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L’INNO CRISTOLOGICO DELLE LETTERE DI PAOLO – LA CONDIVISIONE ATTORNO ALLA PAROLA DI DIO

http://web.cathol.lu/servicesdienste/pastorale-biblique/se-convertir-au-christ/article/les-hymnes-christologiques-des

(traduzione Google dal francese)

L’INNO CRISTOLOGICO DELLE LETTERE DI PAOLO

2. LA CONDIVISIONE ATTORNO ALLA PAROLA DI DIO

Per leggere e condividere intorno a testo selezionato
Per Paolo, Gesù è il « primogenito » di un popolo chiamato a vivere la pienezza della vita secondo la volontà di Dio « , il solo saggio » (Rm 16,27). L’inno che apre la Lettera ai Colossesi (scritti tra gli anni 61 e 63), esprime chiaramente questo concetto (cfr. Col 1,15-20). Nella prima parte (vv. 15-17), l’autore è stupito di vedere il Cristo, « immagine del Dio invisibile », presiederà come « Primogenito » tutta la creazione, perché è  » da lui « e » per lui « tutto è stato creato. E ‘Cristo che dà coerenza a tutta la creazione, perché in lui abita la pienezza del piano creativo di Dio (cfr. Ef 1,10; 1Cor 15:28, Rev. 1.18, 2.8, 21, 6). Nella seconda parte (vv. 18-20), l’autore loda Cristo come sorgente della nuova creazione, e il risultato finale del primo: è il « Capo del Corpo », il « principio » e  » primogenito dei morti.  » Per l’autore, l’evento di Cristo, specialmente la sua risurrezione, non può essere inteso come un evento isolato, raggiungendo solo l’uomo Gesù di Nazareth, come se un evento cosmico. Infatti, Gesù risorto è la risurrezione di tutta l’umanità è avviata (cfr. 1 Cor 15). Il rilascio in attesa che attraversava l’intera creazione diventa realtà ora (cfr. Rm 8,18-22; 1Cor 3,22).
Infatti, in un altro inno, nella lettera inviata al scritto tra gli anni 61 e 63 Efesini, Paolo proclama che Gesù è il « Amato », in cui siamo benedetti. In Cristo, Dio ci ha riempito con le Sue benedizioni a lui ci adotta come suoi figli (cfr. Ef 1,3-14). Uno è, infatti, per Paul, il significato nascosto di tutta la storia umana è ora rivelata in Cristo crocifisso e risorto (cfr. Rm 16,25 s, 3.11; 2 Timoteo 1:09) Dio, fedele a Progetto creatore, ha fatto in Gesù, le nuove e definitive diritti (leggi Ef 4,24; 2 Cor 5,17), che era latente nel « primo Adamo » (leggi 1 Cor 15,35-49). In definitiva, attraverso l’incarnazione Dio ha mostrato che il Signore Risorto è il significato, il centro e il fine della creazione e tutti noi. In lui il disegno di Dio si realizza concretamente e definitivamente in una persona, nella ricca espressione di L. Boff Teologo: lui « utopia divenne luogo / topos ». Se la storia umana continua e avanza in mezzo a forti dolori del parto dell’umanità finale (cfr. Mc 13,8; Rm 8,22), dopo la risurrezione di Gesù, la quota discepoli questa passeggiata annunciando, da discorso e la pratica della solidarietà con la sofferenza, alla fine della strada, non è la morte o una sciocchezza, ma la vita, la giustizia di Dio Padre che ama gli uomini creò per pura filantropia.
La ragione per l’esistenza di Cristo, non può essere oggetto di peccato umano e ancor meno l’ira di un Dio vendicativo che è amore, il vero motivo di Dio fatto uomo è quindi in questo amore Dio ha voluto creare per l’amore al di là di se stessa. In questo senso, la croce non è voluta da Dio, ma è « contingente », è nella storia come conseguenza del rifiuto di Gesù e del suo messaggio e non come un sacrificio imposto dal Padre al Suo Figlio « Carissimi ». Così, la croce rivela, come San Giovanni, la gloria di Dio, che ci ha amati fino alla fine della sua vita, a condividere la condizione umana, con tutto ciò che ha drammatiche. Cristo è il « primogenito di tutta la creazione » è stato pianificato da Dio da tutta l’eternità per avvicinarsi all’uomo e fargli vedere il « vero cammino che conduce alla pienezza della vita » (cfr. Giovanni 14:6 ). L’Uomo-Dio, Gesù Cristo, è la prima voluta da Dio, e in lui tutte le creature è venuto per essere e sono ugualmente amati.

COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

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COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

Un lettore ci chiede cosa voglia dire San Paolo con l’espressione «vantarsi delle sue debolezze». Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale

SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA – 02/05/2013- (TOSCANA OGGI)

Nella seconda lettera ai Corinzi San Paolo dice di vantarsi delle sue debolezze, in quanto necessarie per avere la grazia di Dio. Questo vale anche per i peccati? Non dobbiamo dolerci più di tanto di certi peccati, se questi aprono alla grazia di Dio? Certo la grazia si ha se siamo peccatori, infatti Gesù è venuto per i malati e non per i sani!

Gino Galastri

Il tema della debolezza è ampiamente presente nelle lettere dello stesso apostolo (e non solo!), e merita quindi un approfondimento, non fosse altro che per capire il significato esatto delle sue parole, così da non aprire a interpretazioni non necessarie.
Già nella stessa corrispondenza con la chiesa di Corinto, troviamo che l’apostolo accosta stoltezza e debolezza di Dio, per dire che esse sono rispettivamente più sagge e più forti degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma, aggiunge Paolo, «quello che è stolto per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27). Più avanti l’apostolo precisa ai Corinzi che egli stesso si è presentato a loro «nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Corinzi 2,3).
Anche solo da questo primo sguardo, appare evidente che la debolezza ha a che fare con la condizione umana, con le sue contraddizioni, come quella che provano quanti, deboli nella coscienza, sono turbati dall’aver mangiato carni originariamente destinate al culto degli idoli (1 Corinzi 8,7). Nella complessa questione cui qui è possibile solo accennare, Paolo mette in guardia quanti si sono liberati da questo condizionamento: infatti «non esiste al mondo alcun idolo» (1 Corinzi 8,4), scrive, e se anche «alcuni hanno molti dèi e molti signori», «per noi c’è un solo Dio, il Padre … e un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Corinzi 8,6). E tuttavia, egli conclude, se c’è il pericolo che la coscienza di un debole vada in rovina, «un fratello per il quale Cristo è morto», «non mangerò mai più [questo tipo di]carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Corinzi 8,11.13). La debolezza si presenta anche per descrivere la lontananza da Dio dell’umanità non redenta: «quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Romani 5,6). Per questo «anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in maniera conveniente, ma lo stesso Spirito intercede con gemiti inesprimibili (Romani 8,26).
Sono quelli che Paolo, a Roma ma anche a Corinto, con una felice espressione chiama «deboli nella fede» (Romani 14,1). Sul campo opposto si trova Abramo, l’uomo che non «fu debole nella fede», e per questo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Romani 4,18-19).
La debolezza della condizione umana, oltre che la coscienza e lo spirito, colpisce il corpo dell’uomo con la malattia, come quella che assale i Corinzi di fronte alla loro incapacità di riconoscere il Corpo del Signore nelle loro assemblee eucaristiche: «è per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi (lett. « deboli »)» (1 Corinzi 11,30), ma anche il suo inviato Epafrodito (Filippesi 2,26), o lo stesso Timoteo che Paolo invita a bere un po’ di vino a causa delle sue frequenti debolezze (1 Timoteo 5,23).
Del resto Paolo, con un colpo d’ala straordinario, sostiene la totale comunione del suo ministero di apostolo verso coloro che gli sono stati affidati, aggiunge: «mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Corinzi 9,22). È lo stesso apostolo che alcuni a Corinto accusavano di essere debole quando presente fisicamente e, al tempo stesso, quasi prepotente mentre scrive da lontano (2 Corinzi 10,1). Qualcuno diceva infatti: «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2 Corinzi 10,10). È in questo modo che Paolo difende la sua persona di fronte alle accuse ricevute nel suo svolgere il ministero a Corinto: «dal momento che molti si vantano, mi vanterò anch’io» (2 Corinzi 11,18). Quindi conclude: «chi è debole che anch’io non lo sia… se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza» (2 Corinzi 11,29-30).
E qui siamo arrivati al principale testo a cui il lettore si riferisce. Dopo aver parlato della «spina ricevuta nella sua carne», che Paolo ha chiesto gli venisse allontanata, scrive che il Signore «mi rispose: « Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo; quando sono debole è allora che sono forte» (2 Corinzi 12,9-10).
Nel paradosso per cui la forza divina, la sua potenza di salvezza, si «manifesta pienamente nella debolezza», c’è la chiave per una corretta interpretazione del linguaggio dell’apostolo. Del resto, a proposito di Gesù, egli scrive che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2 Corinzi 13,4). Proprio in quanto crocifisso, Cristo «è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Corinzi 1,24). Quindi, senza nulla togliere al detto evangelico dell’attenzione di Gesù verso i malati e i peccatori (così Matteo 9,12 e Luca 5,31, ma anche 1 Timoteo 1,15: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori»), l’accento va posto con maggiore convinzione sul tema della croce, che rovescia totalmente tutti i nostri termini abituali di riferimento: «quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27)

STUDIO BIBLICO SU GESÙ, IL CRISTO

http://camcris.altervista.org/chigesu.html

(in fondo note sull’autore, importante)

IL CAMMINO CRISTIANO

STUDIO BIBLICO SU GESÙ, IL CRISTO

1. LA PAROLA DI DIO (ETERNA PREESISTENZA ED ATTIVITÀ) Con la parola l’uomo si esprime e si mette in comunicazione con gli altri, attraverso la parola rende noti i suoi pensieri ed i suoi sentimenti e per essa impartisce ordini e mette ad effetto la sua volontà. La parola che egli pronuncia reca l’impronta dei suoi pensieri e del suo carattere: per le parole di un uomo un’altra persona potrebbe conoscerlo perfettamente, anche se tosse cieca; la vista e l’informazione potrebbero rivelare ben poco circa il carattere d’un uomo, se non si potessero ascoltare le sue parole; la parola dell’uomo è il suo carattere espresso. Allo stesso modo, la «Parola di Dio» è quella con la quale Egli comunica con gli altri esseri e tratta con loro; è il mezzo con il quale esprime la Sua potenza, intelligenza e volontà. Cristo è quella Parola, perché attraverso di Lui Iddio ha rivelato la Sua attività, la Sua volontà ed il Suo scopo, e perché attraverso di Lui Dio viene a contatto con il mondo. Noi ci esprimiamo attraverso le parole; l’Iddio eterno si esprime attraverso il Suo Figliuolo, il quale è «l’espressa immagine della Sua persona» (cfr. Ebrei 1:3). Cristo è la Parola di Dio perché rivela Dio dimostrandoLo appieno. Egli non solo reca il messaggio, ma è il messaggio di Dio. È vero che Dio si rivelò attraverso la parola profetica, attraverso i sogni e le visioni ed anche attraverso temporanee manifestazioni. Ma l’uomo bramava una risposta più chiara alla domanda: «Come è Dio?». Per rispondere a questa domanda era necessario il più meraviglioso avvenimento della storia: «Nel principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. … E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiam contemplata la sua gloria, gloria come quella dell’Unigenito venuto da presso al Padre.» (Giovanni 1:1, 14) La Parola eterna di Dio prese su di Sé la natura umana e divenne uomo per rivelare l’Iddio eterno attraverso una personalità umana: «Iddio, dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo Figliuolo» (Ebrei 1:1,2). Pertanto alla domanda: «Come è Dio?» il cristiano risponde: «Dio è come Cristo», perché Cristo è la Parola di Dio stesso. Cristo è «l’espressa immagine della Sua persona», «l’immagine dell’invisibile Iddio» (Colossesi 1: 15).

2. LA DEITÀ DEL FIGLIO DI DIO a. La coscienza che Cristo aveva di Sé Quale coscienza aveva Gesù di Se stesso, ovvero che cosa sapeva sul proprio conto? Luca riporta un episodio dell’infanzia di Gesù, in cui dice che già da piccolo Egli aveva coscienza di due cose: di una speciale relazione con Dio, che definiva Suo Padre, e di una speciale missione sulla terra, quella di curare «le cose del Padre Mio». Al fiume Giordano Gesù udì la voce del Padre (Dio) che corroborava e confermava questa Sua consapevolezza (Matteo 3:17) e, nel deserto, Egli resistette valorosamente al tentativo di Satana di mettere in dubbio che Egli fosse il Figliuolo di Dio («se sei il Figliuolo di Dio» Matteo 4:3). Più tardi, durante il Suo ministerio, proclamò beato Pietro perché, ispirato dal cielo, aveva reso testimonianza della Sua Deità e messianicità (Matteo 16:15-17). Quando, davanti al consiglio dei Giudei, avrebbe potuto sfuggire alla morte negando la figliolanza unica ed affermando semplicemente che era un figliuolo di Dio nello stesso modo in cui lo erano gli altri uomini, Egli dichiarò la propria coscienza di Deità pur sapendo che questo significava una condanna a morte (Matteo 26:63-65). b. Le asserzioni di Cristo Cristo si metteva fianco a fianco con l’attività divina: «Mio Padre opera fino ad ora, ed Io opero», «Io son proceduto dal Padre» (Giovanni 16:28), «Il Padre mi ha mandato» (Giovanni 20:21). Asseriva di conoscere Dio Padre e di avere comunione con Lui (Matteo 11:27; Giovanni 17:25); sosteneva di svelare l’essere del Padre in Se stesso (Giovanni 14:9-11); si attribuiva delle prerogative divine: onnipresenza (Matteo 18:20), potestà di perdonare i peccati (Marco 2:5-10), potenza di risuscitare i morti (Giovanni 6:39,40,54; Giovanni 11:25; Giovanni 10:17,18); si proclamava Giudice ed Arbitro del destino dell’uomo (Giovanni 5:22; Matteo 25:31-46). Gesù richiedeva un arrendimento ed una fedeltà che solo Dio può avere il diritto di pretendere; insisteva sul completo arrendimento del proprio essere da parte dei Suoi seguaci: essi dovevano essere pronti a rompere il più caro ed il più stretto dei legami, perché chiunque avesse amato anche il padre o la madre più di Lui non era degno di Lui (Matteo 10:37; Luca 14:25-33). Queste elevatissime asserzioni venivano fatte da Uno che viveva come il più umile degli uomini e venivano esposte con la stessa naturalezza con la quale, ad esempio, Paolo avrebbe potuto dire: «Io sono un uomo giudeo». Per arrivare alla conclusione che Cristo era divino ci dovevano porre due premesse: primo, che Gesù non era un uomo malvagio e, secondo, che non era demente. Se Egli diceva di essere divino, mentre sapeva di non esserlo, non poteva essere buono; se Egli immaginava falsamente di essere Dio, non poteva essere savio. Ma nessuna persona di senno avrebbe potuto negare il Suo perfetto carattere o la Sua superiore sapienza. Di conseguenza, si può concludere che Egli era ciò che asseriva di essere: il Figliuolo di Dio. c. L’autorità di Cristo Negli insegnamenti di Cristo si nota l’assenza di espressioni come «È mia opinione», «può darsi», «penso che…», «possiamo allo stesso modo supporre», ecc. Uno studioso razionalista ebreo ammise che Egli parlò con l’autorità dell’Iddio Onnipotente stesso. Il Dott. Henry van Dyke mette in rilievo che nel sermone sul monte, ad esempio, abbiamo: La visione sorprendente di un Ebreo credente, che si mette al di sopra della regola della sua fede; di un umile maestro che mostra un’autorità suprema sopra la condotta umana; di un riformatore morale che scarta ogni altro fondamento e dice: «Chiunque ode queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato ad un uomo avveduto che ha edificata la sua casa sopra la roccia» (Matteo 7:24). Quarantanove volte, in questa breve descrizione dei discorsi di Gesù, ricorre la frase solenne con la quale Egli autentica la verità: «In verità io ti dico». d. L’irreprensibilità di Cristo Nessun predicatore che chiami gli uomini al ravvedimento e alla giustizia può fare a meno di riferirsi alla propria imperfezione ed ai propri peccati; infatti, quanto più santo sarà, tanto più lamenterà e riconoscerà la propria limitazione. Ma, nei detti e nelle parole di Gesù, vi è una completa assenza di coscienza e di confessione del peccato. Egli aveva la più profonda conoscenza del male e del peccato, ma nessun’ombra o macchia di esso si rifletteva sull’anima Sua. Anzi, Lui che era il più umile degli uomini, lancia la sfida: «Chi di voi mi convince di peccato?» (Giovanni 8:46). Anche le beffe dei pagani sono una testimonianza della Deità di Cristo. Su una parete di un antico palazzo romano (che non va oltre il terzo secolo) è stato trovato un disegno raffigurante una figura umana con la testa di asino appesa alla croce, mentre un uomo sta ritto davanti ad essa in attitudine di adorazione; sotto, un’iscrizione dice: «Alexamenos adora il suo Dio». Henry van Dyke commenta: Pertanto i canti e le preghiere dei credenti, le accuse dei persecutori, le beffe degli scettici ed i grossolani motteggi degli schernitori si uniscono per provare che, senza ombra di dubbio, i cristiani primitivi rendevano onori divini al Signor Gesù… Non vi è ragione di dubitare che i cristiani dell’era apostolica vedessero in Cristo una rivelazione personale di Dio, più di quanto non si possa dubitare che gli amici ed i seguaci di Abramo Lincoln guardavano questo Presidente come un bravo e leale cittadino americano di razza bianca. Non dobbiamo, però, concludere che la Chiesa primitiva non adorasse Dio Padre, perché avveniva perfettamente l’opposto. Era pratica generale pregare il Padre nel nome di Gesù e ringraziarLo per il dono del Suo Figliuolo. Ma per loro era così reale la Deità di Cristo e l’unità tra le due Persone, che era perfettamente naturale invocare il nome di Gesù. Fu la loro perfetta aderenza all’insegnamento dell’Antico Testamento sull’Unicità di Dio, unita alla loro ferma credenza nella Deità di Cristo, che li portò a formulare la dottrina della Trinità. La seguente definizione tratta dal credo Niceno (quarto secolo) sono state, e sono tuttora, recitate da molti in modo formale, ma esse esprimono fedelmente la profonda convinzione del cuore di quei fedeli. Noi crediamo in un Signore: Gesù Cristo, il Figliuolo di Dio, unigenito del Padre, cioè della sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce di Luce, vero Dio di vero Dio, generato e non creato, essendo di una sostanza con il Padre; per il quale tutte le cose furono fatte che sono in cielo ed in terra; il Quale, per noi uomini e per la nostra salvezza, discese, e fu incarnato e fu fatto uomo; e soffrì, e risuscitò il terzo giorno ed ascese al cielo, e ritornerà per giudicare i vivi ed i morti.

3. SIGNIFICATO DEL TITOLO DI “FIGLIUOLO DELL’UOMO” Secondo l’uso ebraico, «figliuolo di» denota relazione e partecipazione. Ad esempio: «i figliuoli del regno» (Matteo 8:12) sono quelli che devono partecipare alle sue verità e alle sue benedizioni; «i figliuoli della resurrezione» (Luca 20:36) sono coloro che sono risorti; un «figliuolo di pace» (Luca 10:6) è colui che possiede una disposizione pacifica; un «figliuolo di perdizione» (Giovanni 17:12) è colui che è destinato alla condanna e alla rovina. Quindi «figliuol d’uomo» indica, in primo luogo, colui che è partecipe della natura umana e delle umane qualità: l’espressione mette in risalto i caratteri di debolezza e di impotenza tipici dell’uomo (Numeri 23:19; Giobbe 16:21; Giobbe 25:6). In questo senso, il titolo viene applicato per circa ottanta volte ad Ezechiele, per ricordargli la sua debolezza e la sua caducità e indurlo all’umiltà nel compimento del suo ministerio profetico. Applicato a Cristo, «Figliuol d’uomo» Lo designa come partecipe della natura e delle qualità umane e soggetto alle infermità umane, ma, allo stesso tempo, questo titolo implica la Sua Deità. Perché, se qualcuno dichiarasse enfaticamente: «Io sono un figliuol d’uomo», la gente gli risponderebbe: «Lo credo bene! Tutti lo sanno»; sulle labbra di Gesù, invece, l’espressione significava che Egli proveniva dal cielo ed aveva identificato Se stesso con l’umanità per divenirne il rappresentante e il Salvatore. Notate anche che Egli è il e non un figliuol d’uomo. Il titolo è connesso alla Sua vita terrena (Marco 2:10; Marco 2:28; Matteo 8:20; Luca 19:10), alle Sue sofferenze a favore dell’umanità (Marco 8:31), alla Sua esaltazione e al Suo dominio sull’umanità (Matteo 25:31; Matteo 26:24; cfr. Daniele 7:14). Riferendosi a Se stesso come al «Figliuol dell’uomo», Gesù comunicava, in pratica, il seguente messaggio: «Io, il Figliuolo di Dio, sono venuto come Uomo, in debolezza, in sofferenza fino alla morte. Però sono tuttora in contatto con il cielo da dove sono venuto e sono Dio, infatti posso rimettere i peccati (Matteo 9:6); inoltre, sono al di sopra dei regolamenti religiosi, che hanno solo un significato temporaneo e nazionale (Matteo 12:8). La mia natura umana non cesserà quando sarò passato attraverso gli ultimi stadi della sofferenza e della morte, che devo sopportare per la salvezza dell’uomo, perché Io risorgerò e porterò la mia natura umana con Me, in cielo, da dove ritornerò per regnare sopra coloro la cui natura ho assunto». L’umanità del Figliuolo di Dio era reale e non simbolica; Egli soffrì realmente la fame, la sete, la stanchezza e ogni dolore.

4. SIGNIFICATO DEL TITOLO DI “CRISTO” a. La profezia «Cristo» è la forma greca della parola ebraica «Messia», che letteralmente significa «l’unto». La parola è suggerita dalla pratica di ungere con olio, simbolo della consacrazione divina al servizio. Quantunque anche i sacerdoti, e qualche volta i profeti, fossero unti quando s’insediavano nel loro ufficio, il titolo «Unto» veniva applicato particolarmente ai re d’Israele, che governavano come rappresentanti di Yahwê(h) (II Samuele 1:14). In certi casi il simbolo dell’unzione era seguito dalla realtà spirituale, cosicché la persona diveniva l’unto del Signore in senso vero e proprio (I Samuele 10:1,6; I Samuele 16:13). Saul venne meno, mentre Davide, che gli succedette, fu un uomo «secondo il cuore di Dio», un re che poneva la volontà di Dio come sovrana nella propria vita e che si riteneva un rappresentante di Dio. Molti re successivi a Davide si allontanarono dalla regola divina, conducendo il popolo all’idolatria, ed anche alcuni dei re migliori non furono senza macchia. In contrasto con questo sfondo oscuro, i profeti proclamavano la promessa che sarebbe venuto un re della casa di Davide, molto maggiore di Davide. Lo Spirito del Signore sarebbe stato sopra di Lui con una potenza mai conosciuta prima (Isaia 9:5,6; Geremia 23:5,6); a differenza di quello di Davide il Suo regno sarebbe stato eterno e tutte le nazioni sarebbero state sotto il Suo dominio. Questo Re era l’Unto, o il Messia, o il Cristo, e sopra di Lui Israele fondava le proprie speranze. b. Il compimento È testimonianza continua del Nuovo Testamento che Gesù asserì di essere il Messia, il Cristo promesso nell’Antico Testamento. Come il presidente del nostro Paese viene prima eletto e poi insediato, così Gesù Cristo fu stabilito nell’eternità ad essere il Messia, o il Cristo, e poi pubblicamente “insediato”, al Giordano, nel Suo ufficio messianico. Come Samuele prima unse Saul e poi gli spiegò il significato dell’unzione (I Samuele 10:1), così Dio Padre unse il Suo Figliuolo con lo Spirito della potenza e Gli confermò verbalmente il significato della Sua unzione: «Tu sei il mio diletto Figliuolo; in te mi sono compiaciuto» (Marco 1:11). Il popolo in mezzo al quale Gesù doveva servire aspettava la venuta del Messia, ma disgraziatamente le loro speranze erano colorate di politica. Essi aspettavano un «uomo forte», che fosse una combinazione fra il soldato e l’uomo di Stato. Gesù sarebbe stato un Messia di tal genere? Lo Spirito Lo condusse nel deserto a combattere contro Satana, il quale astutamente Gli suggerì di adottare la piattaforma della popolarità per raggiungere il potere attraverso una via più breve. «Appaga le loro brame materiali», suggeriva il tentatore (cfr. Matteo 4:3,4; e Giovanni 6:14,15,26), abbagliali saltando dal Tempio (e, tra l’altro, fatti una buona reputazione presso il sacerdozio), mettiti in mostra come un campione del popolo e guidali alla guerra (cfr. Matteo 4:6-9 e Apocalisse 13:2-4). Gesù sapeva che Satana, ispirato dal proprio spirito egoistico e violento, propugnava la politica della popolarità ed è certo che un simile sistema avrebbe condotto allo spargimento di sangue e alla rovina. No! Egli avrebbe seguito la via di Dio e avrebbe fatto assegnamento solo sulle armi spirituali, per conquistare il cuore degli uomini; anche se sapeva che quel sentiero avrebbe fatto capo all’incomprensione, alla sofferenza e alla morte, Gesù nel deserto scelse la croce e la scelse perché faceva parte del piano di Dio per la Sua vita. Il Maestro non si sviò mai da quella scelta, sebbene fosse spesso tentato dall’esterno ad abbandonare la via della croce. Vedi, ad esempio, Matteo 16:22. Gesù evitò scrupolosamente di confondersi con la situazione politica contemporanea. A volte proibiva a coloro che erano stati da Lui guariti di spandere la Sua fama, affinché il Suo ministerio non fosse mal compreso e non fosse scambiato per un tentativo di sollevare il popolo contro Roma. In Matteo 12:15,16 e Luca 23:5 il Suo successo Gli fu rivolto contro come un’accusa. Egli rifiutò deliberatamente di capeggiare un movimento popolare (Giovanni 6:15) e proibì la pubblica proclamazione della Sua messianicità e la testimonianza della Sua trasfigurazione, affinché non venissero sollevate false speranze fra il popolo (Matteo 16:20; Matteo 17:9). Con grande sapienza, sfuggì ad una trappola abilmente tesaGli per screditarLo davanti al popolo come «non patriottico», o per farLo trovare in difficoltà con il governo romano (Matteo 22:15-21). In tutto questo, il Signor Gesù adempì la profezia di Isaia che l’Unto di Dio avrebbe proclamato la verità divina e non sarebbe stato un violento agitatore, cioè un uomo che solleva il popolo a Suo favore (Matteo 12:16-21), come erano stati alcuni dei falsi messia che Lo avevano preceduto (Giovanni 10:8; Atti 5:36; Atti 21:38). Egli non perseguì fini terreni, ma solo fini spirituali, tanto che Pilato, il rappresentante di Roma, poteva testimoniare: «Io non trovo colpa alcuna in quest’uomo» (Luca 23:4). Abbiamo visto che Gesù cominciò il Suo ministerio fra un popolo che aveva una giusta speranza nel Messia, ma una errata concezione della Sua Persona e dell’opera Sua. Essendo consapevole di ciò, Gesù dapprima non si proclamò pubblicamente Messia (Matteo 16:20), perché sapeva che questo sarebbe stato un segnale di ribellione contro Roma. Egli parlava, piuttosto, del regno descrivendo le sue norme e la sua natura spirituale, per suscitare nel popolo la brama di un regno spirituale che lo avrebbe, a sua volta, condotto a desiderare un Messia spirituale. I Suoi sforzi in questo senso non furono assolutamente privi di risultati, perché Giovanni, l’Apostolo, ci dice (Giovanni 1) che fin dal principio vi fu un gruppo di persone che Lo riconobbe come il Cristo; inoltre, di tanto in tanto, si rivelò ad individui che erano spiritualmente pronti (Giovanni 4:25,26; Giovanni 9:35-37). Ma la nazione, nel suo insieme, non vedeva relazione tra il ministerio spirituale di Gesù e il concetto ch’essa aveva del Messia. Era pronta ad ammettere che Egli era un grande dottore, un potente predicatore e perfino un profeta (Matteo 16:13,14), ma non quel capo militare e politico che doveva essere, secondo il suo concetto, il Messia. Non possiamo biasimare il popolo d’Israele per questa idea che s’era fatta della persona e dell’opera del Messia, perché Dio aveva veramente promesso di instaurare un regno terreno (Zaccaria 14:9-21; Amos 9:11-15; Geremia 22:5); solo che prima di questo doveva verificarsi una purificazione morale ed una rigenerazione spirituale della nazione (Ezechiele 36:25-27; cfr. Giovanni 3:1-3). Tanto Giovanni Battista che Gesù avevano fatto capire chiaramente che la nazione, nella condizione in cui si trovava, non poteva entrare nel regno, perciò esortavano: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Ma, mentre le parole «regno dei cieli» commuovevano profondamente il popolo, la parola «ravvedetevi» faceva poca impressione: sia i capi (Matteo 21:31,32), sia il popolo (Luca 13:1-3; Luca 19:41-44) rifiutarono di ottemperare alle condizioni del regno e conseguentemente perdettero il privilegio del regno stesso (Matteo 21:43). Iddio, nella Sua onniscienza, aveva antiveduto il fallimento di Israele (Isaia 6:9,10; Isaia 53:1; Giovanni 12:37-40) e, nella Sua onnipotenza, aveva fatto sì che questo fallimento servisse alla realizzazione di un piano tenuto segreto fino a quel momento. Il piano era il seguente: la reiezione di Israele avrebbe offerto a Dio l’opportunità di scegliere un popolo fra i Gentili (Romani 11:11; Atti 15:13,14; Romani 9:25,26) che, con i credenti Giudei, avrebbe costituito un organismo conosciuto come la Chiesa (Efesini 3:4-6). Gesù stesso lasciò intravedere questo periodo (l’Era della Chiesa), che doveva inserirsi fra il Suo primo e il Suo secondo avvento, e chiamava queste rivelazioni «misteri», perché esse non erano rivelate ai veggenti dell’Antico Testamento (Matteo 13:11-17). Un giorno la fede incrollabile di un centurione Gentile, che contrastava nettamente con la mancanza di fede di molti Israeliti, richiamò alla Sua mente ispirata lo spettacolo dei Gentili che, provenienti da ogni nazione, entravano nel Regno respinto (Matteo 8:10-12) da Israele. La crisi antiveduta nel deserto venne e Gesù si preparò a fornire delle tristi notizie ai Suoi discepoli. Con tatto, Egli cominciò a fortificare la loro fede: prima, attraverso la testimonianza della Sua messianicità, ispirata dal cielo a Simon Pietro; poi, con la predizione di un avvenimento straordinario (Matteo 16:18,19) che può essere parafrasata così: «La congregazione di Israele (o «chiesa», Atti 7:38) mi ha respinto come Messia e i loro capi scomunicheranno Me che sono la pietra angolare della nazione (Matteo 21:42). Ma il piano di Dio non fallirà per questo, perché Io stabilirò un’altra congregazione («chiesa»), composta di uomini come te, Pietro (I Pietro 2:4-9), che credi nella mia divinità e nella mia messianicità. Tu sarai un conduttore ed un ministro di questa congregazione, avrai il privilegio di aprire le sue porte con la chiave della verità evangelica e tu ed i tuoi fratelli l’amministrerete». Poi Cristo fece un annuncio che i Suoi discepoli non compresero appieno se non dopo la Sua resurrezione (Luca 24:25-48), l’annuncio cioè, che la croce rientrava nel programma di Dio per il Messia: «Da quell’ora Gesù cominciò a dichiarare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrir molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed esser ucciso, e risuscitare il terzo giorno» (Matteo 16:21). A suo tempo la profezia si adempì. E quando Gesù sarebbe potuto sfuggire alla morte negando la Sua divinità, quando avrebbe potuto essere rilasciato se avesse negato di essere re, Egli persistette nella Sua testimonianza e morì su di una croce che recava l’iscrizione: «QUESTO È IL RE DEI GIUDEI». Ma il Messia sofferente (Isaia 53:7-9) risuscitò dai morti (Isaia 53:10,11) e, come Daniele aveva antiveduto, ascese alla destra di Dio (Daniele 7:14; Matteo 28:18), da dove deve venire a giudicare i vivi e i morti. Ora che abbiamo esaminato l’insegnamento dell’Antico e del Nuovo Testamento, siamo in condizione di definire il significato del titolo «Messia»: il Messia è Colui che Dio ha autorizzato a salvare Israele e le nazioni dal peccato e dalla morte, ed a regnare sopra loro come il Signore e il Maestro della loro vita. I Giudei riconoscono che queste affermazioni implicano la Deità, ma sono per essi « una pietra d’inciampo ». Claude Montefiore, un noto studioso giudeo, disse: «Se potessi credere che Gesù era Dio, Egli sarebbe, per conseguenza naturale, il mio Maestro. Perché il mio Maestro, il Maestro dei Giudei moderni è, e può essere, solo Dio».

NOTE SULL’AUTORE: Myer Pearlman, ebreo, nacque a Edimburgo il 19 dicembre 1898. Istruito in una Scuola Ebraica nutrì una profonda avversione per il Cristianesimo, finché, emigrato negli Stati Uniti, cominciò ad essere attratto dalla persona di Cristo. Una sera, passando davanti a una Missione cristiana, e udendo la comunità cantare con gioia si sentì spinto ad entrare. In quell’occasione accettò il Signore Gesù Cristo come il Messia promesso e come suo personale Salvatore e Signore. Ecco come ci descrive la sua conversione: « Non ero emozionato, né mi attendevo che dovesse accadere qualcosa, non stavo pregando, ma, mentre ero lì in piedi, sentii una particolare potenza cadere su me in modo indescrivibile, che mi riempì di gioia. Non vidi nessuno, né udii nessuna voce, ma questa esperienza rivoluzionò la mia vita! Il mio viaggio verso il santuario ignoto era concluso. Avevo trovato la realtà del Cristo. Qualche giorno appresso, non appena m’inginocchiai, mi accorsi con somma meraviglia che stavo pronunziando parole sconosciute (Pearlman conosceva l’ebraico, il greco, lo spagnolo, il francese e l’italiano). Quest’esperienza [il battesimo dello Spirito Santo] mi elevò in una sfera più alta e mi diede il senso dell’intimità con Dio ».

Publié dans:BIBLICA (sugli studi di), TEOLOGIA |on 18 février, 2014 |Pas de commentaires »

LA FIGURA DI CRISTO NELLE EPISTOLE DI SAN PAOLO – ROMANO GUARDINI

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LA FIGURA DI CRISTO NELLE EPISTOLE DI SAN PAOLO

ROMANO GUARDINI  -  FRAMMENTI DA – LA FIGURA DI GESÙ CRISTO NEL NUOVO TESTAMENTO – ED. MORCELLIANA

Chi ricorra al Nuovo Testamento per sapere chi sia il Signore, può fare un’esperienza curiosa.

Senza volerlo egli penserà che saranno i Vangeli a servirgli di guida e di questi, anzitutto i primi, cioè i Sinottici. E se avrà una qualche idea del sistema moderno di ricerca delle fonti storiche, porrà al primo posto il Vangelo di Marco, o si proporrà in cuor suo di cercare il Marco delle origini e la fonte dei versetti… ma ben presto rileverà come i Sinottici, presunti facili, siano, in realtà, tutt’altro che semplici. E se saprà scrutare sufficientemente in profondità, si accorgerà anche donde provenga tale parvenza di semplicità, cioè dal fatto ch’egli ha considerato la figura di Gesù dal lato della sola umanità, trascurando o stimando leggenda quanto di essa va oltre l’umana natura… Ed allora lo studioso che sta cercando uno spiraglio attraverso il quale entrare nell’argomento che l’attrae prosegue nelle indagini e perviene a Giovanni. Questo si presenta già più accessibile, ma non proprio del tutto, non quanto basti affinchè abbia la sensazione si essersi messo per la via giusta. Ancora un passo avanti ed eccolo a Paolo. Qui sente ben presto di essere in porto: chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici , né Giovanni, nessuno quindi dei Vangeli, ma Paolo e appunto per il fatto di essersi trovato nella identica situazione in cui ci troviamo noi stessi. Paolo è l’unico apostolo che non abbia visto con i propri occhi Gesù durante la sua vita terrena… di Lui Paolo aveva avuto notizie solo come ne possiamo avere noi: dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia, poi dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nello Spirito e nel cuore. E allorché Paolo delinea la propria figura di Cristo, attinge dunque fondamentalmente alle stesse fonti alle quali noi pure facciamo ricorso: al messaggio tramandato e alla propria esperienza. Ciò che manca a noi, e che ebbe invece  così grande parte nei riguardi dei primi apostoli, vale a dire l’essere stati testimoni oculari… mancava anche a lui, e non saremo certamente in errore asserendo che ciò lo abbia addolorato molto… ma appunto per essersi trovato in tali condizioni nei riguardi delle sue cognizioni sulla vita terrena di Gesù, egli è proprio l’uomo che fa al caso nostro. E se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temersi che non sia riuscito a comprendere ancora molto della vera figura di Cristo. Negli Atti degli Apostoli si narra come la giovane Chiesa conducesse dapprima una esistenza tranquilla, anche allora completamente basata sull’Antico Testamento, circondata d’amore ed insieme di rispetto dal popolo. I detentori del potere tentarono due volte di farsi avanti, senza riuscire, però, a scuotere la fermezza degli apostoli, mentre temevano, inoltre, il popolo. Ed ecco che si mette in evidenza un uomo, all’ardore pneumatico del quale scoppia l’incendio: Stefano. Lo si incolpa di avere offeso la Legge e lo si trascina innanzi ai giudici. Ottenuta la parola per difendersi dall’accusa, egli parla, e lo fa, tutto permeato com’è dalla grazia di Cristo, con tanta foga e potenza da incidere nei loro cuori. Ed essi digrignando i denti contro di lui, urlano, lo proclamano colpevole e lo sospingono subito violentemente fuori della città per lapidarlo. E si legge: “I testimoni deposero le vesti ai piedi di un giovane chiamato Saulo: Poi il racconto prosegue: “E Saulo consentì alla  morte di lui”. E avvenne allora una grande persecuzione contro la Chiesa, e Saulo, infierisce con la minaccia e con la strage contro i discepoli del Signore. “Saulo devastava la Chiesa, entrava per le case e quanti trovava, uomini e donne, li cacciava in prigione  “ ( At. 8,1 ss. ). Ottenuto l’incarico di dare ulteriore sviluppo alla persecuzione, egli si muove alla volta di Damasco. Ma lungo la strada Gesù gli appare all’improvviso, come si narra nel nono capitolo degli Atti degli Apostoli.

Che uomo era Paolo? Possiamo desumerlo dalle sue epistole… Sarà forse opportuno cominciare col dire che Paolo non era prestante nella persona e aveva una certa timidezza nel tratto… nella seconda epistola ai Corinzi egli dice delle voci che corrono sul conto suo, secondo le quali egli sarebbe umile tra la gente, tanto da non osare di parlare, mentre di lontano si farebbe coraggio, sì da scrivere lettere aspre. Piccinerie, queste, che egli ha disprezzato certamente nel suo spirito, e cristianamente compatite, ma proprio queste piccinerie incidono in profondità e dicono molto. A ciò si aggiunga quanto egli dice, nella stessa epistola, dello “stimolo” che ha nella carne e dell’angelo di Satana che lo schiaffeggia, di liberarlo dal quale ha pregato tre volte il Signore per poi doversi accontentare di sentirsi rispondere. “Basti a te la mia grazia”! ( 2 Cor. 12,7 ss. ). Qualunque sia l’interpretazione congetturale che si voglia dare a tutto ciò, se ne deve concludere che, in ogni caso, Paolo non deve avere avuto la freschezza naturale dell’uomo perfettamente sano e completamente sicuro di sé. Se ci si immedesima nel suo modo di pensare e di esprimersi e nel suo temperamento, si potrà forse dire anche di più. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato.”Io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome” ( At 9,16 ), aveva detto di lui il Signore ad Anania, e queste parole si riferiscono anzitutto alla sua vita di apostolo, ma rivelano anche qualcosa dell’essere suo. Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto. Leggiamo in proposito gli appassionati ultimi capitoli della seconda epistola ai Corinti. Altrettanto si può dire della sua vita  morale e religiosa. Egli voleva divenire buono, giusto, santo, ma riteneva di potervi riuscire facendo violenza a se stesso, considerava la bontà come una continua imposizione a base di devi e non devi, così che era sempre in uno stato di tensione della volontà. In lui erano potenti energie religiose: ardeva di zelo per la legge e la santità di Dio. Ma tali energie erano sorde, inceppate, e quindi finivano per intossicare se stesse; il suo zelo era violento e non illuminato, atto soltanto ad assoggettare e demolire. Paolo era tormentato da due forti passioni: da una sensualità potente e da una grande ambizione. È assurdo precisare se fosse anche avido di possedere: comunque è singolare come egli sia il solo degli apostoli che parli di collette. Egli vuol dominare tali istinti, e li contiene, ma essi gli si voltano contro, turbinano, ribolliscono. Lotta contro ciò che è malvagio, riesce a piegarlo, ma sperimenta anche che il male diviene sempre più insidioso. In se stesso, nelle sue membra, egli sente il contrasto di due potenze, una buona e una cattiva. Ma non riesce a fare in modo di dare libero il passo a quella buona e di soggiogare con la grandezza dell’animo quella malvagia e piuttosto, odia se stesso, si fa violenza e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero. La legge è tutto per lui. Egli si adopera con zelo per rispettarla, si sacrifica e si fa violenza per le mille e le diecimila prescrizioni che fanno della vita una schiavitù, una esistenza contro natura. Da esse egli vede dipendere la rettitudine, ma non può conseguirla, perché vuol basarsi sulle sole sue forze. Egli percepisce come tutto ciò che è cattivo si desti proprio sotto la costrizione della Legge, ciononostante non riesce ad uscire dal vortice angosciante perché l’unica conseguenza che ne sa dedurre è quella di essere ancora più severo verso se stesso. Assolutamente privo di libertà, anela ad essa, ma già per il solo fatto di desiderarla ritiene di essere in fallo… Sulla via di Damasco venne per Paolo la grande ora. Una luce lo irraggia. Non è retorica questa, ma verità, perché si tratta qui di luce interna, spirituale, divina, luce che lo abbatte e, come si costaterà in seguito, gli toglie la vista. Qualcuno però, parla e si designa come Colui che Saulo ha perseguitato, come Gesù Cristo. Nella figura spiritualmente luminosa di Stefano, negli uomini e nelle donne incamminati per le vie del Signore, egli ha odiato quello stesso Cristo, e forse proprio perché non riusciva a trovare una diversa maniera per difendersi da un ardentissimo desiderio che lo sospingeva verso di Lui. Cristo lo aveva già toccato, ed ora egli gli va incontro apertamente. Tutto ciò è ormai evidente. Il brano  riportato a frammenti è tratto dall’opera di Romano Guardini “ La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento”.

Guardini, abbiamo letto, sottolinea l’importanza della lettura delle epistole di Paolo e degli Atti degli Apostoli per una migliore e sicura intelligenza dei Vangeli. Nulla di assolutamente personale, ma quanto sperimentato e conosciuto da coloro che amano la Parola di Dio e cercano una intelligenza che vada oltre il velo del semplice senso letterale. È Paolo in definitiva la chiave che apre l’ingresso nel senso spirituale delle parole e della vita di Gesù. La Parola non si comprende se non in virtù della Parola: è regola aurea. Chi più dell’Apostolo ci aiuta a comprendere i santi Vangeli? Paolo è l’Apostolo più vicino a noi, non soltanto perché non ha conosciuto Gesù secondo la carne, ma anche perché porta alla luce  tutto quel sottofondo spirituale dell’uomo che  trova la propria soluzione e giustificazione soltanto nella grazia del Salvatore mandato dal cielo. Gli Evangelisti annunciano la Parola semplicemente, Paolo l’annuncia alla luce della propria esperienza di uomo risorto in Cristo. E non capisce Paolo se non chi è come lui tutto preso da una sincera volontà di essere obbediente a Dio in tutto e per tutto. Colui che può sembrare l’eccezione, non è compreso se non quando diviene la regola, il modello di ogni santità, nello spirito di osservanza del primo e più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Se non c’è questa totalità dell’impegno, il Vangelo è lettera morta. Non è parola per la salvezza, ma parola per la dannazione, perché il cuore falso convincerà se stesso di giustizia e non di peccato, facendosi meritevole di un giudizio di eterna condanna da parte di Dio. Perché mai Gesù parla in parabole? Per rendere più chiaro, più semplice ed intellegibile un discorso o al contrario perché appaia oscuro quello che è fin troppo chiaro? Perché tutti possano comprendere, anche quelli che stanno fuori o perché comprendano soltanto quelli che sono entrati dentro? “ Parlo in parabole perché sentendo non intendano, né io li risani”. Giustamente Guardini rileva che i Vangeli non sono di facile comprensione. Tutto diventa più chiaro solo quando siamo rivestiti dal Signore di occhi nuovi, illuminati da una luce diversa che viene dal cielo. Se è difficile entrare da soli nel senso nascosto della Parola di Dio, tutto è più facile quando seguiamo l’apostolo Paolo. Non basta leggere i Vangeli, bisogna leggere la spiegazione che ne dà l’Apostolo. Non la parola dell’uomo illumina la parola di Dio, ma è la stessa Parola di Dio che getta una luce su se stessa, per chi ha orecchi di ascolto. E lo fa in virtù dell’insegnamento di un uomo che riassume in sé e porta alle estreme conseguenze della fede in Cristo tutto il proprio vissuto, senza celare ambiguità e contraddizioni, senza falsità ed ipocrisie, unicamente desideroso di compiacere a Dio in tutto e per tutto. La complessità delle parabole, ripercorre la molteplicità di aspetti di un cammino spirituale che vuol raggiungere ed ottenere quella semplicità del cuore che unicamente è gradita e accetta a Dio. Le parabole sono complesse nello sviluppo interno del discorso, sono assolutamente semplici nella loro conclusione. Partono da realtà e situazioni diverse, per approdare all’unica àncora di salvezza che ha nome di Cristo. La conclusione è sempre la stessa: non c’è salvezza senza la fede in Cristo Salvatore e non è fatto salvo chi non è perduto. Ciò che è sicuramente vero e fuori discussione per Dio Padre non lo è altrettanto per l’uomo che  di fronte al Salvatore si pone in una posizione di giudizio e di superba sufficienza a se stesso. Se Cristo è venuto per i peccatori, per riportare all’ovile la pecorella smarrita, allora va fatta salva la situazione di chi peccatore non è e cerca un’altra via di salvezza che è quella dell’osservanza della Legge e di una giustificazione che gli è accreditata dallo stesso Dio. E allora la parabola, partendo dal punto di vista dell’uomo che si crede giusto, deve ribaltare un giudizio falso e frettoloso, fatto in proprio ed affermare un peccato che abbraccia tutto il genere, per concludere nella necessità di una salvezza che è donata gratuitamente da Colui che è stato mandato dal cielo. C’è un solo giusto ed è Cristo Gesù: in Lui e per Lui, in virtù della sua morte e resurrezione i molti sono giustificati e  ottengono in dono la salvezza per la fede nel Salvatore. Non c’è parabola che non sia esaltazione dell’unico giusto e dell’unico santo: speranza e gioia per chi crede in Cristo , giudizio di condanna ed amarezza senza fine per chi rifiuta il Salvatore. Il Vangelo è annuncio di una grande gioia: in Cristo la terra è riconciliata col cielo, coloro che si sono perduti ritrovano la via della salvezza, i peccati sono  perdonati, un cuore nuovo è dato all’uomo, perché senta e comprenda quanto grande l’amore di Dio Padre. Tutto semplice e tutto facile dunque? Niente affatto, perché l’uomo è di dura cervice, non vuole vedere e non vuole comprendere la necessità di una morte che è per la vita. La mancanza di fede rende vano il sacrificio di Cristo e nasconde ai nostri occhi la grandezza e la bellezza dell’Amore divino. L’uomo che con il peccato di Adamo si è condannato alla solitudine, dopo aver crocifisso Cristo si trova ancora più solo, senza gioia e senza speranza. Non comprende il Vangelo chi non è come Paolo, chi non si riconosce e non fa proprio il suo cammino spirituale, che è passaggio dalle tenebre alla luce, dalla consapevolezza del proprio peccato alla consapevolezza dell’amore di Dio, così come si è a noi tutti manifestato in virtù della morte e resurrezione del Figlio suo. Le lettere che Paolo invia alle comunità da lui fondate altro non sono che la spiegazione del Vangelo, così come è dato comprendere soltanto attraverso un cammino di salvezza, che l’Apostolo prima di altri ha percorso. “Fatevi miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo”. Se Cristo è l’unico vero modello di santità, è pur vero che non è compreso se non in virtù di un modello a noi più vicino che è l’apostolo Paolo. La conversione di Paolo non è un semplice prodotto del pensiero, o sforzo etico, ma è innanzitutto un fatto, un evento: l’incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. L’iniziativa è sempre di Dio e nessuno va al Figlio se non è attirato dal Padre che è nei cieli. Una nuova luce, misteriosa ed inaccessibile investe la nostra vita: non abbiamo occhi per portarla e abbiamo bisogno di una vista spirituale che Dio ci dona attraverso la sua Chiesa. L’uomo vecchio è fatto uomo nuovo, vede diversamente non soltanto se stesso in rapporto a Dio, ma anche Dio in rapporto a se stesso. Scopre il proprio peccato di fronte al Signore, ma anche l’infinita sua misericordia. Se noi siamo nulla, Lui è tutto, se noi siamo poveri, Lui ci arricchisce di ogni dono spirituale, se noi siamo ingiusti, Lui ci fa giusti. Paolo è tutto questo e solo questo: un morto che è tornato in vita, un ingiusto che è stato fatto giusto, un cieco che ha trovato in Cristo non una semplice luce, ma la luce che conduce a vita eterna.

Riconsideriamo insieme a Guardini alcune caratteristiche fondamentali della personalità dell’Apostolo. Nell’ora di Damasco, Paolo viene liberato dal giogo che lo opprimeva col dover operare da sé, e, conseguentemente, dal tormento assillante di non potervi riuscire. Impara, così, quanto esprimerà più tarsi con queste parole: “Vivo, ma non sono io a vivere: è Cristo che vive in m,e”. e con queste altre: “Da me solo nulla posso, ma posso tutto in Colui che mi dà la forza, in Cristo”. Per il tramite di Cristo viene a noi la grazia divina, ed è essa che agisce, ma insieme la grazia opera tutto: illumina la conoscenza, libera la coscienza, infiamma il cuore, muta la volontà, eleva e dà ali all’essere, e proprio così l’uomo è quello che deve essere… Una singolarità colpisce, la visione è una luce. Colpito da essa, Paolo cade a terra, accecato, e una voce dice: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”. Poi soggiunge: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. Dunque Paolo non ha scorto il volto del Signore sulla via di Damasco. Non è nelle nostre intenzioni fare affermazioni affrettate, e ci chiediamo se Paolo abbia sollevato mai gli occhi – dello spirito, beninteso – alla sua figura, al suo volto. Comunque, in chi legge le sue epistole si forma il convincimento che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Quest’ultima possibilità si ha per il Gesù dei Sinottici. Anche in Giovanni la si riscontra, ma soprattutto in Matteo, in Marco e in Luca. In essi egli è il Gesù che ci viene incontro per la via, che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò costituisce la più spiccata singolarità degli evangelisti, il loro privilegio prezioso, ma nello stesso tempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione, in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore. Ed appunto per questo ci sentiamo, invece, tanto più vicini a Paolo, e forse non ci inganniamo reputando che egli non tanto guardi a Cristo come figura e come volto, quanto lo senta come potenza. Con quest’ultima espressione non intendiamo, ovviamente, una energia religiosa impersonale, ma sempre Lui, Gesù, nella sua persona divina, il Signore nostro vero Dio e vero Uomo, e non, però, come figura, ma come potenza in atto che agisce, che impera, che crea; come creatore di un’opera prodigiosa, immensa, di un’opera che può paragonarsi soltanto alla creazione del mondo… Il mondo paolino è tutto pieno di questo Cristo. Egli agisce negli uomini, nel singolo credente, come nella Chiesa. Egli impera su tutte le cose create. È in tutto, e tutto è in Lui. “In Lui, infatti, viviamo, ci muoviamo e siamo” disse Paolo agli uomini dell’Areòpago parlando di Dio, e tali parole le ripeterebbe anche nei riguardi di Cristo. “Nel nome di Dio”, si saluta e si ringrazia, si giudica e si ammonisce, si fa il bene e si sopporta il male, si esercita la pazienza e si conseguono vittorie. Essere cristiano significa essere partecipe di Lui. Vivere da cristiano vuol dire che Egli respira ed opera in noi. Il meraviglioso mistero della vita cristiana consiste nel fatto che Egli vive in ogni credente la sua vita umana e divina, in una singolarità sempre nuova, che non si ripete mai, rimanendo sempre l’Uno, l’Uguale, l’Immenso. In ognuno di noi Egli nasce, cresce, “si avvia alla maturità”… Cristo è nell’uomo, e l’uomo è in Lui. E quando l’uomo crede e riceve il battesimo, accade in esso qualche cosa di singolare, afferma Paolo. Egli viene a trovarsi in comunanza di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito dentro di noi vuole rivelarsi nell’esistenza umana… Nell’uomo che si unisce al Signore nella fede entra una nuova figura e una nuova forma, lo stesso Cristo risorto nella sua mistica spiritualità. Egli si impadronisce di quest’uomo e, così com’è, lo plasma nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri, nei suoi destini. Con ciò Cristo rinnova il ciclo della sua esistenza di Uomo-Dio, come vita eterna di origine divina, nel suo Spirito, in questo uomo vagante nel tempo. Egli rivive in lui la sua fanciullezza, la sua adolescenza, la sua maturità, il compimento del suo eterno destino. Ma la possanza di Cristo è anche nella totalità, nella Chiesa. La stessa impronta che caratterizza il singolo cristiano caratterizza anche il complesso della cristianità, vi domina, vi urge, vi agisce, ne soffre danno. Allorché Paolo perseguita Stefano, Cristo gli grida: “Saulo, Sauolo, perché mi perseguiti?”: poiché è Cristo che viene oppresso nelle persecuzioni alla Chiesa, come è Cristo che soffre per le divisioni, per gli irrigidimenti, per le ingiustizie che possano turbarla. Poiché Cristo domina in una stessa maniera tanto l’individuo quanto la comunità, il rapporto del credente nei riguardi della Chiesa è, così, diverso da quello che abitualmente si riscontra in ogni altra società umana. In essi circola, infatti, una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina… ma la Chiesa va ben più lontano dalla cerchia rappresentata dal complesso degli uomini. Le epistole agli Efesini e ai Colossesi dicono come sia piaciuto a Dio di “riunire sotto un solo capo, in Cristo, tutto ciò che è in cielo e in terra, affinchè Egli sia “il capo del corpo della Chiesa, Egli, il principio, il primogenito dai morti, affinchè si elevi, primo fra tutti. Perché così gli piacque, che in Lui fosse tutta la pienezza” ( Col. 1,18-19 ). In tal modo la Chiesa è orientata alla creazione, destinata ad attirarla nell’ambito di quel primo inizio in Cristo. Da ciò deve sorgere l’universo della libertà suprema, “il nuovo cielo e la nuova terra” ( Ap. 21,1 ) della fine. Questo Cristo che domina così nell’uomo siede alla destra del Padre. E noi intendiamo appieno Paolo allorchè afferma che il Cristo che domina in noi è nello stesso tempo nell’alto dei cieli e ci innalza a Lui. Egli ci conquista interiormente , urgendo sulla essenza viva dell’anima nostra, ci trae a sé dall’alto, facendoci udire la sua voce dal trono della sua eterna maestà. Ma Egli è anche il Veniente che si approssima avanzando dalla fine dei tempi. Emergendo dal misterioso interno della profondità di Dio, Egli penetra nell’uomo per manifestarsi nella sua esistenza ed alla fine spinge nel tempo per scuoterlo e prepararlo all’evento supremo. Così il mondo di san Paolo è tutto pieno di Lui. Egli è ovunque.

Publié dans:Paolo e Gesù, TEOLOGIA |on 29 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO – PDF – due parti divido in due

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – PDF – due parti divido in due

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà. C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia. Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso. Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità. Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.

1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato. « Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, ma prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ». Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio. Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi
non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.

Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari. « Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa
concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco. « Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato. « Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo
della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ». Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e
consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo 2Corinzi 5,17 e Galati 6,15

I due testi sono carichi di significati.
Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva. Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui. Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica. Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione
escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo. Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.

divinizzazione dell’uomo e del mondo
Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a
questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre. L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile. Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.

un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante
(ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse
il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.

alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è
dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile. E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo. I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.

l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività. La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è
possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso. Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.

il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra
faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte). Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta. Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito
nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».

il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico-spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa. Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.

la creazione in prospettiva cristologica
Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo. Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile.

gli ultimi al centro della creazione e della storia
Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato. Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non
imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi. L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il
centro ai violenti e ai potenti. La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di
vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro
discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede. Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di
Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.

animati dallo Spirito del risorto
Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. l’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni
gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo. Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo. Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro
dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo. « Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ». La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis »,
creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e
precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo. L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione. E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza
In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede. Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.

1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto
C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ».
E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non
sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore
E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi
covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio. Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo.
Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo). Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa
triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione.
La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine.

Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso
Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia
glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua.

Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione
Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed
il mondo inanimato ed animale. Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il
destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo.

dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo
Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua. Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da
questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo. Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato. Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate
le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare
Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione
della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi. Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».

un mondo di cui godere con gratitudine
La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo
opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e
alienato l’uomo. La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è
creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne.

un mondo da condividere
Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire ll’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione. Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della
partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana.

una natura coinvolta nella storia della salvezza
Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO – PDF II PARTE

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – PDF II PARTE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

la creazione in prospettiva cristologica Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo. Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile. gli ultimi al centro della creazione e della storia Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato. Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi. L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il centro ai violenti e ai potenti. La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede. Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.
animati dallo Spirito del risorto Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. l’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo. Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo. Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo. « Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ». La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis », creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo. L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione. E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo? 1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede. Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.
1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ». E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio. Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo. Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo). Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione. La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine. Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua. Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed il mondo inanimato ed animale. Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo. dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua. Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo. Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato. Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi. Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ». un mondo di cui godere con gratitudine La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e alienato l’uomo. La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne. un mondo da condividere Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire ll’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione. Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della
partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana. una natura coinvolta nella storia della salvezza Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/insegnspiritobasilchr.htm

Panagiotis Christou

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO 

1. I pneumatomachi

Durante la prima fase della controversia ariana i teologi si erano esclusivamente preoccupati del problema della situazione del Figlio nella Trinità. Benché fosse evidente che, negando la divinità della natura del Figlio, gli ariani a maggior ragione avrebbero negato la divinità dello Spirito, gli aderenti al dogma di Nicea presero la risoluzione di combattere lungo il fronte in cui l’attacco era più grave. La pneumatomachia fece la sua apparizione quando si distinsero tra gli ariani gruppi di varia tendenza; particolarmente quando alcuni di loro cominciarono ad ammettere la divinità del Figlio, come la formula homoousios, ma in tutti i suoi significati. Verso il 360 apparvero i primi pneumatomachi: i tropicisti d’Egitto e gli anomei dell’Asia minore. Quest’ultimi avevano una modesta opinione riguardo al Figlio e allo Spirito. Nel 370 gli irriducibili pneumatomachi si allearono in una particolare fazione diretta da Eustazio di Sebaste il quale riunì gli omeani e gli omeousiani. Sono costoro che vengono propriamente detti pneumatomachi dal momento che, in confronto agli anomeani avevano un concetto più elevato del Figlio. San Basilio tendeva a supporre che i pneumatomachi, quando cercavano di diminuire l’eminente posizione dello Spirito, fossero condotti da presupposti logici. In realtà la loro maniera di pensare era determinata da diverse motivazioni. Prima di tutto, l’assenza d’una esplicita menzione sulla divinità dello Spirito nella Bibbia infonde l’impressione che i partigiani della divinità dello Spirito introducessero nella Chiesa una divinità che non fosse attestata e che fosse, di conseguenza, inaccettabile. In secondo luogo, il concetto della trascendenza assoluta di Dio escludeva la divinità dello Spirito e dei suoi interventi negli uomini e nel mondo. In terzo luogo, un certo rigore logico vuole che se anche lo Spirito è Dio, si affonda nel triteismo. Coloro che negavano la divinità dello Spirito avrebbero potuto rispondere alla domanda: “Cos’è esattamente lo Spirito?” allo stesso modo dei monarchiani dinamici per i quali lo Spirito non è una persona ma semplicemente una potenza (dynamis). San Basilio non si è confrontato con questa risposta. Inoltre essi avrebbero potuto pure rispondere che lo Spirito è una persona ma non divina. Chi risponde in tal modo parte dal principio che gli esseri esistono sia come ingenerati, come Dio, sia come generati, come il Figlio, sia infine come creature. Lo Spirito non appartenendo né alla prima né alla seconda di queste categorie, è necessariamente posto tra le creature. Tuttavia costoro, per fronteggiare le obiezioni degli ortodossi, hanno trovato una posizione tra Dio e le creature in modo da porre lo Spirito al livello d’un essere semidivino[1]. Detto diversamente, lo Spirito non è un servitore, come nel caso degli esseri creati, non è neppure un signore com’è Dio. È, piuttosto, una terza realtà indipendente[2]. Essi hanno formulato quest’opinione teologicamente e liturgicamente assegnando al Padre, come creatore, il ex hou (dal quale), al Figlio come servitore il di’hou (per il quale) e allo Spirito in quanto contiene in se stesso il tempo e lo spazio, il en hô (nel quale)[3]. Un terzo gruppo, senza considerare lo Spirito come Dio, lo caratterizza come divino subordinandolo e ponendolo al terzo posto dopo il Padre e il Figlio[4].

2. Le fonti di san Basilio riguardanti la dottrina dello Spirito Santo Sul versante ortodosso, i primi che hanno affrontato il problema riguardante lo Spirito Santo, in maniera specifica durante questo periodo, sono Atanasio il Grande e Didimo il Cieco. Gli scritti autentici di Didimo su questo problema apparvero più tardi dell’anno 360 e, di conseguenza, tennero conto delle sette pneumatomache più tardive. Comunque, pure se si sono diffusi dopo il 381, comportano probabilmente argomenti che egli ha insegnato abbastanza presto alla scuola teologica di Alessandria. Sia Gregorio il Teologo sia Basilio il Grande probabilmente conoscevano le sue opinioni sullo Spirito prima della pubblicazione dei suoi scritti perché verosimilmente ne avevano seguito i corsi. Ciò spiega in parte la similitudine delle loro dimostrazioni in rapporto alle prove del loro maestro alessandrino. Basilio ha dedicato a questo problema uno scritto particolare: De Spiritu Sancto ad Amphilochium, nel quale giustifica la forma simmetrica della dossologia (Gloria al Padre e al Figlio e al Santo Spirito) impiegata correntemente con la formula asimmetrica dominante (Gloria al Padre, per il Figlio nel Santo Spirito) e presenta un insegnamento d’insieme sullo Spirito. La dottrina di Basilio è ugualmente completata da quanto dice nel terzo libro della sua opera Contro Eunomio, nel trattato Contra Sabellium, Arium et Anomoium e in alcune delle sue Lettere. Come tutti gli ortodossi, Basilio è stato accusato dagli eretici d’essere un innovatore perché riconosceva la divinità dello Spirito. Inoltre è stato violentemente accusato d’introdurre una nuova forma simmetrica di dossologia. Difendendosi da quest’accusa, Basilio è stato assolutamente sincero, dal momento che era perfettamente certo che la sua pneumatologia discendeva direttamente dalla tradizione e dalla vita della Chiesa: “Come potrei essere un innovatore, un creatore di nuove formule, dal momento che cito quali autori e campioni della Parola, nazioni intere, città, usi che risalgono prima di ogni memoria umana, uomini che sono stati pilastri della Chiesa e che sono stati illustrati per la loro conoscenza e la loro potenza spirituale?”[5]. Nel Nuovo Testamento, Basilio non trovò solo la formula battesimale trinitaria nella quale la personalità e la divinità dello Spirito erano liberamente significate – perché poste a fianco delle formule paoline che trattano sullo Spirito[6] –, trovò anche nomi come “paraclito, santo, unto, Signore, Dio” che testimoniavano la comunione[7] con Dio e le energie dello Spirito non convenienti che a Dio come, ad esempio, la conoscenza delle profondità divine[8]. Basilio non si accontenta della semplice citazione della Scrittura poiché anche i suoi avversari ne invocavano l’autorità. Ora, più che a qualsiasi epoca, s’imponeva la difesa d’una dottrina attraverso il richiamo alla tradizione. Precedentemente le discussioni dogmatiche erano limitate al Padre e al Figlio attorno ai quali esistevano abbondanti testimonianze scritturistiche. Quando l’interesse si concentrò sullo Spirito, le testimonianze bibliche erano insufficienti. Dopo Basilio tutta la tradizione della Chiesa, che ha uguale valore della Scrittura poiché ne esprime lo spirito[9], esplicita la divinità dello Spirito: “Non separate lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio; riverite la tradizione. È in questa maniera che il Signore ha insegnato, che gli apostoli hanno predicato, che i Padri hanno conservato e i martiri confermato”[10]. Tra i Padri, Basilio menziona il nome d’Ireneo, di Clemente d’Alessandria, d’Origene, di Gregorio il Taumaturgo e d’“Atenogene” come testimoni della tradizione kerigmatica conosciuta a riguardo della dottrina del Santo Spirito quale persona divina[11]. Comunque Basilio insiste maggiormente sulla tradizione dogmatica non scritta. Secondo la sua visione, che coincide in gran parte con il punto di vista dell’antica scuola alessandrina, gli apostoli e i Padri hanno conservato una parte della verità nascosta nei sacramenti e nei riti in generale: “Il dogma è una cosa, il kerygma un’altra. Se il primo è conservato nel silenzio, il secondo è proclamato”[12]. Il kerygma contenuto nelle Scritture e negli scritti dei Padri è trasmesso ai membri della Chiesa e a coloro che ne sono all’esterno attraverso la predicazione. Il dogma non contraddice il kerygma: ne dona l’interpretazione e un’intelligenza più profonda ma non è formulato. È un’esperienza vivente delle verità della fede nella vita generale e in quella sacramentale della Chiesa. Compreso in questo modo, il dogma non fa parte d’una tradizione segreta, nascosta alla gran massa dei fedeli poiché è la proprietà comune di tutti coloro che partecipano alla vita della Chiesa – anche se vi fosse una certa dissimulazione attraverso i secoli, dissimulazione accentuata dalla lettura segreta delle preghiere liturgiche e dall’erezione dell’iconostasi per nascondere la santa tavola. In ogni caso, le Scritture, l’insegnamento dei Padri, la confessione della fede, i sacramenti e il culto in generale, costituiscono parti legate tra loro delle quali ogni formulazione su uno specifico soggetto deve tenere conto; “noi dobbiamo essere battezzati e glorificare il Padre, il Figlio e il Santo Spirito, come lo crediamo”[13]. Per la prima volta, il culto d’adorazione che si svolge in un luogo difeso diviene un mezzo di difesa. Esistono due mezzi per condurci alla salvezza: la fede e il battesimo. Il primo è attestato dalla confessione che faceva il battezzato nella quale si unisce il Padre, il Figlio e il Santo Spirito[14] e che è giustamente l’antenato della dossologia trinitaria simmetrica[15]. Coloro che negano lo Spirito trasgrediscono naturalmente ogni confessione di fede perché ogni battezzato deve o assumere la fede intera o rinunciare al nome di cristiano[16]. Il secondo mezzo di salvezza, il battesimo, è ugualmente donato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo[17]. Il battesimo persegue due fini: la morte del corpo del peccato, compiuta con l’immersione e la ricezione della nuova vita suscitata dallo Spirito di vita[18]. Coloro che separano lo Spirito dal Padre e dal Figlio rendono, da una parte, il battesimo incompleto e, dall’altra, fanno della confessione di fede una realtà inadeguata[19]. È sicuramente impossibile essere battezzati allo stesso tempo nel nome di due esseri divini e d’un essere creato[20]. Da questi passi emerge chiaramente che Basilio attribuiva una grande importanza all’esperienza pneumatologica del cristiano. Quest’esperienza comincia con la partecipazione del cristiano al sacramento del battesimo. I bisogni spirituali dei cristiani esigono la divinità dello Spirito e la loro esperienza lo conferma. Se lo Spirito fosse una creatura, la dottrina della Trinità e la possibilità d’una deificazione dell’uomo sarebbero distrutti. Ne conseguirebbe l’affondamento di tutta la struttura della Chiesa. È perciò che Gregorio il Teologo esclama: “Se il Santo Spirito non è Dio che lo divenga e che in seguito mi deifichi come suo eguale!”[21].

3. Il doppio aspetto della dottrina del Santo Spirito Ogni realtà concernente Dio è irraggiungibile, è fuori dalla portata dello spirito umano. In effetti Dio partecipa ad una sfera d’esistenza nella quale l’uomo non può penetrare. Ogni conoscenza religiosa sarebbe stata impossibile senza averne avuto rivelazione. San Basilio rifiuta i principi fondamentali dell’insegnamento dei pneumatomachi e degli ariani, l’impossibilità naturale per Dio di entrare nella sfera umana, attraverso alcune distinzioni che giocheranno un importante ruolo nelle discussioni teologiche di dieci secoli più tardi. Se l’uomo, in quanto tale, non può entrare nel dominio divino, Dio può entrare nel dominio del mondo che è la sua creazione. Dio vi penetra attraverso la sua rivelazione, manifestazione della propria persona nel mondo, attraverso le sue energie. Se ignoriamo Dio nella sua inaccessibile essenza lo conosciamo attraverso le sue energie che discendono fino a noi[22]. Le energie sentite dal nostro senso spirituale, contribuiscono alla formazione d’una sorta di conoscenza empirica riguardo le ipostasi della Trinità. Così la dottrina dello Spirito Santo può rapportarsi sia alla sua esistenza eterna, sia alla sua attività nel mondo: nel primo caso, lo Spirito è situato a fianco del Padre e del Figlio; nel secondo è anche con gli uomini: “Quando consideriamo lo Spirito lo vediamo esaltato con il Padre e il Figlio, quando invochiamo la grazia comunicata ai suoi partecipanti, vediamo che lo Spirito Santo è in noi”[23]. Per queste ragioni le preposizioni sun (con) e en (in) sono intercambiabili; così le formule dossolgiche sono entrambe corrette: la simmetrica esprime il posto dello Spirito nella Trinità e l’asimmetrica esprime la sua attività nell’economia divina. Nella sua teologia sullo Spirito, san Basilio – come Atanasio nella sua teologia sul Figlio – parte da questo secondo aspetto. Dove possiamo situare lo Spirito? Gli eretici hanno seguito lo schema “ingenerato, generato, creato”. Ma san Basilio rifiuta tale schema affermando che tali categorie non si applicano allo Spirito poiché egli è lo “Spirito Santo”, un nome che esprime ogni cosa. Esiste una linea di separazione tra Dio e la creazione, e lo Spirito è in una delle due zone: “Nelle coppie di nomi Dio-creazione, signoria-schiavitù, energia santificante ed esseri santificati, da qual lato bisogna porre lo Spirito”[24]. È certamente impossibile a colui che santifica e a colui che ha bisogno d’essere santificato, a colui che insegna e a colui che viene istruito, a colui che rivela e a colui che ha bisogno di una rivelazione, avere un’identica natura[25]. La creazione è schiava, al punto che lo Spirito libera la personalità umana e la rende perfetta; non lo si può dunque concepire che di natura divina. La santificazione e la perfezione non può essere concepita attraverso dei mezzi creati. Nel movimento esicasta del XIV secolo incontriamo ulteriormente gli stessi argomenti, questa volta più sviluppati. Gli esicasti contestano la possibilità d’una rigenerazione e d’una deificazione dell’uomo attraverso mezzi creati, li attribuiscono all’energia increata e naturale del solo Spirito.

4. Esistenza eterna dello Spirito San Basilio, come molti altri Padri greci della stessa epoca, riconduce la teologia ad una triadologia e non sviluppa la triadologia come un prodotto del pensiero filosofico, ma come una verità empirica. Parte dalle ipostasi concrete, attive nel mondo, per raggiungere l’unità di Dio. Le ipostasi divine si manifestano in diverse maniere e in diversi luoghi ma sono apparse in particolari attività in maniera più totale; il Padre nella creazione, il Figlio nell’opera della rigenerazione e lo Spirito nella vita della Chiesa. Il Figlio e lo Spirito sono venuti nel mondo in un senso reale. Alcuni Padri, come Cirillo di Gerusalemme[26] e Gregorio il Teologo[27] ad esempio, parlano della venuta, o dell’incarnazione dello Spirito. Anche Basilio parla della discesa e della dimora nell’uomo dello Spirito anche se non usa lo stesso vocabolario. La causalità provoca in Dio la distinzione delle persone che occupano un determinato posto nella Trinità. Il Padre è ingenerato, il Figlio generato e lo Spirito procede[28]; i loro attributi distintivi corrispondenti sono la paternità, la filialità e la santificazione[29]. Ma dal momento che il termine gennasthai esprime globalmente un modo di derivazione in maniera comprensibile, non è la stessa cosa per quanto riguarda il termine ekporeuesthai poiché tale termine non descrive precisamente l’origine dello Spirito. È questa la ragione per cui san Basilio afferma che lo Spirito procede in maniera ineffabile[30] dal Padre; la processione designa la familiarità e preserva un modo d’esistenza inesprimibile. Tuttavia egli non dubita mai sulla personalità dello Spirito. In nessuna epoca i Padri, chiunque essi fossero, hanno dichiarato che lo Spirito procede anche dal Figlio. Certi passi di Cirillo d’Alessandria, parlando della derivazione dello Spirito dal Figlio, fanno allusione non alla causa ma alla sua missione; l’intera Trinità partecipa alla sua missione tramite un’energia comune poiché tutte le energie divine sono comuni all’insieme della Trinità. Il fatto che le due ipostasi derivino solo dal Padre crea l’impressione facilmente dissipabile della monarchia dell’ipostasi paterna. Ma le proprietà del Figlio e dello Spirito non sono certo ritenute inferiori a quelle del Padre; esse non sono effettivamente distinte che in rapporto alla causa che deve rimanere rigorosamente unica per evitare ogni specie di dualismo, ma esse non lo sono in rapporto alla natura increata. Le ipostasi non sono prima, seconda e terza; esse sono d’uguale valore – e non numerate –, sono designate dal loro santo nome, un solo Dio, Padre, un solo ingenerato, il Figlio, un solo Santo Spirito. Ogni genere di subordinazione conduce al politeismo[31]. Queste distinte ipostasi sono legate in tal maniera che alcuna può essere concepita senza le altre e che ciascuna presuppone le altre due. Esse costituiscono tre persone perfette, inseparabilmente unite: “Poiché dov’è presente il Santo Spirito là è anche il Cristo e dov’è il Cristo anche il Padre è presente”[32]. In tal modo che chiunque non crede nello Spirito non può certamente credere al Figlio e chi non crede al Figlio non può certamente credere in Dio Padre[33]. In che consiste l’unità delle ipostasi? Prima di tutto essa può consistere nella comune ousia. Secondo Aristotele, ousia può significare due cose: a) quant’è comune a tutti e non può essere percepito che dall’intelletto e b) l’esistenza individuale. In alcune sue lettere, san Basilio impiega due espressioni aristoteliche per definire l’ousia (nel primo senso) e l’ipostasi (ousia nel secondo senso)[34]. Di queste categorie non è completamente soddisfatto perché la logica aristotelica esige delle divisioni e delle classificazioni ch’egli rigetta assolutamente perché inapplicabili a Dio. A volte caratterizza le ipostasi come realtà aventi la stessa ousia, homoousios[35]. Egli è conforme al dogma niceno ma cerca d’integrare questa nozione nelle strutture della triadologia della scuola di Cappadocia nella quale ousia non si pone ad un livello più elevato rispetto alle persone, come se fosse una sorta di sorgente dalla quale le persone trarrebbero la loro origine. Il termine ousia, inoltre, infonde di primo acchito l’impressione d’una realtà materiale e creata, benché il suo uso in teologia ne abbia fatto divenire un termine particolare. La maniera con la quale san Basilio evita d’applicare il termine homoousios al Santo Spirito può spiegarsi considerando le sue esitazioni davanti al termine ousia, per le ragioni menzionate e per l’altra ragione che la stessa parola era utilizzata dai pneumatomachi per designare una subordinazione. San Basilio non si serve di tal termine se non quando è assolutamente indispensabile. I suoi principi teologici non gli permettevano d’insistere troppo sull’homoousios. Egli non vuole dare l’impressione che Dio consiste in questa o quell’ousia, perché è incomprensibile e non può essere definito. Non esplica l’homoousios identificando l’essenza e l’ipostasi poiché la persona si confonderebbe, ma distinguendo l’essenza dall’ipostasi, ciò che stabilisce la distinzione delle persone. Così, in quanto ousia, permane l’illimitata e incomprensibile visione di Dio. Per evitare ogni malinteso, san Basilio scarta deliberatamente il termine homoousios per quanto concerne il Santo Spirito, come farà ulteriormente il secondo concilio ecumenico. Secondo quest’ottica, la Trinità non è composta da una pluralità di ousia, ma è costituita da tre persone definite. Poiché le persone hanno il loro valore e la loro individuale dignità – uguale per tutte e tre – il Santo Spirito possiede lo stesso onore delle altre persone della Trinità, egli è homotimos. San Basilio è più a suo agio quando impiega i termini physis e theotês: “Il Padre, il Figlio e il Santo Spirito hanno la stessa natura e sono un solo Dio”[36]. Il Santo Spirito è “una natura divina e santa”[37]. Natura è il termine che meglio conviene alla persona perché non descrive la costituzione materiale d’una cosa ma caratterizza il modo d’esistenza. San Basilio non attribuisce allo Spirito il nome di Dio. Atanasio ha motivato questo rifiuto per la dispensazione dell’oikonomia e Gregorio il Teologo l’ha giustificato per ragioni di prudenza. Ma quest’ultimo a volte è rimasto turbato da tale riserva e gli ha apertamente chiesto fino a quando nasconderà la luce sotto il moggio[38]. Altri hanno considerato Basilio progressista per quanto riguarda il punto in oggetto mentre gli ariani lo ritenevano modernista per delle ragioni contrarie. Le opinioni secondo le quali san Basilio ha formulato il suo insegnamento trinitario, sia per ragioni d’opportunismo politico sia per simpatia per gli homeousiani, non sembrano rispondere alla situazione di fatto. Vi sono altre ragioni teologiche importanti. Nel sistema teologico di Basilio, troviamo Dio (= il Padre), Dio da Dio (= il Figlio) e Colui che procede da Dio (= lo Spirito). Non dubita che i tre siano Dio; ma se nomina con logica le tre persone divine, teme d’essere accusato di adottare tre dei perché sarebbe costretto a porli in un certo ordine progressivo: primo, secondo e terzo; egli teme inoltre di distruggere il carattere unico della casualità nella Trinità. Per questa ragione, preferisce dare alle tre persone i nomi che le distinguono: Padre, Figlio e Santo Spirito. Il nome del Santo Spirito significa parecchie cose, tra le altre quella ch’Egli è Dio e ciò rivela che egli accetta l’homoousios. Lo ha chiaramente dichiarato in conversazioni private da quanto ne afferma Gregorio il Teologo[39]. Inoltre quanto ha detto sullo Spirito era comunque più di quanto altri facevano. Infatti, altri denominavano il Santo Spirito senza impiegare la formula syn to pneumati nella dossologia. Ma se è molto importante chiamare Dio il Santo Spirito, in certe condizioni anche l’uomo viene chiamato Dio! Ecco perché è molto più importante rivolgerGli preghiere coma ad un Dio. L’unità delle ipostasi della triade è espressa felicemente dall’identificazione della potenza, dell’energia e della volontà. Esiste una corrente indivisa d’energia tra il Padre, il Figlio e lo Spirito: “Così la maniera di conoscere Dio proviene dall’unico Spirito attraverso il Figlio e va all’unico Padre e, inversamente, la naturale bontà, la santificazione e l’ufficio reale vengono dal Padre attraverso il Figlio unigenito verso lo Spirito”[40]. L’attività della Trinità è comune benché certe energie paiano a volte separarsi a causa delle ipostasi. Nella creazione, ad esempio, il Padre è la causa iniziale di tutto quanto è creato nel mondo, il Figlio la causa creatrice e lo Spirito la causa perfezionatrice, ma la sorgente è unica. Senza dubbio nessuna ipostasi ha attività imperfetta in modo da rendere necessaria l’attività delle altre. Si tratta d’una volontà unificata; ciascuna ipostasi ha la volontà d’agire in accordo con le altre[41]. Soprattutto l’unità delle ipostasi è espressa dalla loro comune sorgente, il Padre, com’è stato precedentemente detto. San Basilio caratterizza lo Spirito con una perifrasi, come immagine del Figlio[42], perché in Lui e attraverso di Lui gli uomini vedono il Figlio. Le ipostasi si fanno ciascuna rivelatrice delle altre agli uomini; lo Spirito riflette in Se stesso l’immagine del Figlio, il Figlio quella del Padre. Così l’itinerario della conoscenza di Dio parte dallo Spirito, attraverso il Figlio per arrivare al Padre. Ma nella Trinità non esiste un’immagine dello Spirito che lo rende meno conosciuto rispetto alle altre ipostasi. Il Figlio ha parlato del Padre ed è stato manifestato dallo Spirito che ha parlato nel passato ai profeti come oggi parla alla Chiesa. Nelle scritture troviamo abbondanti testimonianze su queste due persone, il Padre e il Figlio. Inoltre, la loro opera è oggettiva – la creazione del mondo e l’istituzione delle condizioni della rigenerazione dell’uomo – e cade immediatamente sotto i sensi. Quanto allo Spirito la Scrittura lo menziona solo occasionalmente. Senza dubbio egli abita nella Chiesa e si fa conoscere attraverso le sue energie ma l’esperienza spirituale acquisita dagli illuminati è spesso poco precisa e non permette una completa comprensione della sua personalità. Per questa ragione i Padri hanno evitato di precisare le sue origini. Pure il termine di “processione”, come abbiamo detto altrove, non dissipa la nostra ignoranza del modo della sua esistenza, ignoranza che san Basilio considera d’altronde come senza importanza[43]. È la ragione per cui, interpretando l’origine del Santo Spirito in termini non biblici, abbiamo proceduto con prudenza: “Poiché è tipico dell’uomo pio non dire nulla sullo Spirito Santo su ciò che le scritture tacciono e questo perché è nostra convinzione che l’esperienza e la comprensione a suo riguardo risiedono per noi nel mondo futuro”[44]. Era ugualmente prudente quando caratterizzava lo Spirito come homoousios e come Dio, come abbiamo già detto. La Chiesa ha sempre saputo e ha sempre concepito quest’attitudine di prudenza. Benché abbia composto degli inni allo Spirito non ha composto preghiere che gli fossero rivolte ad eccezione di una sola. Nelle sue preghiere a Dio essa chiama in modo generico lo Spirito Santo utilizzando le espressioni: coeterno, di identico valore, di uguale gloria ed homoousios. L’innologia della Chiesa riflette l’insegnamento di Gregorio il Teologo che, nella sua maniera di presentare la divinità dello Spirito era più ardito mentre le preghiere della Pentecoste riflettono l’insegnamento di Basilio il Grande.

5. L’economia dello Spirito Le attività dello Spirito, ineffabili nella loro ampiezza ed innumerevoli[45], si rapportano all’insegnamento, all’adattamento filiale e, in particolare, alla ripartizione dei carismi; nessun carisma è accordato alla creatura senza l’azione dello Spirito[46]. San Basilio riassume i loro frutti nei termini di confermazione, santificazione e perfezione. Il santo così definisce l’attività delle ipostasi nella creazione delle potenze angeliche: “Di conseguenza il numero tre viene allo spirito: il Signore ordina il Logos che crea e lo Spirito che consolida. Ora, cos’è il consolidare se non perfezionare nella santità, questa parola designa sicuramente il fatto d’essere fermo, immutabile e solidamente fissato nel bene. Non esiste santificazione senza lo Spirito”[47]. Queste energie si sono manifestate da tutta l’eternità: prima del mondo invisibile e al di qua del tempo. Esse ricoprono ogni epoca della storia dell’essere capace di ragione. Basilio sembra escludere la creatura priva di ragione dall’attività dello Spirito proprio perché solo gli esseri dotati di ragione e di personalità hanno il bisogno e la capacità di perfezionarsi elevandosi come personalità. È significativo che san Basilio nel passo della sua seconda omelia sull’Examerone, dov’è obbligato ad interpretare il testo “E lo Spirito di Dio si muoveva sulle acque”, non presenta un’interpretazione in base a ciò che crede ma si richiama all’unanime autorità per mostrare che questa frase biblica significa la vivificazione della natura dell’acqua attraverso lo Spirito. Egli ha reso perfette le potenze angeliche con la santificazione, al momento della creazione del mondo, nel corso del progressivo rinnovamento dell’umanità, egli ha donato uno dei suoi più importanti carismi, la profezia[48]; al momento del vero rinnovamento era presente e attivo con Cristo[49]. Nella vita della Chiesa crea il suo adornamento[50] e al momento dell’ultimo giudizio sarà con il Giudice[51]. Da un certo punto di vista, l’attività per eccellenza dello Spirito è la continua e attiva conservazione della rivelazione e la sua ripartizione individuale agli esseri particolari. Lo Spirito abita nella Chiesa ed è simultaneamente posseduto dall’insieme dei suoi membri come da ciascuno in particolare. È il legame che collega i suoi membri nel tempo e nello spazio[52]. I ministri della Chiesa sono illuminati per divenire buoni pastori e i fedeli sono fortificati per divenire buon gregge. Nei due casi l’attività dello Spirito si rapporta alla personalità di colui che ne è il portatore. L’attività dello Spirito è ben più personale nella vita privata del credente. Disceso su tutti i credenti egli tocca solo colui che è puro di cuore come il sole non tocca che l’occhio che gode buona salute[53]. Su questo punto ci si rende conto delle tendenze ascetiche di Basilio. L’illuminazione dello Spirito tocca prima l’anima e il cuore, poi l’intelletto. La sua grazia, ineffabilmente unita alla personalità e all’esistenza umana è una potenza di permanente rigenerazione in loro e li rende spirituali e portatori dello Spirito[54]. Così lo Spirito può essere designato come l’eidos[55], che dona una forma all’uomo naturale, lo libera dalla schiavitù dalle potenze e dalle necessità naturali e ne fa una personalità libera con una metamorfosi piena di forza[56]. L’uomo spirituale è reso conforme all’immagine di Dio, ne è in qualche sorta l’immagine dello Spirito[57] che, dunque, non trovandosi nella Trinità appare nell’umanità. Dimorando nei santi, lo Spirito è da loro visto misticamente; l’ignoranza originale è così superata esistenzialmente. Non manifesta ad essi solo se stesso, manifesta anche la gloria del Figlio e la visione archetipa. “Poiché noi vediamo la bellezza dell’immagine invisibile di Dio, dono allo spettacolo soprannaturale degli archetipi, vi troviamo anche inseparabilmente unito a Dio, lo Spirito di conoscenza che offre in se stesso il potere di vedere l’immagine agli amanti della verità… Egli manifesta anche in se la gloria del Figlio e offre la conoscenza di Dio ai veri adoratori”[58]. Il fine del pellegrinaggio dell’uomo spirituale è la visione del Dio triadico. Questo vuol dire che chi ha già raggiunto un tal grado di perfezione può abitare con Dio, essergli simile e divenire Dio[59]. Attraverso l’attività del Santo Spirito l’umanità è collegata alla Trinità.

P. Christou, Theologika Meletemata, 2 Grammateia tou IV aionos,Thessaloniki, 1975

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