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LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

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LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

Publié dans:Paolo: studi, TEOLOGIA |on 4 août, 2015 |Pas de commentaires »

IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=150

IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

sintesi della relazione di Giannino Piana

Verbania Pallanza, 10 marzo 2001

Irradiare la bellezza di Dio significa rendere testimonianza con la vita e proclamarla con la parola sia da parte dei singoli credenti che delle comunità cristiane. Questo doppio movimento risponde alla logica che Gesù ha fatto propria: compiere gesti di liberazione e spiegarne il senso.
Si tratta di irradiare non la bellezza di una dottrina, per quanto sublime, ma la bellezza di una persona. Irradiare la bellezza di Dio vuol dire rendere trasparente il suo volto di misericordia e di amore, l’amore che Dio è.

la bellezza di Dio
Oltre alle definizioni già date nei precedenti incontri è possibile intendere la bellezza come la dimensione di profondità della realtà. La bellezza non va cercata in superficie, ma andando alla radice delle cose, oltre il livello della pura funzionalità, visione oggi dominante. Oggi conta sempre più il risultato, ciò a cui serve una certa cosa, ciò a cui è funzionale. La logica prevalente è quella funzionale e utilitaristica, anche nella valutazione etica.
La bellezza sfugge a queste logiche, per collegarsi alla logica del gratuito e dell’imprevedibile. E’ la bellezza del gesto gratuito, dello « spreco » da parte della donna che versa l’unguento sui piedi di Gesù.
Chi guarda la realtà in termini di funzionalità e utilità non è in grado di percepirne la bellezza, l’al di dentro, mai dominabile. La bellezza, la profondità è percepibile solo con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza, come sa fare il poeta e il profeta, atteggiamento che apre all’al di là delle cose. Tanto più penetro al di dentro, tanto più sono rinviato al mistero insondabile che è dentro le cose e le trascende.
La percezione della bellezza delle cose, della loro dimensione più profonda apre alla bellezza di Dio, fonte sorgiva di ogni realtà.
la manifestazione di Dio nella storia del popolo di Israele e in Gesù Cristo
La rivelazione biblica di Dio ci mostra un Dio che afferma la sua assoluta trascendenza, la sua alterità, la sua non raffigurabilità, la sua innominabilità (primi comandamenti). Di Dio è sempre più quello che non conosciamo di quello che conosciamo. Rivelare significa per un verso manifestare e per altro verso velare di nuovo (ri-velare), coprire di nuovo. Il Dio della bibbia è un Dio presente e assente, vicino e lontano, alleato dell’uomo, ma insieme mai catturabile dentro a nessun concetto o immagine.
La preoccupazione di salvaguardare la trascendenza è espressa anche dal fatto che il volto di Dio non può essere guardato se non attraverso mediazioni (fenomeni naturali, angelo, sogno).
Ci sono però molte tracce che ci aiutano a scoprire, sempre solo analogicamente, il volto nascosto di Dio.
Innanzitutto la creazione porta su di sé l’impronta del creatore (« e Dio vide che tutto quello che aveva fatto era buono e bello »). La bellezza di Dio si rivela nelle sue opere e nel settimo giorno Dio si riposa contemplando la bellezza di ciò che ha fatto, svelandone così il senso ultimo, più profondo. « I cieli narrano la gloria di Dio ». La creazione è gratuità: Dio crea le cose perché è bello che siano.
Nel creato è l’uomo che rende maggiormente trasparente la bellezza di Dio, l’uomo creato a sua immagine e somiglianza. Anzi « a sua immagine li creò », quindi l’essere umano in quanto relazione, in quanto unità che si realizza in una differenza (maschio e femmina). L’immagine di Dio è nella realzione.
Il Nuovo Testamento poi ci dice che Dio non è un solitario, ma vive in una comunione di persone, che è un Dio relazione (Dio trinitario). In questo senso Dio è amore, è carità, come dice Giovanni. L’amore è la comunione tra persone.
In questa prospettiva la bellezza di Dio può essere annunciata solo dall’uomo, laddove sviluppa relazione autentiche. Bellezza e amore sono grandezze perfettamente omogenee.
Anche il mistero pasquale mette in luce questa dimensione. Il mistero pasquale comprende la croce, realtà in sé abbrutente. Ma la croce mostra la sua bellezza nell’essere un gesto d’amore estremo. O meglio la croce in sé non è bella, bello è l’amore senza riserve e misura che esprime.
Inoltre la croce è solo la penultima parola, l’ultima è la risurrezione, la nuova vita, la trasfigurazione. Il gesto di amore smisurato trasfigura, trasforma, è sorgente di novità di vita, di bellezza: è il Cristo risorto, primizia di tutti i risorti.
La bellezza di Dio è coglibile solo « come attraverso uno specchio », cioè solo attraverso la mediazione, ed « enigmaticamente », cioè attraverso la ineliminabile ambivalenza della bellezza umana, che non può mai essere assoluta gratuità. La bellezza che ci annuncia la presenza di Dio, denuncia anche la sua assenza.
La logica del mistero cristiano, della bellezza di Dio non è la logica formale della non contraddizione, ma quella dei doppi pensieri (Dostoevski), che mette insieme il diverso, l’opposto (Gesù perfetta immagine di Dio e piena immagine dell’uomo).
luoghi e modi di irradiazione della bellezza di Dio

Saranno indicati solo alcune modalità di espressione della bellezza di Dio
testimonianza della santità
Non si tratta della santità eroica, straordinaria, ma della santità a cui tutti i credenti sono chiamati. Tutti i credenti sono chiamati ad essere perfetti come il Padre, secondo modalità e forme legate alla propria vocazione.
E’ una santità che non è frutto anzitutto dello sforzo umano, dell’impegno ascetico, ma dono Dio, dello Spirito che plasma l’essere e l’agire dell’uomo. Non siamo noi per primi che amiamo Dio, ma è Dio che per primo ci ama. L’attitudine fondamentale, quanto mai impegnativa, non è quella del fare, ma del lasciarsi fare, del ricevere, dell’accogliere il dono. L’accoglienza implica una profonda attività. Ci vuole più forza nel riconoscere umilmente i propri limiti che non nel dare.
Il contenuto di questa testimonianza è espresso dall’adesione ai valori del regno, condensati nel discorso della montagna e nelle beatitudini. Nel vivere le beatitudini si rende trasparente la bellezza di Dio. Le beatitudini richiamano ad atteggiamenti di fondo che vanno poi tradotti in scelte quotidiane, ispirate a valori che sono controcorrente rispetto al modo di pensare e di vivere tutto incentrato sul potere, sul successo, sul denaro, sulla potenza. Le beatitudini proclamano la bellezza della mitezza, della povertà, della misericordia, dell’essere pacificatori…
Tutti questi valori sono riassumibili attorno al valore dell’amore, del dono di sé, indicando la necessità di una passaggio dalla ricerca di sé ad una perdita di sé (chi cerca la vita la perde, chi perde la vita la trova). E’ la bellezza del perdersi, del donarsi.
La santità come bellezza si esprime anche nel vivere secondo la logica dell’ « io vi dico »: non insultare il fratello (equiparato al non ucciderlo), al non opporsi al male con il male, all’amore per il nemico.
Una comunità cristiana che rendesse testimonianza a questi valori, che si impegnasse una migliore qualità dei rapporti, che reagisse al male con il bene, che fosse in grado di far cadere le barriere tra prossimo e nemico, considerando ogni uomo prossimo, sarebbe un elemento di feconda provocazione e darebbe concretezza e respiro al desiderio diffuso di un modo diverso di vivere le relazioni.

il linguaggio simbolico
Anche l’annuncio deve essere sempre più momento di trasparenza della bellezza di Dio.
L’annuncio della bellezza ha bisogno di un proprio linguaggio, diverso da quello deduttivo. Alla bellezza pervengo per intuizione e induzione, non per deduzione.
Il linguaggio della bellezza cioè non può essere quella della razionalità dominante, cioè della razionalità ideologica, che tende a creare un sistema totalizzante in cui includere tutto, e della razionalità strumentale di matrice tecnico-scientifica, volta al perseguimento del potere o del dominio sulla realtà, avendo come metro di misura la funzionalità.
La tentazione di fronte a questa razionalità occidentale che tende a dominare tutto a ridurre tutto a strumento è quella di fuggire nell’irrazionale.
Nella bellezza entrano anche le emozioni, i sentimenti, ma non in alternativa alla ragione, ma come elementi che qualificano un’altra forma di ragione, una ragione, per dirla con Lévinas che non mira alla totalità, a rinchiudere tutto in un sistema, ma all’infinito, che apre, che accosta la realtà rinviando sempre oltre verso qualcosa di mai totalmente definibile, verso l’infinito.
Questa ragione nuova è la ragione simbolica. Il simbolo descrive la realtà, ma rinvia sempre oltre. Mette insieme anche il diverso, ma evocando qualcosa che va oltre, che non può mai essere del tutto definito.
La razionalità simbolica è evocativa, allusiva, che piuttosto che dimostrare, mostra, indica, apre al mistero, alla trascendenza all’alterità, mentre la forma totalizzante di ragione esclude la possibilità del riconoscimento della vera alterità.
1. Questo concetto di razionalità dovrebbe essere applicato ai momenti dell’annuncio, innanzitutto nelle omelie durante le assemblee liturgiche.
Occorre accostarsi alla Parola lasciandola parlare, senza sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili ideologismi. Anche la parola di Dio può essere strumentalmente ridotta alle nostre tesi. In passato la tentazione era quella di leggere la Parola facendo l’applicazione immediata in senso moralistico, soprattutto nella sfera della sessualità. Oggi può esserci la tentazione dell’ideologismo, piegando la parola a precostituite letture della realtà sociale. Ma il giudizio, anche necessario su eventi sociali, deve sgorgare dalla forza evocativa originaria della Parola stessa.
C’è troppo spesso la tendenza a dimostrare, a fare applicazioni immediate e non a sollecitare nelle coscienze dei singoli assunzioni di responsabilità e applicazioni in forza della Parola.
I pastori delle chiese protestanti sanno predicare molto meglio dei preti, anche perché si rivolgono a persone aduse all’accostamento alla Parola e in grado di percepire più facilmente il senso dei testi, e quindi possono limitarsi a offrire chiavi di lettura molto generali…
2. Anche i segni liturgici hanno una grande importanza. Quando i segni hanno bisogno di essere spiegati non sono più segni. Il segno deve parlare immediatamente, seppure in modo allusivo, della realtà altra a cui si riferisce.
La riforma liturgica ha operato un grande sforzo di semplificazione di molti segni, molti dei quali però sono ancora troppo lontani dalla cultura dell’uomo di oggi. C’è ancora troppo didascalismo.
Si è passati da una sacralità magico-superstiziosa, che avvolgeva di mistero il non conosciuto e il non capito (il latino, ecc.), ad una fredda razionalità che tutto spiega. Non si è passati dal sacro al santo, ad un linguaggio che evochi il mistero che sta nelle profondità delle cose e che rinvia all’alterità.Non si è passati dal sacro al mistico, che spinge nella direzione della apertura al non spiegabile.
Il linguaggio evocativo è proprio delle parabole. Gesù parla in parabole « perché vedendo non vedano e udendo non odano », C’è un percepire la profondità della realtà che va oltre il vedere. E l’udire non è ascoltare. L’ascoltare come il credere è andare in profondità, significa sintonizzarsi con l’interiorità dell’altro e non il rimanere in superficie
Gli stessi sacramenti sono l’assunzione di realtà materiali e umane già di per sé significative , che rinviano ad un senso ulteriore.
Il bello, in quanto dimensione della profondità delle cose, trascende il bene e il vero, dà al bene e al vero una nuova carica. La bellezza è ciò che impedisce al vero di diventare verità dogmatica, verità che si chiude su se stessa, che definisce.
E la bellezza impedisce al bene di cadere nel moralismo, di assolutizzarsi in norme e valori trascurando la creatività personale: Soltanto la carità è un valore assoluto, al servizio del quale devono essere posti tutti gli altri valori.

la preghiera come paradigma
La preghiera, non il recitare preghiere, ma l’attitudine del pregare, è il luogo in cui si rende trasparente la bellezza di Dio. E’ il pregare come modo di essere-al-mondo, caratterizzato dallo stare davanti a Dio e dal sentirsi abitati da lui.
Lo stare davanti a Dio significa riconoscere un’alterità che mi trascende, a cui mi riferisco costantemente.
L’essere abitati da Dio significa riconoscere che Dio è più intimo dell’intimo di me stesso, che Dio è dentro di me.
E’ la bellezza come profondità delle cose e dell’essere personale. Vuol dire sentire Dio come compagni di viaggio, ma anche come colui che non si sostituisce alle mie responsabilità nel mondo e mi rinvia al mio impegno intramondano.
Il senso del pregare è fare esperienza di Dio nella storia (il Dio cristiano è nella storia) e fare esperienza della storia in Dio, riconoscendo che la storia è una storia aperta, dentro cui si manifestano i segni di liberazione, segni del Regno che viene.
La preghiera non è tanto un atto dell’uomo che tende a dialogare con Dio quanto un atto di Dio che tende a dialogare con l’uomo. « Ascolta Israele » è l’invito che emerge da tutta la tradizione ebraica. E’ l’invito all’ascolto, all’accoglienza, alla povertà, alla gratuità, al vivere e irradiare la bellezza di Dio.

PAOLO E QUMRAN, DI JEAN DANIÉLOU

http://letterepaoline.net/2009/05/23/paolo-e-qumran/

PAOLO E QUMRAN

DI JEAN DANIÉLOU

Testo tratto da J. Daniélou, I manoscritti del Mar Morto e le origini del cristianesimo, trad. it. S. Palamidessi, Roma 1993 (ed. or. Paris 1957), pp. 78-83.

Mentre Stefano veniva lapidato, un giovane ebreo sorvegliava gli abiti dei carnefici. Si chiamava Saul. Non aveva nessuna ragione per essere simpatico a Stefano, perché non solo detestava i cristiani, ma apparteneva ad una setta ebraica diversa da quella di Stefano: era un fariseo. Vi è dunque qualche motivo per trovare in lui un’impronta delle dottrine di Qumran? Se la risposta è affermativa, fu perché egli prese contatto con gli Esseni dopo la sua conversione.
Il suo pensiero presenta dei caratteri che appartengono, senza ombra di dubbio, a quello dei manoscritti di Qumran. E ciò pone subito una questione storica: in quale occasione egli poté familiarizzare con l’essenismo? Sembra senz’altro che questo contatto abbia avuto luogo immediatamente dopo la sua conversione. In effetti, le influenze essene si sentono in tutte le lettere, e sono legate a temi fondamentali. Perciò, alla mente si presenta subito un’ipotesi. Fu a Damasco che Paolo si convertì, e fu là che ricevette la sua prima istruzione. È dunque in quel momento che egli riuscì a porsi in relazione con cristiani provenienti dall’essenismo, convertiti da quei primi missionari che furono gli Ellenisti, nominati dagli Atti degli apostoli. Quindi è verosimile che Paolo sia stato istruito a Damasco da questi Esseni convertiti. Certamente il fondo della fede di Paolo è puramente cristologico: è il Cristo risorto che gli si rivela a Damasco. Ma è incontestabile che questa fede venga da lui presentata sotto una forma che spesso ricorda Qumran.
Ciò appare immediatamente in numerose espressioni. San Paolo, ad esempio, scrive: «Noi portiamo questo tesoro dentro vasi d’argilla» (2Cor 4,7). Parallelamente, leggiamo nelle Hodayoth: «Io ti ringrazio, Signore, di aver fatto meraviglie con la polvere; con un vaso d’argilla, tu hai operato in tutta la tua potenza» (XI, 3). Alle parole di Paolo: «Dio ci ha scelti per aver parte all’eredità dei santi (gli angeli)» (Col 1,12), fa eco invece il Manuale di Disciplina: «Dio ha loro dato un’eredità nella parte dei santi» (DSD, XI, 7).
Certe rassomiglianze vanno ancora più lontano, e vertono sulle dottrine stesse. Noteremo innanzitutto che Paolo associa le nozioni di mistero, di rivelazione e di conoscenza: «È per rivelazione che io ho avuto la conoscenza del mistero che sto per esporvi» (Ef 3,3). Ora, niente è più familiare ai documenti di Qumran che questa concezione. Così, nel Midrash di Habacuc, si parla del Maestro di Giustizia «al quale Dio fece conoscere tutti i misteri delle parole dei profeti suoi servitori» (VII, 4-5); ugualmente nella Regola della Comunità: «I suoi meravigliosi misteri hanno illuminato il mio cuore» (XI, 5); e infine nelle Hodayoth: «Io ti ringrazio, o Signore, perché tu mi hai fatto conoscere i tuoi misteri meravigliosi» (VII, 26).
Si noterà che questa concezione della conoscenza come rivelazione dei segreti divini si ritrova nel giudaismo dell’epoca. Ma a Qumran è sentita in modo particolare, e permette di dimostrare con sicurezza che l’idea paolina di conoscenza è squisitamente giudaica. Del contenuto di questa conoscenza (gnosis), sono da rilevare due tratti.
Il primo è la dottrina della giustificazione. Tutti gli autori – Millar Burrows, Grossouw, Braun, etc. – sono d’accordo nel rilevare una somiglianza su tale punto. Numerosi aspetti sono comuni a Paolo e ai manoscritti di Qumran. Per prima cosa un senso intimo del peccato, molto più accentuato che nell’Antico Testamento: «L’uomo vive nell’iniquità sin dalla sua nascita; la giustizia non gli appartiene» (Hodayoth, IV, 25-27). Questo peccato non è personale, ma “originale”. Solo Dio può giustificare l’uomo: «Nella sua giustizia, egli mi purificherà dall’impurità umana» (Hodayoth, IV, 33). Questa nozione, originale rispetto all’Antico Testamento, non proviene dal fariseismo, che si basa invece sulle opere della Legge: Paolo deve averla tratta dall’ambiente di Qumran.
Paolo collega alla fede questa dottrina della giustificazione, e sappiamo ch’egli si appoggia a un versetto del profeta Abacuc (2,4): «Che per la Legge nessuno sia giustificato davanti a Dio è manifesto, poiché il giusto vivrà per la fede» (Gal 3,11). Sarebbe interessante scoprire se lo stesso versetto è commentato nel Midrash di Abacuc presente a Qumran: e infatti lo è. Vi leggiamo: «Ma il giusto vivrà per la fede. La spiegazione concerne tutti coloro che praticano la Legge nella Casa di Giuda, che Dio salverà dal giudizio a causa delle loro sofferenze e della loro fede nel Maestro di Giustizia» (VIII, 1-3).
L’accostamento è evidente, ma si percepisce subito una differenza. In un caso la fede è opposta alla Legge, nell’altro è legata alla Legge; la fede nel Cristo, come giustamente afferma Oscar Cullmann, è fede nella sua azione redentrice, che attua ciò che è impossibile alla Legge; la fede nel Maestro di Giustizia è, al contrario, la fede in colui che insegna come attuare la Legge. Sembra quasi che vi sia una polemica di Paolo, qui, contro il Midrash.
Anche un’altra dottrina, la più caratteristica di Qumran, appare in Paolo, con dei dettagli di espressione che non possono lasciare dubbi sulla sua origine: è quella della lotta fra la luce e le tenebre. Leggiamo in Rm 13,12: «Spogliatevi delle opere delle tenebre e rivestite le armi della luce». In 2Cor 4,14, la frase: «Che cos’hanno in comune la luce e le tenebre? Quale accordo vi è tra Cristo e Belial?», fa di Belial il Principe delle tenebre. Questo nome, il quale non si trova che nel Nuovo Testamento, è di uso corrente a Qumran (Documento di Damasco, IV, 13). Un’altra espressione, «l’angelo di Satana», si trova sia in 2Cor 12,7 che nel Documento di Damasco (XVI, 5).
Kuhn ha anche notato che gli elenchi delle opere delle tenebre e delle opere della luce (Ef 4,17; 5,14) richiamano la Regola della Comunità (IV, 3), con delle analogie strabilianti. Questa somiglianza appare pienamente in un passaggio degli Atti degli Apostoli, che Grossouw interpreta come il più decisivo parallelo letterario con la Lotta dei figli delle tenebre e dei figli della luce: si tratta del discorso di Paolo a Cesarea, davanti a un tribunale presieduto dal re Agrippa II e da sua sorella Berenice. Paolo riferisce la visione che ebbe sul cammino di Damasco. Ecco le parole che egli pone sulle labbra di Cristo: «Io ti mando verso i Gentili per aprire loro gli occhi, affinché essi passino dalle tenebre alla luce e dalla potenza di Satana a quella di Dio, in modo che per la fede in me essi ricevano la remissione dei peccati e l’eredità dei santi» (At 26,17-18).
Tutte queste formule hanno il loro equivalente nei manoscritti di Qumran, da «aprire gli occhi» a «l’eredità dei santi». Questo discorso è in relazione con la conversione di san Paolo a Damasco, ed è la spiegazione della sua prima esperienza del cristianesimo. È una specie di sintesi del modo in cui esso gli apparve all’inizio. Se, d’altra parte, noi constatiamo che lo schema di questo discorso è interamente esseno, come non pensare che esso sia un’eco del primo insegnamento che Paolo ricevette a Damasco, e che abbiamo qui una specie di catechismo elementare?
Abbiamo già rilevato altrove che la struttura del primo catechismo cristiano, come possiamo trovarla nella Didachè, era fondata sull’idea delle due vie, quella della luce e quella delle tenebre. Questo sembra confermare la vicinanza tra il cristianesimo che san Paolo incontrò a Damasco e il gruppo degli Esseni convertiti di cui parlano gli Atti, e spiega come la struttura stessa del suo messaggio possa presentare analogie con le dottrine attestate a Qumran.

I VIZI E LE VIRTU’ : INVIDIA E CONCORDIA / 1

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Celebrazioni/04-05/9-Invidia_Concordia.html

I VIZI E LE VIRTU’ : INVIDIA E CONCORDIA / 1

La storia di Giuseppe l’Ebreo
Il Patriarca Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché lo aveva avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. Per questo i suoi fratelli, lo odiavano e il loro odio si accese ancor più quando Giuseppe raccontò loro e ai suoi genitori i suoi sogni. “Noi stavamo legando i covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio”. E ancora: “Ho fatto un sogno: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”.
Un giorno Giacobbe disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Va’ a vedere come stanno”. Il ragazzo andò. Ma quando essi lo videro complottarono di farlo morire: “Ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: Una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!”. Quando Giuseppe fu arrivato, i suoi fratelli lo spogliarono e lo gettarono in una cisterna vuota, senz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo. Passavano in quel momento alcuni mercanti ed essi tirarono su Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento lo vendettero agli Ismaeliti.
Così Giuseppe fu condotto in Egitto. Poi presero la tunica del fratello, scannarono un capro e l’intinsero nel sangue. Quindi la fecero pervenire al padre con queste parole: “L’abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio”. E il padre suo lo pianse (cf Genesi 37).

Preghiamo con il Salmo 13

Rit.: Sei tu, Signore, il mio rifugio.

Lo stolto pensa: “Non c’è Dio”.
Sono corrotti, fanno cose abominevoli:
nessuno più agisce bene. Rit.

Il Signore dal cielo si china sugli uomini
per vedere se esista un saggio:
se c’è uno che cerchi Dio. Rit.

Non comprendono nulla tutti i malvagi,
che divorano il mio popolo come il pane.
Non invocano Dio: tremeranno di spavento. Rit.

Dio è con la stirpe del giusto,
il Signore è il suo rifugio.
Da Sion viene la salvezza d’Israele! Rit.

IN CHE CONSISTE IL VIZIO CAPITALE DELL’INVIDIA

L’invidia consiste in un sentimento di profondo rammarico che investe una persona nel vedere, o anche solo nel sapere, che un altro è più fortunato, più bravo e più capace di lui: perché il suo successo negli affari è grande, perché è felice, perché la sua carriera è brillante, perché ogni cosa gli va a gonfie vele, anche la salute e la famiglia.
Ciò può investire il mio cuore e la mia mente per qualche momento e questo non ci deve impressionare, ma quando il rammarico si impadronisce di tutto me stesso, tanto da diventare un disappunto astioso e pieno di bile che può sfociare in qualche azione o comportamento non corretto, allora diventa vizio capitale, con strascico di gelosie, rivalità, dispetti e livori. Tutta la persona viene contaminata e uno rischia anche di rovinarsi la salute.
Il desiderio di poter avere anche noi il bene degli altri e la loro fortuna, è disdicevole soltanto quando il successo altrui lo consideriamo un male per noi, quando appunto consideriamo il bene degli altri quale diminuzione della nostra gloria e della nostra superiorità. Allora il cuore si rattrista, sente che ci viene rubata la stima che ci è dovuta, le nostre parole e i gesti diventano vivaci, senza ritegno, e tutto ci crea una malinconia infinita.
Il nostro io, il nostro orgoglio, sono feriti mortalmente. Il mio cuore diventa una fontana che butta in abbondanza odio, maldicenze, mormorazioni, giudizi avventati e perversi.

CHE COSA CI DICE LA BIBBIA

“Un cuore tranquillo è la vita di tutto il corpo, l’invidia è la carie delle ossa” (Pr 14,30).
“Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,23-24).
“Pilato sapeva che i sommi sacerdoti gli avevano consegnato Gesù per invidia” (Mc 15,10).
È chiaro che i mali dello spirito vengono perché non ascoltiamo il nostro Gesù. Dice infatti la Bibbia: “che se uno non segue la sana parola, costui è accecato dall’orgoglio, è preso dalla febbre di cavilli, e da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi” (1 Tm 6,4).

COME SI CAMUFFA L’INVIDIA

Non è cosa rara che l’invidia si presenti come zelo per le cose di Dio. Si tratta di un falso zelo e ciò ci deve far riflettere. Infatti quelli stessi che ardono d’invidia per il bene che altri compiono, pensano e si convincono di agire soltanto loro per la gloria di Dio. Questo succedeva anche nei primi anni della Chiesa e non solo allora. Sappiamo che non sono esenti le comunità religiose e i movimenti. Ecco alcuni esempi.
Molti miracoli e prodigi avvenivano tra il popolo per opera degli apostoli, e andava crescendo il numero di coloro che credevano nel Signore, fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze quando passava Pietro, perché anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro e venisse guarito. Allora il sommo sacerdote e i suoi aderenti, pieni di gelosia e di invidia misero le mani sugli apostoli e li gettarono in prigione (cf At 5,12ss).
Un giorno ad Antiochia di Pisidia, dopo il grande discorso che Paolo tenne nella Sinagoga, molti Giudei e proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la Parola di Dio. Quando i Giudei videro quella moltitudine furono pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo. Ma l’apostolo vista la loro ostinazione disse: “A questo punto ci rivolgiamo ai pagani. Fu allora che i Giudei sobillarono le donne pie e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba” (cf At 13,12ss).
Può, dunque, succedere che l’ardore di zelo per il Signore diventi, in pratica, vera gelosia, una sporca invidia che sfocia in contese che minacciano la vita di una comunità ecclesiale.
Dice San Giacomo: “Dove c’è invidia e ambizione egoistica, là c’è disordine e ogni azione cattiva” (Gc 3,16). E San Paolo scrivendo ai Corinti afferma: “Quando c’è tra voi invidia e discordia, non appartenete forse al mondo? Quando uno dice: Io sono di Paolo, e l’altro: Io sono di Apollo, non vi dimostrate semplicemente uomini?” (1 Cor 3,3ss). Si devono fuggire come la peste: contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, litigi, gelosie, insubordinazioni, al contrario dobbiamo rivestirci del Signore nostro Gesù Cristo.

PREGHIAMO CON IL SALMO 54

Rit.: Porgi l’orecchio, Dio, alla mia preghiera.

Non respingere la mia supplica;
dammi ascolto e rispondimi,
mi agito nel mio lamento,
sono sconvolto al grido del nemico. Rit.

Chi mi darà ali come di colomba,
per volare e trovare riposo?
Io invoco Dio e il Signore mi salva. Rit.

Di sera, al mattino, a mezzogiorno
mi lamento e sospiro ed egli ascolta la mia voce;
mi salva, mi dà pace. Rit.

Don Timoteo Munari SDB

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso (una prospettiva esegetica)

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TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso

(una prospettiva esegetica)

di Francesco Cuccaro

Il ‘mysterion’ , delineato da Paolo di Tarso nel suo epistolario, concerne un ‘piano divino di salvezza’ , un ‘disegno di comunione e di unità’ , concepito “ab aeternum” nel pensiero di Dio. Che si realizza nella ‘storia’ che, in tal modo, palesa tutto il suo ‘valore salvifico’ .
L’Apostolo delle Genti svela l’essenza di questo piano : ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra’ ( Ef. 1,10 ).
Quindi Cristo é il “nucleo” o, per meglio, dire la “sostanza” del ‘mysterion’. Quest’ultimo si concretizza nel tempo e nello spazio attraverso la ‘creazione’ e la ‘storia della salvezza’ .
L’apice di questo ‘eventuarsi’ del ‘mysterion’ é costituito dalla ‘Incarnazione’ , dal farsi presente di Dio come uomo tra i suoi simili e dal prolungamento storico effettivo di questa presenza che é la ‘Chiesa’ .
La ‘ricapitolazione’ e la ‘riconciliazione’ risultano essere possibili non attraverso una semplice teorìa, bensì attorno all’Idea Universale della Storia, così denominata da von Balthasar, un’Idea che é anche Persona*.
*Ci viene da sorridere a volte, ma anche di rammaricarci, solo al pensare come l’uomo sia stato così vittima delle proprie illusioni. Ha fatto valere con la passione, il fanatismo, la violenza, principi astratti di per sé magari buoni, come libertà, giustizia ( giustizia sociale ), uguaglianza, fraternità, o concezioni sbagliate come il comunismo. Ma, invece, di creare un paradiso attorno a questi valori, ha prodotto sulla terra un vero e proprio inferno. Sono state commesse, nei secoli, le ignominie più atroci ed inaudite.
Certo che il Cristianesimo non é stato scevro da incoerenze per colpa dei numerosi peccati commessi da uomini di chiesa e attraverso la strumentalizzazione politica e mondana della religione, ma non si può negare che ha sempre cercato di promuovere l’unità delle coscienze, sensibilizzando l’amore per il prossimo, alleviando sofferenze e miserie materiali, inculcando il rispetto per la persona umana nella sua dignità e libertà. E mai si é “imposto” come una “rivoluzione”, del tipo di quelle che si caratterizzano nel duplice e demoniaco proposito di violentare la natura e di cancellare la storia in nome di modelli apriorici e precostituiti.
L’Incarnazione di Dio in Cristo sta a questo universale ‘disegno divino di comunione’ come il mezzo sta al fine.
Un urto teologico intollerabile per l’antico Giudaismo che ha sempre insistito sul tema della soprannaturalità divina, esasperando una incolmabile distanza tra questo e il livello creaturale. Ma la ‘possibilità da parte di una divinità di farsi uomo’ appare scontata nel paganesimo che la esprime nelle narrazioni mitologiche venate di antropomorfismo, con i suoi cicli di Osiride, Diòniso, Mithra, trattandosi, però, di personaggi veicolati dall’ottica del “simbolo”.
Il Cristianesimo, invece, nasce e si sviluppa già su un terreno abbastanza fecondo di idee su questi argomenti. Ma diffonde la sua prospettiva dell’Incarnazione in una veste unica ed originale. Unica perché Dio si é incarnato, una sola volta, in un individuo umano.
Il ‘mistero dell’incarnazione’ non comprende solo un inizio nel tempo, vale a dire quello relativo al concepimento verginale di Gesù Cristo. Ma trascende la storia stessa. Si tratta di un evento continuo ed aperto : sia nel senso che Gesù non deporrà mai più, per tutta l’eternità, la natura umana; sia per il fatto che il Risorto si rende partecipe della storia, in un modo per così dire “nascosto”, attraverso l’annuncio, la testimonianza, la fede e l’azione sacramentale della Chiesa.
La distanza del kerygma apostolico primitivo dalla mitologìa pagana é assoluta ed irriducibile. Prova il fatto che i Gentili più refrattari alla conversione non riescono proprio ad armonizzare il loro schema di incarnazione divina con quello dei ‘nuovi credenti’, come dimostra lo sconcertante equivoco degli abitanti di Listra, narrato dagli Atti degli Apostoli :
“C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce, disse a gran voce : ‘Alzati diritto in piedi !’. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente, allora al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse : ‘Gli déi sono scesi tra di noi in figura umana !’’ . E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.
Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando : ‘Cittadini, perché fate questo ? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori’. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio” ( At, 14, 8-18 ).
Anche per Paolo Dio é disceso tra noi, ma non ha assunto un corpo apparente, né si é unito ad una persona umana in modo accidentale. Tantomeno l’Apostolo fa un discorso attorno ad un semidio a guisa di Ercole o di Achille o su un uomo perfettissimo e, pertanto, immortale. Nulla di tutto questo.
L’evento dell’Incarnazione, oggetto del kerygma primitivo, é originale a causa della sua paradossalità e drammaticità e della sua estrema serietà. Pur tuttavìa, si tratta di un processo reale e ontologico in seno a Dio ( ed esistenziale nell’ambito della storia di Gesù di Nazareth ) che non modifica la sua essenza.
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Paolo offre, nella Lettera ai Filippesi, un condensato di teologìa dell’Incarnazione, stimolando la sensibilità religiosa, ma urtando la suscettibilità degli increduli. Si può notare in una tale teologìa l’assenza di termini tecnici desunti dalla metafisica greca ( Platone e Aristotele in primo luogo ), in uso presso i successivi Padri della Chiesa durante le controversie trinitarie e cristologiche.
Il brano biblico di Fil. 2, 5-11, tuttavìa, rivela una ricchezza di contenuto del ‘mistero dell’Incarnazione’, quasi da far da contraltare rispetto alla povertà e staticità di certe formule astratte ( come ‘ousìa’, ‘physis’, ‘ypostasis’, ‘energheia’, ecc. ) che sembrano irrigidirne la stessa trattazione.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù il quale, pur essendo nella forma di Dio, non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio, anzi ‘svotò’ se stesso col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo, si umiliò ( ancora ) facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato e gli ha dato il nome che é al di sopra di ogni altro nome, affinché, nel nome di Gesù ‘si pieghi ogni ginocchio’ ( Is. 45, 23 ) degli esseri celestiali, di quelli terrestri e sotterranei, e ‘ogni lingua proclami’ ( ivi ) che Gesù Cristo é Signore, a gloria di Dio Padre” ( Ef. 2, 5-11 ).
Si tratta di un inno cristologico pre-paolino, come sostiene la maggior parte degi esegeti. Ci interessa considerarlo, piuttosto, come una sua rielaborazione fatta dall’Apostolo delle Genti.
Esaminiamo i temi più salienti racchiusi in Fil. 2, 5-11.
E’ da notare la frequenza di preposizioni come “in” e “con” lungo tutto l’epistolario del Nostro, con i loro “significati più dinamici che statici” (1).
Secondo Gianfranco Ravasi, il versetto ( letteralmente preso ) “abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù” suggerisce la facile idea, secondo la quale i fedeli devono avere gli stessi sentimenti già manifestati dal loro Signore nella sua breve parentesi terrena. Concludendo: Cristo sarebbe un modello da seguire e da imitare (2). Ma, a ben riflettere, quell’ ‘in-Cristo sembra indicare un valore aggiuntivo : il Logos é la causa-sorgente dei sentimenti di umiltà, di obbedienza e di pace (3).
Allora, questo “abbiate” dell’Apostolo vuol essere un augurio, un auspicio, più che una raccomandazione. Tenendo conto di questa chiave esegetica suggerita dal Ravasi, l’inno sembra acquisire, in realtà aiuta alla riscoperta di un carattere liturgico con un proprio ritmo di preghiera.
Cristo é all’origine di questa nuova sensibilità religiosa e morale del redento. Nel caso del primo versetto, l’agire presuppone l’essere e un’esigenza, un invito, un “appello richiamano una realtà…..una persona, Gesù, che quanto più vive in noi, tanto più ci abilita ad essere come lui” (4).
Condividiamo questo punto di vista di Ravasi, secondo il quale la fonte dell’agire moralmente retto non va tanto ravvisata nella ragione, la quale opera sempre un necessario discernimento tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare ( così come ben delineato in Rom. 1, 18-32, dove si allude ad una legge scritta nel cuore di ognuno, tanto giudeo quanto pagano ), ma alla unione alla persona di Cristo Gesù nell’indicativo del dono della fede’ (5).
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Alla luce del mistero dell’incarnazione di Dio é possibile inquadrare la storia di Gesù di Nazareth.
L’inno cristologico di Ef. 2, 5-11 é ambivalente : tanto nel descrivere un uomo, Gesù Cristo, legato al proprio tempo e vissuto in un determinato luogo; quanto nel delineare il Figlio di Dio che si incarna in lui. Paolo si attiene alla storia forse in un modo non molto esplicito, comunque attraverso l’uso del passato remoto ( “furono”, “stimò”, “ svuotò”, “umiliò” ) e la rimemorazione del dato empirico ed irrefutabile della ‘morte di croce’ del Cristo ( Ef. 2,8 ).
Secondo l’Apostolo, Gesù, nella sua vita terrena. ha la consapevolezza di essere Dio, ma non “stima”, vale a dire non giudica l’uguaglianza ( l’identità sostanziale ) con il Padre come un bene, una perfezione assoluta da conservare nella fierezza, nell’egoismo e nella possessività.
“Pur essendo nella ‘forma di Dio’ , non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio” : quest’asserzione contiene un evidente paradosso costruito sulla parola greca “harpagmòn” che designa in senso attivo “qualcosa da rapire”, o passivo “qualcosa di rapito”. Quindi un “tesoro geloso” o una “preda ambìta” (6). Questo versetto, implicitamente, si riferisce alla chiara contrapposizione tra Cristo e il primo uomo**.
**Per Adamo l’uguaglianza con Dio era oggetto della sua brama e del suo desiderio ( Gn. 3,5 ), “qualcosa da rapire”, da prendere d’assalto, come sottolinea Ravasi (7), espressione di una “hybris”, di un atto di tracotanza e di superbia, non solo del nostro primo progenitore ( che dopo si pente ), ma di ogni uomo che sembra avere di Dio quasi un sentimento di terrore e di repulsione. Atti di tracotanza si moltiplicano nella Bibbia a dismisura ( quello di Nemrod e dei costruttori della Torre di Babele, tanto per citare qualcuno ), oppure narrati dalle più disparate mitologìe ( si cfr., per esempio, la rivolta dei Giganti contro Zeus, oppure le figure di Prometeo e di Capaneo ).
L’uomo Gesù non esibisce in modo velleitario e spropositato la sua altra natura di essere soprannaturale e la sua stessa uguaglianza con Jahveh. E quando si riferisce a Dio, lo chiama ‘Abbà’ –Padre- estremizzando la sua condizione di essere relativo e la sua diversità creaturale da Lui, fatte valere addirittura davanti alle dure e angosciose prove sottoposte dal Maligno ( Mt. 4, 1-11; Mc. 1, 12-13; Lc. 4, 1-13 ) e di fronte alla morte di croce.
La sua ritrosìa a compiere, in modo gratuito, i miracoli, inoltre, é evidente ( si cfr. Mt. 15, 21-28; Mc. 7, 24-30; Gv. 2,1-5. 4, 46-54. 5, 19-21 ), non per non voler beneficare i suoi simili, ma per manifestare la sua origine divina secondo tempi opportuni.
In tutto uguale agli altri uomini, distinto da loro nell’assenza del peccato e della concupiscenza carnale, distinto da loro anche dal suo esercizio di una scienza infusa e di altri doni soprannaturali, Gesù, tuttavìa, era un uomo come gli altri, nel senso che espletava gli elementari bisogni fisiologici ed era soggetto a sofferenze nell’anima e nel corpo, al lavoro, alla morte fisica ( e, per giunta, violenta ). Inoltre, apparteneva al grado più modesto della scala sociale e ai limiti dell’indigenza. Non si escludono in lui né la presenza di un certo fascino anche estetico e di una superiorità psicologica e morale nei comportamenti. Altrimenti non si spiegherebbero gli inizi della sequela da parte degli Apostoli e degli altri Discepoli, nonché la mancanza di indifferenza delle folle nei suoi confronti, tantomeno una ipotetica passione della Maddalena verso di lui ( un “gossip” tanto sbandierato ai giorni nostri ).
“Pur essendo nella forma di Dio…..” ( Fil. 2,5 ) equivale a dire che, prima dell’Incarnazione, Cristo pre-esiste in Dio e come Dio si trova in una condizione di esistenza gloriosa. Paolo, per designare quest’ultima, utilizza due vocaboli greci : “upérchein” e “morphé” . Con il primo intende “l’esserci” con “una nota di stabilità” (8); con “morphé” non soltanto l’aspetto esteriore e la manifestazione visibile di una cosa, ma anche la determinazione dell’esistenza. In che modo si dà un esserci ? Come esiste questo qualcosa o questo qualcuno ? Secondo Fil. 2,5-11 : come Dio ! Quindi la ‘forma’ può richiamare la ‘essenza’ ( anche se non ne é l’equivalente esatto ). Quanto meno é una “figura che scaturisce dalla natura reale di una persona” (9).
Bruno Maggioni sottolinea come la ‘storia di Gesù’ non sia altro che la “rivelazione di un ragionamento di Dio” (10). Il Signore non é stato geloso delle sue prerogative divine, ma ha voluto spogliarsele per condividere fino in fondo la condizione di una realtà finita. Ha illustrato all’uomo due maniere di esistere e di comportarsi per “potersi ritrovare”, “per essere-se-stesso” nel modo più autentico e vero : il ‘dono’ e la ‘umiltà’ . Due atteggiamenti che non sono possibili all’infuori del senso e della dinamica dell’ ‘amore’ . Se io amo una persona senza secondi fini, cosa non faccio se non elargisco qualcosa o, addirittura, me stesso ? “E-largire” significa ‘aprirsi’, e questo “aprirsi all’altro”, “offrirsi”, “darsi”, comporta l’impoverimento del proprio sé per perfezionare l’altro. Tutto l’opposto dell’egoismo che si fonda sulla chiusura del sé, del proprio essere, su una illusoria autosufficienza.
Un uomo per ‘essere-se-stesso’ autenticamente – parlando in termini paradossali- deve donare sé, rendere l’altro partecipe delle proprie prerogative. Addirittura in modo incondizionato, simile all’amore genitoriale ( quello materno in primo luogo ). Poi, se ricambiato con generosità, l’amore ti appaga, ti arricchisce, neutralizza l’angoscia e la solitudine. Pertanto, la perdita di una persona estremamente cara rappresenta un impoverimento del proprio sé, delle proprie energie, della propria e più profonda realtà. La semplice amicizia e l’amore coniugale possono essere un veicolo dell’amore universale di Dio per gli uomini e di questi ultimi tra di loro, in maniera disinteressata, solo se vengono garantiti nella loro purezza e salvaguardati dal pericolo dell’esclusivismo.
Questo crediamo che sia il prezioso succo del processo di ‘svuotamento’ e di ‘spoliazione’ che caratterizza la discesa del Logos in mezzo alle creature. L’autore dell’articolo non condivide tanto la riflessione di Settimio Cipriani (11) dove si insiste sul carattere “metaforico” della ‘kenosi’. Quello che ci espone la Fil. 2,5-11 non sembra mostrare una “immagine letteraria” per indurre a seguire un Cristo maestro morale di umiltà. Ma si tratta di un vero e proprio processo ontologico ed esistenziale, dove Dio, finitizzandosi in un uomo, si rende partecipe delle miserie e delle sofferenze che travagliano il creato, raggiungendo i livelli più bassi ai quali può condurre il peccato. E dove, sulla croce, la sua coscienza di uomo sperimenta la vertigine del nulla e il momento di più totale abbandono ed estraneità da parte di Dio ( si cfr. il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” in Mt. 27,47 e in Mc. 15.34 ). Strana e sconvolgente teofania !
Lo ‘svuotamento’ non é da interpretare come una modificazione o cancellazione della natura divina, quanto una rinuncia alle prerogative, alla gloria e allo splendore che competono al Logos divino nella sua pre-esistenza; anche se non mancano circostanze eccezionali nelle quali Gesù fa ricorso ai suoi straordinari poteri divini ( come nel caso dei miracoli e, tra questi, delle resurrezioni; o come nella Trasfigurazione sul monte Tabor ).
Questa ‘kenosi di sé da parte di Dio’ viene portata all’estremo. Il Logos “ha voluto limitare anche di più la sua umanità, ponendosi in uno stato di completa obbedienza e sottomissione sia a Dio che agli uomini” (12)
Ultimo in tutto, quindi, nel rapporto con la madre carnale, il padre putativo e i parenti, con le autorità civili e religiose costituite, perfino con i suoi Apostoli, con tutti, salvaguardando, tuttavìa, i diritti della verità e del Vangelo e il giusto rispetto della Legge di Dio ai quali non può derogare ( e che lo porta al duro scontro con i Farisei, i Sinedriti, i mercanti del Tempio, ecc. ). Dimostra anche di avere un senso critico che lo induce a smascherare il carattere puramente convenzionale di certe tradizioni rabbiniche che appesantiscono e snaturano l’osservanza della Toràh. L’obbedienza agli uomini gli impedisce tanto di sprofondare in un gretto, banale ed esagerato conformismo, quanto di incorrere nella ribellione aperta. Il carattere originale della predicazione di Gesù non avvalora affatto la posizione grossolana di certi storici laicisti dei nostri “gloriosi” atenei statali che intendono farlo passare per un “rivoluzionario” di quei tempi lontani.
Obbedienza agli uomini sì, ma non a prezzo di alcun compromesso che possa pregiudicare la volontà di Jahveh, la cui sottomissione é assoluta. Gesù si trova a vivere i momenti drammatici, l’ultimo dei quali lo condurrà alla crocifissione, avvertendo l’acutezza dello scontro tra le due obbedienze che non vengono, però, equiparate come avviene per un conflitto di valori. Anche se sa, in modo premeditato e doloroso, di dover fare la scelta giusta al momento opportuno.
Gesù comprende che la ‘morte violenta’ é parte integrante e culmine del disegno divino, espressione della volontà del Padre e delle conseguenze di una perseverante e fiduciosa sottomissione a Dio. Anche durante il suo ministero pubblico -possiamo asserire heideggerianamente- anticipa questa “possibilità dell’impossibilità”, tanto nell’angoscia e nella tristezza, quanto nella paura, di fronte ad un evento certo ed ineluttabile, per quanto raccapricciante***.
***La condizione di Gesù può essere simile ma non uguale a quella di un uomo che va in guerra a combattere. Quest’ultimo si trova a dover fronteggiare un pericolo che può porre termine alla sua vita. Si badi quel “può”, perché vi sono altre possibilità equivalenti : quella di rimanere incolume e vincitore, oppure ferito, o disperso, o prigioniero o addirittura disertore.
Noi abbiamo solo la certezza della morte, ma non sappiamo di quale tipo, né le modalità, né il tempo. Gesù, invece, conosce in anticipo tutto e sa che deve subire l’evento della crocifissione. Sa di dover morire solo in quel modo. Quando giunge “l’ora”, avviene nel Gethsémani una spossante ed incredibile lotta interiore nel suo animo, dove si scontrano l’io carnale, caratterizzato dall’istinto di conservazione, e il vincente io razionale, conforme al piano divino di salvezza. L’unica possibilità, per un peccatore, di sfuggire la croce é disobbedire alla volontà di Dio. Sarebbe bastato un “no” solo intenzionale in Gesù, perché Dio potesse contraddire se stesso.
“Svuotò ( ekènosen ) se stesso col prendere forma di ‘servo’ “. “Dentro il percorso di Gesù é possibile scorgere due antitesi che ne descrivono, sia pure indirettamente, anche la persona” (13). L’antitesi al ‘Signore’ non é quella di una semplice creatura, ma quella di ‘servo’ (in greco ‘doùlos’), sconvolgendo il pregiudizio dominante in base al quale la schiavitù é considerata il livello più infimo di esistenza che possa interessare un uomo. Questa del ‘servo’, in tal modo, diviene la chiave ermeneutica per una diversa ed originale concezione della divinità****.
****Gesù, nella sua breve parentesi terrena, si trova a vivere in un contesto dove la ‘schiavitù’ é un istituto sociale connesso ad una economìa prevalentemente agricola. Infatti, nel mondo ellenistico-romano, allo ‘schiavo’ non viene riconosciuta una vera e propria dignità personale, come gli sono negati i diritti civili.
Limitato anche nell’esercizio di quelli naturali, si trova ad essere soggetto in tutto e per tutto alla discrezionalità o, addirittura, all’arbitrio del padrone che può anche farlo uccidere. Inoltre, non ha per niente il diritto di disporre, autonomamente, di se stesso in qualche modo.
La possibilità per uno schiavo di mutare, in positivo, la propria misera condizione sociale é molto minima. La stessa sensazione di vivere sotto la signorìa assoluta dell’altro lo accompagna per tutta la vita.
Con l’influsso della filosofia stoica e con l’affermazione del Cristianesimo, anche la legislazione romana stabilisce una serie di misure filantropiche miranti a tutelare la figura del ‘servo’.
Ovviamente, Gesù non é nato in una famiglia di schiavi ma, per l’estrema obbedienza riservata a Dio, egli si é qualificato come ‘servus’, riabilitando anche una figura sociale fin troppo disprezzata, improntando di ‘amore’, di ‘dedizione’ e di ‘fraternità’ il suo rapporto di dipendenza dal signore.
In alcune citazioni evangeliche, Gesù allude non tanto alla condizione di esistenza del servo, quanto al rapporto di obbedienza e di dedizione che il credente deve stabilire con Dio e verso il prossimo. Pensiamo al suo gesto della lavanda dei piedi degli Apostoli e al suo conseguente ‘discorso sul primato del servizio’ ( Gv. 13, 1-20 ).
E poi non dimentichiamo che, nell’ambiente israelitico, la situazione dello schiavo é meno peggiore rispetto a quella vigente presso i Gentili, non solo per alcuni spazi di autonomìa a lui concessi, ma anche per il fatto che ad esso può spettare, di competenza, anche l’amministrazione dei beni del suo padrone ( a Roma ciò può essere di pertinenza solo dei liberti ), come Gesù ci ricorda in una sua similitudine in Mt. 24. 45-51 . Il Maestro galileo, inoltre, loda il centurione romano di Cafarnao non solo per l’illimitata fiducia in lui e per l’interesse mostrato alla religione mosaica, ma anche per lo spirito di carità verso un suo schiavo che lo induce a sottomettersi di buon grado al Cristo ( Mt. 8, 5-13; Lc. 7, 1-10 ).
Ma é pur vero che Paolo, quando scrive “col prendere forma di servo”, si confronta con le profezie messianiche di Isaia che alludono ad una misteriosa figura nota come quella del ‘Servo di Jahveh’ :
“Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderò, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non si spezzerò, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” ( Is. 42, 1-4 ).
Effettivamente, l’inno pre-paolino di Fil. 2, 5-11 richiama la tradizione profetica veterotestamentaria con l’espressione ‘forma di servo’ . Esaminiamo, al riguardo, il quarto carme isaiano sul Messìa :
“Ecco, il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente. Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano fatto” ( Is. 52, 13-15 ).
Questo brano é un pò la chiave ermeneutica retrospettiva dell’espressione di Fil. 2,7 : “col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo nell’aspetto esterno”. Puntualizziamo la nostra attenzione su questo versetto paolino “diventando simile agli uomini” e su questo di Isaia “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo”. Si noti bene : “simile”, cioè non uguale agli uomini sotto un certo rispetto.
L’inno non ci dice che Gesù ha assunto un corpo apparente, oppure che é un essere intermedio tra Dio e noi ( come, per esempio, può essere inteso un angelo ). Non viene messa in discussione la sua identità essenziale ( fuorché nel peccato ) con gli altri uomini.
Il processo di umiliazione e di spoliazione non concerne solo il fatto che Gesù diventi un uomo come gli altri, nascendo, crescendo, subendo gli stessi processi biologici, e morendo. Oppure ad una continua autolimitazione, anche in quanto uomo, perché soggetto all’obbedienza verso i suoi simili.
Esso é una “discesa” che non esclude la ‘derelizione’ , la quale sarà fatto compiuto durante la Passione, dove Cristo sarà sottoposto al potere mortifero dei suoi persecutori, in modo che -come predìce Isaia- il suo aspetto esteriore sarà così sfigurato tanto da apparire diverso ( e quindi “simile” ) dagli altri.
“E alla morte di Croce” : questa citazione sembra essere, secondo le osservazioni di alcuni biblisti, un’aggiunta originale di Paolo all’inno cristologico preesistente. Eppure in Fil. 2,5-11 si evince una ‘teologìa della croce’ o ‘staurologìa’ che si apre in tre direzioni : verso Gesù, verso il Padre e verso gli uomini (14). In rapporto al Padre la ‘croce’ esprime l’obbedienza assoluta ed incondizionata, dove il sacrificio diventa atto di omaggio e di adorazione ( nonché di accoglienza ), da parte di un uomo, a Dio e il culmine della redenzione. Significativo questo suggerimento di Maggioni : “Gesù ha condiviso la sorte dell’ultimo degli uomini” (15), quale può essere inteso uno schiavo, al quale può essere comminata la crocifissione.
La staurologìa di Fil. 2, 5-11, e più precisamente di Fil. 2,8, si regge sui verbi “fattosi obbediente” e “si umiliò” che ci indicano come la crocifissione non sia stata una circostanza fortuita, un semplice incidente di percorso capitato al Maestro galileo, ma la logica conseguenza di questa continua umiliazione e di questa estrema obbedienza al Padre celeste (16).
Quindi, anche la ‘croce’ trova la sua logicità che si ravvisa nel ragionamento con il quale Gesù non intende la sua ‘uguaglianza con Dio’ come un bottino da conservare (17). La ‘Croce’ diviene anche una chiave di comprensione di come Dio sia stato capace di rinunciare alla propria condizione di esistenza gloriosa per poter essere un uomo, per giunta il più reietto, uno “schiavo”, in modo da dimostrare ai sofferenti la propria solidarietà e condivisione nel destino.
E’ chiaro che chi ha composto questo inno cristologico di Fil. 2,5-11 é partito proprio dalla Croce per scoprire il volto dell’Essere supremo, anche se all’incontrario legge la storia di Gesù a partire da Dio(18).
Maggioni asserisce che l’ultimo atto della storia di Gesù Cristo consiste nella sua ‘glorificazione’ come il diretto contrario dello ‘svuotamento’ che funge, rispetto alla prima, da “conditio sine qua non”. Ma non é l’ultimo e conclusivo “capitolo” della ‘storia della salvezza’ (19). La condizione del ‘Servo di Jahveh’ non é definitiva ed assoluta. Se fosse tale, rasenterebbe la più totale insensatezza, la follia più accertata, una forma assurda, inaccettabile e repellente di masochismo o di vittimismo. Non é definitiva perché ha uno scopo ben delineato : il ristabilimento di una ‘signorìa’ universale originaria, compromessa e guastata dal peccato e dalla disobbedienza.
Richiamando una formula felice di Hegel, la ‘positività del negativo’, la condizione del ‘servo’ diventa, paradossalmente, privilegiata. Non perché quest’ultimo possa garantire al suo padrone, ma anche a se stesso, la sopravvivenza materiale con il lavoro. Ma perché acquisisce una coscienza superiore a quella di chi esercita il potere su di lui e dei suoi limiti, la consapevolezza delle potenzialità costruttive della sua esistenza sacrificata. Analogamente alla posizione dello schiavo, Gesù si rende consapevole che di fronte a Dio il peccato e la morte fisica vanno incontro al loro limite e non hanno l’ultima parola su tutto.
“Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato” ( Fil. 2,9 ) : quel “perciò” pone un “legame di causalità tra l’obbedienza della Croce e la gloria della esaltazione” (20). La ‘gloria’ é il frutto della ‘obbedienza’ (21), ma che non esclude l’iniziativa del Padre di donarla in modo gratuito tanto all’uomo Gesù che si é fatto obbediente fino al sacrificio della propria vita terrena per l’attuazione del ‘mysterion’, quanto al Logos preesistente che, incarnandosi in lui, si é svuotato delle sue prerogative divine, donandosi, a sua volta, al Padre e agli uomini nella più totale ‘derelizione’ . Il legame di causalità tra l’obbedienza e la gloria viene rivendicato da Gesù nella sua vita terrena, come attestato dalla tradizione sinottica : “chi si abbassa sarà innalzato” ( Mt. 23, 12; Lc. 18,14 ).
La ‘glorificazione’ deve avvenire attraverso la ‘sofferenza della croce’ . Gesù, in due occasioni, mostra di avere questa angosciosa ma tenace consapevolezza :
“ ‘L’anima mia é turbata e che devo dire ? Padre, salvami da quest’ora ? Ma per questo sono giunto a quest’ora ! Padre glorifica il tuo nome’. Venne allora una voce dal cielo : ‘L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò !’. La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano : ‘un angelo gli ha parlato’. Rispose Gesù : ‘Questa voce non é venuta per me, ma per voi. Ora é il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” ( Gv. 12, 27-32 ).
“Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse : ‘Padre, é giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa é la vita eterna : che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse……..Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17, 1-11 ).
II termine greco di ‘gloria’ é indicato, sia in Fil. 2,5-11 che negli scritti giovannei, con ‘doxa’ . Maggioni ci informa che con essa si intende tanto la ‘lode’ dal punto di vista della creatura, quanto la ‘manifestazione visibile di Dio’ perché, per l’appunto, l’uomo possa stupirsi, accettarlo, amarlo e riconoscerlo quale supremo Signore (22).
Parafrasando Gv. 12, 17 sembra che Gesù voglia dire : “Padre, manifestati in me !”. Secondo gli schemi religiosi israelitici, riferirsi al ‘Nome’ di Dio significa rapportarsi alla sua Persona, per la sussistenza di una stretta correlazione tra il nome e la realtà da esso designata. Per il pio ebreo Dio é innominabile nella sua assoluta inaccessibilità.
L’angoscia di Gesù si fa più pressante per l’avvicinarsi della fatidica ora della morte e rivela già una tensione tra l’istinto di conservazione e il principio di realtà. Parafrasando lo stesso versetto, é come se dicesse : “Non pensare a me, alla mia vita, ma solo a manifestare la tua potenza e la tua gloria”. Una voce dal cielo intende richiamare l’attenzione degli astanti, confermando le parole del Messìa. Per chi ammette il soprannaturalismo, é indubbio che parecchie persone assistano ad una rivelazione sorprendente di Dio. Non tutte percepiscono il fenomeno allo stesso modo ( forse un tuono, forse una voce magari penetrata direttamente nell’animo ), né la sua origine. E Gesù non precisa più di tanto, lasciando intendere che si tratti di una voce rivolta ai suoi ascoltatori.
Quanto alla ‘elevazione’ , la si può intendere a due livelli : sia attraverso la ‘crocifissione’, sia mediante la ‘resurrezione’ e la ’ascesa al cielo’.
E’ interessante esporre questo ragionamento. Non solo attraverso i miracoli e la sua predicazione, ma anche mediante l’obbedienza e la sofferenza –fino alla morte- del Logos incarnato, é avvenuta la glorificazione del Padre celeste. Attraverso il ‘martyrion’, la ‘testimonianza’ dalle azioni più elementari fino al sacrificio della propria esistenza terrena di Gesù, il Padre ha avuto la sua manifestazione visibile più solenne, sul piano storico, anche se non ultima e definitiva. Ora il Figlio di Dio incarnato invita il Padre a glorificarlo, a donargli, nella pienezza della sua unione ipostatica teandrica, quella gloria che il Logos possedeva ( e possiederà ) sul piano metastorico.
Questa gloria non é vista, per l’appunto, come un “tesoro geloso”, ma dovrà essere partecipata dagli uomini, da coloro che credono e crederanno nel Logos.
Sul piano storico Gesù sarà continuamente glorificato, prima dagli Apostoli e poi ( secondo la figura dell’enallage ) dai fedeli di tutte le generazioni, affinché “siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17,11 ). Da non considerare l’ultimo versetto come una semplice metafora, se per ‘cosa’ si intende una realtà fatta di piena comunione tra il creato e il suo Autore.
L’inno cristologico utilizza un termine greco che rafforza, superlativamente, l’esaltazione di Gesù, dono del Padre : “hyperypsosen”. Che concerne un ‘sovraelevamento’, una “possente ascensione del Cristo” (23). “E’ la resurrezione con lui di tutto l’essere” (24). Non solo il ritorno ad un’esistenza originariamente gloriosa ma, per la natura umana, é anche il conseguimento della completezza.
Questo supremo atto divino, denominato “hyperypsosis”, concerne proprio il ristabilimento di quella signorìa che Dio aveva prima dell’Incarnazione, prima ancora che Satana e l’uomo la violassero con il peccato di disobbedienza.
Tuttavìa, é sbagliato pensare che l’atto sia stato compiuto una volta per tutte con l’uscita di Gesù, nel suo corpo risorto, dalla scena del mondo, come sembra suggerire il verbo “hyperypsosen” volto al passato. Si tratta piuttosto di un atto perenne e continuo perché metastorico, ma che si svolge anche nel tempo e nello spazio.
L’Apostolo delle Genti –come, del resto, tutti gli autori neotestamentari, non considera gli eventi della storia della salvezza come conclusi in sé, non solo per la constatazione che tali avvenimenti si richiamano l’un l’altro, oppure perché uno di essi é sempre foriero di conseguenze e “gravido dell’avvenire”. Ma anche perché ciascuno assume una dimensione metastorica che gli permette di trascendersi e di universalizzarsi. In caso contrario, la liturgia cristiana (prendiamo, per esempio, la celebrazione eucaristica) sarebbe una semplice commemorazione di atti del Signore, ormai conclusi una volta per tutte. Il rapporto tra Dio e le creature, nell’ottica neotestamentaria, richiama la distinzione tra l’eternità e il tempo. E una loro implicazione e compenetrazione. Mai la loro separazione. E gli autori biblici sanno molto bene questo dettaglio : quando indicano alcuni eventi importanti -che coinvolgono Gesù- utilizzano un tempo verbale indefinito.
Si esprime, per indicare un atto divino compiuto nel tempo, una forma verbale di passato, ma senza la funzione di indicarlo. Con un verbo volto al passato si descrive la qualità dell’azione colta nel suo svolgersi, senza prendere in considerazione la sua durata.
Così vale per la “hyperypsosis” di Gesù che é continuata nei cieli e sulla terra, nel senso che il Figlio di Dio si glorifica anche attraverso la Chiesa e in ognuno dei credenti che si conforma alla fede ricevuta.
L’atto di ‘innalzamento di Cristo’ –che non si riduce solo alla sua ascensione corporea- ha il suo momento culminante nel conferimento del ‘Nome’ che é al di sopra di ogni altro nome ( Fil. 2,9 ).
Conferire un “nome”, nell’ottica biblica, significa designare una profonda realtà e riconoscerla, effettivamente, per quella che essa é. Lo si é visto già nel racconto della creazione dell’uomo, secondo la tradizione jahvista, dove Adamo viene invitato da Dio a dare un nome a tutti gli esseri viventi ( Gn. 2, 19-20 ), esercitando un potere sul creato in virtù di una scienza a lui infusa. Si badi che a Gesù crocifisso e risorto non viene attribuito un nome, ma il ‘Nome’ per eccellenza che lo pone a livello di Dio ( nel senso che lo si riconosce solo con quello ), al di sopra di ogni altro essere.
Per i pii israeliti Dio ha il suo ‘Nome’ e molteplici attributi con tanto di superlativi assoluti. Esso non può neanche essere pronunciato se non con un rispetto elevato. E’ un nome che designa la sua essenza metafisica ma, durante la rivelazione sul Monte Horeb, andava inteso come “Io sono colui che sono” ( IHWH ) l’aiuto di Israele che farà uscire dall’Egitto, umiliando il Faraone.
Gesù risorto ha lo stesso nome di Dio. Rifacendosi alla tradizione veterotestamentaria, riprendendo una espressione di Isaia ( Is. 45, 23 ) che richiama il gesto di adorazione e di sottomissione – consistente nel “piegare il ginocchio” – di tutti gli esseri creati nei confronti di Jahveh, l’inno cristologico di Fil. 2,5-11 ribadisce che lo stesso atto deve essere rivolto a Gesù nella dignità assunta dalla sua natura umana, “dopo l’umiliazione dell’Incarnazione e della morte di croce” (25).
Ma qual é questo ‘Nome’ ( in greco “to onoma” ) da conferire a Gesù Cristo ?
L’inno di Fil. 2,5-11 lo cita al singolare, ma si guarda bene dal dirci qual é. Non é difficile immaginare che esso, in maniera implicita, si riferisca al sacro tetragramma I H W H che i pii ebrei non osano pronunciare, sostituendolo con il termine ‘Adonai’ che significa ‘Signore’.
Il Padre conferisce il Nome a Gesù. Ma cosa sta a significare ? Che il Nome non era mai appartenuto al Logos ? Si tratta, invece, proprio di riconoscere a quest’uomo, Gesù Cristo ( nel quale il Verbo si é incarnato ), che ha sofferto e morto in modo così violento per totale obbedienza a Dio, la stessa dignità divina e la sovranità universale su tutti gli esseri, permettendo così “di esercitare con pienezza i diritti di sovranità, di giustizia e di giudizio” (26).
Probabilmente Paolo ( come pure gli Evangelisti ) ha letto l’Antico Testamento nella versione greca detta dei ‘Settanta’, dove il termine ‘Adonai’ é tradotto con ‘Kyrios’. Duplice é lo scopo della ‘esaltazione’ : una ‘proclamazione universale’ che equivale ad una ‘confessione di fede’ ( nell’inno viene utilizzato il verbo “exomologhein” ), secondo la quale Gesù Cristo é il Signore ( Fil. 2,11 ), esprimentesi anche come assoluta ‘lode a Dio Padre Onnipotente’ ( Fil. 2,11 ).
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Una confessione che neanche le potenze avversarie al piano di Dio ( Fil. 2,10 ), quelle che agiscono nel mondo umano e le realtà infernali, possono ignorare e negare. E che viene richiesta alla fede dei credenti, soprattutto quelli contemporanei a Paolo di Tarso, e che “sostanzia” la propria vita su questa terra e nell’oltretomba. Non si può evitare nessuna circostanza che possa indurre a sottrarsi alla confessione della propria fede . Altro che a voce ! Addirittura fatta con il sacrificio della propria esistenza terrena.
I cristiani del I secolo, del tempo di Nerone e di Domiziano, hanno la gaudiosa ma anche tragica consapevolezza della loro vita inserita nell’ottica del ‘martyrion’, da meditare e vivere giorno per giorno, in un ambiente difficile, a loro diffidente e ostile, dove sono discriminati e vessati da parte del popolino e dei Giudei, ancor prima della persecuzione legale. Incorrendo poi in circostanze tremende dove non é possibile eludere una tale confessione di fede attraverso un conflitto di valori e di doveri, perché l’Imperatore di Roma ( come pure l’errore ) non ha gli stessi diritti di Dio ( e della verità ).
Domiziano, considerandosi “signore e dio”, esprimeva un atto di tracotanza, una “hybris”, una prevaricazione nei confronti della misura e del giusto equilibrio, urtando la suscettibilità anche dei pagani più rispettosi delle loro tradizioni religiose, nonché degli intellettuali onesti.
Non si é tenuti ad una cieca obbedienza, traducentesi in un atto di omaggio e di adorazione, per non compiere un attentato all’unità di Dio, del Dio biblico; ma anche per non essere ritenuti complici di un inaudito atto di superbia.
Il programma imperiale di una riforma religiosa che sarà perseguito, con tenace determinazione, da Domiziano e da altri “princeps”, mirava non solo a rafforzare l’assolutismo, ma anche a far valere una pretesa totalitaria a tutto il mondo romano. Che si doveva per forza interpretare in termini religiosi.
Il consenso alla persona dell’Imperatore non doveva essere solamente civile e politico, ma anche interiore. Il culto a questo monarca, in quanto “dominus et deus”, non era solo un atto liturgico a favore di un dio accanto ad altri. Possiamo affermare in questo modo : i diversi culti e le varie religioni del Mediterraneo del I secolo avevano il diritto di esistere solo se ritenuti subordinati e in funzione di quelli imperiali.
I pagani si assoggettavano a queste aberrazioni, dimostrando tutta la loro viltà di fronte alle disposizioni imperiali ed incoerenza nel tributare onori alle loro specifiche divinità.
Ma il riconoscimento della ‘signorìa’ di Gesù non può avvenire se non attraverso l’umiliazione più assoluta che non é tanto quella di farsi uomo di Dio, quanto quella del prendere la forma di ‘servo’, gratificando una categoria sociale reietta, dimostrando la sollecitudine dell’unico Creatore di tutte le cose non dalla parte del pre-potere, ma sempre nei confronti dei deboli, dei sofferenti, dei vessati.
Il Cristianesimo, tuttavìa, non si é mai diffuso come un tentativo di rivoluzione sociale. Esso ha sempre rispettato il principio di gerarchia e il diritto naturale della proprietà privata, accettando e coesistendo perfino con strutture socio-economico-giuridiche, sorte con il peccato, immettendovi in esse una nuova e vitale linfa, fatta di fraternità, di amore, di riconoscimento della dignità di qualsiasi uomo, il rispetto dei deboli e dei sofferenti, che deve improntare sempre i rapporti interpersonali, compresi quelli di interdipendenza.
Il ‘Vangelo’ si é proposto come un ‘rinnovamento delle coscienze’ : ha chiamato alla fede “il giudeo e il greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, senza la pretesa di abolire distinzioni naturali o anche le disuguaglianze artificiali. Queste ultime sarebbero venute meno col tempo, grazie anche al trionfo dei principi cristiani nella società greco-romana e in virtù delle contingenze di fatto ( come, per esempio, la fine delle guerre di conquista da parte di Roma, le invasioni barbariche con connessi contrazione dei commerci e impoverimento delle campagne ).
Quella di Paolo é una religione che riesce ad assecondare la domanda di spiritualità e a rispondere alle esigenze di rigenerazione esistenziale anche di una grande massa di uomini senza speranza ( e tali non sono solo gli schiavi ) che prima hanno trovato un debole conforto nei culti misterici, opponendoli alle religioni delle classi medio-alte, ritenute, non a torto, come ipocrita espressione culturale e ideologica del predominio di altri uomini.
L’Apostolo indica, tuttavìa, un’oppressione e una sofferenza ancora peggiori che interessano tutti, potenti e deboli, ricchi e poveri : quelle legate al peccato, all’egoismo e al mancato disciplinamento delle passioni.
Cristo ha mostrato che il vero ‘servizio’ da vivere con umiltà e dono di sé controbatte la peggiore delle servitù, cioé quella al peccato e al demonio. Esso consiste nel “fare la volontà di Dio” e nell’amore disinteressato verso il prossimo e, addirittura, verso i nemici (Mt. 5,43-48; Lc. 6,27-36).

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La valenza teologica della ‘Croce’ di Cristo permette al neofita di fissare la concentrazione di tutta la storia della salvezza e del ‘mysterion’ divino in quello strumento di morte ( e, paradossalmente, di vita ), in quell’evento, in modo che tutto ciò che attiene alla Rivelazione biblica non potrà mai risultare concepibile al di fuori di esso. All’infuori della ‘croce’ più nulla é comprensibile.
Divenendo il segno inequivocabile di una fede che dura da due millenni.
Una tale valenza rispecchiata così bene in questo densissimo e mirabile inno cristologico della Lettera ai Filippesi.

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

http://www.ccdc.it/dettaglioDocumento.asp?IdDocumento=259

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

BENEDETTO XVI, SAN PAOLO (11, 2008) LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20081105.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 novembre 2008

SAN PAOLO (11).

L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) – così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.

E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.

E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).

Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).

Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

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