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IL PARADISO COME LUOGO E COME STATO

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IL PARADISO COME LUOGO E COME STATO

Novembre 2012

Nel Nuovo Testamento la parola “paradiso” compare 276 volte e da quello che riferisce san Paolo, in merito al fatto che sarebbe stato “rapito nel terzo cielo” (2 Cor 12, 1-9), si deduce che il paradiso sia costituito da tre cieli. Posto che il terzo cielo, di cui non viene rivelata la collocazione, sia il luogo in cui abita Dio e in cui esistono “molti posti” che oltre che essere destinati ai santi dell’Antico Testamento Gesù ha promesso di voler preparare per i suoi veri seguaci (Gv 14,2), il primo cielo dovrebbe corrispondere probabilmente al firmamento ancora interno alla realtà o all’orbita terrestri, entro cui si formano le nuvole e volano gli uccelli, mentre il secondo cielo dovrebbe corrispondere all’intero universo extraterrestre regolato da leggi fisiche diverse da quelle che valgono per la terra, ovvero lo spazio interstellare e interplanetario ancora in gran parte sconosciuto (Gn 1, 14-18).
Ora, il terzo cielo o luogo dove abita Dio nel suo massimo splendore è anche il luogo in cui ha per cosí dire sede la vita eterna della quale potranno godere tutti coloro che, con la parola e con le opere, avranno creduto in Cristo (Gv 3, 16). L’apostolo Giovanni descrive in qualche modo la città di Dio che gli apparve in una visione (Apocalisse 21, 10-27) e parla di “nuovi cieli e nuova terra” in cui tutto sarebbe stato pieno della presenza stessa e della gloria di Dio (Apocalisse 21, 11) e dove quindi non ci sarebbe più stato né il sole né la luna né la notte ma una luce eterna quale quella di Dio (Apocalisse 22, 5). Il paradiso, dunque, in aderenza a quanto chiaramente si legge in questi testi, non è nulla di metaforico, nulla di puramente simbolico, nulla di vagamente spirituale, ma una nuova e concreta realtà fisica, dotata di un nuovo “spazio” e di una “temporalità” non più coincidente con quella da noi conosciuta, e infine di leggi psico-biologiche potenziate o integrate (o, al limite, semplificate) rispetto a quelle terrene. Dopo gli ultimi tempi, quelli che precederanno e preannunceranno la fine del mondo, i cieli e la terra attuali si dissolveranno per essere sostituiti dai nuovi cieli e dalla nuova terra sotto i quali e sulla quale abiterà la nuova e rigenerata umanità tra le mura della nuova Gerusalemme, la città di Dio, una città senza confini e solo delimitata da mura funzionali a tenerla separata dalla città del diavolo o inferno in cui saranno precipitati i dannati. Questa città avrà porte di perla e strade d’oro come scrive l’apostolo Giovanni e sarà proprio un luogo fisico ben preciso in cui dimoreranno i corpi fisici glorificati, a cominciare da quello di nostro Signore Gesù Cristo e di sua Madre Maria, di tutti coloro che riceveranno in premio la vita eterna.
Ovviamente sia il concetto di un “cielo” che sarebbe “tra le nuvole” sia quello per cui noi saremo “spiriti fluttuanti nel cielo” non ha alcun fondamento biblico. Il cielo, il paradiso celeste, che i credenti potranno sperimentare sarà invece un nuovo, bellissimo e perfetto pianeta, dove non ci sarà più spazio per il peccato, per il male, per le malattie, per le sofferenze e per la morte. E’ probabile che la nuova terra di Dio sarà molto simile alla nostra terra attuale oppure una nuova creazione del nostro attuale pianeta su cui però non incomberà più la maledizione del peccato e di cui saranno conservate e valorizzate solo le realtà umane e spirituali che saranno state gradite a Dio
Nella mentalità ebraica, la parola “cieli” denotava sia lo spazio cosmico che la dimensione propria della dimora divina. Perciò, quando Giovanni in Apocalisse 21, 1, parla di “nuovi cieli”, probabilmente vuole significare che l’intero universo sarà ricreato. Certo, per quanto la descrizione giovannea sia piuttosto eloquente e significativa, la realtà paradisiaca resta molto al di sopra delle umane capacità di descrizione e immaginazione (1 Cor 2, 9). Ma da tale descrizione emerge come dato certo il fatto che la realtà paradisiaca – che subentrerà allorquando, come scrive san Pietro nella sua seconda lettera al capitolo 3, «i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta» –, è un luogo e non solo uno stato spirituale, stato spirituale che sarebbe peraltro non solo soggettivamente impensabile ma anche oggettivamente insussistente senza una qualche spazialità e una qualche corporeità; che in questo luogo non ci saranno più lacrime, dolore e morte, e che infine la cosa più grandiosa che gli esseri umani potranno gustare in esso sarà la possibilità di essere “faccia a faccia con Dio” e di vivere per l’eternità in compagnia dell’Agnello di Dio che ci ha amati da sempre con e per il Padre immolandosi per la nostra salvezza (Apocalisse 20, 6; Apocalisse 21, 4; 1 Giovanni 3, 2).
Pertanto, il credere che esista una casa celeste nel paradiso, una casa vera, reale, fisica, materiale, non astratta e meramente “spirituale”, si basa su concetti biblici e più segnatamente neotestamentari assolutamente inequivocabili e irriducibili ad interpretazioni cosí puramente spiritualistiche da implicare di fatto una dissoluzione della nostra vita corporea, psichica, sensoriale, della nostra stessa identità personale, nel nulla. Che noi vivremo, con questo corpo e con questa anima che ci ritroviamo adesso in questo mondo, sia pure sapientemente rinnovati dalla nuova creazione di Dio, è una promessa esplicita di Gesù. Il paradiso, di cui egli stesso ha parlato, è certamente un posto vero, non puramente simbolico, anche perché se non fosse un posto, un luogo, una realtà dotati di una loro concreta e specifica materialità, non si capirebbe più il senso della risurrezione di Cristo, il suo apparire a Maddalena, la sua presenza tra gli apostoli chiusi in una casa e una presenza che Egli voleva talmente affermare nella sua non illusorietà e nella sua effettiva veridicità da chiedere esplicitamente a Tommaso di toccare il suo corpo e di verificare che le sue ferite fossero proprio quelle riportate a causa della crocifissione.
Il Signore ha detto al malfattore pentito: oggi stesso sarai con me in paradiso, e non gli ha certo detto cosí semplicemente per dargli ad intendere che da lí a poco sarebbe cambiata solo la sua condizione spirituale! Il Signore, che appare da risorto agli apostoli sulla riva del lago, chiede di voler mangiare del pesce con loro, per fare loro capire che chi risorge, come lui e con lui, non è “un fantasma”, ovvero uno spettro, un’immagine spirituale priva di consistenza vitale, ma è una persona fisica vera benché tutte le sue qualità fisico-corporee, psichiche e mentali, sussistano ormai “glorificate” ovvero esaltate ulteriormente rispetto alla loro forma terrena.
Le promesse di Gesù devono essere interpretate per quello che sono, ovvero nel loro estremo realismo, e non per quello che vorrebbe un certo sapere teologico, tendenzialmente intellettualistico e apparentemente umile ma sostanzialmente incredulo o dubbioso, che è sempre tentato di trasformare le cose più semplici ed elementari della Parola di Dio in fumisterie metafisiche assolutamente irrealistiche e inattendibili. Gesù non ci ha chiesto di servirlo con fedeltà e zelo per niente, per illuderci circa una vita futura veramente e sensibilmente diversa da quella attuale. Avere paura di sostenere ed affermare apertamente l’esistenza fisica, corporea, materiale del paradiso che ci attende, significa semplicemente dimostrare di non credere sul serio né nella promessa di Cristo né in Cristo stesso.
Ecco perché vale davvero la pena di coltivare quaggiù una fede quanto più possibile coerente e solerte secondo le esortazioni della “Lettera agli ebrei”: «Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone. Non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore» (10, 19-25). Ecco perché faremmo bene quaggiù a non far finta di non capire e ad eseguire i veri comandi di Dio: perché il mondo di là da venire ma che è già in mezzo a noi non è un mondo ideale, immaginario, irreale, immaginario, metaforico, simbolico, incorporeo, astratto, spiritualmente evanescente, ma è un mondo di perfetta spiritualità in quanto tutte le esigenze del corpo, della psiche, della carne potranno essere finalmente e gioiosamente soddisfatte nei modi originari decretati dal Padre celeste non per l’infelicità ma per la felicità più piena e abbondante possibile delle sue creature.
Né, d’altra parte, si dovrà credere nel paradiso solo in via scaramantica. Come dire: conviene crederci perché non si sa mai…Se non si è capaci di amare con tutte le forze gli insegnamenti di Gesù, di seguirne con tutto il cuore l’esempio, addossandosi le proprie croci per amore e non per semplice rassegnazione, è impossibile credere realmente in lui e nelle sue promesse tra cui quella relativa alla nostra eterna felicità in un luogo delizioso perché perennemente e totalmente inondato della luce di Dio. San Paolo incoraggiò i Corinzi a sperare in una loro dimora celeste e quindi ad avere radicalmente fede in Cristo per dare loro la necessaria prospettiva in cui fosse loro possibile sopportare difficoltà, amarezze e delusioni di questa vita (2 Cor 5, 1-4): «Perché la nostra momentanea, leggera afflizione», egli spiega, «ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne» (2 Cor 4, 17-18).
Certo, la via o la porta che introduce nel paradiso è “stretta”, proprio nel senso delle ristrettezze esistenziali che la fede in Gesù viene implicando, proprio nel senso di una lotta necessaria da intraprendere cristianamente ogni giorno contro ogni forma e ogni genere di peccato, come la smania di possesso, di ricchezza, di grandezza, o contro il vizio della lussuria e di ogni perversione che vi sia connessa. Su quella via si può procedere e da quella porta si potrà passare solo credendo in Cristo e implorandone sinceramente e costantemente il perdono dei peccati non solamente per mezzo di un pentimento interiore e della riconciliazione sacramentale ma anche e soprattutto per mezzo di un reiterato sforzo di compiere opere buone verso i fratelli nel comune vincolo della fede e dell’amore a Dio.
E’ importante chiarire che, se il paradiso cristiano non è un paradiso “materialistico” come quello islamico e musulmano, esso non è neppure cosí immateriale ed etereo come immaginava Dante Alighieri, il quale peraltro parlava dell’inferno e del purgatorio come di realtà fisiche concrete. Da quali specifici passaggi biblici i cristiani in genere si siano sentiti autorizzati nel corso dei secoli a ritenere rispettivamente l’inferno e il purgatorio anche dei luoghi fisici di sofferenza e di purificazione e a considerare invece il paradiso prevalentemente o esclusivamente come una condizione spirituale in cui i sensi e la stessa sensibilità intellettiva e morale dei risorti in Cristo tenderebbero a non sussistere più come tali perché ormai assorbiti e annullati in una visione estatica puramente spirituale di Dio e non invece ad essere semplicemente e sia pure profondamente cambiati e rinnovati nella e dalla gloriosa trasfigurazione paradisiaca cui sono destinati gli stessi risorti in Cristo, è veramente un mistero.
Innanzitutto, non si capisce perché inferno e purgatorio possano essere riconosciuti nella loro condizione di luoghi oltre che di spirito, mentre il paradiso dovrebbe sussistere solo in termini di stato spirituale. Ma, in realtà, ancora oggi si tende ad equivocare, tra i cattolici, sul senso di quella incorporeità o immaterialità dell’essere stesso di Dio e sul senso eminentemente spirituale della risurrezione e quindi della nostra vita eterna in cielo. Dio non è incorporeo e immateriale nel senso che non si possa manifestare anche come materia ma nel senso che, pur potendo assumere una forma umana e quindi anche biologica e materiale come paradigmaticamente è accaduto nella persona storica di Gesù, Egli non può essere ridotto a materia in quanto la materia per essere ha bisogno del suo Spirito, cosí come il principio vitale di tutto ciò che è materia o ha forma materiale è un principio di natura spirituale, e cosí come infine è o deve essere di natura eminentemente spirituale il fine o lo scopo di tutte le nostre attività fisiche e materiali, quali sono quelle che si riferiscono ai cinque sensi e all’attività intellettiva e contemplativa. Non si comprende perché il Signore, che ci ha creato con cinque sensi, nella nostra seconda, ultima e vera vita dovrebbe privarci di essi. E’ sensato pensare che quegli stessi uomini che hanno lottato per tutta la vita terrena contro il peccato ma nel senso di voler liberare i loro stessi organi di senso dalla zavorra del peccato, una volta giunti in paradiso si scoprano mutilati e non semmai potenziati rispetto a quei doni che, anche in termini fisico-sensoriali, avevano potuto sperimentare nel mondo terreno?
Ma Gesù risorto e trasfigurato è o non è una persona che parla, che ragiona regolarmente, che pur essendo ormai “puro spirito” è tuttavia ancora presente “in carne ed ossa” e capace anzi di rivendicare la sua corporeità davanti allo sguardo turbato e commosso di Tommaso, che è capace di mangiare e gustare un pezzo di pesce arrostito per far capire tra l’altro che i risorti in Cristo possano ancora mangiare, che ha gli stessi sentimenti di amore verso tutti coloro che lo avevano seguito (e lo avrebbero seguito anche successivamente) sia pure in una dimensione umana ora letteralmente impregnata di potenza e gloria divine? Questo Cristo è lo stesso che oggi e per l’eternità dimora in paradiso. Lo stesso ragionamento vale per la sua santissima Madre e per tutti i beati dei nuovi cieli e della nuova terra di Dio. E’ vero o non è vero tutto questo? E se è vero perché, nel nome di una malintesa spiritualità, si continua a parlare ambiguamente del cielo, del paradiso, come di una bellissima e meravigliosa condizione di vita ma di natura puramente spirituale?
Certo che la vita dei risorti sarà una vita eminentemente spirituale! Ma nel senso che essi sono “corpi spirituali o pneumatici”, come dice san Paolo, e non più “corpi carnali” abituati sulla terra ad essere soddisfatti in modo spesso carnale per l’appunto ovvero in modo peccaminoso oppure parziale oppure imperfetto; non certo nel senso che adesso la vista o visione contemplativa di Dio non possa avere più nulla di fisico, o che il banchetto celeste con “i cibi succulenti e i vini raffinati”, di cui parla la bibbia e a cui si ripromise di partecipare Gesù stesso poco prima di essere crocifisso, debba essere inteso in senso puramente simbolico. Quel che non si vuole capire, forse anche o proprio per mancanza di fede, è che la gioia del paradiso, promessa da Cristo, è una gioia piena, integrale, e che la felicità della vita eterna che lí sarà concessa è una felicità da intendersi come godimento dell’anima e del corpo, dello spirito e dei sensi, naturalmente all’interno di un mondo regolato dalla perfetta giustizia di Dio secondo la quale tale godimento non possa più degenerare negli eccessi, negli abusi, nelle deformazioni e nei vizi propri di una esistenza puramente terrena.
Si deve poi precisare che tutti in cielo saranno felici ma ognuno lo sarà in modo e in grado diversi, a seconda dei meriti che a ciascuno Dio vorrà riconoscere in base alle opere compiute sulla terra. E, siccome sulla questione in oggetto si continua oggi a polemizzare, sia all’interno della Chiesa (vedi, ad esempio, i seguaci di monsignor Lefebvre) sia all’interno di taluni ambienti intellettuali laici (vedi, ad esempio, il professor Odifreddi), nei confronti di papa Giovanni Paolo II, reo secondo costoro di aver negato il paradiso come luogo per affermarlo come semplice stato spirituale, è forse opportuno ricordare le parole del pontefice polacco: «Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell’Antico Testamento emerge dalle vicenda di Enoc (cfr Gn 5, 24) e di Elia (cfr 2 Re 2, 11). Il cielo diventa cosí figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5, 12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6, 20; cfr 19, 21)» (G. P. II, Udienza Generale del 21 luglio 1999).
E’ anche vero che lo stesso pontefice, parlando dell’inferno, afferma che esso «sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia» (Udienza Generale del 28 luglio 1999), ma l’espressione “più che un luogo” non può essere interpretata come negazione del fatto che l’inferno sia anche un luogo, significando essa semplicemente che, per quanto riguarda l’inferno, deve preoccupare non tanto il luogo in cui si sarà costretti a scontare per l’eternità la propria condanna quanto la condizione spirituale di assoluta lontananza da Dio. Che, mi pare, è una posizione del tutto condivisibile e legittima.

IL DOLORE INNOCENTE NEL PENSIERO ORTODOSSO. ABISSO E MISTERO

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IL DOLORE INNOCENTE NEL PENSIERO ORTODOSSO. ABISSO E MISTERO

Autore: N. Valentini

Tema: Ortodossi, Teologia
Area: EUROPA
Nazione: Russia
Riferimento: Regno-att. n.8, 2005, p.270

Il grido di Giobbe dal profondo della sofferenza, il grido del povero che invoca, il grido di Gesù sulla croce. L’approccio del pensiero ortodosso russo (Dostoevskij, Bulgakov, Berdjaev, Šestov, Florenskij) al problema del dolore, in particolare di quello innocente, non s’esaurisce nell’indagine razionale, ma privilegia la componente esistenziale, di abbandono al mistero più profondo, che proprio nel grido trova la sua espressione più vera, e nell’apparire di Dio la risposta.

IL DOLORE INNOCENTE NEL PENSIERO ORTODOSSO
Abisso e mistero
interrogazione radicale intorno al senso del dolore innocente, della sofferenza, della malattia, della morte, è l’incontro con il grande enigma dell’esistenza umana, un faccia a faccia con il mistero indeducibile che quanto più si tenta d’afferrare tanto più sfugge alla presa. Eppure nell’esperienza del patire sembra celarsi la possibilità di un dischiudimento della stessa coscienza umana verso la trascendenza, una percezione metafisica che, mentre pare precludere ogni apertura di senso, lo fa sorgere e lo rende presente.1

Il dolore nella tradizione
cristiana ortodossa
La spiritualità russa e il pensiero religioso che da essa ha attinto la sua linfa vitale si sono lasciati attraversare da questo enigma della sofferenza e del male, mostrando l’insufficienza delle soluzioni umane.2 Allo stesso tempo questo pensiero ha assunto tale enigma all’interno di un’esperienza veritativa, rendendo così possibile la piena autocoscienza dell’umano nella sua finitezza, ma anche una creaturale apertura alla trascendenza intesa innanzitutto come relazionalità donante: «L’intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell’uomo. Soffro, quindi sono. Questo è il senso più profondo del cogito di Descartes. La sofferenza è legata all’esistenza stessa della persona e della coscienza personale».3 Il disvelamento di questo mistero è intimamente congiunto alla profonda compassione con coloro che soffrono: «Dostoevskij vedeva nella sofferenza la sola causa della nascita della coscienza».4
In effetti, come avremo modo di mostrare, la sofferenza è uno dei temi fondamentali di Dostoevskij, e in molte opere egli ne ha offerto un confronto esistenziale impareggiabile, facendone il fulcro delle sue meditazioni più profonde. Vissuta spesso come castigo ed espiazione, la sofferenza, senza nulla perdere del suo tormento, acquista un potere di lavacro e di riscatto; l’unica purificazione di cui l’umanità possa disporre. Di questa autocoscienza la cultura spirituale della slavia ortodossa sembra avere, sin dalle origini, una profonda consapevolezza.
Come narra la celebre Cronaca di Nestor,5 già dal primo periodo della cristianizzazione degli slavi orientali, la sofferenza assume un rilievo del tutto particolare: i primi santi canonizzati nel regno di Kiev furono i due principi Boris e Gleb (uccisi dal loro fratello maggiore Svjatopolk nel 1015, per impadronirsi del trono vacante), canonizzati nel 1020, prima ancora del loro padre Vladimir e della loro nonna, santa Olga. Molto significativamente, i due principi non furono canonizzati come «martiri», bensì come «strastoterpcy», cioè come coloro «che hanno sofferto una passione».
Attraverso questo modello prendono progressivamente forma, fino a consolidarsi, un tipo e un ideale di santità propriamente russi, forse la tipologia più cara alla tradizione russa, e con la quale il popolo stesso finirà sempre più per identificarsi. La sofferenza dei due primi martiri custodisce i tratti fondamentali di una vera sofferenza «cristiana», proprio in quanto si caratterizza come «cristiforme» nella sua assoluta innocenza. La santità di uno strastoterpec infatti non è di tipo eroico, quanto piuttosto ascetico, ove la persuasione del cammino implica il portare sulle proprie spalle il peso della passione, con grande fiducia in Dio e con un atteggiamento interiore di perdono nella «indulgenza del misericordioso Iddio verso il peccatore indegno che si pente e viene folgorato dalla sua misericordia».6
La profonda persuasione spirituale dell’ortodossia, alla luce di questa dimensione originaria, resta quella che chi partecipa alla sofferenza di Cristo partecipa già alla sua gloria, e soltanto così potrà essere considerato degno della risurrezione. Ogni innocente che muore porta nella sua innocenza i peccati del mondo e in questo è simile a Cristo, è unito a Cristo in un modo misterioso. È interessante notare come il popolo slavo-ortodosso, che era appena stato battezzato, scopra una sua via di santità nella sofferenza. Questa via manifesta essenzialmente il paradosso della croce: segno di sofferenza e di sacrificio, ma anche segno della salvezza e manifestazione della gloria di Dio. Un tratto che diventerà peculiare in tutta l’esperienza teologica del popolo russo, che ama e preferisce quasi istintivamente identificarsi con il Cristo umiliato, mite, crocifisso. La santa Russia non ha mai nascosto il suo amore per il Cristo sofferente: «Forse l’unico amore del popolo russo è Cristo, esso ama la sua figura a modo suo, cioè fino alla sofferenza».7
Come ha osservato Olivier Clément, nella Chiesa russa, malgrado i peccati dei suoi figli, esiste come un’elezione del sangue;8 la sofferenza, per usare l’espressione del poeta Nekrassov, «vi si riversa a grandi fiotti, ancora più abbondanti di quelli del Volga nella stagione primaverile». A causa della storia e del tipo di terra che abita, il russo è, come «per natura», abituato a soffrire, e il cristianesimo non fa altro che mostrare la via di trasfigurazione di questa virtù naturale.9
Difatti la storia del popolo russo è una via dolorosa, costellata di eventi sanguinosi. Dagli strastoterpcy uccisi all’alba della Chiesa russa dell’XI secolo, fino a tutti i cristiani perseguitati nel XX secolo, è la stessa immagine della sofferenza innocente che percorre le vie della santità russa. Come è stato colto con estrema lucidità e consapevolezza dal grande pensatore russo Pavel Florenskij, matematico, filosofo, teologo e sacerdote ortodosso, vittima delle atrocità staliniane, pochi giorni prima di essere fucilato: «Il destino della grandezza è la sofferenza, quella causata dal mondo esterno e la sofferenza interiore. Così è stato, così è e così sarà. Perché sia così è assolutamente chiaro: c’è una sorta di ritardo della coscienza rispetto alla grandezza e dell’ »io » rispetto alla sua propria grandezza … È chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se non pagandolo con sofferenza e persecuzione. E tanto più disinteressato è il dono, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma fondamentale (…) Per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue».10
Appare fin troppo evidente che la «grandezza» alla quale si fa riferimento allude essenzialmente all’esperienza del dono «fino alla fine», sino alla croce, lungo il cammino di santità. In modo analogo, in tempi più recenti si potrebbe pensare alla figura del pope Alexander Men’ (ucciso nel 1990), che s’inserisce pienamente nella medesima linea di sofferenza e santità; non a caso anche il suo martirio ha molteplici elementi di consonanza con quello dei primi santi riconosciuti dalla Chiesa russa.11
Il pittore Nesterov, nel suo celebre quadro Il Cristo e la santa Russia, ha colto in modo impareggiabile questo profondo sentimento religioso dell’ortodossia russa, in esso infatti si vede il Cristo circondato da mendicanti, sofferenti, infermi e piccoli di questo mondo in un atteggiamento naturale di contemplazione mistica, compassione, invocazione e lode. Giustamente anche Alexander Solženicyn ha più volte sottolineato che «la letteratura russa si è sempre rivolta a quelli che soffrono», essa segue il Cristo che compatisce, guarisce e consola.
All’interno della spiritualità slavo-ortodossa, sul modello di questi santi «che hanno sofferto la passione», la sofferenza viene intesa originariamente come il momento in cui si può essere giudicati degni di vivere la stessa passione di Cristo, la stessa agonia nel Getsemani e il suo abbandono sulla croce.

La croce della kenosi
e della gloria
Di fronte alla croce la parola viene meno. «La croce di Cristo è al di là di ogni parola» (san Gregorio Nazianzeno), in essa trova compimento la teologia apofatica e mistica come esperienza dell’amore folle di Dio12 («Mentre i giudei chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza [follia] per i pagani»; 1Cor 1,18.23).
Come è stato colto con acutezza dal vescovo Filarete, metropolita di Mosca, sulla croce si è manifestato «l’amore del Padre che crocifigge, l’amore del Figlio che viene crocifisso, l’amore dello Spirito, che trionfa per la potenza della croce. Tanto Dio ha amato il mondo! Ecco cristiano il principio, il mezzo e il fine della croce di Cristo: tutto e solo l’amore di Dio».13 La croce non è l’armonico comporre, né tanto meno il caotico confondere, ma il luogo supremo della storia trinitaria di Dio, poiché nella croce eretta sul Golgota si è manifestato il cuore eterno della Trinità. Fulcro dell’evento pasquale del «Venerdì santo storico» e non solo del «Venerdì santo speculativo» (Hegel), in essa è racchiuso il fondamento ontologico trinitario che dischiude il cammino del Figlio nel suo consegnarsi fino alla morte. Una «consegna», quella di Cristo, che dal tempo storico entra in quello escatologico, entra all’interno della vita di Dio, per riapparire e riconsegnarsi come il Risorto, il Vivente, e in quanto tale il vero Presente. Il cuore dell’esperienza spirituale cristiana, che il simbolo della croce testimonia, è in fondo l’incontro con il Vivente al quale scelgo di dedicare la mia vita.
Nella divina liturgia la croce è la realtà del sacrificio (della kenosi), l’offrirsi al Figlio «spezzato» e «versato», nel diluvio della sua misericordia e del suo amore infinito, ma anche il simbolo reale della salvezza. Croce come paradosso e antinomia: sacrificio e salvezza; morte e vita; impotenza e forza di Dio: «La liturgia del sacrificio di Cristo (che ha il suo compimento sulla croce) costituisce il cuore della nostra vita e della nostra autocoscienza. Essa è ciò che dà forma alla nostra vita. Trasfigura e santifica il visibile e il privo di significato. Nella liturgia (contemplando il mistero della croce), viviamo l’inconfusa pericoresi dell’increato e del creato, della vita e della morte, del mistero e della logica, del miracolo e della legge, della libertà e della natura. (…) La vita nella divina liturgia è annichilimento cosciente e integrale. Perciò è anche abbraccio di un mistero che ci supera. È fatica e riposo. È morte e vita…».14
La croce (nella sua lacerante antinomia dogmatica) non ha nulla della vaga e rasserenante conciliazione cosmico-metafisica dell’axis mundi. Albero primordiale e asse cosmico. «Punto in cui si conciliano e si risolvono tutte le opposizioni», in cui «si conclude la sintesi di tutti i termini contrari».15 La concezione autenticamente cristiana della croce, e in particolare quella ortodossa, mantiene una sua connotazione paradossale: la croce come segno vivo della passione di Cristo e insieme sorgente di santità. Il simbolo della croce non viene annullato, ma assunto in tutta la sua essenza antinomica, scandalo irriducibile, scandalo del Venerdì santo, e insieme esaltazione e venerazione gloriosa della santa croce.
Emblematica è a questo riguardo la concezione che Fëdor M. Dostoevskij ha della croce come compimento dell’amore nella libertà e insieme sofferenza nella kenosi. Nella sofferenza, nella metànoia, nel sacrificio lo spirito umano si purifica, trova la sua integrità. La verità ultima si dischiude entro una dinamica paradossale («i doppi pensieri»), passando attraverso la croce del sacrificio e del dono di sé. La croce è la «liberazione interiore» per chi si è già aperto al senso del perdono, della colpevolezza e della misericordia. La croce è la cifra dell’annientamento interiore (uniciženie) di Cristo, che una volta assunto nella propria interiorità opera una liberazione (Sonia propone a Radja di scambiarsi le croci in Delitto e castigo, e lo stesso fa Lev Miškin con Rogožin ne L’idiota). La croce è una conferma di rivelazione liberante, e non l’altare di un sacrificio espiatorio. L’incontro con la croce è l’incontro con un Vivente che libera.
Come osserva Pavel Evdokimov: «L’ideale religioso di un popolo si forma partendo dalla sua visione molto personale di Dio, dall’immagine artistica, iconografica che si fa di Cristo. Esiste anche un Cristo russo che ha qualche cosa di essenzialmente evangelico sotto l’aspetto kenotico del fratello umile degli umiliati, colui che è sempre con i poveri, gli infermi e i sofferenti».16 Gesù è il Messia umile annunciato da Zaccaria (Mt 21,5); egli, uguale a Dio, si è abbassato fino a morire sulla croce per la nostra redenzione (Fil 2,6): il Cristo kenotico è il Cristo glorificato (Fil 2,9). Questo l’insegnamento essenziale del cristianesimo particolarmente congeniale alla teologia ortodossa (russa in particolare).
Secondo Bulgakov, la figura che più ha penetrato l’anima del popolo ortodosso è quella «del Cristo dolce e umile, dell’Agnello di Dio, che prende su di sé i peccati del mondo e che si abbassa fino all’umiltà della condizione umana, venuto nel mondo per servire tutti gli uomini, non perché essi lo servano, e che accetta senza protesta bestemmie, ingiurie e sputi, rispondendo a essi con amore».17 E infatti caratteristiche nell’ortodossia, soprattutto russa, sono alcune figure ascetiche di santità che vivono una precisa consonanza spirituale con il Cristo kenotico unitamente a quella con il Cristo pneumatoforo, portatore della luce dello Spirito che si manifesta nella sua forma gloriosa, come i discepoli l’hanno vista sul Tabor, e fa risplendere ogni creatura della stessa bellezza celeste.

La presenza di Giobbe
Sulla base dei presupposti storici, teologici e spirituali brevemente richiamati, forse sarà possibile avvicinarsi con maggiore consapevolezza al mistero della sofferenza e del dolore innocente, e più in generale a ciò che viene definito lo scandalo del male, tenendo conto della particolare rilevanza che è venuta ad assumere la figura di Giobbe nella slavia ortodossa e nel pensiero religioso russo della seconda metà del XIX secolo e dell’inizio del XX.18 Si tratta di una presenza decisiva all’interno del cammino teso verso una ricerca di senso del male innocente.
Seppure non così immediatamente evidente ed eclatante, questa presenza è apparsa molto significativamente (insieme a «La leggenda del grande inquisitore») «una delle perle più preziose della riflessione filosofico-letteraria russa», che meglio esprime le ansiose ricerche dell’epoca contemporanea, come afferma uno dei maggiori teologi ortodossi del Novecento.19
Questa sottesa consonanza interiore con Giobbe dischiude in realtà una vicenda di pensiero che dalla prima fase di conversione della Russia giunge fino ai grandi pensatori religiosi dei primi decenni del Novecento. La profonda sintonia spirituale del cristianesimo orientale con l’uomo di Uz è alimentata da molteplici aspetti che qui di seguito tenteremo brevemente di richiamare.
Innanzitutto la tendenza, tipica dell’ortodossia, a rifiutare qualsiasi forma di concettualizzazione teologica, e in particolare ogni razionalizzazione tesa alla giustificazione della sofferenza e del male in rapporto all’esistenza di Dio, quindi ogni teodicea intesa in senso classico. Come sappiamo l’ortodossia ha sempre avuto una diffidenza istintiva alla formulazione e alle sistematizzazioni teologiche20 a favore della dimensione prolettica, pneumatologica, escatologica. Nel pensiero religioso russo prevale il silenzio concettuale caro ai padri orientali,21 una consonanza fra silenzio e sapienza che ritroviamo in Giobbe (13,5; 21,5; 40,5). Questo tratto mistico va nella direzione della contemplazione e dell’apofatismo e viene condensato in modo emblematico prima dall’opera di Dionigi Areopagita, poi da quella di Gregorio Palamas, nelle quali, sia pure in maniera diversa, Dio resta sostanzialmente inattingibile alla ragione (cf. Gb 9,10-11; 28,12).
Va considerato poi che la santità ortodossa, così sensibile allo splendore della gloria del Signore, alla bellezza pneumatofora, alla persona santa, porta verso l’inclinazione evangelica dell’uomo interiore, e assume spesso come modello, oltre alla spiritualità del «pellegrino russo», quella di coloro che vengono chiamati jurodivyi, ovvero i «folli in Cristo».22 In essi risalta la risonanza originaria con la nudità e la sofferenza jobica e cristica, ovvero l’esperienza dell’irrilevanza del proprio io, lo svuotamento radicale, una sorta di annientamento kenotico che dispone alla piena divinizzazione.
Sempre nell’ordine della consonanza fra Giobbe e la spiritualità ortodossa, si pensi alla decisiva influenza della «dottrina sulla visione» (visione-ascolto nella liturgia e visione-contemplazione nell’iconografia) che in Giobbe trova un punto di riferimento biblico fondamentale, proprio per indicare il passaggio dall’ascolto alla visione.23

La «sofferenza inutile» e l’armonia del creato
Oltre la grande tradizione canonica, diversi autori ortodossi ritengono che nell’opera di F. Dostoevskij vada ricercata la terza grande sintesi (dopo quelle di Dionigi Areopagita e san Gregorio Palamas) della visione ortodossa dell’uomo in epoca moderna:24 si tratta di una sintesi antropologica del limite e della caduta, eppure di grande importanza per comprendere le ambiguità e le contraddizioni dell’animo umano, l’enigma e il mistero dell’uomo alle prese con le «questioni maledette», le domande terribili sul senso dell’esistenza e del male che lo insidia.25
Il celebre romanzo I fratelli Karamazov resta uno snodo decisivo dell’intera opera dostoevskijana e, come ammette lo stesso autore nella corrispondenza privata, i capitoli V e VI ne costituiscono i punti culminanti. Tuttavia, mentre l’attenzione riservata dalla critica al c. V («La leggenda del grande inquisitore») è stata vastissima, non altrettanto si può dire del c. VI, nel quale l’ultima conversazione dello starec Zosima viene narrata, in forma agiografica, da Alëša Karamazov. Tale dimenticanza non ha risparmiato neppure quello che Dostoevskji stesso indica come il paragrafo più importante dell’agiografia, il secondo, intitolato «Della sacra Scrittura nella vita di padre Zosima» e nel quale compare la parafrasi di Giobbe.26
Nella prima parte di questo capitolo, Zosima riprende il testo biblico con alcune varianti, poi richiama alcune annotazioni su quanto è accaduto a Giobbe, osservando: «Da quel momento non posso leggere questo santissimo racconto – e l’ho preso in mano anche ieri – senza lacrime. E quanto c’è qui di grande, di misterioso, di ineffabile! Ho sentito più tardi le parole dei motteggiatori e dei detrattori, parole orgogliose; come poteva il Signore consegnare al diavolo come zimbello il prediletto dei suoi santi, rapirgli i figli, colpire lui stesso con la malattia e le piaghe al punto che si raschiava il marciume delle ferite con un coccio, e per che cosa? Solo per vantarsi davanti a Satana: « Ecco che cosa può sopportare il mio santo per me! ». Ma qui sta la grandezza, qui sta il mistero, che la fugace sembianza terrena e l’eterna verità vengano qui a combaciare. Davanti alla verità terrena si compie l’opera della verità eterna. Qui il Creatore, come già nei primi giorni della creazione, quando concludeva ogni giornata con la lode: « È bello ciò che ho creato », guarda Giobbe e di nuovo si vanta della sua opera (…) Che libro è questa sacra Scrittura, quale miracolo e quale forza sono dati con esso all’uomo! (…) E quanti misteri risolti e svelati: nuovamente Dio risolleva Giobbe, di nuovo gli concede ricchezza, passano nuovamente molti anni, ed ecco che ha già nuovi figli, degli altri, ed egli li ama – oh Signore! come poteva egli amare, come sembra, questi nuovi figli quando gli altri non ci sono più, quando ha perduto gli altri? Ricordando quelli poteva davvero essere pienamente felice come prima con i nuovi, per quanto cari gli fossero i nuovi? Ma certo, certo: il vecchio dolore per un grande mistero della vita umana si trasforma a poco a poco in una quieta gioia commossa».27
Il testo, oltre a offrire numerose implicazioni di carattere stilistico, richiama il legame inscindibile della Bibbia con la tradizione, ivi compreso il legame liturgico con il Cristo (Libro di Giobbe – liturgia della passione). Di seguito l’attenzione si rivolge a Giobbe come simbolo dell’umanità sofferente, una sofferenza che espone l’umano a una dura prova e che raggiunge un estremo, intollerabile confine quando colpisce l’infanzia innocente, anticipando così altre dense e drammatiche pagine del romanzo. Non a caso infatti Zosima cerca di concentrare l’attenzione, sua e nostra, sui figli di Giobbe, i primi essendo vittime innocenti della malizia di Satana, i secondi donatigli infine da Dio.
Analogamente a quanto avviene nel testo biblico, Dostoevskij collega questo mistero della sofferenza dell’innocente alla questione di un Creatore che si definisce giusto: «Ma qui sta la grandezza, qui sta il mistero….. E Giobbe lodando il Signore, serve non solo lui, ma anche tutta la sua creazione».28 Questa lode della creazione si ricollega inevitabilmente, all’interno dello stesso paragrafo, con un brano che è una vera e propria celebrazione del creato. Si pensi al dialogo notturno tra lo starec Zosima e il giovane Alëša incentrato sulla bellezza del mondo divino e sul suo grande mistero, che giunge a queste considerazioni conclusive: «Tutto è verità; guarda il cavallo, nobile animale che sta accanto all’uomo, o il bue che lo nutre e lavora per lui (…) Cristo è con essi ancor prima che con noi (…). Il Verbo infatti è per tutti, ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina tende al Verbo, canta la gloria di Dio, piange inconsapevolmente rivolta a Cristo, questo fa per il mistero della propria esistenza senza il peccato».29
Per meglio intendere l’accostamento di questi brani e il rapporto inscindibile fra sofferenza e armonia del creato, appare inevitabile un rimando ai Taccuini preparatori del romanzo, che consentono d’intravedere sotto il Giobbe dostoevskijano anche la lettura del Cristo crocifisso-risorto, offerta probabilmente dalla frequentazione patristica.30
Dal confronto con questi brani emergono diversi nuclei problematici attorno ai quali il lettore si tormenta con l’autore senza giungere a una soluzione pacificante. Soprattutto ci si chiede: come è possibile amare i nuovi figli dopo la morte dei primi? Perché soffrono gli innocenti e in particolare i bambini? Come si conciliano le sofferenze dei bambini con l’armonia promessa? Non è facile convivere a lungo con queste domande, anche se Dostoevskij sembra accennare non tanto a delle soluzioni, quanto a possibili percorsi di senso che ognuno deve poter interiorizzare, assimilare individualmente, a partire dalla constatazione che Giobbe può giungere ad amare i figli donati come i propri, perché il dolore si trasforma misteriosamente in quieta gioia, e ciò sembra possibile grazie all’opera del Redentore che ha riaperto la strada verso l’armonia del creato.
Le domande laceranti che scaturiscono dal confronto con questo capitolo del romanzo sono in fondo, sotto altra forma, le stesse terribili domande che tormentano Ivan Karamazov, domande che, come ferite, Ivan lascia aperte e sanguinanti suscitando un implicito confronto a distanza con Zosima, proprio alla luce dell’esperienza di Giobbe. Infatti, per sostenere le sue «posizioni ateistiche» – come osserva lo stesso Dostoevskij – Ivan prende un tema inoppugnabile, l’assurdità della sofferenza dei bambini, e ne deduce l’assurdità di tutta la realtà storica. Ma l’autore fa opportunamente notare che questa è «negazione non di Dio, ma del senso della sua creazione».
Sarà allora proprio la figura di Giobbe, sia pure cristianizzato, a dover rispondere anche se non direttamente alle domande maledette di Ivan, che alla fine si concentrano in una sola: «C’è in tutto il mondo qualcuno che possa e abbia il diritto di perdonare?». E la risposta di Alëša sta nell’apparire silenzioso del Redentore, che «ha donato il suo sangue innocente per tutti e per tutto». Dunque, il disporsi lungo il sentiero già intrapreso dallo starec Zosima, che intravede nella figura di Giobbe l’anticipazione di quella di Cristo, quasi la pre-apparizione del mistero dell’incarnazione.
Per questo Dostoevskij può chiudere la parafrasi con «l’estatica sintesi cosmologica», nella quale «ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina tende al Verbo», che ricalca analogicamente la teofania di Giobbe costituendone una sorta di confutazione indiretta al mistero del dolore. Tuttavia se da un lato tale argomento cosmologico permette al Giobbe dostoevskijano di assumere la provocazione di Ivan Karamazov intorno al mistero del dolore dei bambini, dall’altro il mistero della sofferenza si mantiene come tale, in tutta la sua paradossalità e antinomia, che nulla concede all’edificante teodicea.
Si tratta, per usare una categoria dostoevskijana molto cara al filosofo italiano Luigi Pareyson, di una «sofferenza inutile», nel senso di una sofferenza invendicata, incomprensibile e inspiegabile, che non si lascia riassorbire da un ordine che la trascende; quella stessa sofferenza che misteriosamente, eppure così chiaramente, Giobbe offre a Dio. Nessuno più acutamente di Dostoevskij ha saputo far saltare la meccanica giustificazionista della pietosa teodicea costruita sulla teologia razionale. In questa, come in altre sue opere, il Dio di Dostoevskij si rifiuta di essere colui che offre una giustificazione del male, una risposta inconfutabile, senza lasciare cadere tale «sofferenza inutile» nell’assurdo (A. Camus), ma piuttosto serbandola in sé, assumendola fino in fondo nella sua carne. Alla luce di questa posizione, dopo un’acuta interpellazione filosofica dei testi dostoevskijani, Pareyson giunge a questa valutazione conclusiva: «L’idea del Dio sofferente (che partecipa fino in fondo della sofferenza umana) è infatti l’unica che possa resistere all’obiezione della sofferenza inutile».31

Domanda di senso o caduta nell’assurdo
La risonanza che queste pagine di Dostoevskij ebbero nel pensiero russo del Novecento, soprattutto nel rapporto inscindibile fra lo scandalo del male e il problema della libertà, fu davvero straordinaria.32 L’opera di Dostoevskij diviene un modello filosofico e teologico, oltre che letterario, al quale tutti i grandi filosofi del Novecento fanno riferimento. Il confronto del pensiero russo su questo problema è straordinariamente ricco e fecondo, ma anche ribollente di passioni e arditi paradossi.
Uno dei primi e più acuti interpreti dell’opera di Dostoevskij e del problema del male è stato certamente Vassili Rozanov:33 il pensatore inquieto e tormentato, che prorompe nelle esclamazioni più terribili ed esasperate sul mistero metafisico della sofferenza.34 Anche Sergeij Bulgakov ha colto con acutezza la portata filosofica di Dostoevskij esaminando la figura di Ivan Karamazov come «tipo filosofico», con preciso riferimento jobico al problema da questi posto, il quale ritorna con forza tragica e folle audacia, sull’origine e il significato del male nel mondo.
una soluzione al problema della teodicea (con la quale tutti i sistemi filosofici hanno tentato di misurarsi) è pensabile in ultima analisi – secondo Bulgakov – «solo per proprio conto e a proprio rischio, non con il solo intelletto e con la semplice logica, ma con tutto il proprio essere».35 Sentire sulle proprie spalle il peso di questa terra desolata, portare nel cuore, con pietà e compassione, anche soltanto una parte di questo dolore, soffrire in sé stessi della sofferenza altrui, è la condizione fondamentale per la fecondità della propria vita interiore e per riconoscersi creature fragili, vulnerabili, avvolte dal mistero della vita.
Tuttavia uno dei filosofi che, in ambito russo, ha prestato una rigorosa attenzione alle domande di Ivan Karamazov è stato Nikolaj Berdjaev. Le sue riflessioni, sia pure talora nella loro estrema paradossalità, colgono compiutamente il senso di questa «tragedia della libertà». La «mente euclidea» di Ivan è incapace di capire Giobbe (grazie al quale dirà: «fui così crudelmente gabbato al tempo dei tempi») e quindi il senso della sofferenza e del male, perché è incapace di corrispondere al problema della libertà. Se la sua rivolta prende inizio dalla libertà, termina tuttavia nel tentativo di costruire il mondo sulla sola necessità raziocinante e oggettivante. In una folgorante pagina di una delle sue opere, che così insistentemente tornano su questo punto così decisivo per la sua prospettiva filosofica, Berdjaev giunge a constatare che «il problema della teodicea è insolubile per il pensiero oggettivante, che si muove nell’ordine oggettivo del mondo; lo si può risolvere solo sul piano esistenziale, in cui Dio si rivela come libertà, amore e sacrificio, in cui soffre e lotta con l’uomo contro l’ingiustizia e le intollerabili sofferenze del mondo».36
All’eterna obiezione contro Dio circa la presenza del male nel mondo, alla quale tutta l’opera di Dostoevkij cerca di rispondere, Berdjaev formula in modo paradossale questa risposta: «Dio appunto perciò esiste, perché esiste il male e il dolore nel mondo: l’esistenza del male è una prova dell’esistenza di Dio. Se il mondo fosse esclusivamente buono e giusto, allora Dio non sarebbe più necessario, allora il mondo sarebbe Dio. Dio esiste perché esiste il male. Ciò significa che Dio esiste, in quanto esiste la libertà».37
Per Berdjaev, al di là dell’estremo paradosso, Dostoevskij porterebbe al limite la convinzione interiore che l’esistenza di Dio non possa prescindere dalla libertà dello spirito, quindi solo in rapporto a Dio la domanda sul «perché» della sofferenza e del male può collocarsi in un orizzonte di senso. Là dove Dio non ci fosse, la domanda si perderebbe inevitabilmente nell’assurdo, nella vacuità del non-senso. Basti pensare alla figura mitica di Sisifo e all’uomo in rivolta di Albert Camus, che infine si chiedono: a che vale alzare i pugni contro Dio di fronte all’intollerabilità del male, se Dio non c’è?

Il grido e il senso: oltre le evidenze logiche della teodicea
Tra i pensatori che, sulla scia di Dostoevskij e in costante dialogo con Kierkegaard, hanno posto al centro della propria attività speculativa la domanda intorno al senso della sofferenza, occupa un rilievo particolare Lev Šestov. Gran parte della sua opera,38 infatti, ha come paradigma «il grido di Giobbe», tanto da diventare interprete originalissimo e prosecutore di quella «filosofia della tragedia» attraverso la quale già Dostoevskij aveva presagito che il luogo di Dio è oltre il muro delle evidenze logiche, ed è pura follia cercarlo tra i saggi e i sapienti, piuttosto bisogna cercarlo (come aveva fatto Kierkegaard) sulle tracce di Giobbe, «l’uomo piagato che ha conquistato il cielo».
Il grido di Giobbe, secondo Šestov, inaugura una nuova dimensione del pensiero, che consiste nel superamento della ragione speculativa fino al completo abbandono alle «tenebrae fidei», inteso come riconquista della libertà perduta, grazie alla quale «la verità s’insinua nella vita senza alcun documento giustificativo». In questo pensatore, in maniera molto più veemente che in altri a lui contemporanei, emerge la necessità di un superamento della ragione logica formale come condizione per un disvelamento di ciò che al pensiero appare come indeducibile mistero. Coerente con la propria prospettiva Šestov, pensatore del conflitto e del paradosso, assume Giobbe come vero e proprio paradigma teoretico ed esistenziale nel contrasto che oppone Atene e Gerusalemme, nel quale «quel che per Atene è sapienza, è follia per Gerusalemme». In questa opposizione radicale si riflettono i simboli di molti conflitti: tra ragione e fede; tra speculazione e rivelazione; tra il generale e il particolare; tra l’etica dei «maledetti bene e male», come li definisce Ivan Karamazov, e il «De profundis». Dentro tale conflitto Giobbe diviene riferimento imprescindibile verso una ricerca filosofica del senso, ricerca «delle sorgenti della vita», oltre il trionfo della ragione teorica e del necessario comprendere, afferrare e misurare il mondo.
Šestov si fa promotore quindi di una filosofia esistenziale intimamente unita alla fede, che cerca non la comprensione ma la vita, che non è riconoscimento teorico o pratico dell’ordine della realtà, ma sforzo di liberazione dalla necessità verso le sorgenti della vita. In tale prospettiva la fede diviene la dimensione costitutiva del pensiero e impone il confronto con Giobbe e con il suo Dio. Se «dire Dio», infatti, significa biblicamente dire che «tutto è possibile», contro il «tutto necessario» della filosofia speculativa, questo Dio jobico non potrà essere riconosciuto che mediante una conoscenza non evidente. Šestov giunge così ad affermare: «Dio esige sempre da noi l’impossibile e principalmente in questo sta la differenza fra Dio e gli uomini. O forse il contrario, la somiglianza: non è detto che Dio ha creato l’uomo a sua immagine? E l’uomo si rivolge a Dio soltanto quando desidera l’impossibile. Per ottenere cose possibili si rivolge ai suoi simili».39
Nel conflitto aperto con la ragione, in cui alla fine il nulla ci sta di fronte e con esso l’angoscia, Šestov incontra Kierkegaard, riattingendo in Giobbe il senso della rivolta totale e radicale. Quando si guardano in faccia il dolore, la nausea della vita e la morte stessa, come Giobbe, la disperazione e l’angoscia, come Kierkegaard, ci si trova ricchi solo della propria sofferenza, al cospetto dell’impossibile. Allora dobbiamo chiederci da quale parte penderà la bilancia di Giobbe; il peso della nostra sofferenza riuscirà a sollevare il piatto in cui sarà gettata tutta la saggezza del mondo? O forse, l’uomo dovrà accettare il giogo della ragione, rassegnarsi alla propria sventura perché, come insegna Spinoza, l’uomo non deve «ridere, piangere, né indignarsi, ma capire»?
Šestov richiama il Kierkegaard de La ripresa, là dove il filosofo danese osserva: «Giobbe fu benedetto, tutto gli fu reso doppio. Questo è ciò che si chiama ripetizione (…) La « ripetizione » dunque esiste». Ma quando e come può accadere? – si chiede Šestov con Kierkegaard -: «È difficile spiegarlo con le parole umane. Quando si è prodotta per Giobbe? Quando ogni creatura, ogni probabilità umanamente pensabile provano la sua impossibilità. Soltanto l’orrore giunto alla disperazione sviluppa nell’uomo le sue forze più alte».40
Così per Šestov le grida di Giobbe non sono un vociferare insensato, assurdo e inutile, ma in esse è presente la forza inaudita che, come le trombe di Gerico, deve fare cadere le mura della fortezza. E se all’inizio Giobbe sembra quasi trattenere queste grida, man mano che le sciagure si moltiplicano e s’ingigantiscono, si solleva la tensione dell’indignazione e dei pianti repressi, spezzando la dura scorza delle evidenze che paralizzano la sua libertà. Per Šestov, infatti, «il significato di Giobbe sta precisamente in questo: che egli non sfoga il patetico della libertà in false consolazioni. La benevolenza e la sapienza parlano per bocca degli amici di Giobbe; eppure essi non solo non riescono a calmarlo, ma lo irritano ancora di più (…) Per Giobbe ogni teodicea appare sacrilega. Ogni tentativo di spiegare la disgrazia non faceva che aggravarla agli occhi di Giobbe; non sapeva proprio che farsene delle spiegazioni e delle consolazioni».41
Come sappiamo Giobbe cerca salvezza nel «clamare», nell’invocazione a quel Dio che giunge a rendergli il doppio di quanto ha perduto. Secondo Šestov solo «là nell’abisso insondabile della disperazione il pensiero stesso si trasforma; solo là può essere compreso il senso delle parole enigmatiche del salmista « de profundis ad te, Domine clamavi »».42
Nella perdita di questa facoltà del «clamare» risiede quanto di più desolante è accaduto nel pensiero moderno contemporaneo. Solo nell’abisso, nel tremore e nella sofferenza insorgono le domande ontologicamente decisive, ed è qui che l’interrogazione jobica s’incontra con l’interrogazione filosofica. Šestov si chiede in proposito di che cosa sono fatte le domande, segno dell’umana forza investigativa, ma anche della sua limitatezza. Secondo Spinoza si possono fare solo domande che non riguardano ciò che più ci riguarda, a cui si danno risposte di cui non abbiamo nessun bisogno; questo perché la filosofia ha preteso di essere «vera» anziché «ottima», qualifica che spetta solo a una filosofia della vita. La filosofia contemporanea, a differenza di Giobbe e dei grandi profeti dell’antichità, «è convinta che le domande debbono essere fatte di una materia indifferente e senza valore. Essa spazza via come inutili detriti la bellezza, il bene, le estasi, le lacrime, le maledizioni, senza nemmeno sospettare che tutto questo è ciò che di più prezioso abbia la vita, e che proprio di questa materia dovrebbero esser fatte le vere domande filosofiche».43
Nelle sue opere Šestov, come Giobbe, grida! Un grido acuto contro la filosofia che della necessità è il discorso, contro il «muro di cristallo delle evidenze», contro l’incantesimo della ragione, che impedisce ogni apertura possibile verso la fede, sulla terra insicura e vacillante, in cui risuonano soltanto grida e domande. Il senso della sofferenza va ricercato allora all’interno della stessa domanda, dentro quello stesso grido che scaturisce dalla fede «quia absurdum»: «Pensate i miei spasimi e sul piatto mettete la mia cancrena, peseranno di più che la sabbia di tutti i mari, perciò barcollano le mie parole» (Gb 6,2-3).

La sofferenza, un mistero di preghiera e di amore
Nella posizione di Šestov traspare non soltanto una forte precomprensione ebraica, ma anche un’accentuazione del conflitto con la ragione che inevitabilmente porta a una fuga verso l’irrazionale. Più mediata ed equilibrata appare invece la concezione di gran parte degli autori citati, nei quali il superamento translogico della ragione non ha nulla di irrazionale, ma sembra piuttosto una necessità stessa del pensiero di fronte al mistero della rivelazione.Tra questi merita un’attenzione particolare Pavel Florenskij, considerato la punta di diamante del pensiero religioso russo del XX secolo, una personalità davvero geniale che stupisce per profondità e vastità di cultura, definito dai suoi contemporanei «il Leonardo da Vinci della Russia».
Nella sua opera fondamentale pubblicata nel 1914, La colonna e il fondamento della verità, considerata recentemente uno dei capolavori del pensiero filosofico e teologico del Novecento, la questione della sofferenza e del male in relazione alla figura di Giobbe anticipatore di Cristo, diviene un luogo di confronto di particolare decisività nel percorso teso verso la ricerca della verità dell’essere, verità viva (istina e non pravda), misura e origine di ogni senso, che trova nella relazione trinitaria del Dio-amore il suo approdo e la sua sorgente.
L’opera originale ha come sottotitolo: «Saggio di teodicea ortodossa in 12 lettere», ma il senso di questa «teodicea» si muove nell’ortodossia lungo un versante assai diverso da quello del pensiero filosofico e teologico elaborato più compiutamente da Leibniz. Pur muovendo da un ripensamento radicale dei problemi inestricabili (il male, la sofferenza, il peccato, la geenna), Florenskij intende la teodicea come processo ascensionale dell’uomo verso la vita di Dio, sotto l’influsso della grazia. Lontano da ogni lettura retribuzionistica e meccanicistica del male, la teodicea sembra qui piuttosto suggerire un percorso ascetico verso la perfezione interiore.44
Come più tardi afferma Semën L. Frank, portando a piena maturazione le intuizioni di Florenskij, «il problema della teodicea, che insorge con il libro di Giobbe, è assolutamente insondabile razionalmente (…) poiché il male nasce dall’abisso ineffabile che sta come al limitare fra Dio e il non-dio».45
Per Florenskij la vita stessa della verità (istina), la sua inesauribile pienezza, oltrepassa qualsiasi tentativo di volerla racchiudere dentro una definizione puramente logica e formale. Per questo, nel suo senso ultimo, «la verità è antinomica e non può non essere tale». Questo significa che la verità comprende in sé il dramma della sua caduta, della sua sofferenza, del suo grido, della sua croce. Solo così sarà verità e non una parte di essa (come vuole l’eresia), solo così può accogliere in sé la vita e salvarla. «Antinomia» intesa come «coincidentia oppositorum», come coincidenza in Dio stesso delle definizioni contraddittorie, secondo la classica definizione del Cusano.
L’antinomia, categoria chiave di tutto l’itinerario di pensiero di Florenskij, è l’essenza stessa delle esperienze vitali, ha origine nella frammentarietà dell’essere, segno della distanza tra intelletto umano e verità divina. Un invito a riconoscere il mistero che attraversa la realtà e la radice paradossale della fede cristiana, che ha nella croce, quale luogo della «sconfitta» di Dio e insieme della sua gloria, il punto culminante.
Nella VI «lettera» dell’opera dedicata alla «contraddizione», l’autore coglie nella figura di Giobbe la chiave d’accesso che porta alla verità antinomica. Molto significativamente Florenskij osserva: «Tutto il libro di Giobbe rappresenta questa esperienza incarnata della contraddizione, è tutto costruito sull’idea dell’antinomicità. Dio ci ricorda che l’uomo non è la misura della creazione, che l’universo è costruito secondo un piano che infinitamente trascende la ragione umana. I desideri e le opere di Dio sono essenzialmente incomprensibili per l’uomo e perciò sembrano irragionevoli (Gb 23)».46
Il libro di Giobbe dunque, proprio nel suo acme di antinomicità, ci invita a ripensare radicalmente al mistero della sofferenza in relazione al mistero inattingibile di Dio. In perfetta consonanza con il più profondo sentire filosofico russo, Florenskij fa risuonare accanto alle parole di Giobbe quelle di Dostoevskij, là dove osserva: «Tutto è mistero, in tutto c’è il mistero di Dio… Ed è meglio che sia mistero: esso è terribile e mirabile al cuore, e questo timore è per la letizia del cuore… È ancora più bello che sia mistero» (I demoni). L’antinomia è nelle fibre della verità di fede, ne dischiude in qualche modo il mistero, sospingendo la ragione verso un superamento di sé nell’apofasi. Questo «mistero del disordine morale colpisce Giobbe per la sua grandezza, mentre i suoi amici non lo percepiscono nemmeno (Gb 21). « Mettete il dito sulle vostre labbra »; un gesto di silenzio e di mistero, lo stesso gesto che vediamo spesso sulle icone di Giovanni il Veggente».47
Per Florenskij quindi Giobbe è colui che coglie con profondità abissale il senso del male, come esperienza indescrivibile e indicibile, che non «può rivestirsi di parole se non nella contraddizione del sì e del no». Noi non possiamo, al pari degli amici di Giobbe, fingere che le contraddizioni siano inesistenti, che la ragione conoscitiva sia monolitica e non frazionata, che il mondo conoscibile sia la perfetta armonia, nascondendone le crepe. Non dobbiamo lenire la contraddizione con l’unzione dei filosofemi: «Che la contraddizione resti così come è (…) poiché essa (come insegna Giobbe per primo) è sempre un mistero dell’anima, un mistero di preghiera e di amore. Quanto più ci si avvicina a Dio, tanto più chiare sono le contraddizioni».48 Solo nella Gerusalemme celeste le contraddizioni si dissolveranno e la verità sarà una, ma sulla terra queste sono in tutte le cose, contro ogni deduzione filosofica, ed è proprio questa presenza dell’antinomia che richiama «l’assoluto inesprimibile».
L’ingiusta sofferenza di Giobbe nella sua antinomicità, nel suo apparire persino scandalosa, diviene non causa di separazione da Dio, ma addirittura motivo per entrare in maggiore intimità con lui nella permanenza profonda della fede, e infatti «di fronte all’antinomia è necessaria la fede, vista l’impossibilità di costringerla al piano del raziocinio. È un « sì » e un « no » e questa è la migliore dimostrazione della sua portata religiosa (…) Dove non c’è antinomia non c’è nemmeno la fede: ed essa scomparirà solo quando la fede e la speranza verranno meno e rimarrà soltanto l’amore (1Cor 13,3-13)».49
Il senso della sofferenza può donarsi dunque solo nella sua libertà e gratuità infinita come pura grazia, come rivelazione indeducibile dell’amore di Dio. Soltanto per l’anima sfiorata dalla grazia, gratuitamente donata all’amore, le contraddizioni sono superabili. La sofferenza è come l’aprirsi di una ferita che, mentre mostra il segno dell’antinomia del reale, può far perdere il senso ma lo può anche far sorgere. Dal fondo di questa ferita può sorgere un clamore destato dalla grazia ineffabile e invisibile, che salva solo sfiorando.

La sofferenza trasfigurata
In questo confronto con alcuni tratti del pensiero religioso russo, all’interno del più vasto sfondo spirituale dell’ortodossia slava, abbiamo tentato di avvicinarci alla peculiarità cristiana ortodossa relativamente alla sfida della sofferenza e del male per l’esistenza umana. Senza alcuna pretesa di esaustività, ma con la preoccupazione di restituire uno stile, una sensibilità, un modo altro di essere del pensiero cristiano orientale che, nella reciprocità con il versante occidentale, può aiutare a scorgere le diverse ricchezze che scaturiscono da un’unica sorgente. Per la tradizione ortodossa slava, ripensare la sofferenza significa innanzitutto ripensare le proprie radici, ritornare a Giobbe, letto e interpretato alla luce della croce di Cristo.
Anche se questo approccio presenta non pochi problemi dal punto di vista del rigore esegetico, tuttavia colloca il problema nell’orizzonte della storia della salvezza, e mentre mostra quel profondo legame con la tradizione liturgica e patristica, ne offre anche il dono di un senso della sofferenza oltre il tempo, un dono permanente.
Sulla base di questa tradizione i pensatori cristiani, soprattutto russi, hanno tentato di mostrare che in fondo è possibile comprendere l’enigma della sofferenza, a partire da Giobbe, tenendo conto delle molteplici possibilità di interpretazione e di relazione con il problema, delle quali l’indagine razionale costituisce soltanto un aspetto, e certamente non il più convincente per corrispondere alla sfida estrema che la questione pone. Nella prospettiva spirituale cristiana, la sofferenza, come il male, è la radice del mistero, un mistero posto all’origine della relazione tra Dio e l’uomo.
Tuttavia proprio lungo questo cammino ascetico verso la divino-umanità la sofferenza può diventare anche la radice della conoscenza, una «conoscenza che diviene amore» (s. Gregorio Nisseno), se l’esistenza stessa è vissuta come dono, nella perfetta gratuità. Questo anche quando l’esistenza è straziata dal dolore? Il simbolo di Giobbe riflette per intero la condizione umana, avvertendo sulla propria pelle, sia pure nella prospettiva di Dio, la distanza che lo separa da Dio, il peso della sua impotenza, la sua abissale solitudine, infondatezza, fragilità e inquietudine (Gb 14) in cui la vita ha la consistenza dell’ombra. Giobbe con il suo dolore, con le sue grida, con le sue terribili domande, ma anche con la sua fede, delinea la via dell’esodo da ogni presupposto e sicurezza.
Per il pensiero cristiano russo la fede di Giobbe è già tutta nel suo grido, in cui rifiuto e invocazione si tendono verso l’inattingibile. In questa prospettiva di pensiero, la sofferenza come enigma per l’uomo si è incontrata in Cristo crocifisso con la sofferenza come enigma di Dio. Il grido di Giobbe si incontra così con l’abbandono di Gesù sulla croce, in cui Dio onnipotente risponde nel silenzio della sua infinita debolezza, nella sua estremità di dolore che rivela l’amore, assumendo in sé tutta l’umana debolezza e sofferenza.50
Permanendo all’interno dello stesso orizzonte di pensiero, tra le diverse concezioni contemporanee emerse in ambito occidentale, quella che più si avvicina alla sensibilità teologica e filosofica russa sembra essere quella di Simone Weil, che lasciandosi provocare fino in fondo da Dostoevskij e in particolare proprio dalle terribili domande di Ivan Karamazov coglie lo «scandalo» della sventura al suo punto limite, non tanto nelle diverse forme della sofferenza fisica, morale, sociale, che affliggono il genere umano, bensì nel fatto che Dio abbia permesso alla sventura di afferrare l’anima degli innocenti, al punto da impadronirsene completamente. Solo un miracolo può strappare e salvare l’anima di chi è schiacciato da questa disperazione e orribile prova, restituendola alla bellezza del dono. Questo miracolo di trasfigurazione interiore è tutto racchiuso nella possibilità di «continuare ad amare a vuoto, … sia pure con una parte infinitesimale di se stessi».51
Una delle peculiarità spirituali dell’anima russa è sempre stata quella di tenere insieme la profonda coscienza del proprio dolore e sofferenza con il bisogno interiore di salvezza, di redenzione, di trasfigurazione dell’esistenza. Per questo il cristianesimo russo ha saputo coniugare con particolare vigore spirituale e dogmatico la sofferenza della croce con la gioia pasquale, la memoria dell’agonia e del dolore con la luce trasfigurante della risurrezione. La profonda convinzione di tutti i grandi pensatori russi è che nel cuore della terra russa palpiti l’anima spirituale per la gioia trasfigurante della Pasqua.52 Da questo evento scaturito dal dramma dell’amore e della libertà, l’uomo è chiamato nella libertà dello Spirito a lasciarsi penetrare dalla luce, fino a diventare un’esistenza trasfigurata, una «corporeità trasfigurata»,53 quale compimento dell’esperienza di fede cristiana.
Dunque, il problema della sofferenza è essenzialmente un problema spirituale, dispiegamento di un duro cammino ascetico costellato di domande, afflizioni, cadute sotto il peso della propria croce. In questo cammino di invocazione e compassione, di dono e misericordia, è forse possibile giungere a «trasformare l’oscura sofferenza che conduce alla perdita dell’uomo in una sofferenza trasfigurata, la quale è via di salvezza (…). Ogni cristiano dovrebbe vivere la sofferenza come una penetrazione di luce, come qualche cosa che ha senso nell’ambito del proprio destino».54 La sfida ultima resta quella di riconoscersi creature generate da un mistero di amore e ritrovare in sé stessi il diamante nascosto, riposto da Dio nell’uomo come sua immagine. Un diamante che se si lascia attraversare dalla luce radiosa e senza tramonto del Risorto, può restituire tutto il suo splendore.

Natalino Valentini*

GIOVANNI PAOLO II, LA PROVVIDENZA DIVINA E IL DESTINO DELL’UOMO: IL MISTERO DELLA PREDESTINAZIONE IN CRISTO, 28 MAGGIO 1986

http://www.disf.org/Documentazione/05-1-860528-CatMer_ita.asp

GIOVANNI PAOLO II, LA PROVVIDENZA DIVINA E IL DESTINO DELL’UOMO: IL MISTERO DELLA PREDESTINAZIONE IN CRISTO, 28 MAGGIO 1986

1. Dimensione soteriologica ed escatologica della Provvidenza. 2. «Predestinandoci ad essere noi figli adottivi». 3. La scelta di Dio «nel» Figlio suo Gesù Cristo. 4. La finalità ultima della creazione. 5. «Ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto». 6. In Cristo si compie la finalità del mondo e dell’uomo. 7. «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati». 8. Il mondo creato in vista del Regno. 9. «Per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe».

1. La domanda sul proprio destino è molto viva nel cuore dell’uomo. E una domanda grande, difficile, eppure decisiva: «Che sarà di me domani?». C’è il rischio che cattive risposte conducano a forme di fatalismo, di disperazione, o anche di orgogliosa e cieca sicurezza. «Stolto, questa notte morrai», ammonisce Dio (Lc 12,20). Ma proprio qui si manifesta l’inesauribile grazia della Provvidenza divina. E Gesù che apporta una luce essenziale. Egli infatti, parlando della Provvidenza divina nel Discorso della Montagna, termina con la seguente esortazione: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Nell’ultima catechesi abbiamo riflettuto sul profondo rapporto che esiste tra la Provvidenza di Dio e la libertà dell’uomo. E proprio all’uomo, prima di tutto all’uomo, creato a immagine di Dio, che sono indirizzate le parole sul regno di Dio e sulla necessità di cercarlo prima di ogni cosa.
Questo legame tra la Provvidenza e il mistero del regno di Dio, che deve realizzarsi nel mondo creato, orienta il nostro pensiero sulla verità del destino dell’uomo: la sua predestinazione in Cristo. La predestinazione dell’uomo e del mondo in Cristo, Figlio eterno del Padre, conferisce a tutta la dottrina sulla Provvidenza divina una decisa caratteristica soteriologica ed escatologica. Lo stesso divin Maestro lo indica nel suo colloquio con Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
2. Queste parole di Gesù costituiscono il nucleo della dottrina sulla predestinazione, che troviamo nell’insegnamento degli apostoli e specialmente nelle lettere di san Paolo. Leggiamo nella lettera agli Efesini: «Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo… in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia» (Ef 1,3-6).
Queste luminose affermazioni spiegano, in modo autentico e autorevole, in che cosa consiste ciò che in linguaggio cristiano chiamiamo «Predestinazione» (latino: «praedestinatio»). E infatti importante liberare questo termine dai significati erronei o anche impropri e non essenziali, entrati nell’uso comune: predestinazione come sinonimo del «cieco fato» («fatum») o dell’«ira» capricciosa di qualche divinità invidiosa. Nella rivelazione divina la parola «predestinazione», significa l’eterna scelta di Dio, una scelta paterna, intelligente e positiva, una scelta d’amore.
3. Questa scelta, con la decisione in cui si traduce, cioè il piano creativo e redentivo, appartiene alla vita intima della santissima Trinità: è operata eternamente dal Padre insieme col Figlio nello Spirito Santo. E un’elezione che, secondo san Paolo, precede la creazione del mondo («prima della creazione del mondo»); e dell’uomo nel mondo. L’uomo, ancor prima di essere creato, viene «scelto» da Dio. Questa scelta avviene nel Figlio eterno («in lui»), cioè nel Verbo dell’eterna Mente. L’uomo viene dunque eletto nel Figlio alla partecipazione della sua stessa figliolanza per divina adozione. In questo consiste l’essenza stessa del mistero della predestinazione, che manifesta l’eterno amore del Padre («nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo»). Nella predestinazione è contenuta dunque l’eterna vocazione dell’uomo alla partecipazione alla natura stessa di Dio. E vocazione alla santità, mediante la grazia dell’adozione a figli («per essere santi e immacolati al suo cospetto») (Ef 1,3-6).
4. In questo senso la predestinazione precede «la fondazione del mondo», cioè la creazione, giacché questa si realizza nella prospettiva della predestinazione dell’uomo. Applicando alla vita divina le analogie temporali del linguaggio umano, possiamo dire che Dio vuole «prima» comunicarsi nella sua divinità all’uomo chiamato ad essere nel mondo creato sua immagine e somiglianza; «prima» lo elegge, nel Figlio eterno e consostanziale, a partecipare alla sua figliolanza (mediante la grazia), e solo «dopo» («a sua volta») vuole la creazione, vuole il mondo, al quale l’uomo appartiene. In questo modo il mistero della predestinazione entra in un certo senso «organicamente» in tutto il piano della divina Provvidenza. La rivelazione di questo disegno dischiude davanti a noi la prospettiva del regno di Dio e ci conduce al cuore stesso di questo regno, dove scopriamo la finalità ultima della creazione.
5. Leggiamo infatti nella lettera ai Colossesi: «Ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. E lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col 1,12-14). Il regno di Dio è, nel piano eterno di Dio Uno e Trino, il regno del «Figlio diletto», in particolare perché per opera sua si è compiuta «la redenzione» e «la remissione dei peccati». Le parole dell’apostolo alludono anche al «peccato» dell’uomo. La predestinazione, cioè l’adozione a figli dell’eterno Figlio, si opera quindi non solo in relazione alla creazione del mondo e dell’uomo nel mondo, ma in relazione alla redenzione, compiuta dal Figlio, Gesù Cristo. La redenzione diventa l’espressione della Provvidenza, cioè del governo premuroso che Dio Padre esercita in particolare nei riguardi delle creature, dotate di libertà.
6. Nella lettera ai Colossesi troviamo che la verità della «predestinazione» in Cristo è strettamente congiunta con la verità della «creazione in Cristo». «Egli – scrive l’apostolo – è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose…» (Col 1,15-16). Così dunque il mondo, creato in Cristo, eterno Figlio, fin dall’inizio porta in sé, come primo dono della Provvidenza, la chiamata, anzi il pegno della predestinazione in Cristo, a cui si unisce, quale compimento della salvezza escatologica definitiva, e prima di tutto dell’uomo, finalità del mondo. «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza» (Col 1,19). Il compimento della finalità del mondo, e in particolare dell’uomo, avviene proprio ad opera di questa pienezza che è in Cristo. Cristo è la pienezza. In lui si compie in un certo senso quella finalità del mondo, secondo la quale la Provvidenza divina custodisce e governa le cose del mondo e in particolare l’uomo nel mondo, la sua vita, la sua storia.
7. Comprendiamo così un altro aspetto fondamentale della divina Provvidenza: la sua finalità salvifica. Dio infatti «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). In questa prospettiva è doveroso allargare una certa concezione naturalistica di Provvidenza, limitata al buon governo della natura fisica o anche del comportamento morale naturale. In realtà, la Provvidenza divina si esprime nel conseguimento delle finalità che corrispondono al piano eterno della salvezza. In questo processo, grazie alla «pienezza» di Cristo, in lui e per mezzo di lui viene anche vinto il peccato, che si oppone essenzialmente alla finalità salvifica del mondo, al compimento definitivo che il mondo e l’uomo trovano in Dio. Parlando della pienezza, che ha preso dimora in Cristo, l’apostolo proclama: «Piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20).
8. Sullo sfondo di queste riflessioni, attinte dalle lettere di san Paolo, diventa meglio comprensibile l’esortazione di Cristo a proposito della Provvidenza del Padre celeste che abbraccia ogni cosa (cf. Mt 6,23-34 e anche Lc 12,22-31), quando dice: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Con quel «prima» Gesù intende indicare ciò che Dio stesso vuole «prima»: ciò che è la sua prima intenzione nella creazione del mondo, e insieme il fine ultimo del mondo stesso: «il regno di Dio e la sua giustizia» (la giustizia di Dio). Il mondo intero è stato creato in vista di questo regno, affinché si realizzi nell’uomo e nella sua storia. Affinché per mezzo di questo «regno» e di questa «giustizia» si adempia quell’eterna predestinazione che il mondo e l’uomo hanno in Cristo.
9. A questa visione paolina della predestinazione corrisponde quanto scrive san Pietro: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non ci corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi» (1Pt 1,3-5). Veramente «sia benedetto Dio», che ci rivela come la sua Provvidenza sia il suo instancabile, premuroso intervento per la nostra salvezza. Essa è infaticabilmente all’opera fino a quando giungeranno «gli ultimi tempi», quando «la predestinazione in Cristo» degli inizi si realizzerà definitivamente «mediante la risurrezione in Gesù Cristo», che è «l’alfa e l’omega» del nostro umano destino (Ap 1,8).

L’INCARNAZIONE E LA REDENZIONE – G. Florovskij

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/incarnflorovsky.htm

L’INCARNAZIONE E LA REDENZIONE

G. Florovskij

“Il Logos si è fatto Carne”: in queste parole è espressa la gioia definitiva della fede cristiana; in esse c’è la pienezza della Rivelazione. Il Signore incarnatosi è nello stesso tempo perfetto Dio e perfetto Uomo. Il completo significato ed il fine ultimo dell’esistenza umana è rivelato e realizzato nell’Incarnazione e per mezzo di essa. Egli scese dal Cielo per redimere la terra, per congiungere per sempre l’uomo con Dio. “E divenne uomo”. È così iniziata la nuova epoca. Noi infatti calcoliamo il tempo secondo gli “anni Domini”. Come scrisse sant’Ireneo, “il Figlio di Dio è diventato figlio dell’uomo, perché quest’ultimo diventasse figlio di Dio”. Non solo la pienezza originaria della natura umana è restaurata e ristabilita nell’Incarnazione. Non solo la natura umana ritorna alla sua comunione con Dio ormai perduta. L’Incarnazione è anche la nuova Rivelazione, un nuovo ed ulteriore passo. Il primo Adamo era un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo è il Signore che viene dal Cielo (1 Corinti 15, 47). E nell’Incarnazione del Logos l’umana natura non fu solo unta da una sovrabbondanza di Grazia, ma fu assunta in un’unione intima ed ipostatica con Dio stesso. In questa elevazione della natura umana ad una eterna comunione con la vita divina, i Padri della Chiesa primitiva videro unanimi l’essenza della Salvezza, la base di tutta l’opera redentrice del Cristo. “È salvato ciò che è unito a Dio”, dice san Gregorio di Nazianzo. E ciò che non era unito non poteva essere salvato. Questa era la sua principale ragione per insistere, contro Apollinare, sulla pienezza dell’umana natura dall’Unigenito nell’Incarnazione. Questo è il motivo fondamentale ricorrente in tutta la teologia antica, in sant’Ireneo, sant’Atanasio, nei Padri della Cappadocia, in san Cirillo di Alessandria, in san Massimo il Confessore. Tutta la storia del dogma cristologico è determinata da questa fondamentale concezione: l’Incarnazione del Logos intesa come Redenzione. Nell’Incarnazione la storia umana riceve il suo completamento. L’eterna volontà di Dio si realizza, “il mistero nascosto dell’eternità e sconosciuto agli Angeli”. I giorni dell’attesa sono passati. Colui che era promesso è venuto. E da questo momento, per usare la frase di san Paolo, la vita dell’uomo “è nascosta con il Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3)…
L’Incarnazione del Logos fu un’assoluta manifestazione di Dio. E soprattutto fu una rivelazione della vita. Il Cristo è il Logos della Vita… “e la Vita si manifestò e noi l’abbiamo vista e ne testimoniamo ed annunciamo a voi la vita, la Vita eterna, che era con il Padre e che si manifestò a noi” (1 Giovanni 1, 1-2). L’Incarnazione è la rinascita dell’uomo, per così dire, la resurrezione della natura umana. Ma il punto culminante dell’Evangelo è la Croce, la morte del Logos incarnato. La vita è stata rivelata nella sua pienezza attraverso la morte. Questo è il mistero paradossale del Cristianesimo: la vita attraverso la morte, la vita dalla tomba ed oltre la tomba, il mistero della tomba apportatrice di vita. Noi siamo nati ad una vita reale ed eterna solo grazie alla nostra morte battesimale ed alla nostra sepoltura nel Cristo; noi siamo rigenerati con il Cristo nel fonte battesimale. Questa è la legge immutabile della vera vita. “Nessun seme rivive se prima non muore” (1 Corinti 15, 36).
“Grande è il mistero della fede: Dio s’è manifestato nella Carne” (1 Timoteo 3, 16). Ma Dio non si manifestò per ricreare il mondo improvvisamente grazie alla sua onnipotenza, o per illuminarlo e trasfigurarlo con l’immensa luce della sua gloria. Fu nell’estrema umiliazione che la rivelazione della divinità si realizzò. La volontà divina non distrugge la condizione originale della libertà umana, la libertà di disporre di se stessi, non distrugge né abolisce l’antica legge della libertà umana. In ciò si manifesta una certa autolimitazione o “kènosis” della potenza divina. E quel che più conta, una certa “kènosis” dell’amore divino stesso. Quest’ultimo, per così dire, restringe e limita se stesso nel rispettare la libertà della creatura. L’amore non impone la guarigione con la costrizione, come avrebbe potuto fare. Non c’era un’evidenza costrittiva in questa manifestazione di Dio. Non tutti riconobbero il Signore della gloria “sotto la forma del servo”, che egli deliberatamente assunse. E chi lo riconobbe non lo fece grazie all’intuito personale, ma grazie alla rivelazione del Padre (cfr. Matteo 16, 17). Il Logos incarnato apparve sulla terra come uomo tra gli uomini. Ciò significava assumere tutta la pienezza umana per redimere gli uomini, pienezza non solo della natura umana, ma anche di tutta la vita umana. L’Incarnazione doveva manifestarsi in tutta la pienezza della vita, nella pienezza dell’età dell’uomo, poiché tutta questa pienezza potesse essere santificata. Questo è uno degli aspetti del concetto della “ricapitolazione” di tutto in Cristo, che con tanta enfasi sant’Ireneo riprese da san Paolo. Era questa l’umiliazione del Logos (cfr. Filippesi 2, 7). Ma questa “kènosis” non era una riduzione della divinità, che nell’incarnazione sussiste immutata. Al contrario era un’elevazione dell’uomo, la deificazione della natura umana, la “thèosis”. Come afferma san Giovanni Damasceno, nell’Incarnazione “tre cose furono realizzate in una sola volta: l’assunzione, l’esistenza e la deificazione dell’umanità per mezzo del Logos”. Bisogna sottolineare che nell’Incarnazione il Logos assume l’originale natura umana, innocente e libera dal peccato originale, senza alcuna macchia. Questo fatto non viola la pienezza della natura umana né diminuisce la somiglianza del Salvatore nei confronti di noi peccatori. Infatti il peccato non è proprio della natura umana, ma è un prodotto parassitico ed anormale. Questo aspetto fu sottolineato da san Gregorio Nisseno e particolarmente da san Massimo il Confessore in relazione alla teoria della volontà come sede del peccato. Nell’Incarnazione il Logos assume la primitiva natura umana, creata “ad immagine di Dio”, per cui quest’ultima è ristabilita nell’uomo. Ciò non era ancora l’assunzione della sofferenza umana o dell’umanità sofferente. Era l’assunzione della vita umana, ma non ancora della morte. La libertà del Cristo dal peccato originale significa anche libertà dalla morte, che è il “compenso del peccato”. Il Cristo è libero dalla corruzione e dalla morte già dalla sua nascita. E, simile al primo Adamo anteriormente alla caduta egli può non morire affatto, sebbene naturalmente egli possa anche morire. Egli era libero dalla necessità della morte, poiché la sua umanità era pura ed innocente. Perciò la morte del Cristo era e non poteva non essere volontaria, non frutto della natura decaduta, ma risultato di una libera scelta ed accettazione.
Una distinzione deve essere fatta tra l’assunzione della natura umana da parte del Cristo ed il fatto che egli prese su di sé i nostri peccati. Il Cristo è “l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo” (Giovanni 1, 29). Ma egli non prende su di sé i peccati del mondo nell’Incarnazione. Prendere su di sé i peccati del mondo è un atto della volontà, non una necessità della natura. Il Salvatore prende su di sé i peccati del mondo per una libera scelta d’amore. Egli li porta in tale modo che ciò non diventa una sua colpa o viola la purezza della sua natura (…) l’assunzione dei peccati ha un valore di redenzione, in quanto è un libero atto di compassione e d’amore. Né si tratta solo di compassione. In questo mondo, che è in preda al peccato, anche la purezza stessa è sofferenza, è una fonte e causa di sofferenza. Perciò un cuore giusto soffre e si addolora per l’ingiustizia che patisce per opera della malvagità di questo mondo. La vita del Salvatore, come quella di un essere giusto e puro, come una vita pura e senza peccato, deve essere stata inevitabilmente su questa terra quella di uno che soffrì. Il bene è oppressivo per il mondo e questo mondo è oppressivo per il bene. Questo mondo si oppone al bene e non volge lo sguardo alla luce. Ed esso non accetta il Cristo e respinge sia lui che il Padre suo (Giovanni 15, 23 sg). Il Salvatore si sottopone all’ordine di questo mondo, sopporta, e l’opposizione di questo mondo è coperta da suo amore che perdona: “Essi non sanno quel che fanno” (Luca 23, 34). Tutta la vita di nostro Signore è una Croce. Ma la sofferenza non è ancora tutta la Croce. Quest’ultima è più che la semplice sofferenza di un giusto. Il sacrificio del Cristo non si esaurisce nella sua obbedienza, sopportazione, pazienza, compassione e perdono. L’unità dell’opera redentrice del Cristo non può essere suddivisa in parti. La vita terrena del Signore è un’unità organica e la sua opera redentrice non può essere connessa esclusivamente con un momento particolare della sua vita. Comunque il punto culminante della sua vita è la morte. Ed il Cristo stesso lo afferma nell’ora della morte: “Ma è proprio per quest’ora che sono venuto” (Giovanni 12, 27). La morte redentrice è lo scopo definitivo per l’Incarnazione.
Il mistero della Croce supera le nostre capacità intellettive. Questa “terribile visione” sembra estranea ed allarmante. Tutta la vita del Cristo fu un grande atto di pazienza, di grazia e di amore. Ed è tutta illuminata dallo splendore eterno della divinità, sebbene questo splendore sia invisibile nel mondo di carne e del peccato. Ma la salvezza si realizza completamente sul Golgotha, non sul Tabor (cfr. Luca 9, 31). Il Cristo venne non solo per insegnare con autorità e parlare al popolo in nome del Padre, non solo per compiere opere di grazia. Egli venne per soffrire per morire e risorgere. Egli stesso più che una volta lo dichiarò ai discepoli perplessi ed allarmati. Non solo preannunciò l’approssimarsi della passione e della morte, ma chiaramente affermò che egli doveva soffrire ed essere irriso. Egli esplicitamente disse che “doveva”, non semplicemente che “si apprestava a morire”. “E cominciò a spiegare loro che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto. Gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti ed i maestri della legge lo condanneranno; egli sarà ucciso, ma dopo tre giorni risusciterà” (Marco 8, 31; Matteo 16, 21; Luca 9, 22; 24; 26). È necessario, non secondo la legge di questo mondo, in cui il bene e la verità sono perseguitati e respinti, non secondo la legge dell’odio e del male. La morte di nostro Signore era una decisione presa in piena libertà. Nessuno gli toglie la vita, ma egli stesso offre la sua anima con un supremo atto di volontà ed autorità. “Io ho l’autorità” (Giovanni 10, 18). Egli soffrì e non morì “non perché non potesse sfuggire alla sofferenza, ma perché scelse di soffrire”, come è detto nel Catechismo Russo. Scelse non semplicemente nel senso di una volontaria sofferenza e non resistenza, non semplicemente perché permise che la rabbia del peccato e dell’ingiustizia si sfogasse su di lui. Non solo permise, ma lo volle. Egli doveva morire secondo la legge della verità e dell’amore. In alcun modo la crocifissione fu un suicidio passivo o semplicemente un assassinio. Era un sacrificio ed un’oblazione. Era necessario che egli morisse, ma non secondo la necessità di questo mondo, bensì secondo la necessità del divino Amore. Il mistero della Croce comincia nell’eternità, nel santuario della santissima Trinità, ed è inaccessibile per le creature. Ed il mistero trascendente della sapienza e dell’amore di Dio si rivela e si compie nella storia. Perciò il Cristo è chiamato l’Agnello “che Dio aveva destinato a questo sacrificio già prima della creazione” (Pietro 1, 9) e “che è stato sgozzato dall’eternità” (Apocalisse 13, 8). La Croce di Gesù, frutto dell’ostilità dei Giudei e della violenza dei Gentili, è in realtà solo l’immagine terrena e l’ombra di questa Croce celeste di amore. Questa “necessità divina” della morte sulla Croce supera in realtà ogni capacità dell’intelletto umano. E la Chiesa non ha mai tentato una definizione razionale di questo supremo mistero. Formule scritturali sono apparse, ed ancora appaiono, le più adeguate. In ogni caso non lo saranno semplici categorie etiche. L’interpretazione morale, o ancor più quella legale o giuridica, non possono essere altro che antropomorfismo scolorito. Ciò è vero anche riguardo all’idea del sacrificio. Il sacrificio di Cristo non può essere considerato come una pura offerta o resa. Ciò non spiegherebbe la necessità della morte, poiché tutta la vita del Logos Incarnato era un continuo sacrificio. Com’è che la sua vita purissima era insufficiente per la vittoria sulla morte? Ed era la morte realmente una prospettiva terrificante per il Giusto, per il Logos Incarnato, tanto più che già precedentemente sapeva che sarebbe giunta la Resurrezione il terzo giorno? Ma anche i comuni martiri cristiani hanno accettato tutti i loro tormenti e sofferenze e la morte stessa con piena calma e gioia, come una corona ed un trionfo. Il capo dei martiri, il Protomartire Gesù Cristo, non era inferiore a loro. E per loro stesso “decreto divino”, per la “stessa necessità divina”, egli “doveva” non solo essere sottoposto all’esecuzione capitale ed ingiuriato e morire, ma anche risorgere il terzo giorno. Quale che sia la nostra interpretazione dell’agonia del Gethsemani, un punto è perfettamente chiaro: il Cristo non era una vittima passiva, ma il conquistatore anche nella sua estrema umiliazione. Egli sapeva che questa umiliazione non era semplicemente sofferenza o obbedienza, ma il vero sentiero della gloria, della vittoria suprema. Né la sola idea della giustizia divina, la “iustitia vindicativa” può rivelare il profondo significato del sacrificio della Croce. Il mistero di quest’ultima non può essere adeguatamente interpretato in termini di una transazione, di una ricompensa, di un riscatto. Se il valore della morte del Cristo fu infinitamente accresciuto dalla sua divina persona, lo stesso si applica anche a tutta la sua vita. Tutte le sue azioni hanno un valore infinito in quanto frutto del Logos di Dio incarnatosi. Ed esse coprono in maniera sovrabbondante sia gli errori che i difetti del genere umano decaduto. Infine, difficilmente ci potrebbe essere una giustizia retributiva nella passione e nella morte del Signore, quale poteva esserci anche nella morte di un qualsiasi giusto. Infatti non si trattava della sofferenza e della morte di un semplice uomo, sopportata con l’aiuto divino a causa della sua fede e pazienza. Questa morte era la sofferenza del Figlio di Dio stesso incarnatosi, la sofferenza di una natura umana senza macchia, già deificata per essere stata unita all’ipostasi del Logos. Né ciò si può spiegare con l’idea di una soddisfazione sostitutiva, la satisfactio vicaria degli scolastici. Non perché la sostituzione non sia possibile. In realtà il Cristo prese su di sé i peccati del mondo, ma Dio non desidera la sofferenza di alcuno, egli ne soffre. Come la pena di morte del Logos Incarnato, purissimo e senza macchia, poteva essere l’abolizione del peccato, se la morte stessa ne è il compenso e se essa esiste solo nel mondo sottoposto al peccato? (…). La Croce non è il simbolo della giustizia, ma dell’amore divino. San Gregorio Nazianzeno esprime con grande enfasi tutti i suoi dubbi a questo proposito nella sua celebre Orazione Pasquale.
“A che e perché questo sangue è stato versato per noi, il preziosissimo sangue di Dio, il Sommo Sacerdote e Vittima?… Noi eravamo schiavi del maligno, venduti al peccato ed abbiamo portato su noi stessi questo danno a causa della nostra animalità. Se il prezzo del riscatto fu dato a nessun altro che a colui di cui ci trovavamo in potere, mi chiedi a chi e perché questo prezzo è stato pagato. Se è stato versato al maligno, allora è veramente insultante! Il ladro riceve il prezzo del riscatto; non lo riceve solo da Dio, ma addirittura riceve Dio stesso. Per la sua tirannide egli riceve un così abbondante prezzo, che era in dovere di aver pietà di noi… Se è stato versato al Padre, in primo luogo, ci chiediamo in che modo. Non eravamo in suo potere?… Ed in secondo luogo per qual ragione? Per qual motivo il Sangue dell’Unigenito era gradito al Padre, il quale non accettò neppure il sacrificio d’Isacco, ma mutò l’offerta sostituendo la vittima razionale con un agnello?…”. Con tutte queste domande san Gregorio cerca di chiarire come sia inesplicabile la Croce in termini di giustizia vendicatrice e così conclude: “Da tutto ciò è evidente che il Padre accettò il sacrificio non perché egli lo richiedesse o ne avesse bisogno, ma per l’economia e perché l’uomo deve essere santificato dall’umanità di Dio”.
La Redenzione non è affatto il perdono dei peccati né la riconciliazione dell’uomo con Dio. Essa è l’abolizione completa del peccato, la liberazione dal peccato e dalla morte. E la Redenzione fu compiuta sulla Croce, con il sangue della sua Croce (Colossesi 1, 20; cfr. Atti 20, 28; Romani 5, 9; Efesini 1, 7; Colossesi 1, 14; Ebrei 9, 22; 1 Giovanni 1, 7; Apocalisse 1, 5-6; 5, 9). Non solo grazie alle sofferenze sulla Croce, ma precisamente con la morte in Croce. E la vittoria definitiva è opera non delle sofferenze o della pazienza, ma della morte e della resurrezione. Entriamo con ciò nella profondità ontologica dell’esistenza umana. La morte del Signore era la vittoria sulla morte non la remissione dei peccati, né semplicemente la giustificazione di un uomo, né la soddisfazione di una giustizia astratta. E la vera chiave del mistero può essere offerta unicamente da una coerente dottrina della morte umana.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, TEOLOGIA |on 30 avril, 2014 |Pas de commentaires »

IL CREATO NELLA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

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IL CREATO NELLA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

(SONO 9 CAPITOLETTI)

1. Introduzione: due difficoltà
Nel trattare questo tema, incontro almeno due difficoltà.
1.1. La prima è quella di rischiare di dire ciò che è già emerso nel primo incontro, il cui titolo era “Il valore del creato secondo la Parola di Dio”.
Il rischio è forte perché le linee guida del modo in cui il cristiano si mette in relazione con il creato sono proprio date dalla Scrittura. Non potrebbe essere altrimenti!
Quindi, necessariamente, il problema deve essere affrontato a partire e ritornando sulla Parola di Dio. Il posto che il creato ha nella vita spirituale del cristiano può essere scoperto solo a partire dall’incontro del credente con la Parola di Dio. Essa è il luogo teologico principale che può gettare la luce per indicare strade di una possibile risposta alla nostra domanda.
Quale Parola di Dio? Il cristiano è colui il quale crede a Cristo. Perciò è proprio al NT che dobbiamo guardare come luogo “specificatamente” cristiano. E’ qui, nel NT, che emerge il tratto caratteristico della concezione cristiana della vita e quindi anche del creato. L’AT ha valore in quanto può essere illuminato dal NT, che ne è il compimento.
In connessione alla Parola di Dio, ci sono altri “luoghi” che possono informarci e dirci qualcosa sul rapporto del cristiano con il creato. Uno di questi è la tradizione della Chiesa, nella sua molteplice ricchezza, fatta di riflessione teologica, di spiritualità e dell’insegnamento autorevole del magistero.
Potrebbero istruirci su questo punto, anche l’arte, la produzione letteraria, la devozione popolare… ma il discorso ci porterebbe molto lontano.
1.2. La seconda difficoltà è che una seppur semplice presentazione di quello che il cristianesimo ha prodotto ed ha vissuto a riguardo del nostro tema si presenta come cimento difficilissimo. Si corre il rischio di dire cose “ovvie”, oppure cose che possono essere errate.
Il sottoscritto confessa di non aver una preparazione specifica sull’argomento.
Quello che dirò è una mia personale valutazione, che ho fatto a partire da alcuni suggerimenti di don Giampiero Zago e di un testo di G. Panteghini, “Il gemito della creazione”, EMP, Padova 1990. Utile ci è parso anche il testo di B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, EP, Roma, 1981, vol. III, pp. 213-263.

2. Il dato più rilevante
Dando una rapida scorsa alla storia della teologia e alla storia della spiritualità cristiana, sembra emergere un dato. Il ruolo del creato nella vita spirituale del cristiano, precedentemente alla nostra epoca (gli ultimi 40 anni, per intenderci), non sembra essere stato preso in considerazione “esplicitamente”.
Dall’epoca dei Padri della Chiesa, fino al Medioevo e poi nell’età moderna, composizioni “esplicite” di carattere teologico e spirituale sul significato del creato per il cristiano non sembra che ve ne siano. Se ne è parlato, ma in forma “indiretta”. Anche i pronunciamenti del Magistero non sembrano essersi occupati di questo rapporto.
Mi sembra importante richiamare la sottolineatura su “esplicitamente”. Se leggiamo una qualsiasi opera di un Padre della Chiesa o un Commentario medioevale, sicuramente vi troviamo riferimenti al creato ed al rapporto tra il credente ed il creato.
Ma non si trovano trattazioni esplicite – salvo meliore iudicio – su questo argomento, come invece si trovano trattazioni esplicite sui sacramenti, sulla preghiera, sulla vita monastica…
Un lavoro che resta da fare (a meno che non sia già fatto ed io non ne sia a conoscenza) è ripercorrere la tradizione cristiana e leggere nella produzione letteraria “il non esplicito”. Sicuramente emergerebbe una concezione cristiana del rapporto uomo-creato nelle varie epoche. Forse potremmo anche fare delle sorprendenti scoperte!
Possiamo dire che il problema “ecologico” nelle epoche che ci hanno preceduto non c’era. C’erano altri problemi, altre tematiche. Ma non quello del rapporto uomo-creato, segnato dalle ansie e dalle preoccupazioni, che contraddistinguono momento attuale. Fino a cinquant’anni fa, una serie di incontri come questa non avrebbe avuto alcun significato. Disastri ecologici – come la diga del Vajont o Porto Marghera – non erano neppure pensabili nelle epoche che ci hanno preceduto.
Va detto che da sempre l’uomo interagisce in forma più o meno distruttiva nei confronti della natura. Non c’è mai stata un’età d’oro nei rapporti tra uomo e natura. Un esempio: la distruzione dei boschi del Cansiglio da parte della Serenissima Repubblica e la deviazione dei fiumi che sfociavano sulla Laguna (Brenta, Piave). Ma dobbiamo riconoscere che erano interventi limitati e frutto di un’azione pluriennale. Ora possiamo deviare un fiume o distruggere un bosco in tempi molto più brevi: imparagonabilmente più brevi!
Nel passato, il rapporto uomo-creato non era sentito come “problema”, perché l’uomo non aveva la possibilità di distruggere la natura come l’abbiamo noi ora.
Il rapporto uomo-creato lo sentiamo come problema perché ci rendiamo conto di essere andati un po’ in là.
Comprendiamo di non saper più gestire le enormi possibilità tecniche che sono a nostra disposizione.
“Ora” il rapporto si fa problema: se sono un cristiano, come mi devo mettere in relazione con la natura? Che senso ha per me il creato? Un tempo, non era così.

3. Ragioni teologiche e filosofiche
Abbiamo detto che dai testi e dalla riflessione del passato, il creato sembra non essere preso in considerazione in modo esplicito nella trattazione teologica, spirituale e magisteriale. Non se ne parla molto, insomma. Al di là degli eventi contingenti (assenza di gravi disastri ecologici), possiamo chiederci come mai?
Potremmo forse individuare alcune motivazioni di carattere teologico e filosofico che possono aver contribuito a questo silenzio.
3.1. Pende sulla teologia latina una certa impostazione, di matrice agostiniana, secondo la quale la storia della salvezza è vista principalmente come un problema tra l’uomo e Dio. Il dramma della storia della salvezza è legato con doppio filo al peccato dell’uomo. Dio con la redenzione operata dal suo figlio riapre la strada all’uomo della riconciliazione.
Con una parola difficile è una storia “amartiocentrica”: si mette al centro il peccato dell’uomo e la sua redenzione, senza coinvolgere il creato.
Il creato funge piuttosto da palcoscenico, mentre gli attori del dramma sono l’uomo e Dio. Il palcoscenico, dopo che il dramma è stato consumato, si smonta. Non ha un ruolo significativo, bensì accessorio.
3.2. Ha influito su questa polarizzazione Dio-uomo (con la conseguente marginalizzazione del creato) la questione “ariana”. Nel V secolo per “staccare” Gesù dal creato e sottolineare la sua trascendenza si è marginalizzata – o comunque non si è presa in cospicua considerazione – la tematica del creato, che avrebbe potuto far riassorbire Cristo sul versante delle creature.
Ario diceva infatti che Gesù non era Dio, bensì una sorta di intermediario tra Dio e il mondo: una “supercreatura”, ma separata da Dio e collocata più decisamente sul versante del creato. Contro questa riduzione del mistero di Cristo la Chiesa ha reagito sottolineando la trascendenza di Cristo rispetto al creato e quindi “sottacendo” la relazione tra Cristo e il mondo. Relazione che è affermata (come vedremo) dai testi biblici.
3.3. Un altro aspetto che contraddistingue la tradizione cristiana dei primi secoli è il dialogo e lo scambio con il pensiero greco, che guardava con sospetto alla materia. Per la filosofia greca (almeno quella di derivazione platonica, che di più ha trovato accoglienza nel pensiero cristiano delle origini) divina è l’anima: essa è chiamata alla vita e all’immortalità. Il corpo e la materia sono imperfezione: il corpo, in particolare, è concepito come tomba dell’anima (Platone).
3.4. Col passare dei secoli si sviluppa in epoca medievale la mentalità “simbolica”. Secondo questa mentalità, la natura è concepita come ciò che significa, indica e rimanda ad un’altra realtà.
La natura non è colta in quanto realtà ricca di senso in sé, ma in quanto realtà che mette in relazione con Dio: allude, evoca, simboleggia, dà indizi che ci fanno salire a Dio. La natura è vista come segno dell’opera di Dio: non ci si sofferma su di essa in quanto natura, ma in essa in quanto simbolo, che rimanda a qualcosa di ulteriore.
3.5. Una certa modalità di intendere la vita spirituale come distacco dal mondo della natura per entrare nella soprannatura. In certi mistici, in una spiritualità anche recente, si è guardato con sospetto al corpo e alla natura, intesi come luogo di tentazione e di peccato. Il vero credente era chiamato a “disprezzare il mondo” (a patto di capire bene che cosa si intenda per mondo, perché anche Gesù parla di un mondo dal quale prendere le distanze).
Questi aspetti, tra loro disomogenei, non esauriscono duemila anni di Cristianesimo, tuttavia dicono una direzione che è stata intrapresa. Senza dubbio non è l’unica, ma certamente una che è stata vissuta in modalità diverse dai cristiani dell’occidente.

4. Segni di recupero
Qui tracceremo in modo molto sommario alcuni segni di un recupero del tema. Crediamo che resti da dire e da riscoprire molto di più di quello che noi diciamo ora. La tradizione deve essere senza dubbio molto più ricca.
4.1. La riscoperta del pensiero aristotelico (XIII secolo) ha avviato la teologia ad una comprensione più reale (meno simbolica) del creato. In questo senso spicca la figura di san Tommaso.
Il suo contributo potremmo sbrigativamente riassumerlo nel superamento (o ridimensionamento) della visione simbolica, tipica del medioevo.
Egli recupera in concetto di “Dio creatore”. La creazione non è un atto compiuto una volta per tutte, ma Dio in quanto creatore, continua ad esserlo e continua a sostenere la creazione con la sua potenza: creazione continua.
Dio è la “causa prima”, che sorregge tutto il mondo. Su questa base, si collocano le “cause seconde”, che si attuano secondo una propria ed autonoma regolamentazione. La natura, in quanto tale e nella sua realtà, ha una legge (lex naturalis) che è stata posta da Dio e dà alle cose stesse una propria legittima indipendenza.
Questa stessa legge interna alla natura permette all’uomo di risalire a Lui (la cinque vie: gnoseologia) e di comprendere la sua volontà (la legge naturale: morale).
La concezione tomista della realtà permette una rivalutazione sostanziale della creazione in quanto tale, non semplicemente in quanto simbolo.
4.2. Un posto del tutto speciale, ma – dobbiamo confessare – anche del tutto unico è quello di san Francesco (XII sec.). Unico, nel senso che pochi alludono al tema del rapporto tra creato e uomo, come ha fatto lui. Bisogna riconoscerlo. La sua unicità è una prova del fatto che questo tema nella tradizione cristiano è rimasto in parte disatteso.
4.3. Altri segni di un recupero della tematica del rapporto uomo-creato ci sono dati da alcune piste delle teologia contemporanea (XX secolo). La teologia delle realtà terrene (Thills); la teologia del lavoro (Chenu); Theilard de Chardin; la teologia politica (Metz, Moltmann); la teologia della liberazione… Potremmo dire che il problema (ecologia) è posto come noi oggi lo intendiamo solo a partire dal XX seclo.
4.4. Anche il Magistero recente segnala un ravvivato interesse per il tema della salvaguardia del creato e per l’importanza del creato nella vita spirituale del credente.
I documenti più noti: GS, Octagesima Adveniens (1971), Redemptor Hominis nn. 8. 15. 18 (1979), Laborem exercens nn. 4-5 (1981), SRS n. 34 (1987), Centesimus Annus n. 37 (1990).
Due documenti dell’episcopato tedesco: Futuro della creazione e futuro dell’umanità (1981); Assumersi la responsabilità della creazione (1985).
I Documenti comuni delle Chiesa cristiane: in particolare l’Assemblea di tutte le chiese cristiane tenutasi a Basilea (1989) e la Charta ecumenica del 2001.
Ricordiamo infine il Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1990 di Giovanni Paolo II.

5. Perché la tradizione cristiana non si è occupata del rapporto uomo-creato?
Senza colpevolizzare nessuno e senza giudicare un tempo passato con la sensibilità di oggi, il problema semplicemente non era sentito o non era sentito come lo sentiamo noi oggi. La situazione era diversa dalla nostra. Noi oggi sentiamo un po’ ogni cosa come “problema”: pregare, credere, avere dei figli, accettare noi stessi, il nostro compito nel mondo… Un tempo il rapporto con la vita stessa era più “spontaneo”, immediato: non c’era il bisogno di tematizzare (verbalizzare) ogni cosa.
Va detto che se prendiamo in esame le opere d’arte della cristianità, forse emerge un rapporto più complesso con la natura, in cui emergono tratti per noi superati e inattuali: la natura matrigna e la natura come forza da dominare (perché sfugge al controllo).

6. Il creato nella vita del cristiano: linee per una risposta “spirituale”
6.1. Lo stupore di fronte alla maestosità (salmo 8)?
Questo è un atteggiamento di tutti. Credenti o meno. Quante volte abbiamo sentito dire dello stupore di fronte alla bellezza del creato?
Il creato ci apre ad una dimensione misteriosa. C’è qualcosa di più grande di noi. E’ qualcosa di buono e bello, che ci sovrasta e dinanzi al quale noi siamo piccola cosa: “che cosa è l’uomo perché te ne curi?”. Il creato è vissuto come suscitazione del mistero: come una esperienza che ci apre al mistero. L’AT, non solo lui, è pieno di testimonianze della grandezza e maestosità del creato.
Ma questo non è ancora proprio del cristiano: non è specifico della fede cristiana. Tuttavia è un passo, un primo passo, che può condurre alla fede. Il cristiano non può accontentarsi di questo generico richiamo alla fede. La creazione è qualcosa di più. Ma che cosa?

6.2. Dove guardare per rispondere alla nostra domanda?
Lo specifico cristiano traspare dal NT. Per rispondere alla nostra domanda è necessaria una analisi dell’atteggiamento di Gesù e degli apostoli nei vangeli e negli scritti del NT.
Gesù ed i discepoli non dicono “esplicitamente” come debba comportarsi il cristiano nei confronti del creato. Tuttavia, indirettamente, ci possono aiutare.
Da un lato, si deve riconoscere una sostanziale continuità tra NT ed AT (il creato fonte di mistero, opera di Dio, opera buona di Dio, dato all’uomo perché egli lo custodisca…). In questo senso il creato viene “desacralizzato”: non è una realtà sacra in quanto tale, bensì è luogo dell’agire umano, affidato all’uomo da Dio, l’unica realtà “sacra”.
Dall’altro, il NT suggerisce l’idea di una solidarietà tra uomo e creato molto più forte dell’AT. Il creato infatti non è una realtà che si “sgonfia” alla fine del mondo, ma è chiamata a partecipare alla redenzione di Cristo.

Gesù non è un vegetariano: mangia carne e pesci… I suoi discepoli non si fermano nemmeno alle pratiche igieniche e cultuali degli ebrei, suscitando scandalo. Ciò lascia emergere una sostanziale libertà del cristiano nell’uso dei beni della terra, che però non significa prevaricazione, abuso o disprezzo.
Ma proviamo a mettere in luce alcuni dettagli.

7. Il NT ed il creato
7. 1. Incarnazione
Dio assume la natura umana ed entra nello spazio e nel tempo del creato. Il creato è capace di accogliere Dio. La materia, il creato, la carne sono una realtà diversa da Dio, ma non in opposizione a Lui (contro il manicheismo, il docetismo, l’eresia albigese e càtara). Dio può assumere una natura umana e perciò essa è buona. Non semplicemente perché Dio lo dice (“vide che era cosa buona”), ma perché egli stesso si fa carne.
Questa è una novità tipicamente cristiana. La sapienza dell’AT arriva a dire della bontà del creato, perché Dio ne è il creatore (Gn 1-3).
Ma che Dio si incarni in questa realtà buona, è solo il NT a dirlo. Solo il NT afferma che la natura è una realtà così buona, che persino Dio si “degna” di assumere.
Questa affermazione, nuova rispetto all’AT, è sconvolgente anche per il pensiero greco, che vedeva nella materia l’imperfezione e la mutevolezza: il divenire. Un Dio che si fa uomo?!?
L’incarnazione porta ad una decisiva rivalutazione della “carne” come strumento del Verbo. Nell’umanità del Verbo, vertice della creazione, la materia diviene segno e veicolo della stessa autocomunicazione divina (Rahner). Attraverso la natura umana, Dio comunica la sua realtà all’uomo. Ma anche compie la redenzione dell’umanità.

Gv 1, 14
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

Fil 2, 1-11
5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
6 il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
7 ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
9 Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11 e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

7.2. Creazione e Redenzione
Il creato è opera di Dio in Gesù Cristo. Precisamente: tutto il creato è stato posto in essere da Dio guardando al Cristo. E’ Cristo il modello a cui Dio ha guardato nella creazione del mondo. Potremmo dire che c’è una struttura “cristica” che connota tutta la creazione: non solo l’uomo, ma tutta la realtà porta in sé l’orma di Cristo.
Quale Cristo? Non semplicemente la seconda persona della Trinità, il Figlio di Dio, ma il Figlio di Dio fatto uomo: Gesù Cristo incarnato e redentore. Dio Padre ha creato l’universo per mezzo dello Spirito guardando al Figlio suo, Gesù Cristo, nella prospettiva dell’incarnazione.

Gesù Cristo è:
- la causa “strumentale” della creazione: “per mezzo di lui”;
- la causa “finale” della creazione: “in vista di lui”;
- egli continua a “sostenere” la creazione con la sua potenza: “sussistere in lui” (creazione continua);
- la causa “strumentale” della redenzione: “per mezzo di lui” sono state rappacificate le cose visibili e invisibili. Non solo l’uomo, ma tutta la creazione partecipa alla redenzione operata da Cristo.
In Cristo Gesù si saldano creazione e redenzione. Non c’è stata una creazione dall’inizio, secondo un certo progetto, e poi, siccome il piano di Dio ha fallito, Dio ha cambiato programma (redenzione).
Ma dall’inizio Dio Padre ha pensato alla creazione guardando al Figlio incarnato. La creazione è stata fatta pensando all’incarnazione del Figlio. Per questo essa poteva “strutturalmente” accogliere la natura di Dio. Essa era stata fatta appositamente capace di ospitare il divino. La redenzione non è un “cambio” del programma, ma la continuazione dell’unico piano di Dio in una realtà che l’uomo ha sconvolto con il peccato originale.
L’AT parla di creazione del mondo da parte di Dio, ma non di una creazione in Cristo. Si parla della “sapienza”: una potenza di Dio, per mezzo della quale egli ha creato il mondo. Per noi quella “sapienza” è il Figlio di Dio. Per gli ebrei è una delle “forze” di Dio e la creazione non è stata fatta in previsione dell’incarnazione di Dio.

1 Cor 8, 5-6
E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui.

Giov 1:1-3
1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

Colossesi 1, 15-20
15 Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
16 poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
17 Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
18 Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
19 Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza
20 e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Eb 1, 1-4
Eb 1:1 Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, 2 in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.
3 Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, 4 ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.

Ef 1, 3-12
3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei
cieli, in Cristo.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella
carità,
5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
6 secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue,
la remissione dei peccati
secondo la ricchezza della sua grazia.
8 Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua
volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui
prestabilito
10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi:
il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi,
essendo stati predestinati secondo il piano di colui
che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria,
noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.

- Il creato permette all’uomo di riconoscere Dio. Questo ci è testimoniato da Rm 1, 18-25:
18 In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19 poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20 Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; 21 essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. 22 Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23 e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
24 Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, 25 poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.
- Che il creato stesso sia chiamato a far parte della redenzione dell’uomo viene ribadito anche da Rm 8, 17-22: il gemito della creazione.
18 Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.
19 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
- La bontà del creato. Ogni cosa che esiste è buona. Contro ogni concezione che disprezza la terra: cfr. At 11 (Pt che mangia animali “immondi”).

7.3. Il creato nelle parole e nelle opere di Gesù
Gesù nella sua vita terrena usa spesso la terminologia dell’uomo comune per esprimere le verità divine e compie gesti utilizzando oggetti e forme presi dalla realtà in cui vive. Egli si serve delle realtà creaturali con molta semplicità ed immediatezza.

a) le parabole
Gesù si serve di fatti ed eventi del creato per dire il rapporto del credente con Dio. La natura è capace di esprimere qualcosa della vita spirituale del credente. Essa ci può istruire a volte su temi marginali, altre volte su temi centrali. Alcuni esempi:

Il tema della semina:
- la parabola del seminatore: i diversi terreni che è l’uomo (Mt 13, 4 e parr.)
- il regno di Dio e il seme: l’agire nascosto del regno di Dio (Mc 4, 26)
- il seme che porta frutto se muore: la resurrezione di Cristo (Gv 12, 24)
- il grano buono e la gramigna: la pazienza di Dio (Mt 13, 24)
- l’albero che non porta frutto: la pazienza di Dio (Lc 13, 6)

Il tema della vigna:
- I vignaioli omicidi (Mt 21, 28 ss.)
- La vite ed i tralci (Gv 15, 1 ss.)
- Gli operai dell’ultima ora (Mt 20, 1 ss.)

Gli uccelli del cielo e i fiori dei campi (Mt 6, 25-34): la provvidenza di Dio.
25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Questo è un testo istruttivo, perché dice che la provvidenza di Dio non si preoccupa in modo esclusivo dell’uomo, ma ha a cuore la realtà di tutto il creato.
Il tema della provvidenza di Dio nei confronti di tutte le creature è caro anche alla tradizione biblica dell’AT: cfr. salmi 103, Gb 38 e ss.
Dio ha creato tutta la realtà e non la abbandona a se stessa o all’ingiuria dell’uomo. Continua a prendersene cura. Dio ama il creato che ha posto in essere.
Il NT sottolinea questa verità perché afferma che anche esso è chiamato alla redenzione: anche il creato ha un “futuro” in Dio. Non è un semplice palcoscenico per le vicende dell’uomo.

b) i miracoli
Essi manifestano la Signoria di Gesù su una natura che è ancora segnata dal dolore e dalla carenza, bisognosa anch’essa di essere redenta.
Gesù si manifesta Signore della natura, perché è capace di modificarla. Egli agisce sulla natura con l’obiettivo del “segno”, cioè egli intende mostrare che è Dio.
Agisce a partire dalla natura (dalla realtà che c’è) e dalla fede dei presenti. Il miracolo ha senso lì dove c’è disponibilità a mettere a disposizione quello che si è e a credere in lui.
Il miracolo svela la natura “liberata” grazie all’intervento di Gesù. La natura viene liberata dal giogo della sofferenza e del dolore, che spesso la contraddistingue. Questo (quello di Gesù) allora è il tempo “messianico”: quello che Dio desiderava per l’uomo e quello che sarà alla fine.
Come Gesù stesso afferma in Luca 7, 18-23.
18 Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due di essi 19 e li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?». 20 Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?». 21 In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22 Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. 23 E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!».

Alcuni esempi:
- le guarigioni
- la tempesta sedata (Mt 8, 24)
- i morti richiamati alla vita (Gv 11; Mt 9, 20)
- la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 15)

c) la resurrezione di Gesù
Essa è la vittoria di Dio su una natura votata alla morte e con la resurrezione si chiarifica il significato stesso della morte. La morte è “passaggio” dallo stato presente a quello definitivo, non più il muto accesso al silenzio delle Scheol.
La resurrezione è una trasformazione che non tocca solo l’anima, ma che coinvolge in modo unitario corpo e anima. Cristo risorto non è un fantasma ma un corpo glorificato, che porta i segni della passione e che si ferma a mangiare con i discepoli (Gv 20-21 ed i racconti postpasquali).

d) l’ascensione di Gesù
Con la sua ascensione una parte del creato si trova già presso Dio. Una parte della natura umana e della creazione si trovano presso Dio. Questo significa glorificazione della corporeità umana: glorificazione della natura e del creato. Nell’incarnazione Dio entra nel mondo, il divino entra nell’umano. Con l’ascensione è l’umano che entra nel divino, nella santa Trinità e svela il destino della corporeità umana e con essa di tutto il creato. Il creato – anch’esso – ha un futuro in Dio (cfr. Lc 24 e At 1).

8. Considerazioni conclusive a partire da san Francesco
San Francesco si presenta come il la figura più istruttiva e più originale della spiritualità cristiana nel rapporto con il creato. Non ci sono – o almeno non mi pare di averle incontrato – altre figure che pongano così in rilievo la bontà della creazione. Dobbiamo dire che quanto Francesco dice è tanto più francescano quanto più è cristiano. Egli non aggiunge nulla alla fede cristiana: “esplicita” una attenzione che è già presente “in nuce” nel NT e nella storia della tradizione.
Il merito comunque è notevole, perché allarga l’angolo di visuale (non solo l’uomo e Dio, ma anche le creature) e infonde un senso di letizia e di riconciliazione all’uomo con la natura.
Mi pare che l’apporto più originale di Francesco è l’attribuzione della qualità della “fraternità” alle cose del creato. “Fratello” non è solo il mio prossimo (uomo o donna), ma – ovviamente cogliendo una diversità di intensità – “fratelli” sono anche le cose e gli animali.
Il suo Cantico è una testimonianza (non l’unica nella sua vita) di questo atteggiamento. La novità sta nel guardare alle cose con uno sguardo “carico di affetto”. Non si tratta di oggetti da prendere e usare a nostro piacimento (utor). Bensì di creature “buone”, che vengono da Dio e che sono poste in essere perché l’uomo ne usufruisca (fruor), rispettandole e custodendole.
La bontà del creato non è vista semplicemente perché io lo usi e lo mangi. Il creato non è “buono” esclusivamente in vista dell’utilizzo dell’uomo. Esse sono “buone” perché sono nostri compagni di viaggio, con una identità ed un significato proprio, che è stato loro donato da Dio.
Compagni di viaggio, dal momento che questo creato – come abbiamo già detto – non è destinato alla distruzione, bensì alla partecipazione al Regno di Dio ed alla gloria della Gerusalemme celeste. La salvezza infatti è cosmica ed universale. Questa terra è destinata a diventare dimora del regno attraverso una trasfigurazione di essa: “cieli nuovi e terra nuova”.
San Francesco ci invita ad un profondo rispetto del creato, perché esso vale in sé. Perché c’è una relazione di amicizia tra cose e uomini. Perché la strumentalizzazione del creato esprime una mentalità manipolatrice, tendenzialmente egoista e senza dubbio in antitesi con quella del Poverello d’Assisi (povertà). Perché l’abuso (ma questo Francesco ancora non lo sapeva) può originare gravi disordini e danneggiare i più poveri.
La terra è di Dio. Siamo chiamati a vivere in essa come inquilini e stranieri. La terra che Dio ha dato all’uomo è da condividere con gli animali e le piante, perché c’è una comunione di co-creature che va riscoperta.

9. Uno spunto critico
- Il limite di questo discorso è la sovradeterminazione del creato rispetto all’uomo. Cioè, molto semplicemente, che l’uomo ami di più la natura dell’uomo. Questo non è cristiano!
L’amore per le creature – questo Francesco ce lo testimonia – è una delle vie che può aiutarci ad amare di più il prossimo e Dio. L’amore per la natura non esclude o mette “in secondo piano” il fratello, a volte molto più scomodo e fastidioso di un simpatico cagnolino.
Infine, amore per la natura non significa fermare qualsiasi intervento sulla natura (fruor). C’è un’opera di umanizzazione della natura che è necessario e legittimo, per renderla degna della dimora dell’uomo. Umanizzare la natura infatti non vuole necessariamente distruggerla. L’intervento dell’uomo può essere benefico per l’uomo e per la natura. La natura, in relazione al peccato dell’uomo, è segnata da una ambiguità. Il cristiano è chiamato a liberare se stesso, ma anche la natura, da questa ambiguità (madre o matrigna). In questo modo egli continua l’opera creatrice di Dio Padre e l’azione redentrice di Cristo.

II. PAOLO APOSTOLO ALLA SCUOLA DEL CRISTO CROCIFISSO – GIOVANNI HELEWA OCD

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/helewa/itahel02.htm

GIOVANNI HELEWA OCD

II. PAOLO APOSTOLO ALLA SCUOLA DEL CRISTO CROCIFISSO

Avvicinare l’Apostolo Paolo a Gesù il Maestro è seducente ma problematico. A parte il fatto, di certo non casuale, che Paolo non chiama Gesù con questo titolo, un ampio silenzio sul Gesù storico caratterizza le lettere paoline. I fatti e le situazioni, i miracoli, le parabole, l’annuncio del vangelo del regno e la sua spiegazione, l’intimità con i Dodici, i contrasti con il giudaesimo ufficiale, gli spostamenti locali, la salita verso Gerusalemme, l’articolata vicenda della passione – elementi tutti che formano la trama narrativa di un ricordo e di una proposta e che sono il quadro in cui Gesù appare « maestro » – sembrano estranei alla prospettiva dell’Apostolo. Una cosa è certa: Paolo non è un « discepolo » di Gesù nel senso e nel modo in cui lo sono un Pietro o un Giovanni. La sua è una diversità che lo esclude dall’ambito storico di una parola come questa: <<Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono>> (Lc 10,23-24).
<<Ho veduto Gesù, Signore nostro>> (1Co 9,1). <<Apparve anche a me>> (15,8). Il suo incontro con Gesù, tuttavia, avvenne a cose fatte. Non essendo stato di quelli che furono <<con Gesù sin dal principio>> (cf Gv 15,27; At 1,21-22; Lc 1,2; Mc 3,13-14), non poteva fare propria la dichiarazione tipica dei testimoni diretti: <<Ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi>> (1Gv 1,3; cf At 10,39; 13,30-31). Valga globalmente questa differenza: anche se esortava i credenti a farsi imitatori di Cristo nell’amore (Ef 5,2), non poteva avvalersi dell’esemplarità magisteriale di un ricordo come quello della lavanda dei piedi (Gv 13,12-15). <<Rabbunì!>>, esclama Maria di Magdala al riconoscere Gesù (Gv 20,16). Tale privilegio non fu di Paolo.
È lecito allora parlare di Gesù il Maestro a proposito di Paolo? La risposta è affermativa, a condizione che si tenga presente la specificità del caso. (torna al sommario)

1. Dal Cristo Signore a Gesù di Nazaret
Confidava ai Corinzi: <<Siamo i vostri servitori per amore di Gesù>> (2Co 4,5; cf 5,14). Almeno questo dobbiamo riconoscere in partenza: non ha imparato alla scuola del Maestro come gli altri, ma l’amore che lo legava a Gesù non poteva non avere suscitato in lui il desiderio di conoscerlo il più possibile.
Del resto, quello che predicava ed insegnava era un vangelo che doveva orientare la sua mente e il suo cuore verso quel Gesù che non ebbe la fortuna d’incontrare personalmente. Diceva al mondo la « parola della fede » (Rm 10,8), la « parola di Cristo » (v. 17); e con ciò annunziava quale vangelo di Dio, insieme ed inseparabilmente, « Cristo Gesù Signore » (2Co 4,5) e « Gesù Cristo crocifisso » (1Co 2,2; cf 1,22). Non era un’astrazione la « parola della croce » che proclamava (1,18). Come poteva disinteressarsi della vicenda storica di Gesù o non informarsi per lo meno del modo in cui venne crocifisso il suo Signore e dell’itinerario che l’ha portato al Calvario? Ai Galati ricorda che <<ai loro occhi fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso>> (3,1). Paolo allude certamente alla sua catechesi orale mentre insegnava la morte di Gesù: non solo l’evento nella sua essenziale verità, ma un racconto più o meno circostanziato, comunque caldo e coinvolgente, della Passione così come l’aveva potuto sapere da fonti appropriate. Una storia concreta, un ritratto vivo; e con ciò stesso, un magistero insostituibile.
Certo, quel che conta decisivamente ormai è la fede nel vangelo di Dio, l’incontro personale con l’attuale Cristo della fede. Non già quindi il Cristo per sé accessibile all’occhio carnale e all’orecchio fisico (cf 2Co 5,16), ma il Cristo nel quale Dio opera e dice <<quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo>> (1Co 2,9), quelle cose che soltanto lo Spirito di Dio conosce e comunica alle persone (vv. 10ss). In tale prospettiva, la quale è tipicamente paolina, è la fede a dirigere lo sguardo verso il Gesù della storia, suscitando il desiderio di ascoltare la sua parola e di sostare ai piedi della sua croce; e questo cercare Gesù presuppone che si contempli nel suo volto l’attuale « Signore della gloria » (v. 8), il Cristo cioè che attualmente è il vangelo di Dio, attualmente vive nelle persone (Ga 2,20; Col 3,4) quale « sapienza e giustizia e santificazione e redenzione » (1Co 1,30), attualmente sta alla destra di Dio ed intercede per i credenti (Rm 8,34).
Detto ciò, ricordiamo l’originalità dell’approccio paolino: non ci sarebbe l’attuale Cristo della fede se non ci fosse il Gesù della storia; e non è possibile separare il « Signore della gloria » dall’individuo che portava il nome di Gesù di Nazaret, dal Maestro che diceva le cose di Dio ed è morto sulla croce a Gerusalemme. Dobbiamo insistere: tutto predisponeva Paolo ad avvicinarsi a quel Gesù che gli altri, più fortunati di lui, avevano personalmente conosciuto come il Maestro. Infatti, il vangelo a lui rivelato riguarda il Figlio di Dio (Ga 1,16; Rm 1,3; 1,9); ma questo Figlio, la cui identità divina è eterna, ha fatto irruzione nella sua coscienza rivestito di una identità umana e storica precisa: è « Gesù Cristo nostro Signore » (Rm 1,3-4). È il Figlio che, nella veste individuale di un Gesù, visse nel mondo degli uomini <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4), <<fatto della stirpe di Davide secondo la carne>> (Rm 1,3; cf Ga 3,16), in tutto simile agli uomini (cf Rm 8,3; 1Tm 2,4-6) sino ad avere voluto per sé la condizione di un « servo » (Fl 2,7), di un « povero » (2Co 8,9), di un « debole » (1Co 1,25; 2Co 13,4) – una kenosis che di umiltà in umiltà lo portò, obbediente a Dio, ad una morte come quella della croce (Fl 2,8). E se questo Figlio è contemplato adesso nella sua gloria celeste, Signore di tutti e sede viva di tutta la potenza dello Spirito (Rm 1,4; 1Co 15,45ss), tale sua esaltazione egli l’ha guadagnata per il modo in cui volle vivere e terminare la sua esistenza terrena (Fl 2,9). Non è questa la visione di un credente tanto affascinato dalla gloria del Signore da non avere il desiderio di fissare lo sguardo sul « servo » che fu Gesù.
Ad avere trasformato Paolo nel credente-apostolo che ammiriamo fu certamente la <<sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore>> (Fl 3,8), la quale gli fu donata per « rivelazione » (Ga 1,16) e pura grazia (1Co 15,10). Ma questa stessa « conoscenza », apocalisse del vangelo nel suo intimo, era tale che doveva per forza orientarlo anche verso il passato ed aprire la sua mente ad un magistero che sapeva insito alla vicenda storica che si era compiuta sul Calvario. E Paolo non viveva in una sfera astratta: aveva ampia possibilità di documentarsi, d’informarsi, sia alla fonte diretta dei testimoni storici (cf Ga 1,18-19; 2,1ss; 1Co 15,3ss; 11,23-25), sia a quella indiretta di una tradizione che già si formava nelle chiese. Perché pensare Paolo meno interessato di Luca a conoscere la storia di Gesù, anche nei particolari (cf Lc 1,1-4)? Proprio perché Gesù gli è ormai rivelato come il Figlio di Dio, dobbiamo pensarlo più che attento alla storia di Gesù, alle cose che gli vengono notificate come vissute e dette dal Maestro. Questo stesso titolo, anche se non appare nelle Lettere, Paolo non può averlo ignorato, dato che circolava già nella chiesa nascente; e Paolo era più che disposto ad imparare alla sua scuola e farsi discepolo di un tale Maestro.
Non è forse ciò che lui stesso suggerisce quando esorta: <<Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo>> (1Co 11,1)? Si imita un esempio di vita degno di essere preso a modello (2Ts 3,9; Tt 2,7; 1Pt 5,3), a scuola di comportamento (Gv 13,15), proprio nella linea tracciata in Fl 4,9: <<Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, questo dovete fare>>. In pratica, Paolo si augura che i fedeli vivano come discepoli suoi – appunto come egli sta vivendo, come un discepolo di Cristo! Nei due casi l’esempio è concreto e il modello è avvertibile; soltanto che nel secondo caso, l’esemplarità che ha « imparato e ricevuto » da Cristo, Paolo l’ha ascoltata e veduta indirettamente. Non è stato un discepolo del Maestro come un Pietro, un Giovanni, un Giacomo o un Andrea; ma lo divenne certamente quanto loro. (torna al sommario)

2. Presso la Croce con la mente e il cuore
A questo punto può sembrare strano il grande silenzio di Paolo sul Gesù storico, quel Gesù di cui deve avere acquisito ampie e dettagliate informazioni. A tale riguardo possiamo fare due precisazioni.
La prima è che le Lettere, anche se ricche di dati autobiografici e documentano a sufficienza una dottrina articolata e coerente, non dicono tutto di Paolo e della sua catechesi. In particolare, lasciano nell’ombra un settore che vorremmo conoscere meglio: la parola viva di Paolo quando predicava il vangelo ai non-credenti e, soprattutto, mentre, spiegando ai credenti il vangelo, comunicava loro la verità di Gesù Cristo <<per il progresso e la gioia della loro fede>> (Fl 1,25; cf 1Ts 3,10; 2Co 1,24). Non costretto allora dai limiti del mezzo epistolare, poteva dare libero corso ad una catechesi prolungata, didattica ed esortativa, dove i grandi temi del vangelo – quegli stessi che emergono nelle Lettere – venivano associati ad una evocazione amorosa delle cose che si sapevano di Gesù, del Gesù che Paolo stesso cercava già di imitare e di cui non poteva non desiderare che anche i credenti si facessero imitatori. Pure nella loro stringatezza, testi come Col 2,6-7 e Ef 4,20-21 aprono uno spiraglio di luce su un tipo di discorso, insieme dottrinale e pratico, dove il richiamo alla coerenza di un vivere nuovo in Cristo e secondo Cristo veniva rafforzato con il ricordo della figura supremamente esemplare di Gesù.
La seconda precisazione è attinente al carisma paolino. Anche se l’avesse voluto, Paolo non avrebbe potuto tessere una narrazione della vicenda storica di Gesù con l’autorevolezza del testimone. E sapeva che tale non era il carisma concessogli. <<Il vangelo da me annunziato… io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>> (Ga 1,11). <<Ha rivelato in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti…>> (1,16). La sua vita nella fede e il suo apostolato rimangono condizionati da questo incontro genetico con Cristo – il Cristo vivo rivelatogli come il vangelo vivo che deve annunziare. È di questo Cristo, il Figlio e il Signore, che Paolo ha conoscenza diremmo immediata; ed è questa medesima conoscenza ad abilitarlo, ai propri occhi, ad essere anch’egli, benché sia l’ultimo e come un aborto, un autentico apostolo di Cristo (1Co 9,1; 15,8). <<Subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia…>> (Ga 1,16.17). Gli è bastata l’apocalisse avvenuta nel suo intimo, la « sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore » (Fl 3,8), per sapersi apostolo e darsi alla predicazione del vangelo « in mezzo alle genti » (Ga 1,16). Maturerà la convinzione di dovere conoscere Gesù di Nazaret e avrà il tempo e la possibilità d’informarsi; ma il suo itinerario è tracciato: trasmettere il vangelo rivelatogli, irradiare la luce fatta splendere nel suo cuore (2Co 4,6), diffondere nel mondo il « profumo » del Cristo che vive in lui (2Co 2,14-16).
Comprendiamo pertanto la diversità di Paolo rispetto a coloro che erano apostoli prima di lui (Ga 1,17), ai testimoni cioè storici di Gesù: il suo non poteva essere il linguaggio narrativo del ricordo; e se il vangelo stesso lo orientava verso la vicenda storica di Gesù, di questa vicenda era portato a privilegiare, soprattutto nello spazio compresso delle Lettere, quegli elementi che più direttamente e strutturalmente appartenevano alla novità cristiana: chi era Gesù (la sua identità divina-eterna e umana-storica) e come egli divenne l’attuale Cristo-Signore, per sempre e per tutti il vangelo vivo di Dio (anzitutto il supremo e ricchissimo evento pasquale).
Bisogna infatti riconoscere che nelle Lettere la figura di Gesù di Nazaret è fatta presente con spiccata essenzialità. Spesso viene ricordata, perché ciò rientra nella verità del vangelo; ma l’approccio rimane molto selettivo. Paolo contemplava Gesù con l’ardore di un amore gratissimo, la penetrazione di un’intelligenza unica e la prontezza di un discepolo desideroso di seguirne le orme; ma è facile costatare, leggendolo, che per lui Gesù era soprattutto il crocifisso, il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (Ga 2,20), il servo che si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce (Fl 2,8).
Per la sua sublimità, la conoscenza di Cristo suo Signore ha fatto comprendere a Paolo, con l’impatto di una folgorazione, la vanità di tutto ciò che un tempo costituiva il suo vanto personale. È Cristo ormai il suo vanto e l’intera sua aspirazione. Tutto il resto è spazzatura (Fl 3,4-6.7-8). È « conquistato » come da un tesoro che ha calamitato il suo cuore staccandolo da tutto il resto (Fl 3,12; cf Lc 12,34). Questo suo tesoro ed unico vanto, però, lo interpellava di continuo ed egli se ne lasciava conquistare più e più ancora. Come? Mettendosi con la mente ai piedi della croce e fissando lo sguardo del cuore sul Signore mentre moriva per lui e per tutti. Come comprendere se non in tale senso Ga 6,14: <<Quanto a me… non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è crocifisso, come io per il mondo>>? È ricca la possibile esegesi di questa parola; ma la sua ispirazione profonda è lineare: un senso d’identità e di dignità, una libertà e un’appartenenza, un distacco totale e la sicurezza di un vanto ricchissimo; e tale visione di sé, riflesso di una religiosità meditata, Paolo la trae consapevolmente dal pensiero della croce, imparando alla scuola del Crocifisso la propria verità in Cristo e nello sguardo di Dio. Tutto permette di ritenere che Paolo, come gli altri apostoli anche se diversamente da loro, accoglieva in Gesù il suo Maestro (vedi sopra); ma tutto porta a precisare che il magistero che attingeva a tanta fonte era primariamente quella « parola della croce » che pure trasmetteva e spiegava come la verità del Cristo-vangelo (cf 1Co 1,18; 2,2). (torna al sommario)

3. Alla scuola del Crocifisso
Che cosa imparava Paolo da Gesù crocifisso? Basta ricordare che il vangelo stesso è da lui definito come la « parola della croce » per capire che la risposta potrebbe coinvolgere, direttamente o indirettamente, l’intera sua esperienza e l’intero suo messaggio. Ci atteniamo quindi ad una triplice linea, dove potremo cogliere con particolare chiarezza alcune delle sue certezze più personali ed apostolicamente più feconde: l’iniziativa del grande amore; il primato della grazia e della fede; la trascendenza di una sapienza e di una potenza degne di Dio. (torna al sommario)

a) L’iniziativa e la dimostrazione del grande amore
Del « Servo del Signore » è stato detto: <<Ha consegnato se stesso alla morte>> (Is 53,12); e del Cristo della passione Paolo ama dire: <<Ha dato se stesso>> (Ga 1,4; 2,20; Ef 5,2; 5,25; 1Tm 2,6; Tt 2,14). La formula esprime la volontarietà piena di un atto compiuto come un’offerta di sé (Ef 5,2). Si precisa che Gesù <<ha dato se stesso… secondo la volontà di Dio e Padre nostro>> (Ga 1,4): ciò che Dio ha voluto, Cristo ha compiuto nel momento in cui dava se stesso; l’offerta di sé, egli l’ha fatta nella consapevolezza e con il desiderio di aderire fino in fondo alla volontà divina come ad una norma che lo riguardava. Si allude così a quella « obbedienza » che ha portato il servo Gesù alla morte di croce (Fl 2,8), un « obbedire » che ha sovrabbondantemente compensato la colpa di Adamo ed ha aperto a tutti i tesori della grazia divina (Rm 5,18-19).
Infatti, era « per i nostri peccati » che Gesù dava se stesso (Ga 1,4), ossia « in riscatto per tutti » (1Tm 2,6), « per riscattarci da ogni iniquità » (Tt 2,14). Era questa oggettivamente la volontà di Dio; ed era questo il volere di Gesù stesso quando, fattosi servo obbediente ed offrendo se stesso, si è lasciato mettere a morte « per i nostri peccati » (Rm 4,25).
Proprio questa finalità redentiva, volontà di Dio a cui Gesù aderiva pienamente, attirava Paolo presso la croce per ascoltare la parola del grande amore. Anzitutto quella dell’amore di Gesù stesso: <<Mi ha amato e ha dato se stesso per me>> (Ga 2,20); <<vi ha amato e ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2); <<ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei>> (5,25). Ha amato noi dando se stesso; ha dato se stesso amando noi. Questo amore occupava totalmente Paolo e ne condizionava la via e l’apostolato (2Co 5,14); ed è un amore che non si finisce mai di scrutare e di comprendere, tanto vasto e profondo da « sorpassare ogni conoscenza » (Ef 3,17-19).
Alla scuola della croce Paolo imparava anche il mistero vivo dell’amore di Dio, di quella agápe toû Theoû che è l’anima eterna del vangelo (Ef 2,4; Tt 3,4-5) e la ricchezza stessa della grazia di Cristo riversata nei credenti (2Co 13,13; Rm 5,5). Infatti, la comunione di volontà tra Cristo Gesù e Dio Padre era insieme la comunione in una medesima agápe, la quale si è manifestata come una philantropia tutta misericordia e grazia e perfettamente degna di Dio (Tt 3,4-7). Alla croce vista come il documento storico del grande amore pensa Paolo quando dice che Cristo <<ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2; Ga 2,20; Ef 5,25); la stessa visione ispira quest’altra sua parola: Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi>> (Rm 8,32). Nel momento in cui Gesù <<dava se stesso per noi>>, Dio era coinvolto come colui che <<dava il proprio Figlio per tutti noi>>: una medesima agápe, un medesimo « amore di donazione »! L’agápe manifestata sul Calvario è il dinamismo di un amore che è di Cristo e di Dio, insieme e inscindibilmente (Rm 8,35.36.39).
Per sé, una speculazione teorica, adoperando categorie atemporali, può cogliere il concetto di un Dio che ama e quello di un amore che è divino. Ma non è questa la prospettiva del credente Paolo e del predicatore del vangelo. L’agápe toû Theoû in cui crede e che proclama non è astratta, ma la sostanza di una iniziativa divina storicamente compiuta. Colui che chiama il « Dio dell’amore » (2Co 13,11), Paolo lo conosce come il « Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (2Co 1,3; Ef 1,3; Rm 15,6; cf 1Pt 1,3); è il Dio che ama « in Cristo Gesù » (Rm 8,39), colui cioè che si è rivelato per sempre come il « Dio dell’amore » allorquando, non risparmiando il proprio Figlio, lo ha dato per tutti noi (v. 32), dando se stesso a tutti noi. Questa agápe, tutta donazione, è volontà e potenza di salvezza nell’attuale vangelo che è il Cristo Signore; riferirla però alla croce e morte di Gesù è un’esigenza di fede irrinunciabile. È l’eterna e presente agápe di Dio, ed insieme è <<il grande amore con il quale Dio ci ha amati>> (Ef 2,4). L’aoristo porta il pensiero ad un momento del passato, ad un evento della storia, a quel momento e a quell’evento in cui Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio>> ed ha compiuto per tutti noi la grande donazione (Rm 8,32). Quando il soggetto del verbo agapân è Dio o Cristo, Paolo adopera diremmo istintivamente l’aoristo, perché pensa direttamente al momento in cui Cristo ha dato se stesso e Dio ha dato il proprio Figlio. Questo momento può essere esteso all’intera missione del Figlio, <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4); ma il linguaggio di Paolo fa capire che si tratta piuttosto della croce-morte di Gesù.
Presso la croce Paolo si lasciava compenetrare da quest’altra verità: la grandezza propriamente divina di quell’agápe. Si deve leggere insieme Ga 2,20 e 6,14. Il Paolo che si compiace di non avere <<altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo>> (6,14), è il credente che si accosta di continuo al <<Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui>> (2,20). Sapersi tanto amato da tanta vittima! Paolo vi attinge una sicurezza sempre più solida, liberandosi da ogni vanto che possa trovarsi altrove. A tale sicurezza l’Apostolo invita anche gli altri, parlando loro del <<grande amore con il quale Dio li ha amati>> (Ef 2,4). <<Ci vantiamo in Dio>> (Rm 5,11): non è sufficiente dire che il « vanto » dei credenti è il « Dio dell’amore »; per aderire al pensiero di Paolo bisogna aggiungere che è il Dio di quell’amore, grande oltre ogni misura, che splende nella luce rivelatrice della croce.
Per questo egli parla del Dio che <<dimostra il suo amore verso di noi>> (v. 8). Quella del Dio in cui ci vantiamo è un’agápe che si lascia « dimostrare » al credente che la voglia contemplare. Dove? La risposta, essendo paolina, è scontata: <<Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi… quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo>> (vv. 8 e 10). La dignità della vittima e l’indegnità dei beneficati! È questo il documento storico, sempre aperto alla fede, del grande amore; ed è questa l’epifania di un’agápe come soltanto Dio può avere e che dice ai credenti, con una propria sua evidenza, quanto sia giustificato il loro vanto e fondata la loro speranza.
Infatti, un amore tanto grande, dimostrato in una morte come quella del Figlio stesso Dio, non può non essere solido e vincente: in esso il Dio del vangelo ha impegnato, una volta per sempre, la propria potenza e fedeltà a salvezza dei chiamati. Paolo l’insegna in Rm 8,31-39 dove, essendosi riferito alla croce nel v. 32, proclama che in mezzo a qualsiasi tribolazione e di fronte a qualsiasi ostilità abbiamo la fiducia di essere <<più che vincitori a motivo di colui che ci ha amati>> (v. 37) e che non esiste nel creato una potenza che ci possa <<separare dall’amore>> di Cristo e di Dio (vv. 35 e 38-39). Il tono sa di trionfo, tanto è certa la fede e sicura la speranza di chi si apre al magistero sempre attuale della croce. (torna al sommario)

TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO (corporeità e dintorni)

http://www.diocesicuneo.it/carlo/fede/terradimezzo/corporeita/06.htm

TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO

(corporeità e dintorni)

Con il corpo sei nato, sei cresciuto, ti relazioni con gli altri e con il mondo. Con il corpo ricevi i Sa-cramenti e cogli i segni della presenza di Dio attorno a te. Con il corpo sei chiamato a rispondere a Gesù, che ti dice: « vieni e seguimi ».
Tu, la tua persona non esiste a prescindere dal corpo. I greci sostenevano che il corpo è la prigio-ne dell’anima come una realtà estranea da abbandonare appena possibile. Per loro quello che contava era l’anima. Questa visione parziale dell’uomo ha condizionato per parecchio tempo anche il nostro modo di leggere la Parola di Dio e la storia di ogni giorno.
La Bibbia ci dice che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, come unità inscindibile di corpo, mente, anima. Scindere questa unità significa ridurre l’uomo in frantumi. Al termine della creazione, ci dice il libro della Genesi: « Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco vide che era molto buono ». Dio non si pente di aver creato l’uomo, ma si compiace.
L’uomo esiste perché chiamato all’esistenza da Dio e il suo pieno compimento sta nell’incontrare Dio e vivere con lui eternamente. E siccome questo non è così immediato, Dio stesso si è scomo-dato per incontrarci e dirci che è possibile e che ha a cuore la riuscita della vita di ciascuno, senza eccezioni. Il Padre desidera incontrare ogni uomo per realizzare le promesse di gioia e di serenità, che le vicende della vita non sempre garantiscono.
Ogni uomo è chiamato attraverso Gesù ad incontrare il Dio della vita con tutta la sua persona, cor-po e anima. Il corpo stesso non è destinato a marcire, ma a risorgere.
Creato ad immagine e somiglianza di Dio, redento da Gesù sulla Croce, l’uomo non ha ragioni per disprezzare il proprio corpo. Anzi, il corpo è tempio dello Spirito Santo ci dice san Paolo.
« Sia che mangiate, sia che beviate, sia che lavoriate, tutto fate a gloria di Dio » (1 Cor 10,31)
Il tuo corpo è tempio dello Spirito Santo: te ne sei già accorto? Quali scelte concrete hai fatto in questo ultimi mesi per rendere accogliente, per ‘abbellire’ questo straordinario tempio dello Spirito Santo? Fai dello sport? Che tipo di sport pratichi? Senti che ti aiuta a sviluppare le tue capacità, oppure è un peso che subisci?
Dicono i grandi, quelli che la sanno lunga … Tu cosa ne pensi?
* Oggi si diventa adulti più presto, ma si chiudono in questo modo altre strade ed altre possibilità di vivere l’età adulta in modo più articolato. Molti giovanissimi si comportano da grandi, emancipan-dosi presto dalla famiglia, fumano, bevono, svolgono un’attività sessuale, in realtà hanno una ma-turità solo apparente. Infatti la precocità espone l’adolescente al rischio di assumere abitudini di vi-ta pericolose per la salute fisica e psicologica, e lo espone ad abitudini che limitano il suo sviluppo. Il consumismo affettivo brucia il significato dei rapporti sessuali.
* Una volta la durata era un valore, non ci si « metteva insieme », ma ci si fidanzava (il che implica dare scopo al proprio rapporto). Prima di fidanzarsi si pensava seriamente a cosa si andava incon-tro e una volta decisi, per mantenere la promessa fatta, si era disposti a qualunque sacrificio. L’incapacità di legami forti è indice di mancanza di un progetto, di scarso coinvolgimento persona-le, di superficialità di sentimenti.
Come mi devo presentare alle altre persone? Con le mie vere qualità o con l’immagine che mi sono creato? Io cambio il mio carattere, il mio modo di fare e il mio atteggiamento in ba-se alle persone con cui mi trovo. Faccio bene?
Quando incontri una persona, soprattutto quando le vuoi bene, desideri che sia se stessa. Non ti va di incontrare un maschera: ti darebbe abbastanza fastidio scoprire che con te si presenta in un modo e con gli altri è un altro.
La risposta alla domanda viene da sé accogliendo quella saggia massima che recita: « tratta gli altri come vorresti essere trattato da loro ». Se vuoi che la relazione con una persona funzioni ti devi presentare per quel che sei.
È anche vero che in ogni situazione le aspettative che nutriamo e il giudizio degli altri condizionano il nostro comportamento e ci inducono ad indossare ogni volta un « abito adatto a quella situazio-ne ». In alcuni casi questo è imposto dalla società che ha usi e costumi non sempre in consonanza con il nostro modo di vedere le cose.
Altrettanto vero è l’impossibilità di avere con tutti lo stesso affiatamento e comportarsi allo stesso modo. Forse non sarebbe neppure giusto: con qualcuno è bene avere rapporti di amicizia anche profonda, con altri sono sufficienti rapporti di lavoro, occasionali …
Tuttavia occorre guardarsi dal pericolo di mentire a se stessi. Le maschere rischiamo di trasforma-re la tua personalità, il tuo carattere, il tuo modo di relazionarti. Un po’ alla volta diventi incapace di essere te stesso e cadi nella tristezza. La vita che vivi non è più vera, perché non ti realizza. Fai le cose per mantenere l’immagine che ti sei costruito, non per essere felice.

Publié dans:teologia del corpo |on 20 mars, 2014 |Pas de commentaires »
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