sovente mascherata sotto le spoglie della virtù religiosa. Dietrich Bonhoeffer mette in guardia da tutto ciò:
Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana … è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani … Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo … Gesù non ha mai messo in questione la salute, la forza, la felicità di un uomo in quanto tali, né li ha considerati dei frutti bacati: perché altrimenti avrebbe risanato i malati, ridato forza ai deboli? Gesù rivendica per sé e per il regno di Dio la vita umana tutta intera e in tutte le sue manifestazioni (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo 1988, pp. 350-351.417).
In altri termini, il cristiano è chiamato a vivere una vita piena, una vita bella, buona e beata come quella di Gesù Cristo, e a fare questo senza confidare in se stesso con folle e arrogante autosufficienza – salvo poi ritornare a Dio nel momento dell’angoscia e del bisogno! –, ma solo nella grazia e nell’amore sempre preveniente di Dio. Si tratta in definitiva di fare obbedienza a una precisa parola di Gesù: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23; cf. Mt 16,24; Mc 8,34). Non occorre cercare, invano, di scegliere una «croce» per sé: è la vita stessa a fornire, volta per volta, quella peculiare a ciascuno di noi. Sono i limiti insiti nella propria storia familiare, nel proprio corpo, nella propria psiche, sono le contraddizioni immancabili nei rapporti umani, fino all’estenuante e decisiva lotta che ci attende: fare dell’enigma della morte un mistero che, illuminato dal Crocifisso, riveli il senso del senso, la chiamata dell’uomo alla resurrezione e alla vita eterna.
Verranno sicuramente giorni in cui sentiremo come una contraddizione questa debolezza, e potremo anche chiedere a Dio di togliercela, ma egli risponderà anche a noi, come a Paolo: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Ecco, la debolezza scelta da Dio per rivelare e attuare la salvezza (cf. 1Cor 1,27) è lo strumento privilegiato da Dio stesso per manifestare la sua azione nel cristiano. Essa va colta dal credente alla luce del dono preveniente («Se tu conoscessi il dono di Dio…»: Gv 4,10) e nella consapevolezza del tesoro che in essa è racchiuso. Solo così può essere letta e accolta come debolezza «beata», «gradita», come afferma con audacia Bernardo di Clairvaux:
O beata debolezza (optanda infirmitas), colmata dalla potenza di Cristo … L’ignominia della croce è gradita a chi non è ingrato verso il Crocifisso (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7.8). Sì, la croce è scandalo e follia, ma al cristiano è chiesto solo di non contraddirla, bensì di accettare che, attraverso di essa, la potenza di Dio, la potenza del Crocifisso risorto operi nella sua vita!
Conclusione
Proprio la croce, il simbolo più terribile e umiliante conosciuto all’interno della società romana, accogliendo su di sé Gesù Cristo è divenuto il punto culminante della storia di salvezza di Dio con l’umanità, l’evento in cui avviene la rivelazione definitiva del volto di Dio: davvero la croce è teologa! La croce è il segno della responsabilità illimitata di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice. Nel Figlio Gesù Cristo, giusto e innocente, è Dio stesso che sulla croce assume le conseguenze dei peccati commessi dall’umanità e si sottomette alla pena riservata ai peccatori. Questa gratuità fino all’estremo, questa «follia» (1Cor 1,18.23.25) che si può spiegare solo con un eccesso d’amore diventa allora ciò che fa intravedere nella croce il senso radicale dell’esistenza umana del credente come esistenza responsabile.
Il Crocifisso ci rimanda all’amore per l’altro fino al dono della vita: la croce è il compimento dell’amore di Cristo per i suoi discepoli e per l’umanità tutta (cf. Gv 13,1); la croce è il compimento dell’obbedienza del Figlio al Padre (cf. Mc 14,35-36); la croce è il compimento della libertà di Cristo che depone da se stesso la propria vita (cf. Gv 10,17-18). Sì, la croce è compimento più che fine: è il compimento di un’esistenza vissuta nell’amore, nell’obbedienza e nella libertà, di una vita di fede come vita responsabile, di fronte a Dio e di fronte agli uomini.
Ebbene, sulla croce Gesù è stato l’uomo che si è caricato delle sofferenze dei fratelli, l’uomo che non si è difeso rispondendo con violenza alla violenza che gli veniva inflitta, ma ha speso la vita per gli altri, offrendo se stesso «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Proprio in questa morte che agli occhi del mondo è una sconfitta consiste la vittoria dell’amore di Gesù, il Servo del Signore crocifisso, «vincitore perché vittima» (Agostino, Confessioni 10,43).
E come Gesù ha narrato Dio, vivendo e predicando l’amore fino ai nemici, così i cristiani sono chiamati a rinnovare questo racconto tra gli uomini. Certo, questo è possibile solo per grazia, solo perché lo Spirito è stato effuso nel cuore del cristiano (cf. Rm 5,5; Tt 3,5-6); solo perché il cristiano può gemere gridando: «Abba, Padre!» (cf. Rm 8,15; Gal 4,6); solo perché nel cristiano non vive più l’io segnato dall’egoistica philautía e dall’odio verso gli altri, ma vive Cristo (cf. Gal 2,20). È lui, il Cristo crocifisso e risorto, il Signore vivente, che nel cristiano vive, ama, perdona, prega, intercede. Questo è follia per il mondo, ma è il linguaggio del Crocifisso: chi lo contempla non può non vedere i segni di questo amore, che spinge al dono totale di sé. Scrive Guglielmo di Saint-Thierry:
Ci poniamo davanti una rappresentazione della Tua passione affinché i nostri occhi di carne abbiano qualcosa a cui aderire. Essi però non adorano una immagine perché l’immagine rinvia alla realtà della Tua passione. Quando infatti guardiamo più attentamente l’immagine della Tua passione, nel silenzio ci sembra di udire la Tua voce che dice: Ecco come vi ho amati, vi ho amati fino alla fine.
(Meditativae orationes 10,7)
I Crocifissi di Donatello, che possiamo contemplare in questa mostra con un unico sguardo, narrano certamente un Cristo sofferente, con il capo reclinato in un dolore umanissimo… La bocca però è aperta ed emette lo Spirito. “Tutto è compiuto!” sono le ultime parole del Crocifisso nel vangelo secondo Giovanni. E l’evangelista prosegue: “Chinato il capo, effuse lo Spirito”. Marco, Matteo e Luca dicono “chinato il capo, morì, spirò”; Giovanni invece precisa “consegnò, effuse lo Spirito”. Quello Spirito che lo abitava, lo Spirito santo, che aveva presieduto al suo concepimento nel seno della Vergine Maria, che era disceso su di lui al momento del Battesimo… Gesù con la sua morte lo effonde su tutto l’universo, su tutta la terra. La Pentecoste per Giovanni è sotto la Croce!
Stare sotto la croce di Donatello è ricordare che sotto la Croce c’eravamo anche noi e che lo Spirito che Gesù ha emesso dalla sua bocca è lo Spirito santo che perdona i peccati di tutti gli uomini (“ipse remissio omnium peccatorum“, recita un testo liturgico). Quello stesso Spirito nella cui potenza Dio ha risuscitato Gesù, ravviva tutta la Chiesa e tutta l’umanità.

Contributo di Enzo Bianchi al catalogo Donatello svelato. Capolavori a confronto – Padova, Museo Diocesano 27 marzo – 26 luglio 2015.
http://www.monasterodibose.it

Publié dans : Venerdì Santo | le 2 avril, 2021 |Pas de Commentaires »

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Publié dans : immagini sacre | le 31 mars, 2021 |Pas de Commentaires »

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (2012)

http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120405_coena-domini.html

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (2012)

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 5 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato. Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.
Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità.
Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.
Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abbà”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.
Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.
Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre.
Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà. Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi. Amen.

Publié dans : STUDI DI VARIO TIPO | le 31 mars, 2021 |Pas de Commentaires »

Gesù tentato da Satana

paolo si

Publié dans : immagini sacre | le 19 février, 2021 |Pas de Commentaires »

I DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) (21/02/2021)

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I DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) (21/02/2021)

Quaresima e battesimo. Che c’entra?
padre Gian Franco Scarpitta

L’acqua del Diluvio Universale, del quale leggiamo il seguito nella Prima Lettura di oggi dalla Genesi, distrugge il mondo peccaminoso per poterlo poi riedificare, purificando il sordido e l’impuro e richiamando il mondo a vita nuova. Sia in questo episodio sia in altri della Bibbia l’acqua quindi è elemento di salvezza, perché rinnova e rigenera distruggendo e ricostruendo. Così è anche la materia acqua del nostro battesimo, per mezzo della quale Gesù Cristo, nella forma invisibile, realizza in noi un lavacro nel quale rinasciamo a via nuova dopo essere stati purificati e mondati dal peccato di Adamo. Cristo in forza dello Spirito Santo, ci rigenera e ci santifica realizzando nel battesimo con acqua la salvezza in noi e donandoci la dignità di figli di Dio. Anche Gesù stesso, peraltro, seppure non avesse mai peccato, ha voluto sottomettersi al lavacro battesimale nel fiume Giordano ad opera di Giovanni Battista, per essere riconfermato dal Padre nella dignità di Figlio di Dio. Non che non lo fosse già: nell’incarnazione da Maria Vergine egli era già stato istituito Figlio di Dio Incarnato e parimenti anche Figlio dell’Uomo; nel battesimo al Giordano però questa dignità viene riaffermata e consolidata con la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba (metafora allusiva alla pace e alla salvezza) e con l’avallo del Padre che lo proclama Prediletto invitando tutti ad ascoltarlo (Mc 1, 9 – 11). Per inciso, anche noi nel battesimo siamo Figli nel Figlio e partecipi della sua stessa missione. Di conseguenza siamo indotti a vivere innestati a lui e conformi al suo esempio e al suo insegnamento, secondo l’ottica della fedeltà a Dio e della carità. Viviamo di lui e conformi al suo Comandamento Nuovo di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati e questo è appunto l’effetto del battesimo (Gv 13, 31 – 35). Tutto questo che parte ha con il tempo liturgico di Quaresima appena cominciato? Direi che la risposta si trova nell’episodio a cui Marco ci fa assistere, relativo alla tentazione di Gesù nel deserto. Esso fa seguito proprio all’evento del battesimo al Giordano e precede l’inizio del suo ministero pubblico a Cafarnao e ciò non è affatto una coincidenza o una casualità.
Lo stesso Spirito che ha istituito Gesù Figlio di Dio ora lo conduce nel deserto “per essere tentato dal diavolo”, ossia con la finalità precipua di sottometterlo alle lusinghe del maligno e per ciò stesso di essere stremato da prove, vessazioni e difficoltà che solitamente inducono tutti a cedere. Anche se in Gesù non vi è peccato ed egli stesso ci libera dai peccati (1Gv 3, 5), ha voluto mostrare condivisione e familiarità con i peccatori in questo esporsi inesorabile al principe delle tenebre. Come già era avvenuto alla riva del Giordano, Gesù si fa solidale con i peccatori camminando fra le zolle del deserto: quale altro luogo è più pertinente per comprendere lo stato di debolezza e di smarrimento in cui si trovano gli uomini quando sono tentati al male? In quella dimensione di assoluta privazione e indigenza quale era quella del deserto di Giuda, Gesù comprende a cosa va incontro non soltanto l’uomo medio ma anche il più grande eroe della spiritualità quando si trovi alle prese con il Maligno tentatore. La fame causata dal digiuno prolungato, la carenza assoluta di mezzi e di sicurezze, la lotta per la sopravvivenza in un contesto così ostile e prevaricante consentono a Gesù di comprendere quali possano essere i sentimenti e le percezioni di chi viene sedotto dal maligno e quanto siano a volte esasperanti gli sforzi per resistete alle tentazioni e alle allettanti proposte dell’avversario.
Il peccato, in tutte le sue sfaccettature e sotto tutti i suoi aspetti (individuale e sociale) è il morbo che contamina anche l’uomo più virtuoso e perfetto e che è di serio ostacolo al progresso di fedeltà al battesimo. Cosa c’è di più ostile a che noi perseveriamo come figli nel Figlio (nel battesimo appunto) se non le insidie della concupiscienza attraverso la quale il demonio sfrutta la nostra debolezza per condurci alla morte (Gc 1, 14 -16)?
Dio non lancia moniti dall’alto per piegare l’uomo alla sua volontà. Non si esprime con l’esortazione spontanea “armiamoci e partite” per esortarci alla fedeltà e all’osservanza dei Comandamenti e gli stessi Comandi divini non sono arbitrarie ammonizioni perentorie. Piuttosto, in Gesù Cristo Dio fa esperienza lui stesso di quelle che possono essere le difficoltà che l’uomo incontra ad essergli fedele e sperimenta egli stesso sulla sua pelle che la perfezione e la santità non sono obiettivo facile da raggiungere. Se tuttavia Cristo nostra superiorità e padronanza sul demonio, ciò significa che la vittoria contro le tentazioni e le infedeltà non è impossibile e che, con il suo sostegno e con la sua continua presenza illuminante, l’uomo può benissimo vincere quanto gli è di ostacolo. Gesù vince le prove e le tentazioni in una condizione del tutto dissimile a quella in cui noi possiamo trovarci oggigiorno; anche noi, sostenuti dalla sua grazia e incoraggiati dal suo stesso esempio, possiamo avere ragione del tentatore e perseverare nei nostri propositi di fedeltà. Personalmente ho sempre considerato che la liberazione dal peccato ha l’effetto ragguagliato alla leggerezza e al benessere che si prova una volta liberi dal vizio del fumo: quando anni or sono decisi di farla finita con il tabacco, dopo tre giorni di incubo da astinenza, mi sentii come svuotato interiormente da un grosso gravame che mi aveva occluso e mi sentii molto più disinvolto e carico nei movimenti, più solerte e motivato nelle iniziative, molto più carico di ottimismo e solerte negli impegni e non furono pochi coloro che notarono in me un cambiamento decisamente in meglio. Così pure la liberazione dal malessere del peccato procura pace, gioia, serenità, fiducia che non possano mai inosservati agli occhi di quanti incontriamo sul nostro cammino. Il peccato è un nemico difficile ma non impossibile.
Questo tempo privilegiato di Quaresima è pertanto l’occasione propizia perché noi possiamo riscoprire in noi stessi le ragioni per cui non cedere alla tentazione della disfatta e tantomeno alle mode e ai costumi che ci orientino in senso avverso: è piuttosto il tempo in cui abbiamo occasione di intraprendere o di ravvivare la nostra comunione con il Signore, di scoprire il valore della nostra vita innestati a lui e della continua persistenza nella ricchezza spirituale del battesimo. E tutto questo sperimentando che Gesù stesso èil nostro alleato nella lotta, non facendoci mancare la sua presenza e il suo sostegno in validi coefficienti di supporto quali la preghiera, la mortificazione e le opere di misericordia.
Quella che Gesù instaura con noi è infatti un’Alleanza, che guarda caso avrà i suoi connotati nello Spirito, nell’acqua e nel sangue che di essa rendono testimonianza (1Gv 5, 6 – 8) e che viene prefigurata con la bellissima immagine dell’arcobaleno che attesta la novità apportata da Dio dopo il diluvio universale. Nel quale l’acqua ha rinnovato ogni cosa ed è sorta la nuova vita. E noi rinnovati da Gesù e con Gesù in questa quaresima, conquisteremo la novità perenne di vira del Risorto.

Publié dans : QUARESIMA 2021 | le 19 février, 2021 |Pas de Commentaires »

Mercoledì delle ceneri

paolo

Publié dans : immagini sacre | le 17 février, 2021 |Pas de Commentaires »
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