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LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE: IN CARNE ED OSSA

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana7.htm

Michel Quesnel

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE

IN CARNE ED OSSA

(anche Paolo)

ELOGIO DEL CORPO
Il filosofo Celso, il cui nome è legato alla polemica anticristiana che si sviluppò nel secondo secolo della nostra era, criticava i cristiani definendoli « popolo che ama il corpo ». Vi è di che stupire i nostri contemporanei i quali pensano che la morale ebraico cristiana, come la definiscono, ponga sul corpo uno sguardo negativo. Tra i protestanti dal look austero ed i cattolici impacciati, sembra che ci sia poco spazio nel cristianesimo per la valorizzazione del corpo.
Lontano discepolo di Platone, Celso considerava che il corpo fosse la tomba o la prigione dell’ anima, la sola che recasse in sé la nobiltà della condizione umana. Ora, fin dalle origini del loro movimento, i cristiani hanno fondato la propria fede sulla resurrezione di Gesù, una resurrezione corporale; ed è ad un eguale futuro, la resurrezione del corpo, che sono destinati gli uomini.
Le raffigurazioni artistiche che ne sono state fatte sono state dunque al servizio della resurrezione. I timpani delle cattedrali esibiscono tombe che si aprono e cadaveri che ne escono. Il superbo affresco di Signorelli, nel duomo di Orvieto, così come il Giudizio Universale, dipinto da Michelangelo nella cappella Sistina, raffigurano la resurrezione finale mediante rappresentazioni di scheletri che si ricoprono di carne ed ossa.
Esteticamente parlando, abbiamo qui dei puri e semplici capolavori. Il testo biblico che li ispira è dapprima la scena delle ossa aride al capitolo 37 del libro del profeta Ezechiele, poi gli insegnamenti del Nuovo Testamento sulla fine dei tempi. Credere nella resurrezione non esige in nessun modo di rappresentarsela in termini di tombe che si aprono e di corpi terrestri che si ricostituiscono a partire dalle cellule che un tempo li avevano composti. Le scienze della natura e della vita ci insegnano che dopo la nostra morte i nostri cadaveri o le nostre ceneri saranno ricic1ati biologicamente, e che le nostre antiche cellule non conserveranno traccia di ciò che saremo stati.
A questo proposito, san Paolo fa un ‘utile distinzione fra il corpo e la carne. Per lui la carne è la materia che ci compone; essa appartiene soltanto a questo mondo. Il nostro corpo, in compenso, è ciò grazie a cui siamo degli organismi strutturati, in relazione con gli altri uomini e con il resto del mondo creato. È lui – e non le nostre cellule – che passerà da questo mondo nell’altro, dopo che Dio lo avrà trasformato in un corpo nuovo, del quale siamo incapaci di immaginare la futura forma. L’apostolo esprime, con ciò, una speranza fondamentale, cioè che la vita nell’ aldilà non è una specie di fusione in un immenso tutto indifferenziato, ma una vita nuova nella quale la nostra personalità e le relazioni che avremo costruito si prolungheranno. È il dato più grande dell’antropologia e della cosmologia cristiane.
Perché allora i cristiani vengono ritenuti così riservati, anche così pudibondi, quando si tratta del corpo? Sembra che esistano almeno due ragioni. La prima è congiunturale. Non è tanto al corpo che le società occidentali moderne consacrano un’enorme attenzione, quanto alla sua immagine. È il corpo visibile, il corpo fotografato, il corpo in superficie. Sono più attente al corpo così come può essere colto da un apparecchio fotografico che allo stesso corpo esaminato ai raggi X o al laser, in tutto il suo spessore e la, sua profondità. Ognuno è attento al proprio look, sforzandosi di rispettare canoni fissati da altri; corporalmente parlando, è attento all’immagine che dà di sé molto più di quanto lo sia a quello che egli è. Stupefacente paradosso: riguardo al fisico come a molte altre cose, siamo molto dipendenti dalle immagini sociali, proprio mentre rivendichiamo libertà fondamentali!
Di tanto in tanto, fortunatamente, qualche soprassalto di lucidità rimette le cose a posto. Qualche anno fa all’ingresso di molti body shops veniva appesa una frase che, citando a memoria, era formulata pressappoco così: « Sei donne al mondo sono top-models… Tre miliardi non lo sono ». L’autore di questa saggia osservazione non spiegava quale fosse la sua intenzione, ma è possibile leggerla come denuncia del machismo attuale che impone ai corpi femminili di assomigliare ai fantasmi dei maschi occidentali di oggi, cioè alti, smilzi e svelti.
L’attaccamento al vestiario è l’espressione più visibile dell’importanza accordata all’immagine che il corpo dà di se stesso. Ora, « la vita non vale forse più del cibo ed il corpo più del vestito? » chiedeva Gesù (Mt 6,25). Curare il proprio vestiario non significa necessariamente rispettare il proprio corpo. Non c’è che da vedere la stravaganza di certi abbigliamenti in rapporto alla forma e al benessere del corpo: dai corpetti delle nostre nonne ai tacchi altissimi o ai jeans inguainanti delle nostre contemporanee, numerose donne sono pronte a martirizzare il loro corpo per presentare la propria immagine secondo i canoni della moda. Si tratta di un modo ben curioso di onorare il proprio corpo!
La seconda motivazione dell’opinione che pesa sui cristiani in quanto non accorderebbero che un minimo valore al corpo, e che è una variante della prima, viene dal fatto che essi reagiscono contro la strumentalizzazione del corpo. Corpo oggetto, corpo idolatrato, il corpo si trova come isolato dalla persona che lo abita. Si « fa l’amore » senza che vi sia amore, si sostituisce al legittimo erotismo un’avvilente pornografia, si beve senza aver sete… Si privilegia l’ordine dell’apparire più di quello dell’ essere. Ora, antropologicamente parlando, pensare che si abbia un corpo è un’approssimazione. Sarebbe più giusto dire che si è un corpo. Il mio corpo è costitutivo di ciò che sono; non posso cambiarlo. Poca o tanta cura della mia personale coerenza che io possa avere, rifiuterò di strumentalizzare il mio corpo e quello di chicchessia. Questo forse mi farà sembrare sorpassato agli occhi di alcuni tra i miei contemporanei. Ma le mie relazioni con i corpi umani nella loro totalità diverranno più armoniose.
Il mio corpo, secondo Pierre Teilhard de Chardin, è una « totalità dell’universo che io possiedo parzialmente », mentre invece sono sempre tentato di considerarlo come « una parte dell’universo che possiedo totalmente ». Attraverso il mio corpo, qualcosa dell’intero universo è in me e, in un certo qual modo, mi oltrepassa e merita di essere rispettata. San Paolo – ancora lui
scriveva del corpo umano che è « tempio dello Spirito Santo » (1Cor 6,19). Rispettandolo, rispetto l’intero universo. Valorizzando la sua bellezza, porto un tocco ornamentale alla creazione. Estetista e creatore di moda sono bei mestieri, quasi arti. Le cure corporali sono legittime. Un corpo non curato è, in genere, il segno di una vita che, nel suo insieme, non lo è di più. Al contrario, un bel corpo accresce il fascino della vita, ed ogni corpo ha in sé un valore tale da essere ammirato. Può succedere che un corpo sia infermo o ferito e, per questo, difficile da accettare. Ma, come mostra benissimo il film di François Dupeyron, La chambre des officiers, non c’è corpo così sfigurato da non poter essere amabile ed amato.
La Bibbia valorizza la bellezza del corpo e l’erotismo. Il dialogo appassionato tra l’amante e l’amata del Cantico permette di non dimenticarlo.
* * *
« Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe. Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso! Anche il nostro letto è verdeggiante » (Ct 1,15-16).
IN CARNE ED OSSA
ELOGIO DEL DESIDERIO
Curioso destino di un sostantivo che dice tutto il suo contrario. Etimologicamente, il termine latino desiderium evoca il tramonto di un astro: è il desiderio di qualche cosa o di qualcuno che non è più presente, con una sfumatura di rimpianto e di nostalgia. Ma l’evoluzione nell’uso ha fatto del termine qualcosa di più attivo e bruciante: il colore del desiderio è il rosso, il suo elemento è il fuoco. Nelle religioni il desiderio è spesso mal visto. È fisico, sensuale, difficile da controllare; odora di peccato, furore ed adulterio. Tuttavia i tempi moderni, al seguito del dottor Freud e di alcuni teologi come sant’ Agostino, san Bernardo e san Tommaso d’Aquino, l’hanno riabilitato. Un bel libro di Denis Vasse (16) sugli atteggiamenti religiosi s’intitola Le temps du désir (Il tempo del desiderio). Il desiderio è una componente delle tre virtù teologali. La fede cristiana si nutre del desiderio di Dio, la speranza del desiderio di vivere per sempre, e la carità del desiderio dell’altro. « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione », annunciava Gesù ai suoi discepoli nei minuti che precedettero l’ultima cena (Lc 22,15). L’esempio viene dall’alto.
Il desiderio è presente nella vita del credente anche quando la parola ne è assente. Tutte le preghiere che innalziamo a Dio all’imperativo sono espressione di un desiderio che non viene nominato. Si potrebbe riscrivere il Padre nostro inserendo il verbo « desiderare » in ogni frase: « Desideriamo che il tuo nome sia santificato, desideriamo che venga il tuo regno, desideriamo che sia fatta la tua volontà. .. Desideriamo che tu ci doni il pane quotidiano e che tu rimetta i nostri peccati, e che tu non ci faccia provare la tentazione, e che ci liberi dal male ». Visto che gli imperativi rivolti a Dio non possono essere un ordine, essi esprimono un desiderio. Potremmo dedicarci allo stesso esercizio con la maggior parte dei salmi e ritrovare in essi la medesima costante. Citiamo soltanto questo: « Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio » (SI 42,2). Tutti gli scritti del patrimonio ebraico e cristiano riservano uno spazio al desiderio.
Ma non tutte le religioni hanno la medesima concezione. Nel buddismo, ad esempio, il desiderio non ha nessun valore. Poiché implica una mancanza, esso comporta una sofferenza che non è compatibile con la serenità. È una disposizione imperfetta. Il nirvana, al contrario, consiste nell’assenza di desiderio. Il Budda immobile non si può tendere verso qualcosa. La tensione implicita nel desiderio trova il proprio spazio solo nelle correnti spirituali nelle quali il movimento è costitutivo e che hanno una visione positiva della mancanza. Il desiderio apre una breccia nell’universo delle mediocrità e delle soddisfazioni. Mette in marcia, permette la caduta e favorisce la ripresa.
Per attribuirgli l’intera sua importanza nel cristianesimo, conviene non limitarne la concezione positiva al solo desiderio di Dio. Perché il desiderio ha un’estensione più ampia. Accanto al desiderio di conoscere e di avvicinare Colui che è il bene supremo esistono desideri minori, che non si oppongono alla sete spirituale e che possono indicarne il cammino. Non è cattivo il desiderio di possedere dei beni, a condizione che ciò non avvenga a qualsiasi prezzo; questo mette in movimento e permette di fare del bene attorno a sé. È bene desiderare di unirsi al corpo di chi si ama, se si rispetta la sua libertà; la comunione fisica è sorgente di fecondità, e non solo di fecondità nella procreazione. È bene aver voglia di mangiare cose buone; significa rendere onore ai frutti della terra e all’arte culinaria che s’ingegna a prepararli. È bene aver voglia di andare veloci al volante di un’auto o sulle pendici di un monte innevato; la velocità genera una sensazione di pienezza che non c’è motivo di rifiutare a se stessi. Accanto a tutti questi desideri buoni il moralista porrà necessariamente la nozione di misura, cioè di controllo. Perché lasciando libero corso a tutti i suoi desideri l’uomo ne diverrebbe schiavo, senza contare i danni che potrebbe causare ad altri.
Ma avremmo torto se proibissimo il desiderio a causa dei suoi possibili eccessi. Volendolo contenere troppo, lo si uccide o lo si fa esplodere. Il puritanesimo, che non ha riconosciuto il ruolo essenziale del desiderio nella costruzione della persona umana, ha dato vita a generazioni di frustrati. O, all’opposto, ha prodotto persone che hanno fatto saltare tutte le norme perché quelle che si voleva loro imporre sembravano stupide o castranti.
Paolo, l’apostolo focoso, era un essere di desiderio. Nelle prime righe dell’epistola ai Romani, lettera indirizzata a una comunità cristiana che non aveva ancora visitato, esprime con calore la voglia che ha di incontrarla. Facendo questo lascia intravedere la sua fiamma.
* * *
« Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi ed io. Non voglio pertanto che ignoriate,
fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma » (Rm 1,9-15).
[16] Gesuita, medico e psicanalista contemporaneo.
IN CARNE ED OSSA
ELOGIO DELLA BELLEZZA
« Datemi un’anima santa, Signore, che contempli la bellezza e la purezza, affinché non si spaventi vedendo il peccato ma sappia ricondurre al bene la situazione ». Così si esprimeva san Tommaso Moro, cancelliere di Enrico VIII, nella celebre preghiera che comincia con: « Concedetemi una buona digestione, o Signore. . . ».
Contemplare la bellezza, guardare con purezza, considerare il mondo con benevolenza, offrire spontaneamente fiducia, tutti questo obiettivi costituiscono aspetti differenti del medesimo atteggiamento di fondo. « Dio vide che questo era buono », proclama il libro della Genesi nel primo racconto della creazione (Gn 1,10). Si potrebbe anche tradurre: « E Dio vide che questo era bello ». Bellezza e bontà appartengono allo stesso ordine. San Tommaso d’Aquino considerava tre trascendentali dell’Essere: l’Uno, il Vero e il Bene; ma ne aggiungeva un quarto, un trascendentale derivato, il Bello. In questo non era infedele né alla Bibbia né agli antichi filosofi greci. Questi ultimi avevano inventato una nuova qualità a partire dai due aggettivi « bello e buono »: kalòs kagathòs. La nozione, in effetti, è globale.
Come tutto ciò che è essenziale, la bellezza è difficile da definire. Nel 2004 Umberto Eco ha accettato la sfida di scriverne la storia: Storia della bellezza, dà come titolo alla sua opera. Naturalmente, è un libro illustrato, perché la bellezza si guarda. Manca un CD che permetterebbe di capirne di più, perché la bellezza si ascolta anche. Tutti i sensi partecipano. Nessuno è insensibile alla gioia che la bellezza procura, comprese perfino quelle persone che si dichiarano insensibili al cospetto dell’ arte.
La bellezza esiste allo stato naturale: si impone attraverso un bel paesaggio che ci tocca il cuore; irradia da un bel corpo, cosa che fa sì che la giovinezza venga considerata l’età dell’oro; s’irradia da un bel fiore che è, come sappiamo, l’organo sessuale della maggior parte dei vegetali. Ma la bellezza si fabbrica anche. È il lavoro degli artisti, che sono gli artigiani della bellezza. Più di altri, forse, essi prolungano, attraverso il loro lavoro, l’opera di Dio, creatore del visibile e dell’invisibile. « Il bello ci deve elevare – scriveva Pio XII nella sua Lettera agli artisti. – La funzione di tutte le arti consiste nell’ infrangere lo spazio stretto ed angosciante del finito nel quale è immerso l’uomo quaggiù, per aprire una specie di finestra al suo spirito che tende all’infinito ».
Che cosa sarebbe un mondo senza bellezza? Basta vedere a qual punto la bruttezza sia destabilizzante per rispondere che sarebbe un inferno. Perché i centri storici delle città appaiono così attraenti? Le ragioni sono di certo molteplici, ma una di esse consiste in questo: molti edifici di periferia sono esteticamente mal riusciti, i loro abitanti ne fuggono la bruttezza. La bellezza favorisce l’armonia, compresa quella delle relazioni umane; la bruttezza, al contrario, è una delle sorgenti di violenza. Consciamente o inconsciamente gli architetti e gli urbanisti che costruiscono brutti edifici seminano granelli di criminalità.
Ne L’idiota, Dostoievski fa porre questa domanda all’ateo Ippolito: « Ma quale bellezza salverà il mondo? ». Attraverso questa domanda scettica, nella quale non si riconosce, il romanziere russo esprime la propria convinzione, più volte ripresa in seguito da autori di ogni famiglia spirituale, che « la bellezza salverà il mondo ». È quasi diventato uno slogan che, a differenza di altri, forse ha il merito di essere vero.
I teologi di numerose correnti religiose sono sensibili alla dimensione estetica della fede. È bello credere. L’oggetto della fede è bello. La religione è, da sempre, sorgente di ispirazione artistica; e il cristianesimo ha avuto, in questo ambito, una grande parte. La celebre statua di Cristo che orna l’ architrave del portale centrale, sulla facciata della cattedrale di Amiens, viene chiamata da una tradizione popolare antichissima « il Dio bello ». Rappresenta infatti un giovane uomo dalle sembianze regolari bellissime, conforme ai canoni estetici dell’epoca gotica; non sarebbe stato possibile pensare di non rispettarli scolpendo l’immagine di colui che è parola e immagine di Dio. Se ci vuole così tanto tempo per dipingere un’icona, è perché essa sia il riflesso della bellezza interiore che illumina il cuore di un artista credente.
Uno dei rimproveri mossi alla liturgia uscita dal concilio Vaticano II è la perdita della dimensione estetica delle celebrazioni. Certo, una spolveratura si imponeva. Non rimpiangiamo la pompa di un tempo; la nostalgia esasperata delle cerimonie di stile antiquato si nutre più spesso di sterile conservatorismo che di amore per la bellezza. Ma il cattolico medio che si sposta oggi da una parrocchia all’altra è spesso obbligato, bisogna riconoscerlo, a subire qui e là celebrazioni banali in luoghi banali, presiedute da preti i cui ornamenti sono tutt’altro che ornamentali. Già nel 1935, tuttavia, venne fondata la rivista L’art sacré (L’arte sacra), dove trovò posto l’interrogativo estetico di padre Couturier (17), collegato a quello di numerosi artisti. Fu un lavoro pionieristico, anche se la ricaduta sulla vita quotidiana della Chiesa non ha dato ancora tutti i frutti.
Immagine e somiglianza di Dio, la persona umana è stata creata bella in un mondo bello. Alcune sozzure sfigurano questa immagine, è vero, ma vengono lavate nell’ acqua del battesimo, come esprime molto bene il rituale di questo sacramento, e poi attraverso il sacramento della riconciliazione che ne costituisce, in qualche modo, il prolungamento. Il più grande compito dell’uomo riconciliato è quello di produrre, a sua volta, la bellezza: come giardiniere del mondo e cesellatore di relazioni armoniose, partecipa all’opera della creazione, che prosegue. Se agisce in modo opposto, distrugge se stesso ed il mondo con sé. Il disprezzo, il vandalismo e l’inquinamento sono regressioni.
Nei consigli dati a Timoteo, discepolo di Paolo, viene spesso tradotto con « buono » l’aggettivo greco kalòs il cui senso primo evoca piuttosto la bellezza, ed anche la bellezza fisica. Se si rimette il termine « bello » al suo posto, il testo assume ancora maggior rilevanza.
* * *
« Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la bella battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare immacolato e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,

che al tempo stabilito sarà a noi rivelata
dal beato e unico sovrano,
il re dei regnanti e signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità,
che abita una luce inaccessibile;
che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere.
A lui onore e potenza per sempre. Amen ».
(1 Tim 6,11-16)

[17] Marie Alain Couturier (1897-1954), domenicano, artista e critico d’arte (n.d.t.).

Santità

http://www.albatrus.org/italian/teologia/peccato/santita’.htm

(sul sito ogni citazione è, anche, un link al testo; non capisco se questo sito è cattolico, il testo, comunque,  è interessante e utile, credo)

Santità

aymon de albatrus

“Procacciate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore,” (Ebr 12:14)
La Santità è lo stato o la qualità di essere Santi. La Santità significa lo stato di essere stati messi a parte per il culto e il servizio di Dio. Questo stato è più spesso applicato alla gente ma si può anche applicare ad oggetti, tempi o luoghi. La definizione di Santità nel più alto senso appartiene a Dio e a Cristiani consacrati al servizio di Dio, come sono conformati su tutto al volere di Dio. Amen
La Santità è la purezza del cuore, incontaminata, separata dal peccato e peccatori. Noi non possiamo diventare Santi senza l’opera dello Spirito Santo. Le caratteristiche della Santità sono 9 secondo la Sacra Scrittura: “Ma il frutto dello Spirito è: amore gioia, pace, pazienza, gentilezza, bontà, fede, mansuetudine, autocontrollo.” (Gal 5:22) Contro queste non c’è Legge.
La perfetta Santità è la qualità della perfezione, mancanza di peccato e inabilità di peccare che è posseduta solo da Dio, infatti Dio è tre volte Santo: “L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è l’Eterno degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria».” (Isa 6:3) Come Cristiani noi siamo chiamati a ricercare la santità (1Pi 1:16). Ma questo non si riferisce alla nostra natura, invece è un commando per le nostre abitudini e pensiero. Dobbiamo essere Santi in obbedienza (1Pi 1:14) Dio ci ha fatti santi attraverso Suo Figlio Gesù (Efe 1:4; 1Pi 2:9). Legalmente siamo stati fatti Santi, ma empiricamente lo Spirito Santo lavora questa Santità dentro di noi.
Essere santificati significa essere messi a parte per uso santo. Dio ci ha separati per scopo di santificazione, non per impurità (1Te 4:7) ed essendo tali siamo chiamati a fare lavori buoni (Efe 2:10).
Come Cristiani noi dobbiamo santificare Cristo come Signore dei nostri cuori (1Pi 3:15). Dio santificò Israele come la Sua nazione speciale (Eze 27:28). La gente può essere santificata (Eso 19:10,14) e così pure una montagna (Eso 19:23) e lo stesso il giorno di Sabbath (Gen 2:3), e qualsiasi altra cosa creata è santificata attraverso la Parola di Dio e la preghiera (1Ti 4:4).
La Santificazione segue la Giustificazione. Con la Giustificazione i nostri peccati (passati, presenti e futuri) sono completamente perdonati in Cristo, perché niente ci può separare dall’amore di Cristo (Rom 8:38,39). La Santificazione è il processo per il quale lo Spirito Santo ci fa crescere nell’immagine di Cristo in tutto quello che facciamo, pensiamo e desideriamo. Vera santificazione è impossibile da noi stessi, a parte al lavoro espiatorio di Cristo sulla croce perché solo dopo che i nostri peccati sono perdonati possiamo cominciare a condurre una vita santa.
Nel processo di essere salvati è importante differenziare fra la Giustificazione e la Santità. La Giustificazione è un’altra parola per Salvezza. Gesù diede la sua vita sulla croce come sacrificio per i nostri peccati. Il Suo santo sangue lava tutti i nostri peccati e ci libera da una eternità di sofferenza e condanna. Noi siamo salvati una volta per un atto Sovrano di Dio, e salvati per sempre. Noi non possiamo fare niente per meritarci la Salvezza (Giustificazione) è il dono dato ad ogni figlio di Dio indipendentemente da razza, età, maturità o merito. La Santificazione invece è un processo che dura tutta la vita su questa terra come risultato della Salvezza. Al momento della conversione, lo Spirito Santo entra la nostra vita e noi siamo fatti liberi di vivere la vita che Dio vuole per noi. Noi dunque siamo santificati semplicemente dovuto alla posizione che abbiamo in Dio come anime perse salvate per Grazia. Infatti noi eravamo già salvati prima che il tempo fosse, ancor prima della fondazione del mondo: “3 ¶ Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesú Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo, 4 allorché in lui ci ha eletti prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi e irreprensibili davanti a lui nell’amore, 5 avendoci predestinati ad essere adottati come suoi figli per mezzo di Gesú Cristo secondo il beneplacito della sua volontà,” (Efe 1:3-5)
Santificazione è un termine forense, nel senso che legalmente davanti a Dio, avendo avuto i nostri peccati perdonati, la punizione dovuta per i nostri peccati è stata cancellata e noi siamo stati consacrati a Lui attraverso la meravigliosa e non meritata Grazia di Dio tramite il sacrificio di Cristo sulla croce che ha pagato pienamente per i nostri peccati: “……. anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana.” (Isa 1:18)
Con la santificazione una persona è messa a parte da Dio per uno specifico scopo divino. Nel momento che percepiamo la salvezza in Cristo noi siamo anche immediatamente santificati e cominciamo il processo di essere conformi all’immagine di Cristo. Come figli di Dio noi siamo « messi a parte », e da quel momento cominciamo a compiere il Suo scopo divino nell’eternità: “Con un’unica offerta, infatti, egli ha reso perfetti per sempre coloro che sono santificati.” (Ebr 10:14)
La Santificazione è un processo incessante che continua nella vita di un cristiano su questa terra. A differenza dalle cose o luoghi che sono santificati da Dio nella Bibbia, gli umani hanno la capacità di peccare. Anche se siamo stati messi « a parte » come figli di Dio, continuiamo a comportarci in modo contrario alla santità perfetta. Subito dopo la conversione ci rendiamo conto che è subentrata dentro di noi un battaglia fra la nostra vecchia natura e la natura dello Spirito. Paolo in Galati descrive bene la lotta interna fra la carne e lo Spirito, che sono contrari fra di loro (Gal 5:17).
Come Paulo, il desiderio del nostro cuore è di ubbidire Dio, ma la nostra carne è debole rendendo il peccato difficile da resistere. Eppure, è in questa lotta continua con il peccato e obbedienza a Dio che la santificazione fa il suo lavoro. Come per Paolo, possiamo prendere conforto che Gesù Cristo ci libererà da questo conflitto (Rom 7:24,25) e che adesso non c’è più condanna per quelli che sono in Cristo e camminano secondo lo Spirito (Rom 8:1).
Ma praticamente cosa significa essere « messi a parte »? La Santificazione può essere descritta come quel processo interno per il quale Dio infonde cambiamenti nella vita di un cristiano per mezzo dello Spirito Santo. Il vivere in un mondo caduto ha danneggiato tutti noi in modi differenti. Noi tutti affrontiamo problemi differenti, lottiamo col peccato e le ferite del passato che ostacolano la nostra abilità di vivere la vita che Dio desidera per noi. Una volta che Gesù Cristo entra nelle nostre vite, lo Spirito Santo entra nella nostra vita a cominciare il processo di trasformazione (Santificazione progressiva). Egli ci fa vedere le aree che devono essere cambiate, aiutandoci a crescere in santità. Cominciamo a vedere il mondo, la gente e le difficoltà personali da una prospettiva Biblica. Le nostre scelte cominceranno ad essere motivate da amore e verità e non da egoismo. Per esempio prima mettevamo la nostra confidenza sulla bellezza, ricchezza e materialismo, ma Dio potrebbe ordinare circostanze difficili per liberarci da queste trappole che ostacolano la crescita in santità. Il processo di trasformazione potrebbe essere anche doloroso, ma è sempre motivato dall’amore di Dio verso di noi. Inoltre, Dio promette nella Sua Parola che non ci metterà attraverso prove che non possiamo sostenere (1Co 10:13).
Il processo di santificazione è personale per ogni individuo, ma la meta finale e quella di controllare il peccato e di generare crescita spirituale. La Santificazione non ha niente a che fare con vivere in una perfetta mancanza di peccato perché in questa vita non saremo mai senza peccato, data la nostra natura e questo corpo di peccato in cui viviamo. In fatti la Bibbia ci ammonisce contro tali insegnamenti falsi: “Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi.” (1Gi 1:8)
La Santificazione non è nel cercare di essere senza peccato in modo tale da guadagnare il favore di Dio. Piuttosto, la santificazione è per il nostro beneficio, come tutti i comandi di Dio. Il Signore da una parte comanda di perseguire la santificazione attraverso la quale saremo benedetti, e dall’altra è impossibile di essere santi senza l’intervento personale del Signore nelle nostre vite.
Dentro di noi non c’è la capacità e nemmeno la conoscenza di come essere santi, visto che prima della conversione tutto quello che sapevamo e facevamo era sempre peccato a niente altro. E’ Dio, lo Spirito Santo che dopo averci convertito vivifica il nostro spirito, lavorando progressivamente le cose di Dio cosicché le possiamo capire e ci va volenti di farle. In altre parole, oggi siamo più santificati die ieri, ma meno di domani, raggiungendo piena santificazione soltanto dopo aver lasciato questa ‘tenda’ peccaminosa ed essendo con in Signore.
La Santificazione è il processo di Dio per portarci al perfetto stato in Paradiso.
La Santificazione è un attributo di Dio, ed è sempre parte della presenza di Dio. La santità pratica è l’evidenza della presenza di Dio nel convertito credente. Azioni di santità, non premeditate, sorgeranno come il credente si focalizza sempre più sulla sua relazione con Cristo. Questa è la vita di fede, una vita dove uno riconosce che la sua sua natura peccaminosa è presente (anche se sempre meno) ma la grazia di Dio invade e lo attira sempre più a Cristo.
Calvino formulò un sistema pratico di santità che incorporava anche la culture e la giustizia sociale. Tutte le azioni empie, egli ragionò, risultano in sofferenza. Perciò egli provò ai padri della città di Ginevra che ballare e altri vizi sociali finivano sempre con i benestanti opprimendo i poveri. Una vita santa, egli riteneva, era pietistica e semplice, una vita che evitava eccessi, stravaganza e vanità. Al livello personale Calvino credeva che la sofferenza era la manifestazione di aver preso la croce di Cristo, ma la sofferenza era anche parte del processo di santificazione. Lui si aspettava che tutti i cristiani avrebbero sofferto in questa vita, non come una punizione, ma piuttosto come partecipazione in unione con Cristo, che soffrì per loro. Eppure, socialmente, Calvino argomentava che un santa società sarebbe stata una gentile, premurosa società (eccetto ai criminali), dove i poveri sarebbero stati protetti dagli abusi dei ricchi, gli avvocati e dagli altri che normalmente predano so loro.
La Santità preannuncia anche la maestà e grandezza di Dio. Egli è maestoso in santità (Eso 15:11), e la vera essenza di Dio è tale da provocare soggezione e timore. Giacobbe a Bethel in un sogno vide l’elevato Signore, si svegliò e gridò: “16 Allora Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: «Certamente l’Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo». 17 Ed ebbe paura e disse: «Come è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di DIO, e questa è la porta del cielo!».” (Gen 28:16-17) La primaria reazione alla maestosa santità di Dio e di meraviglia, timore e anche di terrore. Il Salmista proclama: “Prostratevi davanti all’Eterno nello splendore della sua SANTITÀ’, tremate davanti a lui, o abitanti di tutta la terra.” (Sal 96:9) La Sua maestosa presenza chiama per una risposta di adorazione e riverenza, timore e tremolio.
Incidentalmente, avete mai notato come la vostra « santità » turba le persone del mondo attorno a voi e in certi casi essi si allontanano da voi?
La Santità denota la separazione o differenza di Dio da tutte le Sue creature. La parola santità, nel suo significato fondamentale, contiene la nota che separa o divide. Dio è totalmente altro che il mondo e l’uomo: “…. perché sono Dio e non un uomo, il Santo in mezzo a te, e non verrò con ira.” (Ose 11:9) Questa separazione o differenza è prima di tutto della Sua essenziale Deità. Dio, in nessun modo (come in tante religioni), deve essere identificato con qualsiasi cosa nella creazione. Questo significa la totale separazione di Dio da tutto quello che è rozzo e profano, da qualsiasi cosa impura e malvagia.
La Santità in relazione a Dio si riferisce alla Sua perfezione morale. La Sua Santità si manifesta in totale giustizia e purezza. Il Santo Dio si manifesta santo in giustizia (Isa 5:16). I Suoi occhi sono troppo puri per approvare il male (Hab 1:13). Questa dimensione morale o etica della santità di Dio diventa sempre più significante nell’evangelizzare. Tutto quello che è associato a Dio è anche santo: un santo Sabbath (Eso 16:23); Il cielo di Dio è santo (Sal 20:6); Dio siede sul Suo santo trono 8Sal 47:8); Sion è la montagna sacra di Dio (Sal 2:6). Il nome di Dio è specialmente sacro, e mai deve essere menzionato in vano (Eso 20:7; Deu 5:11).
Sia nel VT come nel NT il Suo popolo è chiamato a consacrarsi all santità: “Poiché io sono l’Eterno, il vostro DIO; santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; … ” (Lev 11:44) “poiché sta scritto: «Siate santi, perché io sono santo».” (1Pi 1:16)
I credenti, sia nel VT come nel NT, come eletti santi di Dio, sono: “E sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. …. » (Eso 19:6; Deu 14:2) “Ma voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una gente santa, un popolo acquistato per Dio, a…..” (1Pi 2:9). Nel VT la nazione santa era Israele e nel NT la nazione santa sono tutti i credenti in Cristo (sia Gentili come Giudei), quelli che sono gradualmente trasformati alla meta finale: “per far comparire la chiesa davanti a sé gloriosa, senza macchia o ruga o alcunché di simile, ma perché sia santa ed irreprensibile.” (Efe 5:27) Il popolo del Patto di Dio sono gente separata al Signore, e perciò santi, non per qualche virtù il loro stessi ma semplicemente separati dal mondo a Lui. Il marchio di santità è la più grande espressione relazionale del Patto fra un Dio Santo e il suo popolo.

Publié dans:TEOLOGIA, teologia - biblica |on 24 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

Tutto nel racconto è teologico (Atti)

dal sito:

http://www.indes.info/lectiodivina/2003-04_Atti_degli_Apostoli/Tutto_nel_racconto_e_teologico.html

Tutto nel racconto è teologico (Atti)

di P. Pino Stancari s.j.

(lectio divina 2003-2004)

Un mese fa abbiamo completato la lettura degli Atti degli apostoli. Abbiamo messo due anni per passare in rassegna integralmente il testo predendo in considerazione quelle sezioni del grande racconto che sono spesso trattate con superficialità da parte di coloro che ritengono il racconto privo di valenze teologiche. Ci siamo accostati al testo tenendo conto in modo più articolato e penetrante del valore propriamente teologico che compete al racconto in tutti i suoi sviluppi, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue componenti. Tutto nella narrazione dell’evangelista Luca è teologico, tutto diviene segnale prezioso che ci aiuta a contemplare il mistero della vita cristiana, il mistero di quella novità che oramai è presente nella storia degli uomini per cui noi siamo coinvolti in una relazione di vita che ci apre alla comunione con il Signore risorto, intronizzato nella gloria: siamo introdotti nella comunione con il Dio vivente, dal momento che la storia umana è stata visitata una volta per tutte.

Questa novità ci prende, ci afferra, ci risucchia, ci trascina in modo tale che ci troviamo, con tutto il nostro vissuto umano, quel che ci riguarda personalmente e nelle grandi articolazioni della nostra vicenda umana, popoli e culture, inseriti in quella novità di cui Dio è stato il protagonista una volta per tutte. E’ quella visita che si è compiuta mediante l’incarnazione del figlio e l’effusione dello Spirito Santo. Tutto nel racconto è teologico.

Vorrei adesso richiamare qualche indicazione solo per mettere in evidenza alcune figure di riferimento che ci aiutino a ricapitolare il percorso compiuto e forse anche ad arricchirne i significati. Poi rapidamente, passando attraverso le indicazione che adesso vi fornirò, vorrei giungere alla lettura di un salmo. E quindi concludere.

Gli Atti degli Apostoli ci mostrano in primo piano due personaggi: Pietro e Paolo; potrebbero anche essere denominati gli atti di Pietro e di Paolo. I due personaggi, ciascuno con la sua identità, con la sua particolare dotazione carismatica, insieme in comunione, indissolubili, così come la chiesa è solita ricordarli: i santi Pietro e Paolo il 29 giugno. Questa festa sta dinanzi a noi come una scadenza che caratterizza il percorso che la chiesa affronta nel corso di queste settimane.

La prima parte degli Atti è caratterizzata dalla presenza di Pietro, la seconda parte dalla presenza di Paolo, c’è poi una presenza intermedia nella quale i due personaggi sono presenti contemporaneamente anche se poi non si incrociano nel loro itinerario. Fatto sta che ci sono due note caratteristiche che vorrei richiamare molto sollecitamente.

Pietro
Il carisma prettamente petrino nel racconto degli Atti è caratterizzato come capacità di aprire le porte. Innanzi a Pietro le porte si aprono: la porta del tempio si apre dinanzi a Pietro che nel nome di Gesù entra e introduce nel luogo sacro quello storpio dalla nascita che stava a mendicare sulla soglia, fuori di quello spazio. In ogni gesto compiuto da Pietro nel senso che adesso richiamavo, ossia là dove Pietro apre una porta, è in atto la evangelizzazione: nel nome di Gesù le porte del tempio a Gerusalemme si aprono. E’ l’evangelo indirizzato a Israele, popolo della prima alleanza, a cui Pietro e gli altri discepoli appartengono, primo destinatario delle promesse. Cap. 10, Pietro per la prima volta entra nella casa di un pagano, l’evangelo raggiunge coloro che non appartengono al popolo d’Israele; avviene a Cesarea per la prima volta ed è un’occasione che determina un impulso del tutto imprevedibile per quanto riguarda il coinvolgimento di coloro che non appartengono al popolo d’Israele. I pagani sono rappresentati da quel personaggio ancora così sparuto e così modesto, quel certo centurione di nome Cornelio, di stanza a Cesarea marittima, tutti i pagani sono già, in prospettiva, raggiunti dall’evangelo per il fatto che Pietro aprì la porta di quella casa, entrò e vi prese dimora.
Nel cap. 12 Pietro entra con una certa fatica, dopo aver lungamente bussato, in quella casa in cui è radunata l’ecclesia che sta celebrando la Pasqua. Pietro apre la porta in nome di Gesù che è morto ed è risorto per ogni povero uomo, per ogni povero cristo di questo mondo, per ogni creatura umana che muore nella discendenza di Abramo, che è spazzata via dagli eventi di una storia spietata. Nel nome di Gesù redentore di ogni creatura umana che è inserita nella discendenza di Abramo, Pietro entra per evangelizzare la chiesa che è già segnata dalla novità dell’incontro con il Signore vivente, sta celebrando la Pasqua sempre bisognosa di essere ulteriormente, più puntualmente, e più radicalmente evangelizzata. Pietro apre le porte: è il ministero petrino. Tre episodi che rimangono inconfondibili, una coerenza davvero mirabile nella sequenza delle immagini che dipinge per noi l’evangelista Luca, iconografo, oltre che narratore. E’ il primo volto della vita cristiana, è il volto di Pietro, colui che apre le porte, dinanzi a lui le porte si aprono. E’ l’evangelo che procede nel suo cammino, impulso vivo, energia travolgente per la quale non ci sono confini, non ci sono limiti. E’ l’evangelo che è scaturito dalla novità di cui Dio stesso è stato protagonista: la visita, per cui la storia umana è storia di salvezza, dove il Figlio è disceso, risalito, morto e risorto, dove oramai il Figlio è intronizzato nella gloria con potenza di Spirito Santo. L’evangelo irrompe e ecco un primo volto di questa evangelizzazione che si sviluppa nella storia degli uomini: è il volto di Pietro in quanto esprime il carisma di aprire le porte. L’immagine è eloquentissima per se stessa senza bisogno di ulteriori commenti.

Paolo
Un altro volto, è il volto di Paolo. Dal cap. 9 quando Paolo compare in scena. In realtà Paolo è già stato citato precedentemente con accenni che rimangono indimenticabili e perché tali conservati nella nostra memoria; adesso non è il caso di andarli a ripescare. Dal cap. 9 Paolo è in scena. La figura di Paolo: a Damasco Paolo è giunto al termine del viaggio burrascoso nel corso del quale ha ascoltato la voce, è caduto a terra, è diventato cieco, si è reso conto di essere alle prese con il mistero del Dio Vivente, Paolo, teologo, impegnato sul fronte di una coraggiosa attività pastorale, in rapporto al mistero del Dio vivente, ha esercitato con furore, con rabbia, con entusiasmo, con generosità la funzione dell’oppositore, del persecutore, dell’avversario. Paolo si è reso conto di essere in contraddizione con il mistero di Dio, sbaragliato nel corso di quel viaggio. Da quel momento in poi, a più riprese, fino alla fine del racconto degli Atti, la figura di Paolo è caratterizzata dalla esperienza di chi deve affrontare strade nuove, impervie, imprevedibili dopo che gli si sono chiuse delle porte dietro le spalle. La situazione in qualche modo è ribaltato rispetto a quella di Pietro: dinanzi a Pietro le porte si aprono, dietro a Paolo le porte si chiudono. Così a Damasco fin dall’inizio, così dopo poco a Gerusalemme, così più avanti ancora nel corso di quelli che sono i suoi viaggi missionari, a Filippi, a Tessalonica, a Berea, ad Atene. Luca racconta i fatti e sempre segnala situazioni che, descritte con termini più o meno equivalenti, contribuiscono a illustrare quella certa scena che noi possiamo senz’altro sintetizzare come vi suggerivo. Dietro al nostro Paolo porte che si chiudono e dinanzi a lui strade sconosciute, località ancora mai visitate, una oscurità ancora mai visitata, eventi che sfuggono ad ogni programmazione; dietro al nostro Paolo le porte si chiudono. Ancora succederà così a Corinto, sarà poi la volta di Efeso, e ancora una situazione del genere si verifica quando Paolo finalmente sale a Gerusalemme al termine di quel viaggio su cui abbiamo meditato lungamente.
Paolo è costretto a lasciare Gerusalemme in modo del tutto contraddittorio rispetto ai suoi progetti, e ancora una volta porte che si chiudono con implicazioni su cui adesso non è il caso di riflettere, per cui non è possibile discutere, non è possibile obiettare. Paolo è rigorosamente, forzatamente, costretto a obbedire ad una evidenza che si impone di per sé: dietro di lui le porte si chiudono e dinanzi a lui la novità che, in questo ultimo caso coincide con la permanenza di un prigioniero incatenato in un carcere. Strade nuove, località sconosciute, orizzonti sempre più remoti. Ma in questo caso si tratta di un orizzonte non programmato, si tratta di una meta che Paolo non ha potuto scrutare a distanza per mirare verso un obiettivo preciso. In ogni caso, dietro alle sue spalle le porte si chiudono e Paolo viene ributtato: sulla scena del mondo, geografia che si spalanca in modo sempre più sconfinato, ma anche ributtato nella storia degli uomini in modo tale da trovarsi incatenato nella cella di un carcere, che poi diventerà la stiva di una nave, l’abisso marino nel quale sprofonda come naufrago fino a quando si ritroverà intrappolato a Roma e in quella condizione carceraria, nella quale Luca lo lascia al termine del libro, dove Paolo accoglie tutti. Così leggevamo la volta scorsa. I dati oggettivi riguardanti la figura di Paolo sono quelli di un carcerato in attesa di un processo, a Roma.

Dunque due volti e in comunione. Il volto di Pietro che evangelizza in quanto è intraprendente nel gesto di aprire le porte, il volto di Paolo che evangelizza in quanto manifesta la pazienza di chi sottostà alla necessità di affrontare l’imprevisto dal momento che le porte si sono chiuse. I due personaggi che lì per lì ci appaiono così diversi, sono in realtà rigorosamente coinvolti in un disegno che li accomuna, l’evangelista Luca poi, con tante sfumature, con tanti accenni, con tante allusioni ci conduce a contemplare come le due figure si rincorrono tra di loro e la loro diversità diventa poi comunione sempre più profonda. Le pagine centrali, stando al racconto degli Atti segnano la scomparsa di Pietro dalla scena, non è più visibile, ha oramai come suo spazio di movimento ogni altro luogo della terra, cap. 12, v. 17: Pietro uscì e si incamminò verso un l’altro luogo, senza ulteriori precisazioni. Ricompare per un momento nel cap. 15. Pietro apre le porte in base ad una premura sempre più precisa, sempre meglio mirata, sempre più consapevole, la premura dell’evangelizzatore che si assume una responsabilità diretta e coraggiosa: Israele, i pagani, la stessa chiesa. Questa sua responsabilità così dinamica e intraprendente ad un certo momento fa di lui un viandante che sprofonda nelle vicende della storia umana. Poco importa adesso a noi stabilire quali siano le vicende biografiche di Pietro, seguire gli eventi relativi a questo personaggio nel racconto degli Atti, puntare lo sguardo verso il volto di Pietro che in forza di quella responsabilità che lo ha impegnato ad aprire tutte le porte, adesso ha dinanzi a sé una porta così definitiva, una porta così impegnativa che coincide con l’orizzonte del mondo: ogni altro luogo, l’orizzonte nel tempo e nello spazio. In questo senso Pietro nel momento della sua estrema maturità ci parla di Paolo, che proprio per carisma è abituato a trovarsi dinanzi a una realtà senza confini, una realtà inafferrabile, una realtà indecifrabile, una realtà sconosciuta, una realtà sempre originale. Il carisma di Pietro ci porta ad una avventura paolina. Pietro parte per incamminarsi verso un altro luogo.

Nello stesso tempo Paolo passo passo, da quando compare sulla scena del racconto e poi nei momenti successivi, emerge, diventa il vero protagonista del racconto, fino all’ultima pagina che leggevamo un mese fa, cap. 28. Paolo, impegnato in quella esperienza così avventurosa, dovuto al suo carisma come lo abbiamo potuto interpretare, la necessità di destreggiarsi là dove le porte oramai si sono chiuse è buttato fuori: da Damasco, da Gerusalemme, da Filippi, da Tessalonica, ecc. ecc. e così di seguito. L’orizzonte si allarga sempre di più. L’orizzonte dilaga in modo sempre più sconfinato per Paolo ed ecco che il nostro personaggio si trova incatenato nella cella di un carcere. E lì rimane. E’ una situazione che lo oggettiva, lo ridimensiona, lo circoscrive, lo costringe: è evidente che è così. Paolo, per il suo carisma in quanto è impegnato nella evangelizzazione, è proteso verso l’irraggiungibile, nel momento supremo della sua testimonianza è inchiodato nel contesto di una vicenda che oggettivamente lo stringe come una catena, lo rinserra come uno spazio soffocante di un carcere. Pietro insegue Paolo e Paolo insegue Pietro. Pietro, nella sua maturità, a forza di aprire le porte, si trova davanti a quella porta che è grande come ogni altro luogo. Paolo, a forza di essere buttato fuori, mentre tutte le porte si chiudono, nella sua maturità si trova dinanzi alla soglia di un ambiente penosamente circoscritto: il carcere. E in quel carcere Paolo accoglie tutti.

Allora bisogna fare un passo avanti: atti di Pietro e atti di Paolo, Pietro e Paolo, ma Pietro con Paolo e Paolo con Pietro, Pietro per Paolo e Paolo per Pietro, il circuito di una vicenda che, per come si configura nel corso della storia umana, già manifesta la fecondità di una sacramentale novità d’amore. Una sacramentale novità di amore presente nella storia umana, non nel senso di un messaggio annunciato da qualcuno o di una dottrina elaborata da qualche teologo, ma nel senso di questo vissuto così misteriosamente complementare per cui c’è Pietro e c’è Paolo, ma non un po’ Pietro e un po’ Paolo, ma c’è Pietro che insegue Paolo e Paolo che realizza la vocazione di Pietro.

Siamo dinanzi a delle icone da contemplare e la iconografia non è la raffigurazione di un’immagine fissa, è raffigurazione di una immagine teologica che è dotata di un suo intrinseco dinamismo, epifanico, rivelativo, là dove ci affacciamo su quel mistero che ci precede e sempre ci viene incontro e ancora ci attende.

C’è una terza figura su cui vorrei ritornare: il discepolo primo martire a Gerusalemme che si chiama Stefano di cui si parla nei capp. 6-8. E’ una figura che fa da cerniera nello sviluppo complessivo del racconto, nella articolazione di quel misterioso circuito di comunione per cui Pietro e Paolo sono i volti di un unico evangelo. Compare all’interno di quelle vicende nelle quali, ancora, e in modo inconfondibile, la figura di spicco è quella di Pietro, il primo evangelizzatore; con lui naturalmente c’è Giovanni, ci sono gli altri, attorno a lui man mano la prima comunità a Gerusalemme, ma è la figura di Pietro che erge dominante nel racconto. Così fino al cap. 12 con un richiamo ancora nel cap. 15. Nel cuore di quella vicenda che ci ha consentito di riconoscere Pietro come il primo e fondamentale protagonista della evangelizzazione, compare Stefano; non sarebbe possibile a Pietro svolgere la sua opera di evangelizzazione se la vicenda non fosse segnata e proprio così determinata dalla comparsa di Stefano e da quella testimonianza che per la prima volta conduce un discepolo del Signore a versare il sangue, e questo non tanto per la generosità del personaggio che dimostra di essere in grado di affrontare la sofferenza suprema, l’ingiustizia più straziante, la violenza più feroce, ma perché dimostra di essere oramai in grado di rivolgersi a coloro che lo aggrediscono con parole di benedizione, con un gesto di misericordia, con un atto di amore. Questo è il motivo determinante, costitutivo di quella novità che oramai si è attuata nella storia degli uomini e nella storia dell’evangelizzazione, una maturità che coincide con la disponibilità, la prontezza ad amare coloro da cui si viene aggrediti. E’ la maturità della vita cristiana, dell’evangelizzazione in atto da qualche tempo: siamo giunti a una testimonianza che rimane inconfondibile e che costituisce oramai un punto di riferimento insostituibile. Stefano ha annunciato l’evangelo a coloro che lo aggredivano, nell’atto di subire quell’aggressione, non passivamente, ma in atteggiamento di annuncio, vivo e intraprendente che proclama come l’amore eterno di Dio sia vincitore sulla violenza subita. Vincente è l’amore di Dio, vincente è la misericordia di Dio, vincente è la benedizione del Dio vivente. Anche l’aggressione che Stefano subisce fa parte di un disegno che è governato dalla inesauribile verità d’amore per cui attraverso quegli eventi si manifesta una fecondità crescente. Stefano è il primo martire, non semplicemente in senso cronologico, ma nel senso che ogni altro martirio che si inserisca nella storia dell’evangelizzazione, che è la storia della vita cristiana, che è la storia della chiesa, trova in lui il proprio riferimento esemplare: il martirio di chi oramai è in grado di evangelizzare coloro da cui subisce una condanna, un’aggressione fino alla morte. L’amore di Dio è vincente nel senso che anche l’aggressione subita fino alla morte fa parte di un disegno di misericordia che coinvolge e travolge tutto e tutti: il martirio.

E’ proprio il caso di Stefano, con quello che gli fa di contorno, che determina nella prima parte degli Atti quel passaggio per cui la prima evangelizzazione cresce oltre i confini di Gerusalemme, per necessità di cose, perché i discepoli vengono allontanati da Gerusalemme, necessità intrinseca all’evento che ha avuto luogo. La persecuzione subita da Stefano e dagli altri suoi contemporanei si trasforma in questa diffusione, in questo irraggiamento, in questa crescita, nel senso che l’evangelo dilaga e la prima comunità dei discepoli è giunta a quel livello di maturità che le consente di procedere oltre i confini rappresentati dalle mura di Gerusalemme. Adesso siamo sulle strade del mondo, Samaria, Gaza, Cesarea, non a caso interverrà Pietro entrando per la prima volta nella casa di un pagano, anche lui fuori di Gerusalemme. Pietro, grande protagonista di questa evangelizzazione che cresce senza misura oramai, Pietro che è mosso da quel dinamismo d’amore ha trovato in Stefano il suo testimone primigenio, esemplare. Non c’è Pietro e quella evangelizzazione che cresce di porta in porta, varcando tutte le soglie, se non passando attraverso Stefano. Anche Paolo con tutto il suo cammino e con quella particolare fisionomia che il suo volto manifesta per quella sua particolare dotazione carismatica, mentre è alle prese con le porte che gli si chiudono dietro le spalle, anche Paolo con la sua vocazione di cristiano e nel suo originario impulso al servizio dell’evangelo, Paolo è in comunione con Stefano. Per Saulo, ancora così si chiamava mentre Stefano subiva l’aggressione e veniva lapidato, arriverà il momento quando desidera venire a capo della sua vicenda, rendersi conto di quello che gli succede, cosa vuol dire per lui essere cristiano e discepolo del Signore, cosa vuol dire per lui essere impegnato nel servizio dell’evangelo, man mano che gli eventi prendono quella piega, sappiamo: porte che si chiudono e Paolo buttato, buttato e risalito a Gerusalemme alla ricerca di una spiegazione: Paolo ricorda Stefano (cap. 22). E Paolo si rende conto che tutto per lui ha avuto inizio là dove Stefano si rivolgeva a coloro che lo aggredivano.

Anche Paolo è stato evangelizzato: il martirio di Stefano è la radice dell’evangelizzazione che Paolo ha ricevuto, ha accolto, che poi è divenuta in lui energia così travolgente; l’abbiamo poi accompagnato nel corso dei suoi viaggi, con tante vicissitudini, con momenti di rattrappimento, potremmo dire, di nascondimento e poi di improvvisi sussulti e via di questo passo. Paolo sa bene di essere radicalmente segnato nella sua esperienza di cristiano e di uomo dedito alla evangelizzazione dall’esperienza di un debito: io sono radicalmente debitore. E questo debito che sta all’inizio di tutto, a fondamento di tutto, Paolo lo ha sperimentato come quell’urgenza che trascina il cammino della sua vita lungo quelle strade misteriose, impervie, sconosciute, di cui già sappiamo, verso un appuntamento.
Così si va nella storia di Saulo, che diventa Paolo, a partire da quell’incontro con Stefano che li per lì lo aveva colpito, segnato, ma anche ancora addirittura rincrudito nel suo atteggiamento di avversario. Si va poi lungo tutte le tappe che abbiamo sommariamente rievocate verso l’appuntamento che Paolo sta imparando a individuare, là dove in ogni volto umano affiora la luce inconfondibile del volto glorioso del Signore Gesù, quel Signore Gesù che Paolo nei giorni della vita terrena del maestro non ha contemplato. Paolo non lo ha mai visto. E Paolo è proiettato verso l’incontro con ogni volto umano, da quando, per come ricorda, ha osservato il volto di Stefano, e lì per lì si è incattivito ancora di più. Paolo proiettato in quella corsa inesauribile per cui ogni volto umano diventa trasparenza, epifania, rivelazione, volto del Signore Gesù che ritorna, appuntamento.
Nello stesso tempo sappiamo come Paolo si trovi in carcere a Gerusalemme, a Cesarea, in viaggio in nave, a Roma in carcere. Oramai non è più questione di orizzonti in senso geografico, o in senso temporale, che pure hanno il loro significato, l’orizzonte è il volto di ogni uomo. Ogni povero uomo di questo mondo, ogni povero uomo che crepa. Ed è il Signore Gesù che ritorna nella sua gloria, mi ha dato appuntamento.

Pietro-Paolo, Paolo-Pietro e così via, il fulcro di questo circuito: Stefano. Stefano per Pietro, Stefano per Paolo. E Pietro e Paolo che in realtà sono Pietro e Paolo perché in realtà sono anche Stefano, l’uno e l’altro e ciascuno a modo suo, al modo di Pietro e al modo di Paolo sono Stefano. E Pietro è Stefano al modo di Pietro perché insegue Paolo, e così via: l’imbroglio diventa quasi indescrivibile, ma tutto da contemplare.

E allora il passaggio finale che ci conduce alla lettura di quel brevissimo salmo cui accennavo. Da Stefano in poi il racconto degli Atti si sviluppa in modo tale da descrivere che cosa avviene lungo le strade che sono percorse da Pietro, da Paolo e anche dagli altri insieme con loro, naturalmente, oltre il confine rappresentato dalle mura di Gerusalemme. Però è anche vero che da quel momento in poi il racconto degli Atti si sviluppa non soltanto come descrizione di quel che avviene una volta che Gerusalemme è stata abbandonata, ma anche una volta che a Gerusalemme si ritorna. E il ritorno procede per cicli che possiamo rapidamente rintracciare e che ci aiutano a considerare come questa crescita dell’evangelizzazione oltre le mura di Gerusalemme, fa sempre capo a Gerusalemme. Lì a Gerusalemme è la pasqua del Signore, l’effusione dello Spirito santificante; è Gerusalemme la pienezza della storia della salvezza, là dove la visita di Dio si è compiuta: Gerusalemme. Gerusalemme abbandonata? A Gerusalemme si ritorna. Cresce l’evangelizzazione lungo itinerari geografici, con scadenze temporali incontrollate stando alle pretese programmazioni dell’inizio. E poi cresce l’evangelizzazione nel senso che il segreto di ogni cuore umano diventa spazio e tempo di una novità per cui non ci sono più confini. Ogni persona,ogni singola persona umana.

Si torna a Gerusalemme, e ogni ritorno a Gerusalemme è caratterizzato come testimonianza della esperienza acquisita nel corso dell’unico grande viaggio, che poi è molteplice e variegatissimo, di un coinvolgimento sempre più ampio, sempre più penetrante, sempre più creativo. Mi spiego subito. Paolo in viaggio verso Damasco. Ritorna a Gerusalemme (9,6). E’ un uomo nuovo, convertito, che ritorna a Gerusalemme, c’è una novità. Il ritorno a Gerusalemme non è mai, nel racconto degli Atti, descritto come una semplice necessità di ordine tecnico, o di ordine devozionale. Il ritorno a Gerusalemme per l’evangelista Luca è sempre espressione di una novità acquisita, di una esperienza maturata, di un coinvolgimento che si è ampliato nel corso del grande viaggio, chiamiamolo pure nel corso della missione, che coinvolge i primi discepoli, che riguarda la prima chiesa, che riguarda Pietro, Paolo e tutti gli altri. Ricorderete alla fine del Vangelo secondo Luca, quando prima di ascendere al cielo il Signore saluta i suoi discepoli (Lc 24,46s): «Così sta scritto. Il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”. Che si cominci da Gerusalemme, non è semplicemente un dato di ordine storiografico, è un valore teologico. Si comincia sempre da Gerusalemme, si comincia per quanto riguarda l’evangelo, e per quanto riguarda quel lungo cammino nel quale è impegnato il popolo cristiano, ciascuno con la sua vocazione, Pietro, Paolo, Stefano, e tutti insieme e la chiesa, e di chiesa in chiesa. Si comincia da Gerusalemme.

All’inizio degli Atti il Signore che salutando i suoi discepoli prima di salire al cielo, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre.
Dopo quel che è avvenuto a Gerusalemme, dopo che Stefano ha subito il martirio, le strade si orientano verso mete sempre più remote, ma il racconto è costruito in modo tale da invitarci a considerare come tutto fa capo a Gerusalemme, non per una curiosità archeologica, ma perché l’evangelo cresce. E l’evangelo cresce non in modo avventizio, occasionale, opzionale, nella logica di uno spontaneismo ad oltranza, cresce nella obbedienza a quella novità unica e definitiva che si è manifestata nella storia umana, siamo stati visitati. Ricordate quello che dicono gli angeli quando il Signore ascende al cielo: come l’avete visto salire, così lo vedrete tornare. Lo stiamo vedendo mentre sale o lo stiamo vedendo mentre ritorna? E’ la stessa visione? E’ la stessa visione: vederlo salire e vederlo tornare a Gerusalemme. E per vederlo tornare a Gerusalemme, il viaggio adesso si allunga, si complica, si sfaccetta, si fa sempre più intenso quanto a partecipazione, sempre più ricco di testimonianze, si fa sempre più complesso, per tornare a Gerusalemme e per vederlo nella sua gloria.

Paolo al cap. 9 torna da Damasco a Gerusalemme, un uomo nuovo, convertito, Più avanti sarà la volta di Pietro che da Cesarea (11,2) ritorna a Gerusalemme dove lo interrogano sul suo comportamento, su cosa è successo a Cesarea. Segnalo questi testi, senza andare troppo per il sottile, perché espressioni come questa, che adesso richiamavo, diventano una specie di ritornello nel racconto degli Atti. Ritorna Paolo a Gerusalemme, da Gerusalemme viene buttato fuori. Ritorna Pietro a Gerusalemme e viene interrogato perché per la prima volta un pagano è evangelizzato. Vedete che ogni ritorno porta con sé l’esperienza di una novità e di una novità grandiosa: per la prima volta nella casa di un pagano Pietro è entrato per mangiare, per dimorare.

Poi più avanti sarà la volta di Barnaba che accompagnato da Paolo ritorna a Gerusalemme, portando contributi mirati ad aiutare la comunità di Gerusalemme che è ridotta alla fame per la carestia che affligge quella popolazione in quel periodo storico. E’ un contributo di carità, non soltanto la dichiarazione da parte di Pietro che già un pagano si è convertito, che lo Spirito di Dio si è manifestato, ma adesso anche il contributo della carità dei pagani che da Antiochia rifluisce a vantaggio della prima chiesa, la chiesa madre, la chiesa di Gerusalemme (11,29s). Più avanti sarà Paolo, con Barnaba e altri ancora, che da Antiochia ritorna a Gerusalemme per discutere circa la questione della circoncisione. Adesso è la novità dei pagani, non-circoncisi, che come tale rifluisce a Gerusalemme, non circoncisi, una novità sempre più pesante, sempre più grandiosa, sempre più originale che torna a Gerusalemme. Ogni ciclo comporta un affondo nella realtà della storia umana, nelle vicissitudini del mondo, nella complessità del vissuto di ogni persona, nelle culture. Poi sarà la volta dopo che Paolo è stato in Europa, quel viaggio grandioso, dove lui è sempre più schiacciato dalle situazioni e d’altra parte è l’Europa, è l’Occidente: da Corinto sale alla chiesa madre di Gerusalemme. Poi sarà la volta che Paolo ritorna da Efeso, dopo che ha rielaborato tutti i piani della sua attività pastorale e salirà a Gerusalemme e sarà arrestato: tutti i capitoli che seguono, dal 21 al 28, con quelle divagazioni di cui ci siamo resi conto. Quando Paolo arriva a Roma, fine del racconto degli Atti, noi diremmo: ecco, non torna a Gerusalemme. Attenzione perché proprio qui volevo arrivare, proprio le annotazioni su cui insistevo poco fa, stanno a dimostrare che Roma per Paolo e quindi anche per Pietro significa per quella chiesa che è impegnata nella evangelizzazione e porterà frutti sempre nuovi, in continuità con il martirio di Stefano in ogni luogo e in ogni tempo, è un affaccio su Gerusalemme. Roma è un ulteriore punto di vista che consente a Paolo di guardare verso Gerusalemme avendo assimilato, assorbito, sperimentato nell’intimo della sua ricerca di cristiano, di evangelizzatore, come l’evangelo è ecumenico, è universale, è novità introdotta da Dio nella storia umana che riguarda l’umanità intera, che raccoglie tutti i popoli. Roma è l’estremo confine, Roma non è un punto di arrivo, Roma è un affaccio. E’ un affaccio che per Paolo diventa occasione per sperimentare lui, nella sua miseria oggettiva, perché povero carcerato, come l’opera di Dio per la salvezza degli uomini dilaga in modo tale da avvolgere tutto, da contenere tutti, in modo tale da trascinare la ricchezza così imprevedibile della storia umana con tutti i contributi di ogni creatura, fino a Gerusalemme. E’ il volto del Signore glorioso che ritorna. Tutto in vista di lui, tutto in nome suo, tutto per rispondere all’appuntamento per cui egli ci ha convocati.

Salmo 87 (86)

Prendete il salmo 87 (86) e qui poi ci fermiamo. E’ uno dei cosiddetti cantici di Sion. Salmi che ci aiutano a guardare verso Gerusalemme. E questo piccolo salmo mi sembra ci aiuta bene a comprendere tutto quello che cercavo di dirvi con accenni al racconto degli Atti, alla teologia degli Atti. Abbiamo lasciato Paolo a Roma che guarda verso Gerusalemme e quel suo sguardo è espressione della maturità missionaria della chiesa, della maturità del cuore di un cristiano che ha sperimentato il debito dell’evangelo e ancora insegue l’evangelo là dove, nella sua gratuita misericordia, la presenza del Signore lo anticipa e gli viene incontro.
Tre brevissime strofe in questo salmo 87, che rinviano molto probabilmente a un rito professionale.
Primo momento, vv. 1-3. Ci troviamo in una posizione appartata, che consente comunque di vedere Gerusalemme come da una balconata. Sono usciti da Gerusalemme mentre la processione si sta organizzando, ci si sta disponendo, ma ancora non è partita. Immaginate Paolo a Roma. E’ il grande viaggio missionario che si allarga, si allarga, si allarga sempre di più: Roma. E da quella prospettiva, affacciandosi su quella balconata, anche Paolo guarda verso Gerusalemme. Egli stesso è ritornato più volte a Gerusalemme. Il ritorno di Paolo a Gerusalemme alla fine degli Atti degli Apostoli è quel ritorno che si compie passando attraverso i secoli, i millenni, le generazioni e le generazioni di cristiani, le chiese che sono impegnate in questa lunga storia di evangelizzazione che ci riporterà all’incontro con il volto glorioso del Signore Gesù.

Guardiamo verso Gerusalemme

«Le sue fondamenta sono sui monti santi;
il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe.
Di te si dicono cose stupende, città di Dio».

Ecco uno sguardo ammirato, quasi rapito, dalla bellezza di Gerusalemme, una visione commossa. Bellezza che assume caratteristiche che sono tipicamente bibliche, la stabilità, la solidità, la robustezza. Per noi la bellezza deve essere snella, nel mondo biblico la bellezza è compatta, allora è veramente bello, solido.
Le sue fondamenta sono sui monti santi, la presenza santa del Signore conferisce bellezza a questa città. Possiamo osservarla come si raccoglie entro la cinta delle sue mura, il Signore ama le porte di Sion, dunque le mura. E’ un amore privilegiato. Mentre noi osserviamo Gerusalemme, ci accorgiamo che siamo, per così dire, inseriti nella traiettoria di un altro sguardo che viene dall’alto, è il Signore che guarda Gerusalemme, che ama Gerusalemme, che rende così bella Gerusalemme perché se ne è preso cura, se ne preoccupa lui, la ama più di tutte le dimore di Giacobbe.
Quel che si dice di Gerusalemme nella tradizione cristiana poi diventa messaggio che per un verso riguarda la madre del Signore, per altro verso la chiesa: di te si dicono cose stupende, città di Dio, bellissima, creatura amata. Il salmo precedente, l’86, si concludeva dicendo: dammi un segno di bellezza, e il salmo 87 risponde: ecco il segno di bellezza che è stato invocato. Noi osserviamo Gerusalemme, restiamo ammirati, e ci rendiamo conto che in realtà siamo attraversati da quello sguardo così appassionato, così caloroso, così vibrante d’amore, che è lo sguardo del Signore che si compiace della sua creatura. E’ Gerusalemme, città, sacramento in cui si ricapitolano tutti i segni della storia della salvezza, là dove si è compiuta la vista del Signore attraverso l’incarnazione del Figlio che è morto ed è risorto, dove l’evangelo si è manifestato nella sua sorgiva primigenia fecondità, da lì tutto è scaturito: Gerusalemme, città di Dio.
Nella tradizione cristiana Gerusalemme viene poi guardata come il mistero della madre del Signore e corrispondentemente il volto missionario della Chiesa nella storia umana, nel grembo verginale di Maria santissima l’evangelo si è compiuto, l’evangelo sta sprigionando la sua inesauribile fecondità di salvezza, attraverso la presenza della chiesa, in ogni luogo, in ogni tempo, attraverso la crescita di quegli itinerari, percorsi da Pietro e da Paolo con quel certo scopo di cui sappiamo.
Seconda strofa, vv. 4-5a. Adesso la processione è partita, adesso non siamo soltanto spettatori di quella scena, ma in cammino verso Gerusalemme, ci stiamo accostando e man mano che non è più possibile con un unico colpo d’occhio cogliere tutta l’estensione delle mura, guardarla per intero, si scende la valle, si risale, lo scenario è parziale, non c’è dubbio, però man mano che ci si avvicina a Gerusalemme, da Gerusalemme provengono suoni, rumori, messaggi, più si porge l’orecchio non è soltanto un rumore indistinto, un suono confuso, è una voce. Gerusalemme sta dicendo qualcosa. Che cosa? Dal di dentro di Gerusalemme, dall’intimo proviene un messaggio, c’è un mormorio, sta balbettando, biascicando qualcosa, sta dicendo dei nomi, li sta elencando. Man mano che ci si avvicina, vedete, l’udito si affina e l’ascolto si fa più netto, più inconfondibile: «Ricorderò Raab», cambia il soggetto, chi è che dice: ricorderò? E’ Gerusalemme che parla, e sta ricordando dei nomi, li sta elencando.
«Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa». Un elenco di nomi con i quali vengono identificati i popoli che sono comparsi nella storia del popolo di Dio. Sono tra l’altro i tradizionali nemici. E’ anche vero che in questo elenco di popoli sono presenti anche quelle nazioni, quelle genti, quelle stirpi umane che non hanno avuto niente a che fare con Gerusalemme, con gli abitanti di quella città, con il popolo di Dio nel corso della sua storia. Sono tutti i popoli della terra, in ogni luogo e in ogni tempo. E Gerusalemme li ricorda, sta ripetendo quei nomi, Gerusalemme porta in sé una memoria indelebile, Raab, Babilonia, Palestina, Turo, Etiopia, tutti la sono nati, cioè nel loro luogo e nel loro tempo, compresi i popoli delle civiltà precolombiane nelle Americhe, tutti là sono nati, ma si dirà di Sion: l’uno e l’altro è nato in essa.
Gerusalemme è madre di quei popoli che pure sono nati là, nella loro storia dal punto di vista temporale, nei loro luoghi, dal punto di vista dello spazio, ma tutti sono nati a Gerusalemme. E Gerusalemme li ricorda come presenza che appartengono a lei, al suo grembo, a lei in quanto madre. tra l’altro la traduzione in greco dice proprio così: madre Sion. Gerusalemme è madre, l’uno e l’altro è nato in essa. Una maternità singolare perché è una maternità non tanto generativa, come l’intendiamo noi normalmente, ma è una maternità attrattiva. E’ una maternità che non sta dietro di noi, ma sta davanti a noi. Questa madre ha un grembo che attrae, ha un grembo che rivela la sua fecondità materna, bisogna proprio esprimersi in questi termini, fecondità materna, nel momento in cui attraendo tutti i popoli li educa nella esperienza della fraternità. Mia madre mi ha messo al mondo. Qui abbiamo a che fare con una madre che genera per noi il mondo in un orizzonte di fraternità. Mia madre genera dei fratelli per me. E’ la maternità di Gerusalemme, ed è la maternità che con Pietro, con Paolo e con tutti gli altri, giunti alla fine degli Atti, noi impariamo a contemplare la maternità che mi viene educando nella sapienza, nel gusto, nella responsabilità, nella testimonianza della fraternità. Mi spiega cosa vuol dire avere dei fratelli e cosa vuol dire esser fratello. Fratello di popoli, di vicini e di lontani, di sconosciuti, fratello di nemici. Madre Sion genera per me il mondo e me lo dona spiegandomi come io sto nascendo in un grembo materno che mi genera nel momento stesso in cui genera per me, per noi e per tutti un disegno di comunione fraterna. Ricordate Paolo che arriva a Roma, la prima cosa che fa è salutare i fratelli. Paolo arriva a Roma e parla di Gerusalemme. E’ vero che poi rimane a Roma, per il momento ancora incatenato, ma questa è la nostra condizione, si, ma la prospettiva è segnata per tornare a Gerusalemme, e tornare a Gerusalemme non semplicemente per rievocare il passato, ma perché significa raggiungere finalmente la pienezza della comunione che coinvolge l’unica famiglia umana in cui i diversi sono pronti ad accogliersi vicendevolmente, ad affidarsi vicendevolmente, come fratelli. Gerusalemme è la visita di Dio, è la pasqua del Signore, è l’evangelo che noi stiamo già ammirando nella sua fecondità piena, realizzata, definitiva, stiamo ancora in cammino, stiamo ancora inchiodati in qualche carcere di questo mondo, stiamo ancora trattenuti, frenati da qualche situazione circoscritta. Siamo ancora a Roma? Ma l’evangelo già riempie la scena, è un appuntamento a cui non possiamo più mancare, l’uno e la’ltro è nato in essa.

Terza strofa, vv. 5b-7.
«L’Altissimo la tiene salda». La processione oramai è entrata a Gerusalemme, sarà entrata anche nel tempio. Il nostro orante, lui personalmente, quella comunità impegnata nel rito professionale insieme con lui, si fermano, si guardano intorno, piantano i piedi sul terreno. Ma è veramente solido questo terreno. L’Altissimo la tiene salda.
«Il Signore scriverà nel libro dei popoli», adesso qui abbiamo a che fare con la testimonianza di chi è giunto al termine di quel breve, tutto sommato, cammino professionale, si guarda attorno: io sono già nel grembo, sono dentro Gerusalemme. Per Paolo questo grembo ha le misure di un carcere, è un sacramento di comunione fraterna universale, l’evangelo già realizzato nel sacramento, affidato alla chiesa che evangelizza, alla nostra povera vita cristiana che si sta specchiando nel volto di Pietro e di Paolo per riconoscere la bellezza di Stefano
«Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato». Vedete, il registro e accanto ai nomi le generalità, un nome dopo l’altro, e per ogni nome: è nato a Gerusalemme, è nato a Gerusalemme, è nato a Gerusalemme.

«E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti».

La triade cristiana di fede, carità e speranza in Paolo (N. Ibrahim)

dal sito:

http://www.custodia.org/spip.php?article5031&lang=it

“S. PAOLO E L’IDENTITÀ CRISTIANA” —

SBF • 35º Corso di Aggiornamento Biblico-Teologico — Gerusalemme, 14-17 aprile 2009

La triade cristiana di fede, carità e speranza in Paolo (N. Ibrahim)

La triade di fede, speranza e carità si trova soltanto in Paolo e in Eb 10,22-24; 1Pt 1,21-22. La forma unita delle tre virtù ricorre in 1Ts 1,2-3; 5,8; 1Cor 13,13 e Col 1,4-5, mentre altrove si trovano nel contesto di altre virtù, come in Gal 5,5-6; Rm 5,1-5; Eb, 10,22-24 e 1Pt 1,21-24.

1. La triade di fede, speranza e carità nell’esordio della Prima Lettera ai Tessalonicesi

1Ts 1,2-3: «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere,
continuamente, rammentando la vostra opera della fede, la fatica della carità e la costanza della speranza nel Signore nostro Gesù, davanti a Dio e Padre nostro».

2. L’evento del Vangelo, inizio della vita cristiana

«Sapendo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui. [5] Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben sapete che siamo stati in mezzo a voi per il vostro bene» (1,4-5).

3. La fama della vostra fede si è diffusa dappertutto

«[6] E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione, [7] così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell’Acaia. [8] Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne. [9] Sono loro infatti a parlare di noi, dicendo come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero [10] e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura» (1Ts 1,6-10).

4. La vita cristiana deve crescere

Nell’esordio, Paolo mette in risalto la testimonianza della vita impegnata nella fede, carità e speranza. Più avanti, però, prega Dio perché i fedeli tessalonicesi abbiano modo di fare crescere la loro vita cristiana:
–«Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio, [10] noi che con viva insistenza, notte e giorno, chiediamo di poter vedere il vostro volto e completare ciò che ancora manca alla vostra fede? [11] Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù dirigere il nostro cammino verso di voi! [12] Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come anche
noi lo siamo verso di voi, [13] per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (3,9-13).

5. La testimonianza dell’Apostolo Paolo

Paolo e i suoi compagni hanno predicato il vangelo in Tessalonica, offrendo un esempio di sopportazione gioiosa delle persecuzioni, suscitando l’imitazione dei credenti: «E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione» (1Ts 1,6).
Ritornando all’evento felice della conversione ed elezione dei credenti tessalonicesi, Paolo dice:
–«[7] Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. [8] Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. [9] Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno
vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio. [10] Voi siete testimoni, e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti; [11] e sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, [12] incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria» (2,7-12). –
I credenti sono chiamati a vivere sempre meglio la carità fraterna, ricordando la testimonianza evangelica di Paolo: «Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come anche noi lo siamo verso di voi» (1Ts 3,12). Anche la speranza trova in Paolo un esempio da imitare: «[19] Chi infatti, se non proprio voi, potrebbe essere la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui ci possiamo vantare, davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta? [20] Siete voi la nostra gloria e la nostra gioia» (1Ts 2,19-20).

Prof. Barbaglio: La laicità del credente, Il rapporto con il mondo nell’evangelo di Gesù e di Paolo (uno studio importante, bellissimo)

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana14.pdf

La laicità del credente

Il rapporto con il mondo nell’evangelo di Gesù e di Paolo

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 11 febbraio 2006

Ho scritto vent’anni fa un libretto sulla laicità del credente: se oggi dovessi tornare sull’argomento, eviterei il termine « laicità », troppo polisemico e ambiguo, sostituendolo con un termine più in sintonia con le testimonianze bibliche, quello di « mondanità ». L’esperienza dei credenti, dei cristiani nel mondo, è un’esperienza « mondana ». Il termine « mondanità », più che quello di « laicità » è in sintonia con le testimonianze bibliche. I testi di Paolo su questo tema, sono abbastanza difficili, ma se letti un po’ attentamente, risultano stimolanti anche per noi.

il « mondo » per Paolo

Innanzitutto, Paolo per « mondo » usa due vocaboli che derivano dal giudaismo greco, non dalla
tradizione ebraica più antica, che parla di Mondo come creazione di Dio. Anzitutto « kosmos »: il
mondo come realtà bella e ordinata e poi « aion », cioè « il mondo nella sua durata », noi diremmo « le generazioni del mondo che si succedono ». Soprattutto in Gesù e Paolo, il problema del mondo non è tanto sapere che cos’è il mondo, che cos’è il tempo, ma il rapporto tra noi e mondo. O, in altra prospettiva, che cosa vuol dire il tempo, il mondo per noi. Nel corso di quest’anno voi analizzate soprattutto il versante dei credenti nel mondo, cioè la presenza dei credenti nella politica e nella società. Io ho scelto dei testi un po’ difficili e anche a prima vista ambigui in Paolo, per riuscire a dire qualche cosa su questo argomento così complesso.
Sono testi difficili, ma che bisogna avere il coraggio di affrontare, perché sono anche molto
importanti. Certo, Paolo non è l’unico, ma è una presenza abbastanza significativa delle scritture cristiane.

1 Corinzi 5,9-11: la comunità dei credenti dentro la storia

« Vi scrissi nella mia lettera di non mescolarvi con i debosciati, ma non intendevo in ogni caso
riferirmi ai debosciati di questo mondo o agli avari, ladri, idolatri. Altrimenti dovreste uscire dal
mondo. Vi scrissi invece di non mescolarvi con chi portando il nome di fratello è debosciato o
avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: non mangiate neppure insieme a tale persona. »

1 Corinti è una lettera inviata alla chiesa che Paolo aveva fondato a Corinto. Corinto era una città portuale, allora molto importante. La Corinto greca era stata distrutta dai Romani nel 150 circa prima di Cristo, ma poi nel 49 Giulio Cesare l’aveva rifondata come colonia romana. Corinto rappresentava l’incontro di due culture, la greca e la romana. Qui confluivano vari gruppi sociali. Mentre Atene in quel periodo era in crisi, Corinto era la grande città, dove si tenevano anche i giochi panellenici (non solo ad Olimpia!). In quel mondo culturale molto vivo e variegato assistiamo al primo incontro, o scontro per qualche verso, di una comunità cristiana nel mondo, in una città a cultura metropolitana.
In una prima lettera andata perduta alla comunità di Corinto, che Paolo aveva fondato nel 50 circa, vi era questa sorprendente esortazione: « Voi dovete evitare l’incontro con i pornoi ». I pornoi erano i debosciati. Però la parola pornos non vuol dire solo il debosciato sessuale, ma anche, secondo la polemica giudaica, l’idolatra. Gli Ebrei chiamavano « immorali » i pagani che adoravano le divinità. Poiché però Corinto era anche una città eticamente molto corrotta, il significato di questa parola ondeggia tra « idolatria » e « licenziosità etico-morale, sessuale ».
Allora i credenti di Corinto hanno risposto a Paolo, chiedendogli come fosse possibile per loro, che erano un piccolo gruppo di 40-50 persone al massimo in una città che poteva avere trecento-quattrocentomila abitanti, evitare l’incontro con gli idolatri, con i debosciati, con i pagani. E Paolo nella risposta torna sulla sua esortazione precedente e chiarisce che c’è stato un equivoco, un’incomprensione, affermando che non si riferiva ai debosciati di questo mondo, ma ai debosciati che sono fratelli, che appartengono alla comunità. Se i credenti infatti non dovessero mischiarsi con la società, dovrebbero uscire dal mondo. Paolo afferma quindi chiaramente che l’esistenza della comunità cristiana è un’esistenza « nella » società, « nel » mondo. È un’esperienza di chi « fa parte » di questa società, di questa città, del mondo. L’esistenza cristiana non è un’esistenza che si deve vivere in uno spazio separato, al di sopra della società, ma dentro la società, assumendo la rete dei rapporti, assumendo la mescolanza. In Italia si è discusso e si discute sui « meticci », sul « meticciato ». Appena ne ho sentito parlare, ho pensato che l’esempio più chiaro di meticciato è Gesù! Gesù è un meticcio: figlio di Dio e figlio dell’uomo!

la lettera ai Galati: liberi dal mondo idolatrico
e dalla legge mosaica

Il secondo testo molto più impegnativo e problematico comprende vari brani della lettera ai Galati. Si tratta di una lettera enciclica, perché inviata a diverse comunità della Galazia. La regione galata era stata abitata dal 200 circa a.C. dai Galli, dai Celti, che, venuti dalla Francia, si erano sedentarizzati al centro della penisola anatolica, dando vita ad un regno. Nel 25, con la morte dell’ultimo re dei Galati, Aminta, il regno passò ai Romani, i quali hanno poi costituito con le regioni più vicine la famosa provincia di Galazia, con capitale Ancyra, l’attuale Ankara. Paolo
aveva fondato alcune comunità in questa regione, comunità che poi avevano ricevuto la visita di missionari giudeo-cristiani tradizionalisti, o addirittura reazionari. Questi missionari affermavano che il vangelo della libertà di Paolo era un vangelo annacquato, presentato così per avere più facilmente l’adesione dei Galati, mentre il vangelo vero di Gesù Cristo esigeva anche la circoncisione (si rivolgevano a dei pagani) e quindi l’osservanza della legge mosaica.
Paolo scrive a questi Galati, che godevano della libertà di cristiani, cercando di parare la loro
ricaduta nella religione mosaica, in cui Cristo era soltanto un’aggiunta. Cristo, in questa concezione, veniva inserito dentro uno schema che riservava la salvezza esclusivamente a coloro che avevano la circoncisione, che cioè osservavano la legge mosaica.
All’inizio di questo testo molto difficile, e anche ambiguo, dice:

« Io Paolo… alle chiese della Galazia. Grazie a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per i nostri peccati… » (Gal 1,4). In questa affermazione appare una fede cristiana « prepaolina », propria dei giudeo-cristiani, convinti che i sacrifici di espiazione del tempio di Gerusalemme non fossero più il sacramento del perdono, perché sostituiti dalla morte di Gesù, il nuovo sacramento del perdono. I tradizionalisti giudeo-
cristiani ritenevano però che Gesù dovesse essere coordinato con la religione mosaica, mentre Paolo vedeva in questo coordinamento una diminuzione della forza salvifica di Cristo. Per Paolo la salvezza non sta nel perdono dei peccati, non dipende dalla conversione, ma è qualcosa di molto più radicale. Infatti il perdono dei peccati risolve solo sul momento la situazione. E allora Paolo, iniziando la sua lettera, per persuadere i suoi ascoltatori della propria fedeltà alla tradizione, nonostante tutta la sua radicalità, riporta anzitutto la formula tradizionale protocristiana della morte di Cristo come sacramento del perdono dei peccati al posto dei sacrifici del tempio, ma per dire subito dopo dove sta esattamente l’azione di Cristo:
« affinché Egli ci riscatti da questo mondo malvagio ». La salvezza quindi non sta tanto nel perdono dei peccati ma in un evento di liberazione e di riscatto da « questo mondo malvagio ». L’espressione « questo mondo » è abbastanza ambigua e in Paolo di solito ha valore deteriore, peggiorativo. Non indica il mondo nella sua fisicità, ma nel suo rapporto con gli uomini e quindi si riferisce alla storia, alla società. Che cosa sia questo mondo malvagio Paolo lo precisa nel capitolo quarto della lettera: questo mondo è una realtà negativa anzitutto perché è un mondo idolatrico. Le piccole comunità cristiane come quella di Corinto o come quelle presenti nell’impero romano erano a contatto con un’umanità idolatrica, un’umanità che piegava le ginocchia davanti a realtà create, come se fossero Dio. Allora in Galati 4, riferendosi a questi credenti di Galazia, che si erano convertiti alla sua predicazione, Paolo dice: « Un tempo voi che non conoscevate (qui conoscere significa riconoscere, non è un atto di conoscenza intellettuale) il Dio creatore eravate schiavi di dei che non sono tali per natura » (Gal 4,8)
L’ambiente in cui Paolo comunica con le sue comunità è idolatrico, è un mondo schiavo di queste divinità, che in realtà sono delle nullità, e che hanno consistenza solo per quelli che le riconoscono. Abbiamo un testo parallelo in 1Corinti, 8, 5-6, in cui Paolo dice: « Anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo che in terra – come di fatto c’è una quantità di dei e signori -, per noi invece esiste un solo Dio, il Padre… e c’è un solo Signore, Gesù Cristo ». Ci sono molti dei e molti signori riconosciuti, adorati, venerati, a cui si serve, ma noi credenti in Cristo riconosciamo un solo Dio, il Padre, e un solo signore, Gesù Cristo. Allora gli dei erano i capi
delle nazioni, gli imperatori, i signori, che avevano il potere di vita e di morte su tutti.
« Lui ci ha riscattati, liberati da questo mondo malvagio » vuol dire allora che Cristo ci ha liberati da un mondo in quanto espressione idolatrica, in quanto ambiente in cui si piegano le ginocchia
davanti a realtà umane, create come se fossero degli dei, da un mondo schiavizzato.
Oggi il mondo idolatrico si manifesta in forme nuove, per esempio nel grande feticcio del mercato. Si parla delle « leggi del mercato » del « libero mercato » come se fossero il decalogo! È un mondo idolatrico, dove si adora il mondo, dove le persone sono sacrificate al mondo, dove le persone si inginocchiano davanti alle leggi del mondo. E Paolo ci dice: « Cristo ci ha riscattati da questo mondo idolatrico » Questa è la prima caratteristica. Una seconda caratteristica riguarda la circoncisione e la legge mosaica. Paolo scrive ai credenti di Galazia, i quali volevano farsi circoncidere, perché i predicatori giudeo-cristiani avversari di Paolo, dicevano che se non si fossero fatti circoncidere, essi non avrebbero avuto la salvezza. Cristo non basta, si deve osservare anche la legge mosaica. Paolo pone un’equivalenza tra l’idolatria del mondo pagano (« quelli che non conoscono Dio perché sono schiavi di divinità che non sono realmente tali ») e l’adorazione della legge propria del mondo giudaico. La legge mosaica è qui considerata non nella sua derivazione divina, ma in quanto elemento che costituisce il centro dell’esistenza delle persone. I predicatori giudeo-cristiani infatti sostenevano che senza circoncisione, cioè senza l’assunzione della legge mosaica, non c’è salvezza. In questo modo, la legge, e quindi la religione mosaica, viene eretta a dio di questo mondo (gli uomini si definiscono in rapporto al possesso o alla privazione della legge mosaica). La legge mosaica, la circoncisione, era per natura sua un elemento discriminante, perché quelli che avevano la legge e la osservavano, erano accolti da Dio, erano sulla via della salvezza, mentre quelli che non avevano la legge mosaica, i gentili, i pagani, erano ipso facto considerati peccatori. Lo dice Paolo stesso in Galati 2, quando si rivolge a Pietro, in seguito alla scissione della comunità di Antiochia. Antiochia era una comunità mista, dove le regole della dietetica e della tradizione ebraica non erano osservate, e tutti i credenti mangiavano insieme nella libertà cristiana. Poi erano arrivati alcuni da Gerusalemme, mandati da Giacomo, fratello del Signore Gesù, che sostenevano che non si dovesse mangiare insieme, perché c’erano le regole da rispettare. Pietro aveva ceduto e si
era ritirato con quei giudeo-cristiani circoncisi che mangiavano secondo le regole, lasciando soli i poveri pagani convertiti, causando così una scissione nella comunità. Paolo afferma di avere contrastato Pietro a viso aperto, perché il suo comportamento era meritevole di condanna e fonte di scandalo. Così rimprovera Pietro: « Noi giudei che per natura siamo tali e per condizione naturale non siamo dei peccatori provenienti dal mondo dei gentili. » (Gal 2,15)
Mentre i gentili erano nella situazione di essere peccatori (non perché commettessero dei peccati, ne commettevano anche i giudei), i giudei, all’interno del sistema mosaico, avevano i mezzi per ottenere il perdono attraverso il pentimento e i sacrifici espiatori.
Possiamo così comprendere ora pienamente il « Lui ci ha liberati da questo mondo malvagio »:
Cristo ci ha liberato da questo mondo idolatrico, in cui impera l’idolatria, l’adorazione delle cose, delle persone, dei capi, delle creature, Cristo ci ha liberato da questo mondo dove vige la regola della discriminazione prodotta dalla legge mosaica, da questo mondo dove si adora la religione. Altro che la religione civile! Paolo dice che Gesù ci ha riscattati da questo mondo in cui la religione mosaica, (patto sinaitico, riti di espiazione) era discriminante nei confronti di coloro che erano per condizione degli esclusi. L’evento liberante di Cristo è pertanto un evento liberante dal mondo dell’idolatria e dal mondo delle religioni (anche della religione cattolica!), intendendo per religioni un insieme di credenze, un insieme di riti, di espressioni sociali che sono separanti, escludenti.
In realtà, il mondo giudaico aveva un respiro universalista, che implicava però l’assimilazione dei diversi. I giudei cioè non sostenevano che il loro Dio salvasse solo loro. La salvezza riguardava tutti, anche i gentili, a condizione che i gentili si facessero ebrei, cioè accettassero la circoncisione, come dicevano gli avversari di Paolo, perdendo così la propria identità culturale e diventando altri. Paolo rappresenta un universalismo qualitativo, e cioè un universalismo che mette sullo stesso piano gli uni e gli altri, gli ebrei che avevano una tradizione monoteistica, la legge, il patto, la circoncisione, il tempio, il culto, e i gentili che non l’avevano. Davanti al Dio di Gesù Cristo, l’uomo delle religioni e l’uomo che non ha nessuna religione, sono parificati.

Galati 3,27-28: liberi in Cristo dalle diversità identitarie

In Galati 3, 27-28, abbiamo quel testo straordinario di Paolo, che bisognerebbe che fosse
pronunciato ogni giorno, soprattutto oggi: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù. »
3,27: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo… »
L’immagine del vestito era un’immagine tradizionale utilizzata anche nei misteri greci dove si
indossava un abito nuovo, come segno di una novità della vita: si chiude una porta alle spalle, al passato, e si apre una porta sul futuro, sulla novità. « Non c’è giudeo né greco » (era la grande divisione del mondo di allora, monoteisti – politeisti), « non c’è schiavo né libero » (era la grande frattura di tipo sociale, di tipo politico: nelle assemblee delle città greche lì dove si decideva della res pubblica, non potevano prender parte tutti coloro che abitavano nella città, ma solo coloro che avevano il diritto di cittadinanza. Le minoranze etniche, per esempio, erano prive di questo diritto), « non c’è maschio né femmina ». Non c’è « poiché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù », avete ricevuto una nuova identità. Se noi avessimo chiesto a Paolo chi fosse lui, prima di Damasco, avrebbe risposto con molto orgoglio di essere un ebreo, un monoteista, un circonciso, al di dentro del patto di Dio e della sua legge. Se glielo avessimo chiesto dopo, avrebbe risposto di essere « un essere in Cristo ». Paolo è un mistico, non è un moralista. Essere cristiano per Paolo è essere coinvolto dentro il Risorto. Il Risorto è lo Spirito di Dio, è Gesù di Nazareth trasformato, Gesù di Nazareth che ha subito una metamorfosi nella resurrezione, divenendo Spirito che dà la vita. L’identità cristiana si colloca dentro questo spazio nuovo di vita, che è la signoria di Cristo e che è lo Spirito di Dio.
Allora quando Paolo dice che non c’è giudeo, greco, schiavo, libero, maschio femmina, certamente non vuol dire che queste diversità non esistono più, ma che queste diversità non sono più identitarie, cioè non costituiscono più l’identità della persona. La persona non si definisce più in rapporto a Cristo come ebreo o gentile, schiavo, libero, maschio e femmina: si definisce come uno che è in Cristo, che è dentro questo spazio delle forze nuove della vita di Cristo. Noi viviamo oggi in Europa e nel mondo un forte ritorno alle affermazioni delle identità. Dopo la caduta dell’impero sovietico abbiamo assistito ad una moltiplicazione di stati in Europa, anche di piccoli stati: la Cecoslovacchia si è divisa in due stati, e poi la Jugoslavia si è frantumata, con la Bosnia, ecc.. C’è una corsa all’identità nazionale o localistica: nel nord dell’Italia all’identità padana. Cristo ci ha liberato dalle identità culturali, dalle identità religiose, dalle identità sociali, dalle identità di genere. Per Paolo quindi Cristo ci ha liberato dal mondo in quanto idolatrico e da un mondo delle religioni in quanto grandezze separanti e discriminanti. Cristo ci ha liberato dalle diversità identitarie. Le diversità restano, ma non sono più l’identità vera, sono solo delle varianti culturali, religiose, morali, ecc. perché l’identità è un’altra.

Galati 5,1-2;13: chiamati alla libertà

La liberazione da questo mondo idolatrico e delle religioni discriminanti e identitarie, è il vangelo, la lieta novella. Cristo vi ha liberati: il cristianesimo non è un appello all’autoliberazione, ma è un evento di liberazione, un evento di grazia. Però questo evento di liberazione, che è un dono, è anche un compito, affidato alla nostra responsabilità. L’evento di liberazione non è una situazione data una volta per sempre, ma sollecita il nostro impegno responsabile. Abbiamo due testi, sempre in Galati, che ripetono la stessa idea: « Cristo ci ha liberati per una vita di libertà ». (Gal 5,1) E poiché noi siamo stati liberati per la libertà, Paolo esorta: « state saldi dunque ». Ecco la responsabilità: la saldezza nella libertà. Stare saldi vuol dire « non sottoponetevi di nuovo al giogo della schiavitù » (Gal 5,1), che sappiamo essere
la schiavitù del mondo idolatrico e del mondo delle religioni separanti. E in Galati 5, 13 Paolo ripete: « voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà ». Cioè voi siete stati chiamati (da Dio) a poggiare la vostra vita sulla libertà, « soltanto che poi questa libertà non diventi un « aformèn », una base di lancio per la carne. » In questo caso « carne » in Paolo un’esistenza dominata da un dinamismo egocentrico, dall’ego. « Ma al contrario, mediante l’agape, mediante l’amore, siate schiavi gli uni degli altri ». Mediante l’agape, l’amore, che è frutto dello Spirito del Risorto, siamo chiamati e resi capaci di prenderci reciprocamente cura, di farci schiavi gli uni degli altri. La libertà cristiana è una libertà responsabile, solidale, del prendersi reciprocamente cura. È
una libertà che consiste in una reciproca schiavitù. Paolo in questi testi emerge come l’apostolo di un cristianesimo radicale, di un cristianesimo di confine, di un cristianesimo mistico, di un cristianesimo della libertà da un mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti e identitarie.

Galati 6,11.14-15: un mondo nuovo

In Galati, 6, 11-15, in conclusione della lettera, Paolo parla in prima persona, scrivendo di proprio pugno. Afferma:
« Guardate con che caratteri grossi io scrivo di mia mano » e tra le cose bellissime che dice, afferma al v. 14: « Per me non avvenga mai che io mi vanti » (per vantarsi non si intende il vantarsi davanti agli uomini ma il vantarsi davanti a Dio, cioè accampare dei diritti, delle pretese, nei confronti di Dio), « io mi posso vantare solo di una cosa: della croce del Signore nostro Gesù Cristo ». La croce per Paolo non è solo la morte, ma è morte e risurrezione. La croce è un simbolo che esprime per un verso il lato tragico e cioè la morte orrenda del crocifisso, la tortura riservata agli schiavi e ai traditori. Il servile supplicium di cui parla Seneca. Per un altro verso la croce è il simbolo della resurrezione dai morti. Dio ha risuscitato non un sant’uomo, ma il crocifisso, cioè il maledetto, « maledetto colui che pende dal legno » (Deut 21, 23). Questa maledizione Paolo la riporta in Galati 3, capovolgendola: il maledetto è la fonte di benedizione per tutte le genti. Paolo dice « mi vanto soltanto della croce di Cristo ». Io direi: mi vanto solo di Dio che ha risuscitato il Crocifisso. Questo è il simbolo della croce. Dice: « Mediante la quale croce, questo evento di Dio che ha risuscitato il crocifisso, il mondo è stato ed è crocefisso per me e io sono morto per il mondo ». Il mondo di cui parla è sempre il mondo idolatrico, di mondo delle religioni discriminanti, dell’adorazione degli idoli. Paolo in questo testo non dice che il mondo idolatrico, delle religioni discriminanti, delle identità separanti, è morto, non conta più, che noi siamo liberi. No, per Paolo il mondo idolatrico e il mondo delle religioni separanti non hanno alcun influsso su di me. Questo testo bellissimo riesce anche a farci capire esattamente in che senso Paolo dice che mediante Cristo siamo stati riscattati da questo mondo. Quello che è riscattato è il rapporto, è la dipendenza: non siamo più dipendenti da questo mondo idolatrico, da questo mondo delle religioni discriminanti.
Al versetto 15 dice: « Infatti né la circoncisione, né l’incirconcisione, che erano i due mondi, vale
qualche cosa. » Paolo riconosce che ci sono i circoncisi, ma questo non ha più valore, non è più l’identità delle persone, perché quello che vale è un mondo nuovo, è una creazione nuova.
La nuova creazione è un mondo in cui non c’è più la dipendenza delle persone dall’idolatria e dalla discriminazione. Là dove le persone si liberano dalla schiavitù degli idoli e si liberano dalle
religioni discriminanti, lì nasce il nuovo mondo. Il profeta Isaia aveva parlato di « cieli nuovi e terra nuova », noi diremmo di una società nuova. Noi siamo nel mondo, dice Paolo, ma non siamo succubi del mondo idolatrico e del mondo delle religioni discriminanti.

2 Corinti 5,14-15: morire con Cristo alla vita egocentrica

Nella seconda lettera ai Corinti, 5,14 Paolo afferma che noi siamo mossi dall’amore di Cristo, cioè che l’amore che Cristo ha per noi ci muove nella vita.
« L’agape di Cristo ci sollecita, ci spinge, spinge noi che giudichiamo questo fatto: uno solo è morto, a favore di tutti. » Nella liturgia eucaristica abbiamo una traduzione che a mio avviso è non solo infelice, ma è un po’ furbastra. Il testo originale è: « Questo è il mio corpo, (vuol dire: questo sono io) « uper umon » c’è nel testo biblico. Nella messa si dice: « questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi ». Il significato greco è: questo sono io che ho dato me stesso a favore vostro, per il bene vostro. L’inserimento subdolo della parola « sacrificio » avvalora la tradizionale visione cattolica della messa, della cena del Signore, come sacrificio. Ora Paolo è contrario alla concezione sacrificale ed espiatoria della morte in croce di Gesù, concezione che traspare solo in Romani 3, 24-25, e poi in 1Corinti 5, 7. Paolo qualche volta per ingraziarsi i suoi ascoltatori ripete alcune espressioni tradizionali, per poi però correggerle. La morte di Gesù non è un sacrificio espiatorio, ma un atto di amore per noi: Gesù è morto a favore nostro, per il bene nostro. Poi Paolo prosegue: « uno solo è morto per tutti, dunque tutti sono morti ».
Questa consequenzialità ci sconcerta, perché noi avremmo detto più logicamente che poiché uno è morto per tutti, noi otteniamo la vita attraverso la sua morte, e non che « morto uno, morti tutti! » Alla base del versetto c’è la concezione mistica di Paolo, per il quale l’esperienza cristiana è l’esperienza di chi viene inserito dentro il Cristo risorto, di chi entra in comunione col Cristo risorto. La mistica di Paolo non è teocentrica, ma cristocentrica, cioè riguarda l’unione col Cristo risorto. Allora se uno è morto per tutti, tutti quelli che sono in Cristo sono coinvolti nell’evento della sua morte. Questo è il senso. Cristo non è un individuo isolato, ma ha un valore rappresentativo, che ci coinvolge. Quello che capita a Lui capita ai credenti, perché i credenti sono inseriti in Lui e l’evento suo diventa evento nostro, dei credenti. Lui è morto a favore di tutti, dunque tutti sono morti. In che senso sono morti?
Naturalmente il versetto 15: « Ed egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono, i viventi, gli uomini non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro ».
La morte di cui si parla è la morte all’ego: non vivono più per se stessi, ma vivono per Cristo e per gli altri. La conseguenza è: « cosicché noi d’ora in poi non conosciamo più nessuno secondo un giudizio umano, carnale, e se anche noi prima avessimo conosciuto Cristo in modo carnale, d’ora in poi non lo conosciamo più così », il rapporto con lui è un nuovo rapporto. « Di conseguenza se uno è in Cristo, è dentro Cristo, è coinvolto dentro la sua vicenda (questa è la
mistica cristocentrica di Paolo), costituisce la cellula del nuovo mondo creato ».
È interessante il parallelismo tra la persona credente che entra nello spazio creato da Cristo e dal suo Spirito e il mondo. « il vecchio se ne è andato, ecco sorto il nuovo ». La novità portata da Cristo è esattamente questa: non vivere più centrati nell’ego (introflessione), ma vivere per colui che è morto e risuscitato per noi (estroflessione). Paolo è partito dalla morte di estroflessione di Cristo: Cristo è morto a favore di tutti, a favore nostro, non a favore di se stesso. E nella sua morte a favore nostro, Lui ha coinvolto noi che moriamo al vivere per noi stessi, in modo da vivere per Lui. Quindi c’è questa partecipazione del credente alla vita di oblatività del Cristo. La novità non sta nell’assetto fisico del mondo, nelle istituzioni, ma la novità concerne l’esistenza, il rapporto.

Romani 8,18-25: solidarietà tra credenti e mondo

In Romani 8, 18-25, Paolo mette in parallelismo noi e il mondo creato: da una parte noi credenti che abbiamo la primizia dello Spirito il cui frutto è l’agape, la forza con cui si diventa schiavi gli uni degli altri, e dall’altra il mondo creato, con tutta probabilità inanimato. Paolo dopo aver detto che il credente è stato riscattato da questo mondo malvagio, che è morto con Cristo alla sua vita egocentrica e quindi ha ricevuto questa vita di altruismo e di amore, che è libera, ecc., alla fine afferma la comunanza di condizione tra noi e il mondo. Noi gemiamo e il mondo geme, noi aspettiamo e il mondo aspetta. « Noi » e il mondo, la totalità, sono accomunati nell’attesa e nel gemito. Il gemito di cui parla Paolo indica i dolori del parto, le sofferenze che preparano la nuova nascita, non i rantoli della morte. La comunità dei credenti non sta al di fuori del gemito del mondo, del gemito che è sofferenza, ed anche strazio, ma che prelude ad una nuova nascita. « Non solo: noi gemiamo in attesa del riscatto del nostro corpo ». Per Paolo noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, siamo corporeità. E corporeità significa relazionalità. L’uomo è per essenza relazionalità: relazionalità a Dio, la creatura che riconosce il creatore, e quindi non adora le creature; relazionalità nei confronti degli altri, in questa schiavitù di
amore reciproco; relazionalità verso il mondo, cioè noi siamo esseri essenzialmente mondani, per cui la sorte dei credenti, degli uomini è la sorte del mondo. Allora il mondo geme in attesa di essere liberato dalla vacuità dell’essere. Quando leggo questo testo mi viene in mente la vacuità di molte espressioni della nostra vita, l’inconsistenza, la stupidità, il non essere insomma. Il mondo liberato dalla vacuità è l’uomo liberato nella sua relazionalità essenziale a Dio, agli altri e al mondo. Gemiamo noi, geme il mondo creato e geme lo Spirito, con gemiti, dice, inenarrabili. Lo Spirito di Dio, che per Paolo abita nei credenti, è presente nel mondo, ed è presente come principio della trasformazione, della liberazione. E Lui stesso geme in attesa. È straordinario! La comunità dei credenti non sta sopra, non è in una condizione diversa rispetto agli altri, cioè ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato agli altri. L’esistenza dei credenti è un’esistenza nel gemito, nella sofferenza, propria di chi non è arrivato ancora, in un cammino faticoso. In un testo della seconda Corinti Paolo dice: « io porto sempre in giro (Paolo era un missionario) la necrosi di Gesù », il morire di Gesù. Paolo avverte che la sua esistenza di apostolo, ma anche quella dell’insieme di tutti i credenti, è un processo intaccato dalla morte. Per Paolo la morte non è quella che arriva alla fine. La morte è un processo che rende la vita dell’uomo caduca, minacciata, precaria, sofferente, addolorata. Allora ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato ad altri. I credenti vivono in questo mondo, i credenti sono stati liberati da Cristo dal mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti. I credenti cioè hanno la primizia dello Spirito ma non sono degli arrivati.

Romani 12,1-2: il culto dei credenti

Paolo, dopo aver esposto il suo vangelo ai Romani nei primi undici capitoli, conclude con
un’esortazione: « Io vi esorto ». Paolo, di regola, non comanda, ma esorta. L’esortare è
l’atteggiamento del padre nei confronti dei figli, non di un padre padrone. Paolo sollecita, prega,
esorta, come un padre esorta i figli. Vi prego dunque fratelli (adelfòi in questo caso andrebbe tradotto con « fratelli e sorelle »). Per inciso, Paolo non dice mai « figli miei », o quasi mai. Usa « figli miei » solo in due-tre testi, dove dice: io sono padre in quanto vi ho generati attraverso il vangelo. Quindi è il vangelo l’elemento generativo. Paolo si presenta come un fratello. Quindi, la comunità cristiana per Paolo è una fraternità. Nel mondo greco l’amore tra fratelli era maggiormente considerato, ancor più dell’amore tra marito e moglie. Non è paolina la concezione della chiesa come « popolo di Dio », introdotta dal concilio su sollecitazione soprattutto di Congar e della scuola francese dei domenicani di Le Saulchoir, che
giustamente volevano sottolineare che la comunità dei credenti è in cammino nella storia.
Per Paolo la comunità è una fraternità, una famiglia. Una famiglia non nel suo aspetto di paternità e figliolanza, ma di fraternità. La cosa è talmente interessante, che quando si passa alle lettere pastorali, cioè alle lettere di Tito e di Timoteo, che sono della tradizione paolina, anche lì si trova l’affermazione che la chiesa è famiglia di Dio. Però la famiglia di Dio di cui si parla è costituita dai padri e dai figli, in cui il padre è il grande capo nella famiglia. Tant’è vero che l’autore di queste lettere pastorali sostiene che il presbitero deve saper comandare, tenere sotto controllo i figli e le mogli… La stessa metafora della famiglia viene usata in modo non solo diverso, ma addirittura contrapposto.
Vi esorto dunque fratelli e sorelle mediante i gesti di misericordia di Dio. O ancor più fedelmente: per le viscere materne di Dio. Quello che diventa sollecitante per i credenti sono le viscere materne di Dio, e Paolo è il comunicatore di questi gesti di « visceralità », di « amore viscerale » di Dio. Vi esorto a mettere davanti all’altare, non le offerte sacrificali, ma la vostra esistenza mondana quale vittima sacrificale. Ancora una volta Paolo utilizza in modo non rituale concetti cultuali. Quello che Dio gradisce come offerta viva e santa, come dono è l’esistenza mondana dei credenti, è la loro mondanità, la loro corporeità. E questo è il culto intellettuale. L’offerta che gli uomini fanno a Dio deve essere un’offerta adeguata alla loro natura di esseri intelligenti, di esseri logici, che hanno il logos, la mente, l’intelligenza, il pensiero. Le offerte animali, di esseri che non hanno il pensiero, non sono adeguate alla natura umana. « Non siate conformisti nei confronti di questo mondo (to aiòni) », di questo mondo idolatrico, di questo mondo che adora le religioni discriminanti. Non siate conformisti, ma
dovete operare la metamorfosi che renda nuova la vostra mente, il vostro modo di vedere le cose, in modo che voi possiate discriminare e conoscere quello che è la volontà di Dio, quello che è il bene, quello che piace a Lui ed è perfetto.
È un testo molto pregnante. Essere anticonformisti vuol dire trasformare il modo di guardare il
mondo perché corrisponda al volere di Dio. Paolo non dice che dobbiamo seguire la volontà di Dio comunicataci da qualcuno che ritiene di conoscerla a perfezione al posto nostro, ma che « noi » dobbiamo trasformare il nostro modo di vedere, dobbiamo rinnovare la luce della nostra mente in modo da corrispondere a quello che Dio vuole da noi.

dibattito

Paolo, Gesù e i non credenti

Paolo parla solo dei credenti e probabilmente non si è mai posto il problema dei non credenti. È uno spazio vuoto che lui non ha riempito. Chiediamo a lui solo quello di cui si è interessato.
La seconda osservazione da fare è che Paolo quando dice « il credente in Cristo », il Cristo di cui
parla è il Risorto. Ecco perché Paolo non ha nessuna attenzione per il Gesù di Nazareth, per il Gesù biografico. Il Gesù risorto è il Gesù di Nazareth, non è un altro, però il Gesù biografico non gli interessa minimamente. Tant’è vero che di tutte le parole dette da Gesù secondo la tradizione Paolo ne cita espressamente solo due, che non hanno grande peso: « Quelli che sono ministri dell’annuncio devono vivere secondo l’annuncio », e poi la parola di Gesù sull’indissolubilità matrimoniale. Tutta la teologia di Paolo ruota sulla morte e risurrezione di Gesù. Il resto non gli interessa. Probabilmente Paolo ha trascurato del tutto quello che Gesù ha detto e fatto perché il Gesù delle parole e dei fatti era stato brandito dai suoi avversari, che avevano inserito Gesù dentro il sistema mosaico, come sostenitore dell’osservanza della legge mosaica. C’è qualche cosa di vero in questo. Però il vero problema per Paolo è la liberazione dal mondo idolatrico, per la quale i gesti e le parole di Gesù non sono efficaci. Paolo ritiene che il cuore dell’uomo non cambia sostanzialmente con i buoni esempi, con le buone parole. La schiavitù del mondo idolatrico, del mondo delle religioni discriminanti è qualcosa di così profondo da non essere scalfita dalle parole e dagli esempi. È necessario il grande gesto liberante di Cristo, del Cristo Risorto. Il Cristo Risorto è molto più potente del Gesù di Nazareth, che aveva a disposizione per influire solo le sue parole e il suo esempio. Nient’altro. Invece il Cristo Risorto ha in mano la potenza dello Spirito, lo Spirito di Dio, lo Spirito creatore.
Essere nel Cristo Risorto, è essere nello Spirito. In Paolo c’è questo parallelismo: noi siamo in
Cristo e noi siamo nello Spirito di Cristo, nello Spirito di Dio. Se le cose stanno così, noi potremmo dire allora che per Paolo i credenti non sono quelli che conoscono Gesù di Nazareth, le sue parole, i suoi esempi, ma quelli che sono dentro lo Spirito, quelli che sono animati dallo Spirito. E lo Spirito e il Cristo Risorto non sono una presenza locale, ma universale. Il Gesù di Nazareth poteva influire con la parola e con l’esempio solo su quelli che incontrava in Palestina, mentre per Paolo il Cristo Risorto e lo Spirito possono influire sull’universalità degli uomini. Il Gesù di Nazareth è una grandezza particolare culturalmente situata. Invece il Cristo Risorto che in qualche modo si identifica con lo Spirito è una grandezza universale, è una grandezza che può influire su tutti. Allora, bisogna distinguere tra quello che vuol dire « essere in Cristo » e la confessione cristiana, la credenza cristiana, i sacramenti, la vita associata cristiana. L’essere in Cristo non equivale alla vita associata cristiana. Ecco perché Paolo è radicale, annuncia un cristianesimo di frontiera, un cristianesimo che è possibile anche per quelli che non sono dentro la Chiesa. Così Paolo, che non si è mai posto il problema dei non credenti con la sua concezione dell’essere nel Cristo Risorto, nello Spirito, propugna un cristianesimo che travalica l’aspetto confessionale.

Paolo e la teologia del sacrificio espiatorio

Se noi intendiamo per sacrificio quella oblatività per cui uno dà la sua vita per amore dell’altro, non esistono problemi. Però nella teologia del sacrificio, il sacrificio è un atto religioso, un atto cioè che coinvolge Dio. Finché noi diciamo che Dio ha dato la sua vita a favore nostro per un atto di amore estremo per noi, d’accordo. Ma se usiamo la parola sacrificio, per dire che Gesù offre la sua vita per il perdono dei nostri peccati, facciamo riferimento alla concezione arcaica di un Dio, che ha bisogno del sangue, della vittima sacrificale. Voglio dire che l’Eucarestia, come la morte di Gesù, secondo Paolo, è al di fuori di questo schema vittimario, delle vittime e dei sacrificatori, dei sacrifici nel senso religioso.
Nel brano della lettera ai Romani Paolo esorta ad offrire le nostre esistenze come sacrificio vivo, non ad offrire vittime sacrificali. La nostra vita mondana è quello che Dio vuole da noi, non le vittime. Se ci sono le vittime, ci sono anche i sacrificatori, i sacrificatori provvidenziali.
So che è una battaglia perduta, però… chissà che grazie ad un concilio si possa tradurre
letteralmente durante la Cena del Signore: « Questo sono io che ho dato la mia vita per amore
vostro ». Questa è la traduzione corretta. Ecco perché dico che quella traduzione (« offerto in
sacrificio per voi ») per un verso non è esatta e per un altro verso è un po’ furba, in quanto inserisce la visione sacrificale dentro il testo. La critica al culto sacrificale è presente già nella linea profetica. In Isaia si dice: Quando voi venite al tempio e calpestate i miei pavimenti, io volgo la faccia dall’altra parte. Andate fuori, quello che io voglio è giustizia. Simili i testi di Amos. Qui la critica è alla dissociazione tra culto e vita. Paolo introduce un nuovo elemento: non critica la dissociazione ma vuole una sostituzione: l’unica offerta che piace a Dio è la vita mondana, cioè un culto non rituale. Per culto intendiamo un dono, un atto di benevolenza verso Dio, e allora questo atto di benevolenza non è più costituito da riti, ma è costituito dalla vita mondana, dalla vita profana.

religioni discriminanti e fede universale

Paolo polemizza contro la religione mosaica, perché è discriminante, perché discrimina tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, tra gli inclusi e gli esclusi. Quando Paolo afferma che dobbiamo uscire dalla religione mosaica, perché la legge, la circoncisione, ecc., sono discriminanti, non vuole rinunciare all’ebraismo e aderire ad un’altra religione. Paolo sostiene che si debba risalire all’indietro, oltre Mosè, perché la vera identità ebraica da mantenere è quella di Abramo, quella di una figura universale: « in te saranno benedette tutte le tribù della terra ». Al tempo di Gesù il giudaismo aveva « mosaizzato » Abramo, sostenendo che Abramo avesse osservato la legge ancora prima che fosse promulgata (ci sono dei testi molto chiari da questo punto di vista), inserendo quindi l’abramismo dentro il mosaismo. Paolo toglie Abramo dal mosaismo, ritornando all’origine, alla figura abramica, che è figura universale. Per cui le promesse abramitiche, patriarcali, per Paolo, mantengono il loro valore, non solo per i discendenti carnali, gli ebrei, ma per tutti, come era originariamente. La legge non può abrogare la promessa. L’immagine che Paolo ha di Dio non è quella del Dio legislatore (quello del Sinai), e quindi del Dio sanzionatore, che sanziona il bene e il male con il premio e il castigo, ma quella del Dio promettente, del Dio che promette. E la promessa, dice Paolo, è come un testamento, che è del tutto gratuito: è il padre che dona al figlio un’eredità. Allora, il Dio che Paolo ha vissuto, alla luce di Cristo naturalmente, (grande convergenza in questo tra Gesù e Paolo) è il Dio della promessa, della promessa unilaterale, della promessa incondizionata, della promessa a tutti, agli Ebrei e ai gentili, agli schiavi e ai liberi, ai maschi e alle femmine, agli omosessuali e agli eterosessuali, agli islamici e ai cattolici…
Qui sta la attualità di Paolo, che ha combattuto una battaglia estrema contro una religione che
discriminava con la legge e con la circoncisione. Oggi le religioni sono discriminanti con altri
fattori. La lotta di Paolo per la liberazione dalla religione mosaica è una lotta di liberazione da tutte le religioni, in quanto e nella misura in cui sono discriminanti. Qui permane l’attualità della
distinzione tra fede e religione: Abramo è il padre dei credenti, non dei religiosi. E la fede, a
differenza della legge, è una grandezza transculturale, cioè potenzialmente aperta a tutti, a tutti che restano diversi perché il giudeo credente resta giudeo, il gentile credente resta gentile, il maschio maschio e la femmina femmina, ecc. Al posto del Dio legislatore e sanzionatore, al posto delle religioni discriminanti, il Dio abramico della promessa.

la morte ultimo nemico

Paolo considera la morte non come un fatto fisico, ma come l’ultimo nemico di Cristo e dell’uomo. Alcuni possono accusare Paolo di essere un uomo che non sa accettare la morte, di avere un atteggiamento un po’ infantile di ribellione di fronte ad un fato ineluttabile. In Paolo la morte non è la morte beata di San Francesco, la morte di chi vuole ricongiungersi col suo Signore, quindi la sorella morte. Neppure è il destino nudo e crudo dell’uomo che non può infantilmente rifiutare. Per Paolo la morte è una violenza all’uomo. La morte per lui non è l’ultimo istante della vita, ma ciò che mortifica la nostra vita. C’è questa spina dentro l’esistenza umana, esposta ogni giorno alla morte: noi portiamo in giro sempre la necrosi di Gesù, e cioè questo processo progressivo che intacca la vita del credente e del non credente, per cui Paolo dice che la morte è il signore del mondo. Questo signore del mondo deve essere detronizzato, in quanto entra in collisione con la signoria di Cristo. È un motivo cristologico. Cristo ha vinto la morte in sé, ma se non vince la morte in noi lui non è più il nostro signore, il nostro signore è la morte. Di fatto in 1 Corinti 15 Paolo riporta l’affermazione dei salmi
« finché lui abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi ». L’ultimo nemico, quello più trememdo, quello più spaventoso, è la morte. Paolo ha una concezione alta della vita e del Dio della vita. Questo Dio della vita deve dire l’ultima parola sui viventi, e non la morte. La risurrezione vuol dire proprio questo. Non per niente al cap. 15 di 1Cor Paolo termina con due citazioni dell’antico testamento: Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria? La morte è stata ingoiata dalla vittoria di Cristo. Paolo in Romani 5 afferma: « Mediante un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e tramite il peccato la morte… » Noi dobbiamo essere riscattati dal peccato e dalla morte, che sono i due signori che sono entrati nel mondo. Il riscatto dal peccato, dal male oscuro che è l’idolatria, avviene attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Ma la liberazione dal peccato non è ancora la liberazione dalla morte. Paolo ha collegato peccato e morte, entrati tutti e due nel mondo, ma nella liberazione, allo stato attuale, noi siamo stati liberati solo dal peccato, da questa potenza condizionante a cui possiamo resistere, ma non ancora dalla morte. L’azione liberatrice di Cristo è stata distinta da Paolo in due fasi: la liberazione dal peccato e la liberazione dalla morte. Dal punto di vista antropologico uno può accusare Paolo di un sogno infantile, non tanto di non morire, ma di
ritenere che tutta la vita è sotto il segno tenebroso della morte. La morte minaccia ed estenua la vita nelle sofferenze, nei disagi, ma la speranza è la vittoria sulla morte perché Paolo prende sul serio la risurrezione di Cristo e la solidarietà nostra con Cristo. Non basta la vittoria di Gesù sulla sua morte, ma è necessario la vittoria di Gesù sulla nostra morte, se noi siamo identificati con Lui. È la mistica cristocentrica paolina
.

Prof. Marcello Busemi: « Verso la piena maturità di Cristo » ( I parte, la seconda subito sotto)

DEL PROF. MARCELLO BUSCEMI:

VERSO LA PIENA MATURITÀ DI CRISTO

Aspetti della perfezione cristiana in San Paolo

Ancora uno studio del Prof. Buscemi, come sempre bello, istruttivo ed anche appassionante; c’è qualche parola in greco, ho traslitterato io, spero di non aver sbagliato;

Series – essays SBF – Jerusalem 2007

PONTIFICIA UNIVERSITAS

ANTONIANUM

Facultas Scientiarum Biblicarum

et Archaeologiae

STUDIUM BIBLICUM

FRANCISCANUM

Il tema è affascinante. Tutti coscientemente o incoscientemente tentiamo verso la piena realizzazione di noi stessi. Tale entusiasmo istintivo, però, si attenua appena si vuole approfondire il fenomeno della “maturità”; di essa è persino difficile dare una definizione sia da un punto di vista psicologico che spirituale. Di più: se cerchiamo di investigare il concetto di “maturità” in uno scrittore dell’antichità, il problema diviene ancora più complesso, dato che non sempre vi è coincidenza tra il nostro e il suo “concepire la maturità”. Proprio per questo mi sembra bene prima presentare una definizione di “maturità” quanto più possibile vicina al nostro modo di pensare e poi di confrontarla con il pensiero di Paolo. In tal modo, possiamo rilevare coincidenze e differenze tra il nostro modo di pensare la “maturità” in generale e la “maturità cristiana” in particolare. Solo dopo tale analisi, potremo approfondire il concetto particolare di “maturità cristiana” nell’insieme del pensiero di Paolo, l’apostolo del progetto di Dio per la costituzione dell’uomo nuovo nel Cristo Gesù. Tale progetto, negli scritti paolini, ha una duplice traiettoria: una dottrinale e una parenetica. La traiettoria dottrinale riguarda la nostra maturità come progetto voluto da Dio, realizzato nel Cristo e portato alla sua perfezione nell’opera dello Spirito in noi. La traiettoria parenetica, invece, delinea un comportamento di maturità basato sulle tre virtù teologali: fede, speranza e carità in vista della edificazione della comunità dei credenti, che nel Cristo formano l’uomo nuovo, voluto da Dio.

1) Maturità e perfezione in S. Paolo

L’enunciato del tema presenta un’oscillazione tra due termini, forse sinonimi tra loro, ma di sicuro di estrazione culturale diversa: maturità e perfezione; il primo è più comune in campo psico-sociologico, il secondo in campo religioso. Tale distinzione diviene più marcata se i due termini li si cerca all’interno del NT e in particolare in S. Paolo. L’apostolo non usa mai il termine “maturità”, ma ha una sua concezione della maturità; usa molto il termine “perfezione”, ma non sempre coincide con il nostro concetto di maturità. A noi, quindi, il compito di definire, per quanto ciò sia possibile, il nostro concetto di “maturità” e poi vedere se tale concetto coincide con il concetto di “perfezione” usato da Paolo.

a) Il nostro concetto di maturità

Nei vocabolari della lingua italiana, si possono trovare sia una definizione statica di maturità: “Raggiunta pienezza delle proprie capacità intellettuali e morali” (Garzanti), sia una definizione comportamentale: “Capacità di orientamento o di comportamento, fondata sull’acquisizione seria, completa e definitiva dei dati dell’esperienza” (Devoto-Oli), sia una definizione che unisce i due aspetti: “pieno sviluppo delle qualità intellettuali, morali, spirituali di un individuo; capacità di comportarsi, di agire, di giudicare in modo autonomo e adeguato alle circostanze” (De Mauro). In modo simile si esprimono i dizionari di psicologia. Così, Hans Joachim Engels definisce la maturità nel Dizionario di psicologia: “Stato di completa e stabilizzata differenziazione e integrazione somatica, psichica e mentale; attitudine a eseguire i compiti assegnati al singolo individuo e ad affrontare le esigenze della vita”. Più qualitativa mi sembra la definizione offerta da R. Zavalloni nel Dizionario di Spiritualità: “La «maturità umana» è la consapevole pienezza di tutte le proprie capacità fisiche, psichiche e spirituali, ben armonizzate e integrate tra loro”. Analizzando brevemente e senza alcuna pretesa di completezza queste definizioni, mi sembra che emergano due momenti essenziali del concetto di “maturità umana”: da una parte, la maturità è concepita come una “pienezza”, “raggiunta”, “completa” “stabilizzata”, “consapevole”, che fa supporre un cammino progressivo verso una meta, uno stato o condizione di essere che, una volta raggiunto, chiamiamo maturità; essendo “stabile”, non dovrebbe mutare, ma mantenersi sempre tale; essendo “consapevole”, significa che chi la possiede ha piena coscienza del cammino fatto per acquisire una perfetta armonizzazione e integrazione di tutte le sue capacità fisiche, psichiche e spirituali. Tale individuo maturo è capace di un orientamento e comportamento adeguato “ad affrontare le esigenze della vita”, a giudicare i problemi con equilibrio e ad offrire soluzioni concrete e proporzionate a tali problemi. Tale concetto di “maturità umana” è un’astrazione, comoda come ideale da raggiungere; in concreto, ci accontentiamo molto di meno per definire qualcuno come una “persona matura”. In ogni caso, quel concetto ci è utile nella nostra ricerca e mi sembra che si avvicini molto a quello di “perfezione” della tradizione cristiana in generale e di quella paolina in particolare. In verità, già nel pensiero greco il termine “teleios”, “perfetto”, indica ciò che non ha più bisogno di alcun accrescimento nell’abilità o nella capacità di operare, che non manca di nulla per essere completo. Così, nella filosofia stoica, “l’uomo perfetto”, “l’adulto”, si distingue dal “bambino”, perché è colui che possiede tutte le qualità morali e agisce in conformità con le virtù. Tale “perfezione-maturità” si avvicina al nostro concetto moderno di “maturità”, ma si distingue da esso per la sua relazione a Dio o alla “virtù” da conseguire e da porre in atto nella propria vita. Per noi la “maturità” ha senso soggettivo e individualista: è “la capacità di comportarsi, di agire, di giudicare in modo autonomo e adeguato alle circostanze”; per il mondo greco, e per quello antico in genere, è un “concetto relazionale”: è un modo di comportarsi in maniera adulta all’interno della “polis” o del “cosmos”, rispettandone le leggi e gli obblighi assunti. “Vivere bene” e “agire bene” ha senso solo se mi fa vivere in perfetta comunione con gli altri. Il filosofo ebreo Filone, molto vicino agli stoici, ha scritto: la felicità consiste non tanto nel possedere la virtù, ma soprattutto nel praticarla; ma ciò non è possibile se Dio non la fa fruttificare Il testo è importante per noi: perché pone in rilievo il carattere personale, non soggettivo o individuale, della maturità: l’uomo è sempre in relazione con Dio e i suoi simili; inoltre, perché sottolinea il carattere concreto della maturità: non sono maturo perché posseggo tutte le virtù o le capacità operative, ma perché li pongo al servizio degli altri; infine, perché concepisce la maturità come partecipazione alla perfezione assoluta di Dio: solo Dio è perfetto, l’uomo lo è per partecipazione.

b) il concetto paolino di maturità

In Paolo, la terminologia della “perfezione” non è molto vasta: il sostantivo “telos” appare 12 volte e, se si esclude Rom 13,7, indica per lo più la meta verso cui l’uomo si dirige con le sue azioni (1Cor 10,11; 11,24; 2Cor 1,13): la morte (Rom 6,21; Fil 3,19; 1Tes 2,16) o la vita (Rom 6,22); ma soprattutto indica Cristo, che toglierà il velo dai nostri cuori per vedere le realtà eterne (2Cor 3,13), giudicherà ogni uomo secondo le sue opere (2Cor 11,15) che ci renderà giusti mediante la fede (Rom 10,4), santi e irreprensibili nel suo avvento glorioso (Rom 6,22). Anche il verbo “teleo”, “essere perfetti”, sottolinea questo andare verso il compimento. Così, Paolo, scoraggiato per la sua spina nel fianco, si sente dire: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente/è perfetta nella debolezza” (2Cor 12,9); tale perfezione, però, la si può raggiungere solo “se camminiamo secondo lo Spirito e non portiamo a compimento i desideri della carne” (Gal 5,16). Il sostantivo “telos” e il verbo “teleo” hanno una valenza escatologica: sottolineano il cammino del cristiano verso la meta che lo attende; anzi, la sua meta è Cristo che lo rinnova totalmente; la sua guida è lo Spirito che lo conduce alla “piena maturità di Cristo”. L’aggettivo “teleios », “perfetto”, appare 8 volte e, come tutti gli aggettivi, qualifica una persona o un comportamento. Così, Paolo invita a “non conformarsi alla mentalità del mondo, ma a trasformarsi interiormente per discernere la volontà di Dio: ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2); per questo istruisce ogni uomo con ogni sapienza per rendere ciascuno perfetto in Cristo (Col 1,28); “ai perfetti” presenta non la sapienza di questo mondo, ma la sapienza di Dio (1Cor 2,6), che li aiuta ad essere “perfetti” nei giudizi (1Cor 14,20), a tendere nella fede e nella conoscenza allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13), ad avere i sentimenti di Cristo (Fil 3,15; cfr anche 2,1-5), ma soprattutto ad avere la carità, che è il vincolo della perfezione (Col 3,14); infine, egli esorta i cristiani a “conquistare” con tutta la potenza del loro amore “Cristo, lui che ci ha conquistato con la forza del suo amore” (Fil 3,12). Più che il sostantivo “telos” e il verbo “teleo”, l’aggettivo “teleios” sottolinea il senso della “maturità cristiana”. Essa non si basa solo sulle proprie capacità umane, ma soprattutto “sulla potenza di Cristo” (2Cor 12,9) e sulla “sapienza di Dio” (1Cor 2,6), che rinnova la mente del credente mediante la fede, lo spinge nel discernimento e nell’anelito, carico di speranza, ad unirsi totalmente a Cristo, lo rende perfetto e maturo in lui per amare Dio e i fratelli sotto l’azione dello Spirito. Ma Paolo non è solo un uomo dalle idee chiare, è anche un retore che ama esprimere le sue idee con dei contrasti forti, con dei chiaroscuri marcati. Per questo, nelle sue lettere, l’idea di maturità non è affidata solo ai termini analizzati, ma a delle antitesi che devono colpire il lettore o l’ascoltatore e smuoverne i sentimenti. In primo luogo, l’antitesi asimmetrica “bambini-perfetti”: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini perfetti/maturi quanto ai giudizi” (1Cor 14,20); “Tra i perfetti (= tra i maturi nella fede) parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla”; infatti, “quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor 13,10). A tale antitesi ne segue un’altra, l’antitesi esistenziale “carnale-spirituale”: “Dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1Cor 3,3). Il cristiano, invece, deve comportarsi con santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza della carne ma con la grazia di Dio (2Cor 1,12); deve lottare “non con armi carnali”, ma “con la potenza di Dio” (1Cor 10,3-4), cioè “camminando secondo lo Spirito”

e così non soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). A tale proposito egli introduce l’antitesi personale “schiavi-liberi”: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito di figliolanza per mezzo del quale gridiamo: Abba! Padre” (Rom 8,15). In nessun momento il cristiano, se vuol essere perfetto/maturo, deve divenire schiavo della “carne”, cioè schiavo di tutto ciò che lo porta lontano da Dio e da Cristo, ma essere sempre “libero”, per realizzare la volontà di Dio e agire mediante lo Spirito da “figlio di Dio” (Gal 3,26-28; Rom 8,14-16). In ciò si determina la grande sintesi paolina: “essere uno in Cristo” (Gal 3,28) e “rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio e nella santità vera” (Ef 4,10), “rivestirsi di Cristo e così non seguire la carne nei suoi desideri” (Rom 13,14; Gal 5,17). Nel tempo escatologico, nel momento della prova, i credenti debbono essere persone mature: sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza, poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” (1Tes 5,8-10).

2) La maturità come progetto

Tale affermazione è fondamentale nel pensiero paolino. Per Paolo la maturità del credente non è opera umana, ma progetto divino sull’uomo e per l’uomo. Siamo destinati alla salvezza e per questo collaboriamo con Dio per realizzare la nostra maturità personale, umana e cristiana. Tale azione in sinergia, nel pensiero di Paolo, si sviluppa in tre momenti: l’iniziativa divina, il modello divino, la guida dello Spirito.

a) L’iniziativa divina: “scelti per essere santi e immacolati”

In 1Tes 4,3, l’apostolo afferma con vigore: “Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione”. L’affermazione è chiara, ma non a sufficienza. Per la lingua italiana, il termine “volontà” è un termine astratto, che indica la capacità di volere qualcosa, la facoltà di decidere consapevolmente il proprio comportamento. Paolo usa, invece, il termine “telema”, che indica l’effetto del “volere”, il progetto di amore che Dio ha sull’uomo. Maturità, pertanto, è portare a compimento il progetto che Dio ha su ciascuno di noi. Anche il termine “santificazione”, essendo in italiano come in greco un termine di azione, va in questa linea progressiva della maturità cristiana. Portare a compimento il progetto di Dio, in cui si realizza la nostra maturità

personale cristiana, consiste nel “divenire santi”, nell’ abbandonarci totalmente a Dio per partecipare alla sua santità. È Dio che ci santifica, perché nel Cristo e mediante Cristo “ci ha redenti e resi partecipi della sorte dei santi nella luce” (Col 1,13), e inoltre mediante l’azione perfezionatrice dello Spirito abbiamo accesso al Padre nella gloria (Ef 1,14; 2,18). Noi collaboriamo con Dio, perché egli “nel Cristo ci ha scelti per sé prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4). Un testo meraviglioso, che ci manifesta tutto il pathos dell’immedesimazione di Paolo al progetto di Dio per noi. “Ci ha scelti per sé”: noi traduciamo come possiamo, ma Paolo ha usato un solo termine, un parola che ricapitola tutto l’amore salvifico di Dio, il suo progetto di amore per noi dall’eternità, il suo interesse verso i suoi figli, che ha benedetto, predestinati, ai quali ha fatto grazia e ai quali ha manifestato il mistero del suo disegno di amore (Ef 1,4-10). La nostra salvezza ha origine dalla “eudokia” del Padre, dal “beneplacito della sua volontà”, da un atto del suo amore infinito per noi, che “siamo stati scelti per essere santi e immacolati”. Tale elezione, stando ad Ef 1,4, assume tre caratteristiche fondamentali. Ha una connotazione teologica: essa è stata stabilita da Dio “prima della fondazione del mondo”, procede dall’amore infinito di Dio (1,4) come progetto in favore dell’uomo, trova il suo compimento “dinanzi a lui” (1,4); ha, poi, una connotazione cristologica: l’elezione trova il suo compimento “nel Diletto” (1,6), “nel Cristo”, in cui tutto è ricapitolato e tutto tende verso l’unità (1,10); infine, ha un carattere escatologico, perché l’elezione è orientata “all’essere santi e immacolati” (1,4), in una parola alla santificazione, che è insieme partecipazione alla santità di Dio (cfr 1,14) e offerta santa e a lui gradita di tutto noi stessi (cfr 1,12).

Prof. Marcello Buscemi: « Verso la piena maturità di Cristo » (II parte)

DEL PROF. MARCELLO BUSCEMI:

VERSO LA PIENA MATURITÀ DI CRISTO

Aspetti della perfezione cristiana in San Paolo

SECONDA PARTE

b) il modello divino: Cristo, l’uomo nuovo

Legato intimamente al tema della nostro “essere santi e immacolati”, Paolo pone il tema del nostro essere predestinati ad “essere figli” (Ef 1,4-7). L’elezione alla santità Dio l’ha concepita come un rapporto familiare tra Padre e figli, più precisamente come un nostro partecipare al rapporto che intercorre tra il Padre e il Figlio del suo amore. Siamo figli nel Figlio. Ed è in Cristo che il progetto di amore si concretizza in maniera dinamica e progressiva all’interno del “telema” divino. In lui, che è il Figlio in cui il Padre si compiace, noi siamo predestinati ad essere figli in cui risplende la santità a gloria della sua grazia (1,6). Tutta la vita del cristiano è orientata, destinata all’amore (1,4) e ha come modello l’amore stesso di Cristo (Ef 1,5; Rom 3,29; Fil 3,21): far risplendere nella propria esistenza la gloria del Padre (1,6), la ricchezza della sua grazia (1,7), la grandezza del suo amore infinito (1,5.11). Nessuno, però, può realizzare tale progetto divino con le proprie forze: l’autogiustificazione, come l’autorealizzazione, è fuori dallo schema teologico paolino. Per questo la nostra adozione a figli, nel progetto divino, avviene “per mezzo di Cristo” e avendo come modello Cristo (1,5), “l’uomo nuovo”, con il quale ogni credente deve confrontarsi e del quale deve portare l’immagine (Ef 2,15). Riprodurre gli stessi lineamenti di Cristo al punto di “essere “uno in lui” (Gal 3,28), perché solo “chi è in Cristo è una nuova creatura” (2Cor 5,17). Questo “uno” è “l’unico uomo Cristo Gesù” (Rom 5,15-17), l’Adamo escatologico, nel quale noi troviamo il dono della grazia sovrabbondante di Dio (Rom 5,15). L’uomo nuovo è Cristo, in cui tutti noi siamo riconciliati con Dio mediante la sua croce e formiamo un solo corpo (Ef 2,16), per avere in un solo spirito accesso al Padre (Ef 2,18). In lui non sono annullate le differenze, ma valorizzate in vista della “nuova creazione”, dell’“uomo nuovo”.

c) la crescita: sotto la guida dello Spirito

La nostra perfezione/maturità è opera di Dio, che la porta a compimento nel tempo sotto l’azione incessante e perfezionatrice dello Spirito. La nostra “santificazione”, proprio perché è un progetto, si matura “nel tempo”, meglio “nell’amministrazione dei tempi” (Ef 1,10) voluti da Dio, che li porta avanti e li guida verso la loro pienezza, perché raggiungano lo scopo per cui sono stati stabiliti. Sono tappe di grazia e di benedizione, segnate dalla benevolenza divina, nelle quali si realizza il progetto di Dio a nostro favore. Il tempo scorre, ma è nelle mani di Dio, che lo guida per le sue vie, lo porta al compimento attraverso i momenti della sua grazia per raggiungere “la pienezza del tempo” (cfr Gal 4,4). In questo scorrere del tempo e attraverso i tempi, il credente deve rimanere in sintonia con Dio mediante lo Spirito: “Non spegnete lo Spirito” (1Tes 5,19). Lo Spirito Santo, infatti, è in azione nella vita del cristiano sin dall’inizio della “vita nuova in Cristo”, sin dal battesimo. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 3,3: “Dopo aver cominciato mediante lo Spirito, ora volete essere condotti alla perfezione mediante la carne?”. Nel battesimo il credente, dopo “essersi lasciato crocifiggere con Cristo” (Gal 2,19-20), ha ricevuto lo Spirito (Gal 3,3) e lo Spirito abita in lui (Rom 8,9-11). Ha inizio “la vita nuova in Cristo” e il cristiano la vive “mediante lo Spirito”. “In lui anche voi, dopo aver udito la parola della verità, il Vangelo della nostra salvezza, dopo aver creduto, siete stati contrassegnati con lo Spirito della promessa” (Ef 1,13-14). Lo Spirito, in primo luogo, agisce nel cuore dei credenti. Egli, infatti, è stato inviato da Dio nei nostri cuori (Gal 4,6) e “ci ha segnati col suo sigillo e ha posto la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2Cor 1,21-22). E tale avvento ha un primo effetto descritto da Rom 5,5: “La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato”. Sta qui tutta la vita del cristiano: mediante la fede espressa nel battesimo abbiamo ricevuto il dono dello Spirito; ricevuto lo Spirito bisogna “camminare secondo lo Spirito”, attendere “la speranza della giustificazione” (Gal 5,5), vivere la fede agente mediante l’amore. E l’amore è libertà dalla legge (5,18), da un’esistenza egoista (5,24), dal peccato (Gal 3,22) e dal dominio minaccioso del mondo presente (Gal 1,4; 6,14). È vivere da creature nuove (Gal 6,15), da figli di Dio (Gal 4,5-7). Ma l’azione potente dello Spirito ci plasma interiormente, solo “se realmente viviamo secondo lo Spirito, per conformarci allo Spirito” (Gal 5,25). Notate la condizionale della realtà: quel “se realmente” prende di mira tutti i nostri “se”, “ma”, in una parola tutti i nostri contorcimenti mentali e compromessi comportamentali da “persone immature”. Non si può giocare con lo Spirito, non lo si può prendere per il naso (Gal 6,7). Bisogna decidersi costantemente per una lotta senza concessioni alla carne, al nostro egoismo, in modo che lo Spirito divenga l’orizzonte interiore del nostro vivere in Cristo e la forza determinante della nostra crescita spirituale. “Non spegnere lo Spirito” (1Tes 5,19), ma seguirne sempre e con obbedienza le sollecitazioni interiori. Solo allora si divieni liberi e persone mature in Cristo, perché si abbandona il comportamento da bambini e si adempie perfettamente da adulti la legge di Dio, l’amore.

3) La maturità cristiana tra presente e futuro

Paolo in 2Cor 4,18 afferma: “L’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno”. È un’affermazione

poderosa che mette in giusto rilievo la dinamicità e la progressività del “vivere in Cristo”. L’opzione che il cristiano ha fatto nel momento del battesimo non è solo un atto momentaneo e isolato che introduce il credente nella vita cristiana, ma è insieme inizio e sviluppo progressivo (Fil 1,25), “di fede in fede” (Rom 1, 17), del vivere sotto l’azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro “essere e vivere in Cristo” nella speranza, del nostro “camminare secondo lo Spirito” lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia e operare nell’amore in risposta al progetto di Dio su di noi. Solo una vita segnata dalle tre virtù teologale può formare giorno per giorno la nostra personalità cristiana e la nostra maturità in Cristo.

a) maturità e fede: forti nella fede

Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine “credere”, dato che il verbo in se stesso indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco “pistis”, che noi traduciamo con “fede”. Nella lingua greca è un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma esprime un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, un “correre per afferrare Cristo, che prima ci ha afferrato” (Fil 3,12), un “correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), “un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3). In breve: per Paolo la fede è vita, e “il mio vivere è Cristo” (Fil 1,21).Tale visione dinamica della fede investe e determina tutta l’esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l’uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: “io credo in Gesù Cristo”, egli esprime una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa, demoniaca, che afferra le profondità dell’animo umano, rendendolo un “bambino senza giudizio e senza discernimento”, schiavo della cattiveria, dell’impurità, dell’empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20). In tale proclamazione, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5,22; Fil 4,4-7), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presente acquista senso e si apre ad un compimento più grande: il divenire adulti in Cristo. L’essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamento incessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria (Col 2,4).

b) Maturità e speranza: costanti nella speranza

Pascal, riflettendo sulla fede, l’ha definita “un salto nel buio”, una “scommessa” per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l’uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con Dio. Parlare, invece, di “coraggio della fede” per chi ha già scelto di “vivere nell’obbedienza della fede” e nella speranza che attende il compimento può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivere ogni giorno la propria fede e rimanere saldi nella speranza ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede e della speranza: per il credente ogni momento della sua vita è “decisione per Dio”. Una decisione dell’intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l’ago della bussola verso il Nord. Tale orientamento, per Paolo, è possibile solo se il cristiano si lascia penetrare e guidare dallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (Gal 3,2.5) come fonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare nella speranza: “Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tende lo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia” (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all’intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: “Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali” (1Cor 2,12-13); incita la volontà del credente a camminare in maniera degna di Cristo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze” (Gal 5,24-25), per produrre “il frutto dello Spirito, l’amore” (Gal 5,22-23); muove il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: “Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre!” (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche operatore e donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, la scintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazie allo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all’uomo perfetto, alla misura della pienezza della maturità di Cristo” (Ef 4,13).

c) maturità e carità: operosi nella carità

Esiste un intimo rapporto tra fede, speranza e agire credente. È vero: Paolo spesso definisce la vita cristiana come un “rimanere saldi nella fede, nel Signore” (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Ma attenzione: bisogna “rimanere saldi” nella concretezza della nostra vita. In tal senso, il “rimanere saldo” non è semplice attesa della “speranza della giustificazione” (Gal 5,5), ma concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, una fede agente per mezzo della carità (Gal 5,6), un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il “rimanere saldi nella fede” è un’esistenza fondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell’adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell’amore secondo la radicalità di Dio espressa nella “legge di Cristo” (Gal 6,2). Il cristiano non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé “la legge di Cristo”, meglio: “la legge che è Cristo”. Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende “conforme a sé” (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della “legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù”. Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un’altra, né di compiere questa o quell’altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l’esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell’amore, “la legge di Cristo”, che per primo “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Gal 2,20). E “l’opera della fede”, di cui parla Paolo in 1Tes 1,3 e 2Tes 1,11, è l’amore che anima la fede. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: “ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità”. Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non una fede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell’amore. Così, fede e amore non possono essere

separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l’amore la rende viva per la potenza dello Spirito Santo, sotto la cui guida diveniamo maturi in Cristo, fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.

d) maturi nella Chiesa e per la Chiesa

Raggiungiamo, così, la dimensione comunitaria della maturità cristiana sotto l’azione perfezionatrice dello Spirito. La sua azione non è diretta solo a formare l’individuo, il cristiano secondo lo Spirito, ma attraverso la formazione dei singoli credenti tende soprattutto ad edificare la comunità ecclesiale, il “corpo di Cristo”. “E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, sia Giudei sia Greci, sia servi, sia liberi; tutti ci siamo abbeverati in un solo Spirito” (1Cor 12,13). Attraverso l’azione dell’unico Spirito si costituiscono le membra dell’unico corpo di Cristo. Come all’inizio della prima creazione, nel soffio dello Spirito si forma la Chiesa, corpo di Cristo (cfr Col 2,18a). Per mezzo della fede siamo tutti divenuti figli di Dio e nel battesimo ci siamo rivestiti di Cristo e “non c’è più né Giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo e donna, ma tutti voi siete uno nel Cristo Gesù” (Gal 3,26-28). La morte di Cristo ha annullato le differenze e per tutti i popoli la benedizione di Abramo è divenuta una realtà, perché tutti abbiamo ricevuto lo Spirito promesso (Gal 3,13-14). Ed è lo Spirito Santo che crea la comunità, la fa divenire un corpo solo, un solo “uomo nuovo”. Egli realizza, attualizza e manifesta il nostro “essere uno in Cristo”, in modo che noi siamo nel Cristo e Cristo è in noi (Gal 2,20). Nello Spirito diveniamo una comunità viva, afferrata da Cristo Signore nel più profondo della nostra esistenza (Gal 2,20), efficace nella potenza dei carismi che il Padre ci elargisce (Gal 3,5). Per questo Paolo può scrivere in 1Cor 12,4-11: “Vi sono diversità di carismi, ma identico è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma lo stesso è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma lo stesso è Iddio che opera tutto in tutti. A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune”. Tale testo è importante: 1º) perché mette in evidenza che è Dio che opera tutto in tutti, elargendoci lo Spirito e i doni dello Spirito (cfr Gal 3,5). 2º) Tutto deriva dall’unico Spirito: nella vita cristiana la cosa più importante non è possedere questo o quell’altro carisma; i carismi sono manifestazioni dell’unico Spirito e pertanto ciò che conta è “ricevere lo Spirito” ed essere fedeli e obbedienti a lui, in modo da produrre sotto la sua guida il frutto dello Spirito: l’amore. 3º) Ogni manifestazione dello Spirito è per il bene comune: ciascuno deve operare come membro dell’unico corpo, che, pur nella diversità dei carismi e della propria storia personale, deve divenire “uno in Cristo” (Gal 3,28) e contribuire ad edificare l’uomo nuovo “nel Cristo Gesù” (Ef 2,14-16): “in lui l’intero edificio, ben compaginato, cresce in tempio santo nel Signore; in lui anche voi, insieme con gli altri, venite costruiti per divenire abitazione di Dio in virtù dello Spirito” (Ef 2,21-22). Tutti i carismi sono dati per l’edificazione della Chiesa di Dio nella carità, “in maniera che perveniamo tutti alla perfetta unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, alla misura della piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).

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