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LA MORTE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO E DI TEILHARD DE CHARDIN (MARCO GALLONI)

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LA MORTE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO E DI TEILHARD DE CHARDIN (MARCO GALLONI)

Pubblicato da Fausto Ferrari Se per l’Apostolo la morte è un insulto alla dignità di Dio e dell’uomo, Teilhard, pur senza nasconderne il carattere drammatico, vede nella morte il momento/luogo privilegiato in cui si nasconde la forza ascensionale del mondo. San Paolo e Pierre Teilhard de Chardin hanno concezioni della morte che a prima vista possono apparire assai diverse, per certi aspetti persino inconciliabili. Per l’Apostolo la morte è l’oltraggio supremo alla dignità di Dio e dell’uomo; entrata nel mondo come conseguenza del peccato (Rm 5,12.17; 1 Cor 15,21), vi regna sovrana (Rm 5,14). Tale concezione è ripresa dalla dottrina cattolica. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma senza mezzi termini: «Interprete autentico delle affermazioni della Sacra Scrittura e della Tradizione, il Magistero della Chiesa insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, sess. 5°, Decretum de peccato originali, canone 1: DS 1511). Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato (cfr. Sap 2,23 – 24). “La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato” [Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, 18: AAS 58 (1966) 1038], è pertanto “l’ultimo nemico” (1 Cor 15,26) dell’uomo a dover essere vinto» [1]. Nell’affermazione del Catechismo c’è una frase che esige spiegazioni: «Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire». Cosa vuol dire che l’uomo possedeva una natura mortale ma Dio lo destinava a non morire? Il teologo saveriano Battista Mondin lo spiega così: «Di per sé la morte, per quanto odiosa e dolorosa, non è un evento innaturale, ma è una conseguenza naturale della costituzione psicofisica dell’essere umano. Questi non è dotato soltanto di un’anima intellettiva spirituale, la quale è di diritto incorruttibile e immortale, ma anche di un corpo soggetto alla generazione e alla corruzione e pertanto alla disgregazione e alla morte. Tuttavia nei progenitori, Adamo ed Eva, la corruttibilità del corpo e quindi la morte, grazie a un dono speciale, erano state rimosse» [2]. San Tommaso, nella Summa, precisa in cosa consiste questo dono speciale: «Dio, a cui tutte le nature sono soggette, nel creare l’uomo supplì al difetto della natura dando l’incorruttibilità al corpo mediante il dono della giustizia originale. E in questo senso si dice che Dio non fece la morte e che la morte è punizione del peccato» [3].

Il conflitto tra visione scientifica e teologica L’Aquinate, dunque, afferma che con questo dono «della giustizia originale» Dio «supplì al difetto della natura». Qui il divario tra la visione teologica e quella scientifica si fa ampio. Per la scienza moderna la morte non è affatto un difetto di natura ma, al contrario, un elemento vantaggioso e anzi necessario alla sopravvivenza della specie: se non esistesse la morte dei singoli individui le specie non sopravviverebbero né tantomeno potrebbero differenziarsi. Il conflitto tra visione scientifica e teologica, quindi, non sta tanto nella trasmissione del peccato originale, come Pio XII scriveva nella Humani generis – anche perché in questi ultimi anni molti genetisti stanno rivalutando il monogenismo, ritenendo il poligenismo incompatibile con la teoria di Darwin [4] – quanto nell’immortalità dei singoli individui: se Dio non avesse revocato a Adamo ed Eva il dono della giustizia originale quanti uomini ci sarebbero oggi sulla Terra, soprattutto se teniamo conto dell’esortazione a «essere fecondi e moltiplicarci» di Gen 1,28? Possiamo davvero pensare che Dio avesse in mente di riempire fino all’inverosimile il nostro pianeta?

La morte secondo Teilhard de Chardin Se per l’Apostolo la morte è un insulto alla dignità di Dio e dell’uomo, Teilhard, pur senza nasconderne il carattere drammatico, vede nella morte il momento/luogo privilegiato in cui si nasconde la forza ascensionale del mondo. Scrive Teilhard: «Essa (la morte) ci farà subire la dissociazione attesa. Ci porterà allo stato organico richiesto perché si precipiti su di noi il Fuoco divino. In questo modo, il suo nefasto potere di decomposizione e di dissolvimento verrà captato in vista della più sublime delle operazioni della Vita. Ciò che per natura era vuoto, lacunoso, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità di Dio» [5]. Questo vale anche e soprattutto per la morte di Cristo, che Teilhard considera non meno feconda della resurrezione e della quale – scrive – ancora «ci sfugge la potenza creatrice». Teilhard – fa notare il teologo protestante Georges Crespy [6] ­– non è affatto insensibile alla sofferenza umana, argomento che affronta sempre con il massimo rispetto e la più grande serietà. Ma per il gesuita francese i dolori che affliggono l’uomo non sono mancanze della creazione: in essi, al contrario, si nasconde quella «forza ascensionale del Mondo» che deve essere in qualche modo liberata. In questo senso la croce di Cristo può essere vista come il simbolo di un’azione di eccezionale intensità. È come se, nel Cristo crocifisso, l’intera creazione si consumasse, senza tuttavia annientarsi: la forza creatrice, al contrario, libera tutta la sofferenza del mondo e la trasporta su un piano più elevato, verso una nuova creazione o meglio, come direbbe Teilhard, verso una nuova fase della creazione [7].  Possiamo fare un parallelo tra questa azione straordinariamente intensa di cui parla Teilhard e il concetto di energia che ricorre negli scritti di Paolo. L’Apostolo utilizza quattro termini differenti per descrivere questa energia: «potenza», che troviamo oltre 50 volte nelle sue opere; «energia» e simili (circa 30 volte); «forza» (5 volte); «vigore» (3 volte) [8]. In Ef 1,18 – 20 li usa tutti insieme, in una sequenza di impressionante intensità: «(Dio) illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza (d??aµ??) verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia (e????e?a) della sua forza (???t??) e del suo vigore (?s???). Egli la manifestò in Cristo quando lo risuscitò dai morti…» (cfr. Bibbia CEI ed. 2008).

Comment je vois: la metafisica teilhardiana La visione che Teilhard ha della morte, e del male in generale, discende dalla sua particolare metafisica. Il gesuita la espone nel saggio Comment je vois (1948), uno dei testi presi di mira dal sant’Uffizio nel Monitum del 1962. Teilhard muove critiche radicali alla metafisica classica, nella quale si deduce il mondo a partire dall’essere, considerato come originario. Per il gesuita francese, invece, non esiste un essere immobile e a se stante che in un bel momento decide di mettere in moto l’universo: «Il mobile» – scrive Teilhard – «è fisicamente generato dal movimento che lo anima». Il gesuita parte dall’idea che l’essere sia determinabile grazie a un suo movimento caratteristico, che lui definisce «di unione». Teilhard concepisce l’essere non come «l’essere in sé», in senso statico, ma come «l’essere per sé»: l’essere esiste solo in relazione all’unione con altri esseri; per questo c’è chi ha definito quella teilhardiana una «metafisica dell’unione». Dio, per Teilhard, esiste unendosi («opponendosi trinitariamente a se stesso») e unendosi si completa. L’essere non può concepirsi al di là del movimento per mezzo del quale si unisce. Il nostro universo in evoluzione esiste come premessa di mondo non appena lo fa sorgere la relazione trinitaria; il disordine iniziale non è materia senza forma ma contiene in sé una prestruttura di unione. In altri termini: l’universo esiste e non può non esistere, al contrario di quello che la metafisica classica afferma. San Tommaso, per esempio, ragiona a partire ex contingentia mundi, cioè dall’idea che l’universo non è necessario ma contingente: esiste ma potrebbe non esistere, esiste solo per un atto di volontà di Dio. Secondo Teilhard, insomma, sembrerebbe che Dio non possa fare a meno di creare. In questo modo l’autodeterminazione e l’autosufficienza di Dio sono fatte salve, ma la creazione assume un carattere molto diverso: non è più un atto di volontà del Creatore, una sua scelta, ma appare come una simmetria – o un riflesso, un’immagine, se si vuole – della Trinitizzazione. L’unione non si esercita più, come nella metafisica classica, sopra uno strato esistente che costituisce l’oggetto della creazione. L’essere non preesiste all’unione, così come il mobile non preesiste al movimento: la creazione, intesa come origine, non è che l’atto iniziale di una realizzazione progressiva (pleromizzazione) che si attua su una materia già idonea all’unione perché costituita a immagine della Trinità [9].

La soluzione al problema della teodicea In questo modo Teilhard risolve in modo elegante quanto rigoroso il problema della teodicea. Finché si rimane nella metafisica classica il problema è senza soluzione, oppure trova soluzioni non del tutto convincenti. Teilhard, muovendo sapientemente pochi pezzi della scacchiera, fa invece uscire la partita dalla condizione di stallo. Dio, creando, si unisce alla sua creazione, si immerge nel molteplice e così facendo entra in lotta con il male. Per creare, egli non può che procedere ordinando e unificando una quantità di elementi che dapprima sono estremamente numerosi e semplici, poi man mano diventano più complessi e coscienti. Tutto questo non può non produrre degli errori, dei difetti, dei sottoprodotti di lavorazione, se così possiamo dire. Scrive Teilhard al riguardo, elaborando una sorta di gerarchia del male in tutte le sue forme: «Disarmonie e decomposizioni fisiche nel previvente, sofferenza nel Vivente, peccato nel campo della libertà, non c’è ordine in formazione che, in tutti i gradi, non implichi disordine». In sé il molteplice disorganizzato non è cattivo, ma proprio in quanto molteplice non può progredire verso l’unità senza generare il male, dal momento che è sottoposto al gioco delle possibilità. Se Dio crea l’universo in un solo modo, unificando, il male è praticamente inevitabile, quasi «una pena inseparabile dalla Creazione». Ecco quindi come Teilhard risolve il problema della teodicea: l’onnipotenza, la bontà e la perfezione di Dio non sono messe in discussione, mentre alla perfezione del mondo si può (si deve) rinunciare. Organizzare – e Dio crea organizzando, unificando – vuol dire vincere un disordine, e questo implica necessariamente la produzione di una certa quantità di errori e difetti, il che non mette minimamente in discussione la potenza unificatrice e positiva di Dio [10] e nello stesso tempo libera l’uomo dal senso di colpa che una interpretazione troppo rigida del racconto della caduta può far gravare sulle sue spalle. Si badi bene: lo libera dal senso di colpa, non dal senso del peccato; l’essere umano non è affrancato dall’arduo compito della conversione. Teilhard esprime tutto questo in una splendida pagina de Il significato e il valore della sofferenza: «In un mazzo ci si stupirebbe di scorgere fiori imperfetti, “a disagio”, dal momento che i singoli elementi sono stati raccolti a uno a uno e artificialmente messi insieme. Al contrario, su di un albero che ha dovuto lottare contro gli incidenti connessi al suo sviluppo e quelli esteriori delle intemperie, i rami spezzati, le foglie lacerate, i fiori secchi, fragili o avvizziti si trovano “al loro posto”, esprimendo le condizioni più o meno difficili di crescita del tronco che li sostiene. Allo stesso modo, in un Universo dove ogni creatura formasse un piccolo universo tutto chiuso, voluto per se stesso e teoricamente trasponibile a volontà, avremmo qualche difficoltà a giustificare, nel nostro modo di vedere, la presenza di individui dolorosamente bloccati nelle loro possibilità e nel loro sviluppo. Perché questa gratuita ineguaglianza e queste gratuite restrizioni? In compenso, se il Mondo rappresenta veramente un’opera di conquista attualmente in corso; se, veramente, con la nascita veniamo lanciati nel pieno della battaglia, non possiamo fare a meno di intravedere che, per il successo dello sforzo universale di cui siamo insieme i collaboratori e la posta, sia inevitabile la sofferenza. Il Mondo, visto sperimentalmente al nostro livello, è un immenso brancolare, un’immensa ricerca, un immenso attacco: i suoi progressi sono possibili solo a costo di molti insuccessi e di molte ferite. I sofferenti, a qualunque specie appartengano, sono l’espressione di questa condizione, austera ma nobile. Non rappresentano elementi inutili o sminuiti, ma si limitano a pagare per la marcia in avanti e il trionfo di tutti. Fanno parte dei caduti sul campo» [11]. Nel brano appena riportato risuona l’eco di Rm 8,19 – 23: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». Insomma: quello che Paolo chiama redenzione, salvezza, liberazione dalla schiavitù della corruzione, Teilhard lo definisce evoluzione, pleromizzazione, convergenza, ma il concetto è essenzialmente lo stesso. L’inconciliabilità tra la visione di Paolo e di Teilhard sulla morte, il male e la sofferenza, dunque, è solo apparente: in realtà, fatte salve le differenze, c’è una sostanziale identità.

Principio di complementarità, principio di inerzia e peccato originale Resta però uno scoglio, e tutt’altro che piccolo: come conciliare le esigenze evolutive con quelle del singolo, l’interesse della specie con la tragedia personale che ogni morente affronta? Anche in questo caso la scienza può venirci in aiuto. Non la biologia o la genetica, stavolta, ma la fisica del ‘900, e per l’esattezza il principio di complementarità di Niels Bohr. Tale principio afferma che di una particella atomica o subatomica non può essere osservato contemporaneamente, nello stesso esperimento, l’aspetto corpuscolare e quello ondulatorio, la posizione e la velocità. I due aspetti sono complementari, ma si nascondono reciprocamente: li si può osservare soltanto separatamente, uno alla volta. Così è anche per la morte del singolo individuo e per la sopravvivenza della specie: sono il complemento – cioè il completamento, l’integrazione – l’una dell’altra, ma non possiamo afferrarle con lo stesso ragionamento perché si nascondono a vicenda; la morte del singolo è un vantaggio per la specie ma un dramma per l’individuo; per converso, l’immortalità personale sarebbe disastrosa per la specie. La scienza può aiutarci anche a guardare con maggior serenità al momento del trapasso. Noi crediamo per fede che la nostra vita non si concluda con la morte del corpo, ma la fisica ci offre un principio che può soccorrerci nei momenti in cui la fede vacilla o in cui la ragione esige i suoi tributi: è il principio di inerzia, intuito da Galileo Galilei – ma già Giordano Bruno, nella Cena delle ceneri, in qualche modo lo anticipa [12] – e poi elaborato pienamente da Cartesio e da Newton. Il principio di inerzia afferma che «un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato». A questa formulazione si è arrivati, dopo circa duemila anni di riflessioni, attraverso un cambiamento di domanda: invece di continuare a chiedere «perché, se lanciamo un sasso, questo a un certo punto cade?» si è cominciato a porre la domanda in quest’altro modo: «Perché, se lanciamo un sasso, questo non prosegue la sua corsa all’infinito?». Sembra la stessa domanda, ma è radicalmente diversa, perché parte dal presupposto che la corsa del sasso duri indefinitamente: se noi oggi riusciamo a mandare le sonde spaziali su Marte è proprio in virtù del principio di inerzia. Possiamo applicare lo stesso ragionamento alla nostra vita, smettere cioè di chiederci perché a un certo punto moriamo e iniziare a domandarci perché la nostra vita non prosegue oltre. Se nel caso della fisica ciò che impedisce al sasso di proseguire la sua corsa è una forza esterna (l’attrazione gravitazionale terrestre, l’attrito dell’aria), per quanto riguarda la nostra vita la forza perturbatrice è il peccato, non nel senso che il peccato causi la morte biologica ma nel senso che, offuscandoci la vista e la mente, riducendo la prospettiva del nostro sguardo, ci impedisce di cogliere che la vita in realtà non termina, non ci viene tolta ma trasformata. Ecco perché Paolo, in 1 Cor 15,56, dice che il peccato è il pungiglione della morte: l’Apostolo non dice che senza il peccato la morte non ci sarebbe, perlomeno non lo dice in questo passo; afferma che senza il peccato la morte non ferirebbe, non farebbe male. Senza il peccato originale attraverseremmo la morte serenamente, come gli uomini di cui parla Dostoevskij ne Il sogno di un uomo ridicolo (1877) [13]. Lo scrittore racconta che, sopraffatto dal senso di colpa, sogna di togliersi la vita e di essere deposto nella tomba. Qui, con sua sorpresa, lui che si aspettava «il perfetto non essere», scopre che dopo la morte continua in qualche modo a esistere. A un certo punto arriva una misteriosa creatura alata (un angelo, un demone?) che lo afferra e lo porta a fare un giro nell’universo. Quindi riconduce lo scrittore sulla Terra, ma è una Terra diversa, senza il peccato originale. E qui Dostoevskij descrive gli uomini che la abitano: sono uomini bellissimi, felici, che vivono in pace tra loro e con gli animali, senza ucciderli né fargli del male; lavorano pochissimo, quanto basta a procurarsi un po’ di frutta e qualche seme. Muoiono anche loro, ma molto in là con gli anni e benedicendo chi rimane come se fossero sicuri di rivederlo poi dall’altra parte. Così moriremmo – in questo modo splendido che solo uno scrittore come Dostoevskij poteva descrivere – se il peccato originale non ottundesse la nostra anima e i nostri occhi.

Marco Galloni

NOTE SUL SITO

BENEDETTO XVI – SAN PAOLO (12) – ESCATOLOGIA: L’ATTESA DELLA PARUSIA.

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20081112.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 12 novembre 2008   

SAN PAOLO (12) – ESCATOLOGIA: L’ATTESA DELLA PARUSIA.

Cari fratelli e sorelle,

il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell’attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti. Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l’Apostolo scrive così: “Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti” (4,14). E continua: “Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore” (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E’ questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è “essere con il Signore”; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata. Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!” (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dell’arrivo del Signore vi sarà l’apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’ (2,3), che la tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: “Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità” (3, 10-12). In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo. La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia – ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi” (1, 21-26). Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.           E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell’attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro. In secondo luogo, la certezza che Cristo è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c’è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte  e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.           Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna —  è giudice e salvatore insieme —  ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.           Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo all’escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9). Infine, un ultimo punto che forse appare un po’ difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua prima Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell’area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa “Signore nostro, vieni!” (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si chiude con questa preghiera: “Signore, vieni!”. Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: “Vieni, Signore Gesù!”. Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c’è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni  nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! “Vieni, Signore Gesù!”, e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.

 

JÜRGEN MOLTMANN (TEOLOGIA DELLA SPERANZA)

http://www.filosofico.net/moltmann.htm

JÜRGEN MOLTMANN (TEOLOGIA DELLA SPERANZA)   A cura di Diego Fusaro

« L’escatologia è la dottrina della speranza cristiana, che abbraccia tanto la cosa sperata quanto l’atto dello sperare. Il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine, e non soltanto in appendice: è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente. L’elemento escatologico non è una delle componenti del cristianesimo, ma è in senso assoluto il tramite della fede cristiana, è la nota su cui si accorda tutto il resto, è l’aurora dell’atteso nuovo giorno che colora ogni cosa con la sua luce » (Teologia della speranza).   jürgen Moltmann nasce nel 1926 ad Amburgo: prigioniero di guerra in Gran Bretagna, inizia là i suoi studi di teologia, che terminerà a Gottinga nel 1956 con una tesi sulla teologia degli ugonotti. Divenuto libero docente nel 1957 con un lavoro sul calvinismo, Moltmann tiene lezione in parecchie università, tra le quali quella di Bonn e di Tubinga. Ad affascinarlo e ad avviarlo alla riflessione filosofica è soprattutto la lettura de Il principio speranza di Ernst Bloch: l’opera blochiana lo induce a domandarsi con insistenza perché alla fede cristiana sia sfuggito il tema della speranza, che è in realtà il suo tema principale. Riflettendo su questi argomenti, Moltmann compone nel 1963 un saggio su Il principio speranza e la fiducia cristiana: in questo scritto, esaminando le tesi di Bloch, egli mette in luce come l’intero impianto della filosofia blochiana tenda al futuro e, in forza di ciò, si proponga di recuperare gli elementi di speranza racchiusi nel passato. Il marxismo, nell’ottica blochiana, non è altro che la docta spes che recupera e rende superiori (conferendo ad esse la veste scientifica del materialismo storico) le speranze del passato, dalla preistoria ad oggi. Ma la pur pregevolissima filosofia di Bloch fa naufragio di fronte ad alcuni aspetti del cristianesimo, carichi di speranza, ma di una speranza ultramondana che non può in alcun caso essere ricondotta all’ipermondana riconquista dell’armonia dell’uomo vagheggiata da Bloch. Questi fondava la speranza su basi oggettive, mostrando come la realtà stessa, nelle sue strutture profonde di possibilità (strutture colte da Avicenna più che da ogni altro filosofo), è speranza: in ciò si risolve la blochiana ontologia del non-ancora-divenuto. L’uomo, in quanto non ancora compiuto, vive affacciato sul futuro: la sua piena realizzazione ancora non c’è stata, sicché per ora l’uomo è un homo absconditus, la cui vera realtà ha ancora da emergere. Ma questa speranza tutta intramondana, secondo Moltmann, non è assolutamente in grado di fronteggiare la morte: di fronte ad essa, la speranza va in frantumi. Solo la speranza cristiana, ponendo l’accento su una realtà ultramondana e trascendente, può vincere la morte: sicché non il marxismo (come credeva Bloch), bensì il cristianesimo, con la sua speranza in Dio, dev’essere considerato come la “dotta speranza” che eredita quelle del passato e che tiene viva, fra gli oppressi, la prospettiva di un futuro di giustizia. Il frutto di queste riflessioni su Bloch è la Teologia della speranza, del 1964: quest’opera segna una vera e propria svolta nel panorama teologico di quegli anni, ponendosi come alternativa alle posizioni di Barth e di Bultmann. In Teologia della speranza, Moltmann interpreta l’intera rivelazione cristiana alla luce del “principio speranza”, muovendo dalla constatazione che l’essenza del cristianesimo sia la sua escatologia, la quale dev’essere dunque intesa come il cuore del Nuovo Testamento. A questo proposito, Moltmann analizza una dopo l’altra le grandi interpretazioni dell’escatologia prospettate da teologi e filosofi: in particolare, egli rigetta la tesi kantiana per cui la dimensione escatologica altro non sarebbe se non la condizione di possibilità dell’esistenza etica. Da rifiutare è anche la lettura data da Karl Barth e incentrata sulla nozione greca di epifania (che, facendo della rivelazione una manifestazione dell’eterno nel tempo, nega la speranza in un futuro che deve ancora giungere). Lo stesso Bultmann sbaglia a far leva esclusivamente sulle speranze del singolo. In opposizione a queste interpretazioni, Moltmann mette in luce come l’Antico Testamento tratteggi la religiosità di Israele come rivolta al futuro e costellata da una serie di promesse divine sviluppate su di una terra che – ottenuta, perduta, riconquistata – è la base su cui poggiano attese più grandi, quali l’instaurarsi della pace e della giustizia. La stessa predicazione profetica e la letteratura apocalittica non fanno altro che radicalizzare e universalizzare le promesse, prospettando un futuro che riguarda non solo Israele, ma l’intera umanità. Il Nuovo Testamento deve essere letto in continuità con l’Antico Testamento, come un ampliarsi su scala universale e storica di tutte le promesse e le speranze: la stessa resurrezione di Gesù è l’evento che avvalora le speranze antiche e che ne fa nascere di nuove; è un evento storico non perché descrivibile con le categorie della scienza storica, ma piuttosto perché reale possibilità di eventi futuri. Moltmann nota come l’annuncio della resurrezione di Cristo abbia senso soltanto se incastonato nell’orizzonte biblico delle promesse e in quello moderno dell’utopia. La riflessione teologica deve dunque essere sviluppata nell’ottica della speranza messianica e della resurrezione, senza nulla concedere alla “teologia naturale” o alle prove razionalistiche dell’esistenza di Dio. Il cristianesimo deve poi rivolgersi non solo all’interiorità del singolo, ma alla storia tutta. In questa prospettiva di speranza, Moltmann analizza il gioco (nell’opera Sul gioco): se nella società moderna esso si inquadra nell’attività produttiva (condividendone il carattere alienante) e riveste una funzione distensiva, nella sua reale essenza, che dev’essere recuperata, il gioco ha potenzialità liberatrici e sovversive, tutte tese verso il futuro. Lo stesso cristianesimo, secondo Moltmann, deve porsi come il gioco, in maniera altamente estetica e liberatrice, foriera di gioia e di gaudio. Ciò non toglie, però, che l’evento cardinale del cristianesimo, la croce di Cristo, non sia sottoponibile, nella sua assoluta specificità, alle categorie estetiche del gioco. Nel saggio Uomo, Moltmann fa un’accurata indagine sulle diverse antropologie, a partire da quelle biologiche che leggono l’uomo a partire dalla sua “animalità”, per poi passare a quelle culturali e religiose, che leggono l’uomo in chiave religiosa e spirituale. Solo l’antropologia cristiana si confronta direttamente col dolore, negando tutte le pretese umane di autodivinizzazione. In un mondo dilacerato da accadimenti tragici come Auschwitz o Hiroshima, la coscienza utopica può resistere solo poggiando sulla vicenda cristica: è solo seguendo il percorso di Cristo, scegliendo l’amore anziché la violenza, credendo in una futura vittoria sulla morte, che si può evitare di precipitare nella disperazione o nell’inerzia. Elaborando la sua “teologia della croce” come teoria critico/liberatrice, Moltmann ha degli interlocutori privilegiati, dalla Scuola di Francoforte e Benjamin alla psicanalisi, fino alla teologia di Metz. Nel 1972 appare Dio crocifisso, un’opera che segna una svolta nel pensiero moltmanniano: nella prima parte dello scritto, egli critica tutte le forme alienanti di culto della croce, quali ad esempio gli atteggiamenti “doloristici”, quelli esaltanti il sacrificio e quelli mistici. Se considerata in maniera storica e precisa, la croce è, di per sé, irreligiosa, poiché appare come uno strumento di tortura e di oppressione, come il trionfo del non-Dio e della non-giustizia. Essa acquista senso solo se letta in senso escatologico e, insieme, storico. Bisogna interrogarsi sulle causae crucis, giacché da esse affiora un duplice conflitto teologico e politico. Cristo è condannato come ribelle e riottoso sovversivo e, insieme, come bestemmiatore per la sua opposizione all’interpretazione dominante della legge ebraica. In Cristo risorto è racchiuso e anticipato il futuro dell’umanità: e Cristo non è altro che un oppresso, un essere ingiustamente condannato dagli uomini e salvato da Dio. La vicenda cristica è l’emblema di questa teologia della speranza per cui, guardando alle vicende di Cristo, tutti quanti possiamo sperare in una salvezza futura e attuantesi non in questo mondo, bensì nell’alto dei Cieli. Opponendosi alle teologie apatiche, per cui Dio è unità inscindibilmente perfetta e non soggetta a patimenti, Moltmann elabora una teologia altamente patetica, per cui ampio spazio è concesso al soffrire di Dio per l’umanità. In questa prospettiva, Moltmann interpreta anche la risposta dell’uomo che, guardando al soffrire divino, si sforza di vivere nella fede e nella speranza, combattendo contro le diverse forme di alienazione e oppressione (autoritarismo, violazione dei diritti, distruzione dell’ambiente naturale). L’impegno per la pace e l’attenzione ai temi dell’ecologia caratterizzano la riflessione successiva di Moltmann, che nei saggi La giustizia crea il futuro (1989) e Lo Spirito della vita (1991) mette in evidenza i fondamenti della missione di riconciliazione dei credenti. La Chiesa nasce dall’agire giustificante e pacificatore di Dio, per mezzo di Cristo, nei confronti di uomini che erano privi di giustizia e di pace. Se Dio non ci fosse, ci si potrebbe accontentare dello status quo, dell’ingiustizia e della violenza; ma poiché Dio esiste ed è giusto, non ci si può accontentare, ma si deve vivere nella speranza. Moltmann individua tre diversi ambiti in cui adoperarsi per costruire una giustizia che fondi la pace: il primo ambito ha a che fare con le persone e con le loro relazioni; si tratta, dice Moltmann, di ridefinire il lavoro, ripartire equamente le possibilità lavorative ed economiche. Il secondo ambito riguarda invece i rapporti tra le diverse generazioni, e il terzo i rapporti tra l’umanità e l’ambiente. In altri termini, è necessario superare l’egoismo della presente generazione che sta sperperando senza criterio le risorse disponibili e generando un inquinamento insostenibile per la natura.            

Publié dans:JÜRGEN MOLTMANN, TEOLOGIA |on 13 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IN CAMMINO VERSO LE REALTA’ ULTIME – LA NOSTRA SPERANZA , DIO CI HA CREATI PER L’IMMORTALITÀ

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ESCATOLOGIA | I NOVISSIMI | LE REALTA’ ULTIME:

IN CAMMINO VERSO LE REALTA’ ULTIME | 8

LA NOSTRA SPERANZA , DIO CI HA CREATI PER L’IMMORTALITÀ

«La speranza dell’empio è come pula portata dal vento. I giusti, al contrario, vivono sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e l’Altissimo ha cura di loro» (Sap 5,14-15). La vita dell’uomo è vita, una vera vita e per questo non è destinata a perire. La fede degli Ebrei è maturata fino alla sicura speranza che la vita, dopo la morte, non sarà loro tolta: i giusti vivranno per sempre e avranno pure una ricompensa nel Signore. La morte, pertanto, non è creazione di Dio. Dio non si compiace della fine dei viventi. L’autore del libro della Sapienza conclude così: «L’amore è osservanza delle leggi; il rispetto delle leggi è certezza di incorruttibilità e l’immortalità fa stare vicino a Dio» (Sap 6,18-19). La Speranza che noi abbiamo ricevuto quale dono dello Spirito Santo, ci assicura che il destino dell’uomo oltrepassa la sua esistenza terrena e consiste nella eterna felicità, cioè nell’essere nelle mani di Dio (Sap 3,1; 5,15). Dio non ci ha creato per la morte ma per la vita. Un altro libro della Bibbia (il 2º dei Maccabei), fa esplodere la fede ebraica nella sicura speranza della risurrezione: «È meglio morire per mano degli uomini, quando si ha la speranza in Dio di essere da lui risuscitati. Per te, dice il piccolo martire al tiranno, non ci sarà risurrezione alla vita» (2 Mac 7,14). Tu mi uccidi, mi abbatti, e Dio mi rialza, mi fa risorgere alla vita. E in un altro passo dello stesso libro viene riconfermata la credenza nell’Aldilà, là dove si parla dell’offerta di sacrifici per i morti (2 Mac 12,38-46).

Preghiamo con il Salmo 26

Rit.: Spero nel Signore, si rinsaldi il mio cuore. Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Rit. Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore. Rit. Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi e ammirare il suo santuario. Rit.

Che cosa ci dice Gesù Nei Vangeli non troviamo descrizioni, come vorremmo noi, dell’Aldilà, ma soltanto insegnamenti che servono a regolare la nostra vita per approdare felicemente nell’altra vita. «Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di darvi il Regno» (Lc 12,32). Questo Regno abbraccia la vita presente, una vita fatta di fiducia in Dio e di lavoro e quella futura. «Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete» (Lc 12,22ss); «Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese» (Lc 12,35), Gesù ci invita a guardare al futuro Regno dei Cieli che egli ci presenta con l’immagine del banchetto, dove chi serve è Dio stesso: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; egli si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Lc 12,37). Praticamente siamo invitati a percorrere la stessa strada di Cristo; «se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23), per arrivare là dove egli ha preso possesso del suo Regno di gloria: «Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria» (Gv 17,24).

Gli insegnamenti di San Paolo Con maggiore chiarezza e con un profondo sospiro viene espressa la speranza nell’Aldilà da San Paolo: «Per quanto mi riguarda, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tm 4,6-8). E, scrivendo ai Corinzi, Paolo afferma: «Sappiamo che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli … Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore» (2 Cor 5,1-10).

Che cosa vuol dire sperare? Dunque il nostro guardare all’Aldilà e il nostro vivere nell’Aldiqua è pieno di speranza. Ora ci domandiamo che cosa voglia dire sperare. Qui parliamo della speranza quale dono che ci viene da Dio e quindi di una vera forza divina detta “virtù teologale”. Sperare vuol dire attendere ardentemente; è aspettare con fiducia; è desiderare vivamente; è la sicura certezza di vedere Gesù, di amarlo e di gustarlo per sempre. Tutto ciò supera le forze umane, infatti la virtù della speranza è una virtù infusa, una potenza donata, è dono gratuito di Dio ricevuto nel Battesimo. Così con la speranza è arrivato per noi, qui e ora, l’eterno “OGGI” di Dio in Gesù Cristo. Ciò che pensavamo fosse futuro e tanto lontano, è diventato presente. La speranza ci dà la possibilità di entrare già ora in possesso del suo proprio oggetto: essere figli di Dio, e lo siamo realmente; essere giustificati, e lo siamo; venire ricostruiti quale santa casa di Dio, ecco, lo Spirito Santo abita nei nostri corpi. Noi siamo salvati, e pertanto la vita eterna è già ora presente in noi, come scrive Paolo ai Romani al capitolo ottavo. La nostra speranza è possedere Cristo, qui e ora, mentre dobbiamo sentirci impegnati a lavorare per il Regno di Dio, che è in mezzo a noi. Per il futuro ultimo, l’Aldilà, la nostra speranza ci porta all’incontro definitivo non con qualcosa, ma con Qualcuno: vedere Dio, sentire il suo abbraccio, venire immersi beatamente nella SS. Trinità, fino a quando finalmente il Padre sarà tutto in tutti. L’Apocalisse ci offre una stupenda descrizione, un vero incanto, così: «Gli eletti vedranno la faccia del Signore e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di sole, il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,4-5).

Gesù è la Via, la Verità e la Vita Gesù è la Via che ci porta a Dio, una via di speranza e di amore: che ci porta all’incontro con Lui a viso aperto. Gesù è la Verità, la vittoria contro il mondo e il Diavolo: chi segue i suoi insegnamenti non sbaglierà mai. Gesù è la Vita: egli sta costruendo con noi, qui in terra, il suo Regno di amore e di pace.

Preghiera Santissimo Soffio d’amore, sveglia il nostro cuore e mettici dentro con forza sogni di meravigliosi incontri. O Spirito, altissimo dono di Dio ravviva i pensieri e il cuore perché liberi da ogni timore corriamo incontro al nostro Papà. O dolcissimo Spirito consolatore ravviva in noi sospiri e desideri e si compia la beata speranza di contemplare il volto di Dio.

 D. Timoteo Munari sdb

Publié dans:TEOLOGIA, Teologia: Escatologia |on 13 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IL PECCATO E LA GRAZIA NON APPARTENGONO SEMPLICEMENTE AL SINGOLO – di Andrea Lonardo

http://www.gliscritti.it/

IL PECCATO E LA GRAZIA NON APPARTENGONO SEMPLICEMENTE AL SINGOLO

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti 5/10/2008

«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo eredita dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorge, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo.
Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)? Perché non lo si può semplicemente seguire, tanto in esso si combattono voci diverse?
Proprio la lettera che Paolo indirizza ai cristiani di Roma lo porta a riflettere sulla situazione di peccato nella quale versa la condizione umana. L’apostolo comprende, alla luce di Cristo, che non appartiene alla natura delle cose che tutti siano abitati dalla voce del male che, come una forza potente, agisce nell’uomo: «Tutti hanno peccato» (Rm 5,12).
Parlare del peccato è per Paolo così importante perché senza affrontare questo tema di petto non si può capire l’attuale situazione dell’uomo. Ma – si noti bene – per parlare del peccato, l’apostolo sente il bisogno di parlare di Cristo, di colui che lo sconfigge pur mettendolo in rilievo: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un uomo solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rm 5,15).
In quel “molto di più” sta tutta la fede cristiana. L’uomo è partecipe del peccato del primo uomo: quel peccato arreca delle conseguenze che ogni generazione deve portare, proprio perché nessun uomo esiste in una individualità a sé stante, ma la colpa di ognuno arreca danno a tutti fratelli. Ma allo stesso modo e “molto di più” la grazia di uno solo, l’amore del Cristo stesso, viene da lui partecipata a tutti gli uomini.
Proprio questa concezione così realistica di un peccato che danneggia tutti è assente spesso nella coscienza dell’uomo. Ed è uno dei motivi per i quali il peccato sembra essere un male, in fondo, non così rilevante e decisivo. Ma allo stesso modo e “molto di più” anche la gioia e la consolazione della vita scompaiono se l’uomo si chiude in se stesso senza essere aperto alla grazia ed al bene che gli vengono dalla relazione con i fratelli e dalla comunione con Dio che il Cristo è venuto a donare, per grazia e senza che nessuno la meritasse.
Nel secolo scorso uno scrittore che ha usato tutta la sua ironia per difendere il cristianesimo G. K. Chesterton, ha voluto rispondere all’irrisione che spesso veniva – e viene – gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato – cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno – ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l’uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».
Ma, insieme, Chesterton subito affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».
Paolo scrive ai Romani, invitandoli a considerare quanto la situazione umana porti le tracce di una comunione spirituale che è stata incrinata fin dal primo gesto libero di un uomo sulla terra, ma, “molto più” riesce a far sollevare lo sguardo a quel Dio che ha voluto manifestare come tutti fossero rinchiusi nella disobbedienza «per usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11,32). 

Publié dans:pastorale, TEOLOGIA |on 8 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

LA FRAGILITÀ DEI VALORI SENZA RADICE

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/282q05a1.html

Teologia e patristica alla XVII edizione del Premio internazionale Empedocle per le scienze umane

LA FRAGILITÀ DEI VALORI SENZA RADICE

Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis pronunciata dal vincitore del Premio internazionale Empedocle 2009 per la teologia e le scienze patristiche, docente di letteratura cristiana antica alla Pontificia Università Salesiana.

di Enrico dal Covolo

Il secolo XX è stato segnato da una serie imponente di accelerazioni e di mutamenti, in tutti i campi: anche in quello che più da vicino ci interessa, che riguarda il rapporto tra la Chiesa e la cultura, e più complessivamente tra il cristianesimo e la cultura.
Quel lento e secolare processo, che comincia a manifestarsi nel Rinascimento – per il quale la Chiesa si sente prima isolata, e poi per lungo tempo assediata e minacciata dal mondo, e per il quale d’altra parte il mondo a poco a poco si radica su basi strutturali diverse rispetto alle precedenti, che erano intimamente ispirate alla fede cristiana – questo processo trova ai nostri giorni la sua consumazione e, almeno in parte, il suo superamento.
In esso infatti si manifesta con tutta la sua forza incisiva la « secolarizzazione », quel fenomeno ben noto alle società occidentali, che reca in sé il declino della pratica religiosa, la desacralizzazione del mondo e la conformità a esso, il disimpegno della società dalla religione, la trasposizione di modelli di comportamento e di credenze dalla sfera « religiosa » alla sfera « mondana ».
Certo, ci si riferisce ancora, esplicitamente o implicitamente, ai valori evangelici, i quali tuttavia appaiono come staccati dalla radice che li nutre.
Bisogna ammettere però che alcuni sistemi hanno addirittura rinnegato totalmente tali valori. Il 18 agosto 1991, parlando in Ungheria alle comunità protestanti, Giovanni Paolo II ha efficacemente delineato questa situazione: « I nostri avi su questo continente », ha detto il Papa, « anche dopo la Riforma condividevano la convinzione, spesso data per scontata, che la società e la cultura europee avessero la loro origine e ispirazione nei valori religiosi: la fede nel Dio Trino e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, la visione della vita sulla terra come pellegrinaggio verso la vita eterna, l’innato e inalienabile valore della persona umana dal suo concepimento fino alla morte(…) Oggi la società tende a ignorare, e perfino a ripudiare gran parte di questo retaggio ».
Ma bisogna anche ammettere che lo sviluppo degli eventi ha assunto per alcuni aspetti una fisionomia diversa da quella prevista. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo è tramontato il positivismo scientista, che, se mai, ha lasciato il posto al neopositivismo di prevalenti interessi logico-linguistici. E ora stanno davanti ai nostri occhi lo scacco del marXIsmo e il crollo del Muro, dovuti al fallimento, in vaste zone del mondo, della concezione atea e del sistema economico e sociale comunista; d’altra parte lo smarrimento lasciato da quei regimi, che pensavano di cancellare Dio « dalla » e « nella » società, ha lasciato un vuoto, che rischia sempre più di essere colmato dall’irrompere di fattori negativi, recati dalle società opulente.
Di fronte alle immense sfide poste alla Chiesa dalle ideologie e dagli eventi della nostra epoca, occorre rilevare che molti fedeli hanno fatto proprie un’attenzione e un’apertura nuove verso il mondo, un atteggiamento che – per quanto concerne la Chiesa cattolica – è stato solennemente sancito dai documenti del concilio Vaticano II.
D’altra parte – e completiamo così l’ampio quadro di riferimento sin qui evocato, per entrare più direttamente nella questione in esame – la medesima situazione culturale ha indotto i cristiani a interrogarsi più a fondo sulla loro identità e sui loro fondamenti, perché il Cristo da loro testimoniato parlasse con efficacia agli uomini di oggi.
Già nel 1946 Henri de Lubac scriveva parole che non si possono dimenticare: « Il cristianesimo, prima di poter « essere adattato » nella sua presentazione alle generazioni moderne, occorre che nella sua essenza rimanga se stesso. Infatti, quando è se stesso, è a un passo dall’ »essere adattato ». La sua natura non è forse di essere vivente, e per ciò stesso sempre attuale? Il grande sforzo consiste dunque nel ritrovare il cristianesimo nella sua pienezza ». E continuava, giungendo così al cuore del nostro problema: « Ma come ritrovare il cristianesimo, se non risalendo alle sue fonti, cercando di comprenderlo nelle sue epoche di vitalità esplosiva? Come ritrovare il significato di tante dottrine e di tante istituzioni, se non attraverso l’impegno di raggiungere quel pensiero creativo, di cui esse sono state la concretizzazione? Quante esplorazioni nelle lontane regioni della storia presuppone una ricerca di tal genere! Del resto, ci sono voluti quarant’anni per entrare nella terra promessa. Occorre a volte molta arida archeologia per far sgorgare di nuovo fontane d’acqua viva ».
Non è un caso che pochi anni prima, nel 1942, proprio Henri de Lubac – insieme a Jean Daniélou e a Claude Mondésert – avesse dato inizio alla celebre collana « Sources Chrétiennes », con l’intenzione di mettere a disposizione del pubblico le opere complete dei Padri della Chiesa. In effetti, risalire alle fonti cristiane significa risalire agli antichi scrittori cristiani. In questi ultimi decenni molti « utensili », per così dire, concettuali, metodologici e bibliografici sono stati messi in opera per una lettura più fedele della tradizione consegnataci dai Padri.
Resta il fatto – e accenno ad alcuni elementi di metodo per un dialogo costruttivo e fecondo tra i Padri di ieri e la cultura di oggi – che le opere degli antichi scrittori cristiani non si leggono comodamente e distrattamente come il giornale; non hanno rapporto con la quotidianità banale e ciarliera della cronaca, ma piuttosto con l’attualità perenne dei grandi problemi umani e cosmici che riguardano le cose presenti e future. Servono un armamentario di conoscenze e la padronanza di alcuni strumenti di base, per essere in grado di penetrarne e di apprezzarne il messaggio; servono ancora la costanza e la pazienza nello studio. Si tratta della necessaria attrezzatura da acquisire, dei metodi da applicare per entrare nella familiarità con l’ambiente, lo spirito e l’eredità dei Padri.
In tali ambiti le discipline antico-cristiane e classiche – a cominciare dallo studio delle lingue latina e greca – hanno larghi spazi di impegno da offrire alle persone sensibili ai valori della cultura.
Amore per la fede e passione per la cultura: potrebbe essere questa la sigla distintiva della dottrina patristica. Oggi invece si nota spesso in coloro che dicono di amare la fede un certo distacco dalla cultura, e in coloro che dicono di amare la cultura una certa diffidenza verso la fede.
I nostri Padri, invece, hanno saputo coniugare la fede e la ragione, il Vangelo e la cultura, mettendo al centro della loro dottrina il Lògos, Gesù Cristo, colui che insegna all’uomo la sua vera vocazione, e il giusto atteggiamento da assumere verso Dio, l’uomo e il mondo.
In particolare, sono soprattutto due i modi con i quali i Padri ci possono aiutare a riscoprire il messaggio del Vangelo nel mondo di oggi, o – se preferiamo – nell’impegno di una « nuova evangelizzazione » della cultura (mi riferisco qui alla cultura mediterranea europea): « per continuità » e « per contrasto ».
I Padri sono vicini al nostro sforzo « per continuità », nel senso che la riflessione sulle radici della cultura europea trova in loro l’humus normale di riferimento, e la sua fondazione letteraria e storica. Ma i Padri aiutano il nostro sforzo anche « per contrasto », perché – come è stato osservato a ragione – l’odierno cattolicesimo rischia di essere troppo acquiescente nei confronti di una certa cultura dei valori comuni e dei diritti dell’uomo, una cultura dei valori che molto spesso non corrisponde a un’autentica gerarchia dei valori.
Penso che il richiamo all’antropologia dei Padri, dove la dignità dell’uomo è saldamente radicata nella creazione divina e nell’immagine di Cristo, servirà a chiarire l’oggetto e i confini del dialogo sui valori, che rimane comunque necessario e urgente.
Su questa linea di riflessioni – e così concludo – possiamo addurre la risposta di un « filosofo mediterraneo », non precisamente cattolico, nel corso di una recente intervista.
Alla domanda: « Secondo molti, dalla crisi della modernità si esce soltanto attraverso un riferimento all’Assoluto. E secondo lei? », Massimo Cacciari ha risposto così: « Certamente no! O almeno, bisogna precisare che cosa s’intende per Assoluto. Nella nostra cultura il vero termine di riferimento non è l’Assoluto, ma l’Incarnazione. Questo è il messaggio evangelico: guarda il « totalmente Altro » nel tuo prossimo, ma quello concreto, quello che muore in croce, davanti a cui devi fare proskùnesis, genuflessione, come davanti a qualcosa di sacro. Questa è la vera chiave dell’Europa. Invece, pensare di uscire dalla crisi restaurando una qualche trascendenza, un Assoluto nel senso di ab-solutum, un punto di riferimento sciolto dal dramma dell’Incarnazione, è folle. Bisogna ricordare infatti che il Risorto non è un individuo totalmente risanato, ma si presenta con i segni della crocifissione ».
Sono parole che fanno pensare, anche di fronte al dibattito odierno sulla presenza del Crocifisso nelle aule pubbliche: al di là dell’esegesi che se ne può fare, ci richiamano ancora una volta alla dottrina dei nostri Padri.
Essa ci insegna a non disperdere il cristianesimo in un vago senso della trascendenza, o in una discutibile cultura dei valori comuni: ci invita piuttosto a vedere il trascendente nel Crocifisso risorto – unico vero centro della storia e della cultura – a contemplarlo e a servirlo anche nel fratello da amare, fino al dono supremo della vita.

IL VOLTO NASCOSTO E TRASFIGURATO DI CRISTO, Maria Pia Pagani, Bruno Forte, Vincenzo Bertolone, Blandina Schlömer

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/TEOLOGIA%20SIMBOLICA/VoltonascostoetrasfiguratodiCristo-Vcongresso.htm

IL VOLTO NASCOSTO E TRASFIGURATO DI CRISTO

Atti dal V Congresso Internazionale sul Volto di Cristo
Pontificia Università Urbaniana
Roma 20-21 OTTOBRE 2001

IL VOLTO DI CRISTO NEL VOLTO DEI « FOLLI » DELLA RUSSIA CRISTIANA
Prof. Maria Pia Pagani

Nessuna nazione cristiana venera tanti santi cosiddetti « folli », come Russia. Nonostante le apparenze potessero facilmente trarre in inganno, l’anima dei santi ‘folli’ non era folle. Agli occhi dei devoti ortodossi essi erano i semplici di spirito che nella vita quotidiana rivelavano, nella dolorosa esperienza della malattia, della solitudine, dell’abbandono, dell’incomprensione e dello scherno, la costante presenza del Salvatore, il cui Volto si rifletteva sfumato nel volto di questi suoi testimoni sui generis. Casti e innocenti, avevano deciso di affrontare l’ardua prova della vita di stultus propter Christum conducendo un’esistenza nell’eccesso, nella provocazione, nel paradosso e nello scandalo – un ruolo assai complesso, questo, che li vide protagonisti di un’eccezionale spettacolo sacro nei monasteri, nelle corti, nelle piazze del paese. Liberi dagli istinti e dalle ambizioni terrene, essi proclamavano la beatitudine della povertà e della rassegnazione, il rifiuto del mondo del peccato e delle tentazioni. Nella loro assoluta indigenza essi volevano essere icone viventi del Volto nascosto di Cristo, trasfigurato da penitenza, stenti, insania – tutte caratteristiche che la pietà popolare considerava virtuosi segni di inequivocabile santità.
I santi ‘folli’ della Russia Cristiana testimoniarono in modo autentico e sincero il loro essere ‘in Cristo’ accettando con animo lieto di essere considerati degli insensati agli occhi del mondo, consapevoli di ottenere in tal modo il dono della vera fede e della totale libertà dello spirito. La loro demenza, infatti, era considerata uno stato di grazia, il segno della loro eccezionale vicinanza al Regno dei Cieli. Tuttavia il problema della distinzione tra follia e normalità è delicato e ricco di insidie che rendono difficile stabilire un ben delineato confine di distinzione tra il malato mentale, l’istrione e il santo.
La nudità dei santi « folli » era ambigua, agli occhi delle alte gerarchie ecclesiastiche ortodosse, poiché poteva alludere sia alla purezza dei semplici che alla tentazione diabolica.
Il fatto che il patronato dei santi « folli » e dei « giullari di Dio » della Russia Cristiana fosse affidato a due donne – S. Anastasia e S. Parasceve -, nel cui volto, secondo l’iconografia, si celavano i tratti del Volto di Cristo, apre una significativa riflessione su quella che, nella tradizione cristiana, fu la imitatio Christi femminile.
Uno dei primi santi « folli » della Russia Cristiana canonizzati dal metropolita Makarij nel sinodo del 1547 fu Maksim, che era particolarmente venerato a Mosca, la città in cui trascorse tutta la vita. La lezione presenta numerose altre figure di santi « folli ».

FACCIAMO QUI TRE TENDE. LA TRASFIGURAZIONE, BELLEZZA CHE SALVA IL MONDO
Mons. Bruno Forte
La Trasfigurazione è la porta della bellezza che non tramonta, entrata nella storia per essere per chiunque creda nella Parola fatta carne la bellezza che salva nel tempo e per l’eternità: « Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia » (Mt 17,4).
Un duplice dato evangelico aiuta a comprendere in che senso la bellezza rivelata sul Tabor e constatata nello stupore e nella gioia dall’Apostolo Pietro sia la via nuova e vivente che Cristo è venuto ad aprirci per andare al Padre. Il primo dato consiste nel fatto che il Pastore, che raccoglie le pecore nell’unità del Suo gregge, è presentato come il « bel Pastore », secondo l’esatta traduzione del testo greco evangelico. L’ora pasquale rivelerà il volto di questa bellezza nell’Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore nostro.
C’è però anche un altro dato evangelico che aiuta a riconoscere nella bellezza la via del Vangelo: la testimonianza, via preziosa per l’annuncio del Vangelo, è inseparabile dallo sfolgorio della bellezza negli atti del discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito: dove la carità si irradia, lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto. Alcuni testi del teologo russo Florenskij illuminano in maniera straordinaria questa lettura dell’episodio della trasfigurazione.
È dunque la rivelazione del Tabor che insegna a cogliere nella bellezza la via della salvezza donata dall’alto: essa educa a cogliere nella morte del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e nel Suo risorgere alla vita il frammento dove si è compiuta una volta per sempre l’irruzione del Tutto.

Il Volto Trasfigurato di Cristo
Dalla « VIA AMORIS » alla « VIA TRANSFIGURATIONIS »
P. Vincenzo Bertolone
Intento della lezione è ricordare le modalità per le quali l’uomo – creato ad immagine di Dio – è capax Dei e per mezzo della conoscenza dell’amore può realizzare questa metamorfosi trasfigurativa fino al punto di sentirsi « immortale, divino ed eterno ». È’ questa la sola dimensione che può dare un senso alla vita dell’uomo. L’uomo si eternizza e si divinizza perché tale è il sogno su di lui di Dio?Padre?Amore, rivelato in Cristo Gesù. E’ fondamentale cogliere il significato del termine amore perché l’uomo naufrago nel mare della pura possibilità vive in una società senza padre, senza memoria, senza senso della storia, senza dialogo, in pieno smarrimento nonostante la sete di autenticità, di spontaneità, di vera fede e di vero « amore ».
Dopo aver richiamato la terminologia attinente all’amore nelle varie sfumature, dalla cultura greca al mondo ebraico veterotestamentario e alla romanità cristiana, l’Autore si chiede: è possibile « semplificare » tutto ciò e tradurre con poche, umili ed essenziali parole, che cosa è « questo » amore divino? Mettendo al posto della parola « carità » la persona umano?divina di Gesù, tutto coincide perfettamente. Gesù è amore, è carità; Dio è amore, è carità. Cristo è l’icona di questo amore. Cristo Gesù è la « fotografia », la rappresentazione storica e visibile di questo amore. La carità?amore è Lui stesso.
Se l’agàpe è la risorsa, la via ed il « tèlos » della Chiesa e si identifica con Cristo stesso, Gesù, facendosi carne in noi attraverso il sacramento eucaristico, arriva a coinvolgere il nostro amore umano e il nostro cuore di carne e a convertirlo sempre più in amore verso i fratelli, nel cui volto ed attraverso gli occhi del nostro volto trasfigurato in Cristo, noi vediamo il Volto di Dio.
Il Volto di Cristo è icona trasparente di mistero, tanto in direzione della profondità di Dio, quanto in direzione antropologica.

LA BELLEZZA DEL VOLTO DI GESU’ O L’EVENTO DAL NOME « VERONICA »
Suor Blandina Schlömer
La studiosa del Volto di Manoppello descrive innanzitutto l’esperienza che, sin dall’infanzia, l’ha spinta a cercare l’immagine, non solo esteriore ma anche interiore, del Volto di Cristo, poi trovata nel Volto della Sindone, vera risposta alla sete di bellezza.
Dopo aver illustrato la parte avuta nella propria ricerca dall’esperienza mistica delle sante donne di Hefta Santa Matilde e Santa Gertrude – della quale cita significativi testi -, Suor Blandina richiama i lunghi studi condotti sul Volto Santo di Manoppello, da considerarsi la celebre « Veronica » romana che, dal 1527, non si conserva più nella basilica vaticana. Resasi conto che le proporzioni del Volto della Sindone e del Volto di Manoppello sono effettivamente equivalenti, ha cercato di individuarne i lineamenti interiori che ella ravvisa nella semplicità, nella riverenza e nell’innocenza. La sua conclusione è che, come autore della sua creazione e utilizzando le sue regole e i suoi mezzi, Gesù ci ha lasciato, molto prima che gli uomini intervenissero con la fotografia uno splendido capolavoro di questa « arte », non come opera delle sue mani, bensì, per così dire, nel suo ultimo passaggio, come ultima traccia della sua presenza reale nella nostra vita mortale. Tutti noi, che crediamo esclusivamente come Tommaso, quando apriamo gli occhi sui Volti della Sindone e di Manoppello, possiamo effettivamente vedere il Signore.
Avvalendosi anche di richiami anche alla Novo Millennio Ineunte, nonché ai testi evangelici, Suor Blandina è convinta che il doppio Volto, della Sindone e della Veronica, da cui, in un certo senso, traspare il sorriso di Dio, possano anche esserci d’aiuto a ritrovare un nuovo accesso al cuore ed alla bellezza di Dio. Se veramente siamo i suoi figli, anche secondo la parola dell’Apostolo « …saremo chiamati figli di Dio, e lo siamo », così la sua bellezza sarà la nostra bellezza e sulla trama della nostra vita sarà visibile il Volto di Gesù.

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