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Benedetto XVI e la dimensione ecclesiologica del pensiero di Paolo

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-15769?l=italian

Benedetto XVI e la dimensione ecclesiologica del pensiero di Paolo

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 15 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi in piazza San Pietro, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, continuando il ciclo di catechesi sulla figura di San Paolo, il Papa si è soffermato sul tema: « La dimensione ecclesiologica del pensiero di Paolo« .

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della relazione di Paolo con il Gesù pre-pasquale nella sua vita terrena. La questione era: « Che cosa ha saputo Paolo della vita di Gesù, delle sue parole, della sua passione? ». Oggi vorrei parlare dell’insegnamento di san Paolo sulla Chiesa. Dobbiamo cominciare dalla costatazione che questa parola « Chiesa » nell’italiano – come nel francese « Église » e nello spagnolo « Iglesia » – essa è presa dal greco « ekklēsía »! Essa viene dall’Antico Testamento e significa l’assemblea del popolo di Israele, convocata da Dio, particolarmente l’assemblea esemplare ai piedi del Sinai. Con questa parola è ora significata la nuova comunità dei credenti in Cristo che si sentono assemblea di Dio, la nuova convocazione di tutti i popoli da parte di Dio e davanti a Lui. Il vocabolo ekklēsía fa la sua apparizione solo sotto la penna di Paolo, che è il primo autore di uno scritto cristiano. Ciò avviene nell’incipit della prima Lettera ai Tessalonicesi, dove Paolo si rivolge testualmente « alla Chiesa dei Tessalonicesi » (cfr poi anche « la Chiesa dei Laodicesi » in Col 4,16). In altre Lettere egli parla della Chiesa di Dio che è in Corinto (1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1), che è in Galazia (Gal 1,2 ecc.) – Chiese particolari, dunque – ma dice anche di avere perseguitato « la Chiesa di Dio »: non una determinata comunità locale, ma « la Chiesa di Dio ». Così vediamo che questa parola « Chiesa » ha un significato pluridimensionale: indica da una parte le assemblee di Dio in determinati luoghi (una città, un paese, una casa), ma significa anche tutta la Chiesa nel suo insieme. E così vediamo che « la Chiesa di Dio » non è solo una somma di diverse Chiese locali, ma che le diverse Chiese locali sono a loro volta realizzazione dell’unica Chiesa di Dio. Tutte insieme sono « la Chiesa di Dio », che precede le singole Chiese locali e si esprime, si realizza in esse.

È importante osservare che quasi sempre la parola « Chiesa » appare con l’aggiunta della qualificazione « di Dio »: non è una associazione umana, nata da idee o interessi comuni, ma da una convocazione di Dio. Egli l’ha convocata e perciò è una in tutte le sue realizzazioni. L’unità di Dio crea l’unità della Chiesa in tutti i luoghi dove essa si trova. Più tardi, nella Lettera agli Efesini, Paolo elaborerà abbondantemente il concetto di unità della Chiesa, in continuità col concetto di Popolo di Dio, Israele, considerato dai profeti come « sposa di Dio », chiamata a vivere una relazione sponsale con Lui. Paolo presenta l’unica Chiesa di Dio come « sposa di Cristo » nell’amore, un solo corpo e un solo spirito con Cristo stesso. È noto che il giovane Paolo era stato accanito avversario del nuovo movimento costituito dalla Chiesa di Cristo. Ne era stato avversario, perché aveva visto minacciata in questo nuovo movimento la fedeltà alla tradizione del popolo di Dio, animato dalla fede nel Dio unico. Tale fedeltà si esprimeva soprattutto nella circoncisione, nell’osservanza delle regole della purezza cultuale, dell’astensione da certi cibi, del rispetto del sabato. Questa fedeltà gli Israeliti avevano pagato col sangue dei martiri, nel periodo dei Maccabei, quando il regime ellenista voleva obbligare tutti i popoli a conformarsi all’unica cultura ellenistica. Molti israeliti avevano difeso col sangue la vocazione propria di Israele. I martiri avevano pagato con la vita l’identità del loro popolo, che si esprimeva mediante questi elementi. Dopo l’incontro con il Cristo risorto, Paolo capì che i cristiani non erano traditori; al contrario, nella nuova situazione, il Dio di Israele, mediante Cristo, aveva allargato la sua chiamata a tutte le genti, divenendo il Dio di tutti i popoli. In questo modo si realizzava la fedeltà all’unico Dio; non erano più necessari segni distintivi costituiti da norme e osservanze particolari, perché tutti erano chiamati, nella loro varietà, a far parte dell’unico popolo di Dio della « Chiesa di Dio » in Cristo.

Una cosa fu per Paolo subito chiara nella nuova situazione: il valore fondamentale e fondante di Cristo e della « parola » che Lo annunciava. Paolo sapeva che non solo non si diventa cristiani per coercizione, ma che nella configurazione interna della nuova comunità la componente istituzionale era inevitabilmente legata alla « parola » viva, all’annuncio del Cristo vivo nel quale Dio si apre a tutti i popoli e li unisce in un unico popolo di Dio. È sintomatico che Luca negli Atti degli Apostoli impieghi più volte, anche a proposito di Paolo, il sintagma « annunciare la parola » (At 4,29.31; 8,25; 11,19; 13,46; 14,25; 16,6.32), con l’evidente intenzione di evidenziare al massimo la portata decisiva della « parola » dell’annuncio. In concreto, tale parola è costituita dalla croce e dalla risurrezione di Cristo, in cui hanno trovato realizzazione le Scritture. Il Mistero pasquale, che ha provocato la svolta della sua vita sulla strada di Damasco, sta ovviamente al centro della predicazione dell’Apostolo (cfr 1 Cor 2,2;15,14). Questo Mistero, annunciato nella parola, si realizza nei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia e diventa poi realtà nella carità cristiana. L’opera evangelizzatrice di Paolo non è finalizzata ad altro che ad impiantare la comunità dei credenti in Cristo. Questa idea è insita nella etimologia stessa del vocabolo ekklēsía, che Paolo, e con lui l’intero cristianesimo, ha preferito all’altro termine di « sinagoga »: non solo perché originariamente il primo è più ‘laico’ (derivando dalla prassi greca dell’assemblea politica e non propriamente religiosa), ma anche perché esso implica direttamente l’idea più teologica di una chiamata ab extra, non quindi di un semplice riunirsi insieme; i credenti sono chiamati da Dio, il quale li raccoglie in una comunità, la sua Chiesa.

In questa linea possiamo intendere anche l’originale concetto, esclusivamente paolino, della Chiesa come « Corpo di Cristo ». Al riguardo, occorre avere presente le due dimensioni di questo concetto. Una è di carattere sociologico, secondo cui il corpo è costituito dai suoi componenti e non esisterebbe senza di essi. Questa interpretazione appare nella Lettera ai Romani e nella Prima Lettera ai Corinti, dove Paolo assume un’immagine che esisteva già nella sociologia romana: egli dice che un popolo è come un corpo con diverse membra, ognuna delle quali ha la sua funzione, ma tutte, anche le più piccole e apparentemente insignificanti, sono necessarie perché il corpo possa vivere e realizzare le proprie funzioni. Opportunamente l’Apostolo osserva che nella Chiesa ci sono tante vocazioni: profeti, apostoli, maestri, persone semplici, tutti chiamati a vivere ogni giorno la carità, tutti necessari per costruire l’unità vivente di questo organismo spirituale. L’altra interpretazione fa riferimento al Corpo stesso di Cristo. Paolo sostiene che la Chiesa non è solo un organismo, ma diventa realmente corpo di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, dove tutti riceviamo il suo Corpo e diventiamo realmente suo Corpo. Si realizza così il mistero sponsale che tutti diventano un solo corpo e un solo spirito in Cristo. Così la realtà va molto oltre l’immagine sociologica, esprimendo la sua vera essenza profonda, cioè l’unità di tutti i battezzati in Cristo, considerati dall’Apostolo « uno » in Cristo, conformati al sacramento del suo Corpo.

Dicendo questo, Paolo mostra di saper bene e fa capire a noi tutti che la Chiesa non è sua e non è nostra: la Chiesa è corpo di Cristo, è « Chiesa di Dio« , « campo di Dio, edificazione di Dio, tempio di Dio » (1Cor 3,9.16). Quest’ultima designazione è particolarmente interessante, perché attribuisce a un tessuto di relazioni interpersonali un termine che comunemente serviva per indicare un luogo fisico, considerato sacro. Il rapporto tra Chiesa e tempio viene perciò ad assumere due dimensioni complementari: da una parte, viene applicata alla comunità ecclesiale la caratteristica di separatezza e purità che spettava all’edificio sacro, ma, dall’altra, viene pure superato il concetto di uno spazio materiale, per trasferire tale valenza alla realtà di una viva comunità di fede. Se prima i templi erano considerati luoghi della presenza di Dio, adesso si sa e si vede che Dio non abita in edifici fatti di pietre, ma il luogo della presenza di Dio nel mondo è la comunità viva dei credenti.

Un discorso a parte meriterebbe la qualifica di « popolo di Dio », che in Paolo è applicata sostanzialmente al popolo dell’Antico Testamento e poi ai pagani che erano « il non popolo » e sono diventati anch’essi popolo di Dio grazie al loro inserimento in Cristo mediante la parola e il sacramento. E finalmente un’ultima sfumatura. Nella Lettera a Timoteo Paolo qualifica la Chiesa come «casa di Dio» (1 Tm 3,15); e questa è una definizione davvero originale, poiché si riferisce alla Chiesa come struttura comunitaria in cui si vivono calde relazioni interpersonali di carattere familiare. L’Apostolo ci aiuta a comprendere sempre più a fondo il mistero della Chiesa nelle sue diverse dimensioni di assemblea di Dio nel mondo. Questa è la grandezza della Chiesa e la grandezza della nostra chiamata: siamo tempio di Dio nel mondo, luogo dove Dio abita realmente, e siamo, al tempo stesso, comunità, famiglia di Dio, il Quale è carità. Come famiglia e casa di Dio dobbiamo realizzare nel mondo la carità di Dio e così essere, con la forza che viene dalla fede, luogo e segno della sua presenza. Preghiamo il Signore affinchè ci conceda di essere sempre più la sua Chiesa, il suo Corpo, il luogo della presenza della sua carità in questo nostro mondo e nella nostra storia.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai fedeli della diocesi di Ischia, venuti con il loro Pastore Mons. Filippo Strofaldi, in occasione della conclusione del sinodo diocesano, evento prezioso di rilancio dell’attività pastorale. Saluto le partecipanti ai Capitoli Generali delle Francescane Missionarie di Maria e delle Serve di Maria Ministre degli Infermi. Care Sorelle, mantenete vivi i vostri rispettivi carismi e continuate con rinnovato slancio di carità sulla via tracciata dai vostri Fondatori. Saluto le Infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana, che ricordano il primo centenario di fondazione della loro Associazione e le incoraggio a proseguire nell’impegno di cristiana solidarietà verso il prossimo. Saluto l’Associazione regionale dei Cori pugliesi ed esorto ciascuno a fare del canto uno strumento di lode a Dio e un dono di gioia ai fratelli.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Cari amici, celebriamo oggi la festa di santa Teresa d’Avila. Questa grande Santa testimonia a voi cari giovani che l’amore autentico non può essere scisso dalla verità; mostra a voi, cari malati, che la croce di Cristo è mistero di amore redentore; per voi, cari sposi novelli, è modello di fedeltà a Dio, il quale affida ad ognuno una speciale missione.

rATZINGER J. (Papa Bendetto XVI): LA DOTTRINA PAOLINA DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO

Ratzinger J.,(Bendetto XVI), La Chiesa, Una comunità sempre in cammino, Ed Paoline, Cinisello Balsmo (MI) 1991)

Premessa: Origine e natura della Chiesa, parte 2.c. pag 23-28;

LA DOTTRINA PAOLINA DELLA CHIESA COME CORPO DI CRISTO

 

La nozione neotestamentaria di popolo di Dio non va dunque in alcun modo pensata separatamente dalla cristologia. Questa, daltra parte, non è una teoria astratta, bensì un evento che si concreta nei sacramenti del battesimo e delleucarestia. In essi la cristologia si apre alla dimensione trinitaria. Difatti questa infinita ampiezza e apertura pur essere solo del Cristo risorto, del quale san Paolo dice: «Il Signore è lo Spirito» (2Cor 3,17). E nello Spirito noi diciamo con Cristo: «Abbà», perché siamo diventati figli (cfr. Rm 8,15; Gal 4,5). Paolo dunque non ha introdotto in concreto nulla di nuovo chiamando la Chiesa «corpo di Cristo»; egli ci offre solo una formula concisa a indicare ciò che sin dal principio era caratteristico della crescita della Chiesa. E’ totalmente falsa laffermazione, pur ripetuta in continuazione, che Paolo non avrebbe fatto altro che applicare alla Chiesa unallegoria diffusa nella filosofia stoica del suo tempo. Lallegoria stoica paragona lo stato a un organismo in cui tutte le membra devono cooperare. Lidea dello Stato come organismo è una metafora per indicare la dipendenza di tutti da tutti e quindi limportanza delle diverse funzioni che sono allorigine della vita di una collettività. Questo paragone veniva utilizzato per calmare le masse in agitazione e richiamarle alle loro funzioni: ogni organo ha una sua particolare importanza; è insensato che tutti vogliano essere una stessa cosa, perché allora, anziché divenire qualcosa di più elevato, si abbassano tutti e si distruggono a vicenda. E’ incontestabile che Paolo ha ripreso anche questi pensieri, per esempio quando dice ai Corinti in lite fra loro che sarebbe insensato se dimprovviso il piede volesse essere mano, o lorecchio essere occhio: «Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe ludito? Se fosse tutto udito, dove lodorato? Ma Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come ha voluto Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo» (1Cor 12,16ss). Lidea del corpo di Cristo in san Paolo non si esaurisce tuttavia in simili riflessioni sociologiche e filosofico-morali; in tal caso sarebbe solo una glossa marginale delloriginario concetto di Chiesa. Già nel mondo precristiano greco e latino la metafora del corpo andava oltre. Lidea platonica secondo cui tutto il mondo costituisce un unico corpo, un essere vivente, fu sviluppata dalla filosofia stoica e ricollegata al concetto della divinità del mondo. Ma questo esula da ciò che qui stiamo trattando. Perché le vere radici dellidea paolina del corpo di Cristo sono senzaltro intrabibliche. Tre sono le origini accertabili di questidea nella tradizione biblica. C’è anzitutto sullo sfondo la nozione semitica di «personalità corporativa», che si esprime ad esempio nel pensiero: noi tutti siamo Adamo, un unico uomo in grande. Nellepoca moderna con la sua esaltazione del soggetto questidea è diventata del tutto incomprensibile. Lio è ora una roccaforte, dalla quale non si esce più. E’ tipico il fatto che Cartesio cerchi di dedurre tutta la filosofia dall’«io penso», perché soltanto lio appariva ancora disponibile. Oggi la nozione di soggetto a poco a poco si dissolve nuovamente: diviene evidente che non esiste un io rigidamente chiuso in se stesso, dato che molteplici forze penetrano in noi e da noi promanano. Nel contempo si torna di nuovo a comprendere che lio si forma a partire dal tu e che i due si compenetrano reciprocamente. Così potrebbe essere di nuovo accettabile quella visione semitica della personalità corporativa, senza la quale difficilmente si può entrare nellidea di corpo di Cristo. Esistono, inoltre, due radici più concrete della formula paolina. Luna è presente nelleucarestia, con la quale il Signore stesso ha formalmente determinato il sorgere di questa idea. «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo», dice Paolo ai Corinzi, nella stessa lettera, dunque, in cui sviluppa per la prima volta la dottrina del corpo di Cristo (1Cor 10,16s). Qui noi troviamo il suo vero fondamento; il Signore diviene nostro pane, il nostro nutrimento. Egli ci fa il suo corpo; una parola che però va pensata a partire dalla risurrezione e dallo sfondo linguistico semitico da cui muove san Paolo. Il corpo è il sé di un uomo, che non si risolve nel corporeo, ma che comprende anche il corporeo, Cristo ci da se stesso, lui che, in quanto risorto, è rimasto corpo. Sebbene in modo nuovo, il fatto esteriore del mangiare diviene espressione di quel compenetrarsi di due soggetti che già pocanzi abbiamo preso brevemente in considerazione. Comunione significa che la barriera apparentemente invalicabile del mio io viene infranta e può essere infranta poiché Gesù per primo ha voluto aprire tutto se stesso, ci ha tutti accolti dentro di sé e si è dato totalmente a noi. Comunione significa dunque fusione delle esistenze; come nellalimentazione il corpo può assimilare una sostanza estranea e così vivere, così il mio io viene «assimilato» a Gesù stesso, fatto simile a lui in uno scambio che spezza sempre più le linee di separazione. E’ quanto avviene a quelli che si comunicano; tutti vengono assimilati a questo «pane» e divengono così tra loro una sola cosa: un solo corpo. In questo modo leucaristia edifica la Chiesa, aprendo le mura della soggettività e radunandoci in una profonda comunione esistenziale. Per essa ha luogo l’«adunanza» tramite la quale il Signore ci riunisce. La formula: «la Chiesa è il corpo di Cristo» afferma dunque che leucarestia, in cui il Signore ci da il suo corpo e fa di noi un solo corpo, è il luogo dellininterrotta nascita della Chiesa, nella quale egli la fonda sempre di nuovo; nelleucaristia la Chiesa è se stessa nel modo più intenso; in tutti i luoghi e nondimeno una sola, così come lui è uno solo. Con queste riflessioni siamo giunti alla terza radice del «corpo di Cristo» nella concezione paolina; lidea del rapporto sponsale o se vogliamo esprimerci in termini neutrali la filosofia biblica dellamore, che è inseparabile dalla teologia eucaristica. Questa filosofia dellamore si presenta subito al principio della sacra Scrittura, a conclusione del racconto della creazione, allorché ad Adamo viene attribuita la parola profetica: «Per questo luomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Una carne, vale a dire: ununica nuova esistenza. Anche questa idea del divenire una sola carne nellunione di anima e corpo delluomo e della donna viene ripresa nella prima lettera ai Corinzi da Paolo, il quale precisa che essa si avvera nella comunione: «Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,17). Anche qui la parola «spirito» non devessere intesa secondo la sensibilità linguistica moderna, ma dobbiamo leggerla nellaccezione paolina; in tal caso non è così lontana dal «corpo» nel significato. Essa vuole indicare una sola esistenza spirituale con colui che nella risurrezione è divenuto «Spirito» dallo Spirito Santo ed è rimasto corpo nellapertura dello Spirito Santo. Ciò che poco fa è stato sviluppato a partire dallimmagine del nutrimento, diviene ora più trasparente e comprensibile a partire da quella dellamore; nel sacramento come atto dellamore avviene questa fusione di due soggetti che superano la loro divisione e divengono una cosa sola. Il mistero eucaristico, proprio nellapplicazione metaforica dellidea sponsale, rimane il nucleo del concetto di Chiesa e della sua definizione mediante la formula «corpo di Cristo». Ma ora appare in primo piano un nuovo e più importante aspetto, che potrebbe essere dimenticato in una teologia sacramentarla di corto respiro, ed è che la Chiesa è corpo di Cristo nel modo in cui la moglie insieme al marito diviene un solo corpo e una sola carne. In altre parole: essa è corpo non secondo una identità indifferenziata, ma in virtù dellatto pneumatico-reale dellamore che unisce gli sposi. Detto ancora con altri termini: Cristo e la Chiesa sono corpo nel senso in cui marito e moglie sono una sola carne, così che pur nella loro inscindibile unione fisico-spirituale restano tuttavia non mescolati e non confusi. La Chiesa non diventa semplicemente Cristo, essa rimane la serva che nel suo amore egli innalza a sua sposa che cerca il suo volto in questa fine dei tempi. Ma in questo modo sul fondamento dellindicativo che si annuncia nelle parole «sposa» e «carne», appare anche limperativo dellesistenza cristiana. Diviene perciò evidente il carattere dinamico del sacramento, che non è una realtà fisica predeterminata, ma qualcosa che si realizza a livello personale. Proprio il mistero damore come mistero sponsale manifesta limmensità del nostro compito e la possibilità di caduta nella Chiesa. Sempre di nuovo, attraverso lamore unificante, essa deve divenire ciò che essa è, e sottrarsi alla tentazione di rifiutare la propria vocazione per cadere nellinfedeltà di unarbitraria autonomia. Diviene evidente il carattere relazionale e pneumatologico dellidea di corpo di Cristo e della concezione sponsale, e la ragione per cui la Chiesa non è mai giunta a perfezione ma ha sempre bisogno di rinnovamento. Essa è sempre in cammino verso lunione con Cristo: ciò che comporta anche la sua propria, interiore unità che diviene, viceversa, tanto più fragile, quanto più si allontana da questo rapporto fondamentale.

Publié dans:teologia - eccesiologia |on 29 juin, 2008 |Pas de commentaires »

di Joseph Ratzinger/ Papa Benedetto XVI: « Il legame tra eucaristia e fede in Paolo »

di Joseph Ratzinger/ Papa Benedetto XVI:

« IL LEGAME TRA EUCARISTIA E FEDE IN PAOLO »

(pongo questa lettura anche sotto la categoria: teologia-cristologia ed ecclesiologia)

stralcio dal libro: La Comunione nella Chiesa, Edizioni San Paolo 2004, Cinisello Balsamo (MI) 2004, dal: Cap. V Eucaristia e Missione, parte prima: « La teologia della croce come presupposto e fondamento della teologia eucaristica », 1. « La teologia della croce come presupposto e fondamento della teologia eucaristica », pag 97-101:

« …Se…cerchiamo di cogliere il legame fra eucarestia e fede secondo Paolo, emerge allora come prima cosa che esistono tre strati molti diversi nella presentazione del tema, che certamente sono strettamente legati tra loro nelle loro radici e nelle loro intenzioni. Vi è anzitutto l’interpretazione della morte in croce di Cristo con categorie culturali, che costituisce il presupposto interiore di ogni teologia eucaristica. oggi noi percepiamo a stento la grandezza di questa intuizione. Un evento in sé profano, l’esecuzione di un uomo nel più crudele dei modi possibili, viene descritto come liturgia cosmica, come apertura del cielo serrato, come l’avvenimento nel quale ciò che in tutti i culti è ultimamente inteso e invano cercato finalmente diventa realtà. Paolo, utilizzando antiche formule prepaoline, ha elaborato il testo fondamentale per questa interpretazione in Rm 3,24-26. Ciò però fu possibile solo perché Gesù stesso nell’ultima Cena aveva anticipatamente assunto e vissuto la sua morte, trasformandola dall’interno in un evento di dono e di amore. A partire di qui Paolo poteva designare Cristo come , termine che indicava nel linguaggio cultuale dell’Antico Testamento il punto centrale del Tempio, il coperchio che stava sopra l’arca dell’alleanza. Esso era chiamato , che in greco fu tradotto in ed era considerato come il luogo sopra il quale Dio si manifestava in una nuvola. Questo era asperso con il sangue dell’espiazione, che in questo modo doveva avvicinarsi il più possibile a Dio stesso. Quando Paolo dice: Cristo è questo centro del Tempio andato perduto con l’esilio, il vero luogo dell’espiazione, il vero , l’esegesi moderna ha interpretato ciò come trasformazione spiritualizzante dell’antico culto e così di fatto come eliminazione del culto, come la sua sostituzione con la vita spirituale e morale. Ma è vero proprio il contrario: per Paolo non è il tempio la vera realtà del culto e l’altro una specie di allegoria, ma le cose sono all’inverso. I culti umani, incluso quello dell’Antico Testamento, sono solo ombre del vero culto di Dio, che non si realizza nei sacrifici di animali. Quando nel libro dell’Esodo descrivendo la tenda dell’Alleanza, che era il modello del tempio, vien detto che Mosè ha costruito tutto secondo l’immagine che egli aveva visto presso Dio, i Padri hanno trovato qui espresso il carattere soltanto prefigurativo del culto del tempio. E in realtà i sacrifici di animali e di cose inanimate solo sempre solo tentativi parziali di sostituzione dell’essere umano, che dovrebbe donare se stesso, non nella forma crudele del sacrificio umano, ma nella totalità del suo esser. Ma proprio questo egli non era e non è in grado di fare. Così per Paolo come per tutta la tradizione cristiana è chiaro che il donarsi volontario di Gesù non è una dissoluzione allegorica del concetto di culto, ma che qui finalmente le intenzioni della festa dell’Espiazione divenivano realtà, così come la lettera agli Ebrei ha poi ampiamente illustrato. Non gli uccisori di Cristo offrono un sacrificio: pensare questo sarebbe una perversione. Cristo dà gloria a Dio, in quanto egli dona se stesso e introduce l’essere umano nell’essere stesso di Dio. H Gese ha interpretato così il significato di Rm 3,25:

Ma qui nasce la domanda: come si è potuto giungere a spiegare la croce di Gesù in tale modo, vederla come la realizzazione di ciò che nei culti delle varie religioni e soprattutto dell’Antico Testamento era inteso, spesso orrendamente distorto e mai veramente raggiunto? Che cosa ha reso possibile un simile ripensamento così grandioso di questo evento, il trasferimento di tutta la teologia cultuale dell’Antico Testamento su di un avvenimento in apparenza così profano? La risposta l’ho già enunciata prima: Gesù stesso aveva preannunciato la sua morte ai discepoli e l’aveva interpretata con categorie profetiche, che gli erano state offerte soprattutto nei canti del Servo di Dio del Deutero Isaia. In questi testi aveva già fatto la sua apparizione il motivo dell’espiazione e della sostituzione, che appartiene al grande ambito del pensiero cultuale. Nel cenacolo egli approfondisce questo fondendo la teologia del Sinai e quella profetica, fusione da cui ora emerge la realtà del sacramento nel quale egli assume la sua morte, l’anticipa e nello stesso tempo la rende capace di esser presente come culto sacro per tutti i tempi. Senza una tale essenziale interpretazione di fondo nella vita e nell’agire di Gesù stesso, la nuova comprensione della croce è impensabile, nessuno avrebbe potuto per così dire imporla alla croce retrospettivamente. Così la croce diventa anche la sintesi delle feste dell’Antica Alleanza, del giorno dell’espiazione e della Pasqua allo stesso tempo, apertura a una nuova Alleanza.

Possiamo quindi dire che la teologia della croce è teologia eucaristica e viceversa. … »

 

interrompo il discorso qui, con dispiacere naturalmente, perché il discorso continua riprendendo il tema della teologia della croce nel quale è inserito questa lettura di San Paolo.

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