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Giovanni Paolo II (sullo Spirito Santo – 3) ( mercoledì 17 gennaio 1990)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19900117_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

(sullo Spirito Santo – 3)

Mercoledì, 17 gennaio 1990

1. L’Antico Testamento ci offre preziose testimonianze circa il ruolo riconosciuto allo “Spirito” di Dio – come “soffio”, “alito”, “forza vitale”, simboleggiato dal vento – non solo nei libri che raccolgono la produzione religiosa e letteraria degli autori sacri, specchio della psicologia e del linguaggio di Israele, ma anche nella vita dei personaggi che fanno da guida al popolo nel suo cammino storico verso l’avvenire messianico.

È lo Spirito di Dio che, secondo gli autori sacri, agisce sui capi facendo sì che essi non solo operino in nome di Dio, ma con la loro azione servano veramente al compimento dei disegni divini; e guardino perciò non tanto alla costruzione e all’ingrandimento di un loro potere personale o dinastico secondo le prospettive di una concezione monarchica o aristocratica, ma alla prestazione di un servizio utile agli altri e particolarmente al popolo. Si può dire che, attraverso questa mediazione dei capi, lo Spirito di Dio penetra e conduce la storia di Israele.

2. Già nella storia dei patriarchi si osserva che a guidarli e a condurli nel loro cammino, nei loro spostamenti, nelle loro vicende, c’è una mano superna, realizzatrice di un piano che riguarda la loro “discendenza”. Tra di essi è Giuseppe, nel quale risiede lo Spirito di Dio come spirito di sapienza, scoperto dal faraone, che chiede ai suoi ministri: “Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?” (Gen 41, 38). Lo spirito di Dio rende Giuseppe capace di amministrare il paese e di svolgere una sua straordinaria funzione non solo per la sua famiglia e le diramazioni genealogiche di questa, ma in ordine a tutta la futura storia di Israele.

Anche su Mosè, mediatore tra Jahvè e il popolo, agisce lo spirito di Dio, che lo sostiene e lo guida nell’esodo che porterà Israele ad avere una patria e a diventare un popolo indipendente, capace di assolvere il suo compito messianico. In un momento di tensione nell’ambito delle famiglie accampate nel deserto, quando Mosè si lamenta con Dio perché si sente impari a portare “il peso di tutto questo popolo”, Dio gli comanda di scegliere settanta uomini, con i quali dare una prima organizzazione del potere direttivo a quelle tribù in cammino e gli annuncia: “Io prenderò lo spirito che è su di te per metterlo su di loro, perché portino con te il carico del popolo e tu non lo porti più da solo”. Ed effettivamente, radunati settanta anziani intorno alla tenda del convegno, “il Signore prese lo spirito che era su di lui e lo infuse sui settanta anziani” (Nm 11, 14. 17. 25).

Quando, alla fine della sua vita, Mosè deve preoccuparsi di lasciare un capo alla comunità, perché “non sia un gregge senza pastore”, il Signore gli indica Giosuè, “uomo in cui è lo spirito”: e Mosè impose “le mani su di lui”, sicché anch’egli è “pieno dello spirito di saggezza” (Dt 34, 9). Sono casi tipici della presenza e dell’azione dello Spirito nei “pastori” del popolo.

3. A volte il dono dello spirito è conferito anche a chi, pur non essendo un capo, è chiamato da Dio a rendere un servizio di qualche importanza in particolari momenti e circostanze. Per esempio quando si tratta di costruire la “tenda del convegno” e “l’arca dell’alleanza”, Dio dice a Mosè: “Vedi, ho chiamato per nome Bezaleel . . . l’ho riempito dello spirito di Dio perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro”. E anzi, anche riguardo ai compagni di lavoro di questo artigiano, Dio aggiunge: “Nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho comandato: la tenda del convegno, l’arca della Testimonianza” (Es 31, 6-7).

Nel Libro dei Giudici vengono celebrati degli uomini che inizialmente sono “eroi liberatori”, ma poi anche governatori di città e distretti, nel periodo di assestamento tra il regime tribale e quello monarchico. Secondo l’uso del verbo shâfat, “giudicare”, nelle lingue semitiche imparentate all’ebraico, essi vanno considerati non solo come amministratori della giustizia, ma come capi delle loro popolazioni. Essi vengono suscitati da Dio, che comunica loro il suo spirito (soffio-ruah) in risposta a suppliche rivolte a lui in situazioni critiche. Più volte nel Libro si attribuisce la loro comparsa e la loro azione vittoriosa a un dono dello spirito. Così nel caso di Otniel, il primo dei grandi giudici di cui si riassume la storia, è detto che “gli israeliti gridarono al Signore e il Signore suscitò loro un liberatore, Otniel . . ., ed egli li liberò. Lo spirito del Signore fu su di lui ed egli fu giudice d’Israele” (Gdc 3, 9-10).

Per Gedeone l’accento è posto sulla potenza dell’azione divina: “Lo spirito del Signore investì Gedeone”. Anche di Iefte è detto che “lo spirito del Signore discese su Iefte”. E di Sansone: “Lo spirito del Signore cominciò ad agitarlo”. Lo spirito di Dio in questi casi è il donatore di una forza straordinaria, del coraggio delle decisioni, a volte di un’abilità strategica, per cui l’uomo è reso capace di svolgere la missione affidatagli per la liberazione e la guida del popolo (cf. Gdc 6, 34; 11, 29; 13, 25).

4. Quando avviene la svolta storica dai Giudici ai Re, secondo la richiesta degli Israeliti di avere “un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli” (1 Sam 8, 5), l’anziano giudice e liberatore Samuele fa in modo che Israele non smarrisca il sentimento dell’appartenenza a Dio come popolo eletto e che sia assicurato l’elemento essenziale della teocrazia, cioè il riconoscimento dei diritti di Dio sul popolo. L’unzione dei re come rito istitutivo è il segno della investitura divina che pone un potere politico a servizio di una finalità religiosa e messianica. In questo senso Samuele, dopo aver unto Saul e avergli preannunciato l’incontro a Gabaa con un gruppo di profeti salmodianti, gli dice: “Lo spirito del Signore investirà anche te e ti metterai a fare il profeta con loro e sarai trasformato in un altro uomo”. “Ed ecco, quando [Saul] ebbe voltato le spalle per partire da Samuele, Dio gli mutò il cuore . . . Lo spirito di Dio lo investì e si mise a fare il profeta in mezzo a loro”. Anche quando spuntò l’ora delle prime iniziative di battaglia, “lo spirito di Dio investì Saul”. Si attuava in lui la promessa della protezione e dell’alleanza divina fattagli da Samuele: “Dio sarà con te”. Quando lo spirito di Dio abbandona Saul, che viene atterrito da uno spirito cattivo, è già sulla scena Davide, consacrato dal vecchio Samuele con l’unzione per cui “lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi” (1 Sam 10, 6; 10, 7-10; 11, 6; 16, 13-14).

5. Con Davide, ben più che con Saul, prende consistenza l’ideale del re unto dal Signore, figura del futuro Re-Messia, che sarà il vero liberatore e salvatore del suo popolo. Anche se i successori di Davide non raggiungeranno la sua statura nell’attuazione della regalità messianica, e anzi non pochi prevaricheranno contro l’alleanza di Jahvè con Israele, l’ideale del Re-Messia non tramonterà e sempre più si proietterà nell’avvenire in termini di attesa, rinfocolata dagli annunci profetici.

Specialmente Isaia mette in rilievo il rapporto tra lo spirito di Dio e il Messia: “Su di lui si poserà lo spirito del Signore”. Sarà ancora lo spirito di fortezza, ma prima di tutto spirito di sapienza: “Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore”, quello che spingerà il Messia a operare con giustizia in favore dei miseri, dei poveri e degli oppressi (Is 11, 2-4).

Il santo spirito del Signore, il suo “soffio”, che percorre tutta la storia biblica, sarà dunque dato in pienezza al Messia. Quello stesso spirito che alita sul caos prima della creazione, che dà la vita a tutti gli esseri, che suscita i Giudici e i Re, che abilita gli artigiani al lavoro per il santuario, che dà la saggezza a Giuseppe, l’ispirazione a Mosè e ai profeti, come a Davide, scenderà sul Messia con l’abbondanza dei suoi doni e lo metterà in grado di compiere la sua missione di giustizia e di pace. Colui sul quale Dio avrà “posto il suo Spirito”, “porterà il diritto alle nazioni”; “egli non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra” (Is 42, 4).

6. In quale maniera egli “stabilirà il diritto” e libererà gli oppressi? Sarà forse con la forza delle armi come avevano fatto i Giudici, sotto l’impulso dello Spirito, e come fecero, molti secoli dopo, i Maccabei? L’Antico Testamento non permetteva di dare una risposta chiara a questa domanda. Alcuni passi annunciavano interventi violenti, come ad esempio il testo d’Isaia (42, 4) che dice: “Calpestai i popoli con sdegno, li stritolai con ira, feci scorrere per terra il loro sangue”. Altri invece insistevano sull’abolizione di ogni lotta: “Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo; non si eserciteranno più nell’arte della guerra.

La risposta doveva essere rivelata dal modo in cui lo Spirito Santo avrebbe guidato Gesù nella sua missione; dal Vangelo sappiamo che lo Spirito spinse Gesù a rifiutare l’uso delle armi e ogni ambizione umana e a riportare una vittoria divina per mezzo di una generosità sconfinata, versando il proprio sangue per liberarci dai nostri peccati. Così si manifestò in maniera decisiva l’azione direttiva dello Spirito Santo.

Giovanni Paolo II (sullo Spirito Santo) ( mercoledì 3 gennaio 1990)

sono tre catechesi, le posto una oggi, una domani, una domenica, dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19900103_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

(sullo Spirito Santo – 1)

Mercoledì, 3 gennaio 1990

1. Nelle catechesi dedicate allo Spirito Santo – persona e missione – abbiamo voluto anzitutto ascoltarne l’annuncio e la promessa da parte di Gesù, particolarmente nell’ultima cena, rileggere la narrazione che gli Atti degli apostoli fanno della sua venuta, riesaminare i testi del Nuovo Testamento, che documentano la predicazione su di lui e la fede in lui nella Chiesa primitiva. Ma nella nostra analisi dei testi ci siamo più volte incontrati con l’Antico Testamento. Sono gli stessi apostoli che nella prima predicazione, dopo la Pentecoste, presentano espressamente la venuta dello Spirito Santo come adempimento delle promesse e degli annunci antichi, vedendo l’antica alleanza e la storia di Israele come tempo di preparazione a ricevere la pienezza di verità e di grazia, che doveva essere portata dal Messia.

Certo, la Pentecoste era un evento proiettato verso l’avvenire, perché dava inizio al tempo dello Spirito Santo, che Gesù stesso aveva indicato come protagonista, insieme col Padre e col Figlio, dell’opera della salvezza, destinata a dilatarsi dalla croce in tutto il mondo. Tuttavia, per una più completa conoscenza della rivelazione dello Spirito Santo, occorre risalire al passato, cioè all’Antico Testamento, per rintracciarvi i segni della lunga preparazione al mistero della Pasqua e della Pentecoste.

2. Dovremo, dunque, tornare a riflettere sui dati biblici riguardanti lo Spirito Santo e sul processo di rivelazione, che si delinea progressivamente dalle penombre dell’Antico Testamento fino alle chiare affermazioni del Nuovo, e si esprime prima all’interno della creazione e poi nell’opera della redenzione, prima nella storia e nella profezia di Israele, e poi nella vita e nella missione di Gesù Messia, dal momento dell’incarnazione a quello della risurrezione.

Tra i dati da esaminare vi è anzitutto il nome con cui lo Spirito Santo viene adombrato nell’Antico Testamento, nonché i diversi significati espressi con questo nome.

Sappiamo che nella mentalità ebraica il nome ha un grande valore per rappresentare la persona. Si può ricordare, in proposito, l’importanza che nell’Esodo e in tutta la tradizione di Israele viene attribuita al modo di nominare Dio. Mosè aveva chiesto al Signore Dio qual era il suo nome. La rivelazione del nome era considerata manifestazione della persona stessa: il nome sacro metteva il popolo in relazione con l’essere, trascendente ma presente, di Dio stesso (cf. Es 3, 13-14).

Il nome con cui viene adombrato, nell’Antico Testamento, lo Spirito Santo ci aiuterà a comprenderne la proprietà, anche se la sua realtà di persona divina, consostanziale al Padre e al Figlio, ci è fatta conoscere soltanto nella rivelazione del Nuovo Testamento. Possiamo pensare che il termine sia stato scelto con accuratezza dagli autori sacri; e anzi che lo stesso Spirito Santo, il quali li ha ispirati, abbia guidato il processo concettuale e letterario che già nell’Antico Testamento ha fatto elaborare un’espressione adatta a significare la sua persona.

3. Nella Bibbia il termine ebraico che designa lo Spirito è ruah. Il primo senso di questo termine, come della sua traduzione latina spiritus, è “soffio”. In italiano è ancora osservabile la parentela tra “spirito” e “respiro”. Il soffio è la realtà più immateriale che percepiamo; non la si vede, è sottilissima; non è possibile afferrarla con le mani; sembra un niente, eppure ha un’importanza vitale; chi non respira non può vivere. Tra un uomo vivente e un uomo morto c’è questa differenza che il primo ha il soffio e l’altro non ce l’ha più. La vita viene da Dio; il soffio dunque viene da Dio, che lo può anche riprendere (cf. Sal 103, 29-30). Da queste osservazioni sul soffio, si è arrivati a capire che la vita dipende da un principio spirituale, che è stato chiamato con la stessa parola ebraica “ruah”. Il soffio dell’uomo sta in rapporto con un soffio esterno molto più potente, il soffio del vento.

L’ebraico “ruah”, come il latino spiritus, designano anche il soffio del vento. Nessuno vede il vento, però i suoi effetti sono impressionanti. Il vento spinge le nuvole, agita gli alberi. Quando è violento, solleva il mare e può inabissare le navi (Sal 106, 25-27). Agli antichi il vento appariva come una potenza misteriosa, che Dio aveva a disposizione (Sal 103, 3-4). Lo si poteva chiamare il “soffio di Dio”.

Nel libro dell’Esodo, un racconto in prosa dice: “Il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte soffio d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare all’asciutto . . .” (Es 14, 21-22). Nel capitolo successivo, gli stessi eventi vengono descritti in forma poetica e allora il soffio del vento d’oriente viene chiamato “il soffio delle narici” di Dio. Rivolgendosi a Dio, il poeta dice: “Al soffio delle tue narici si accumularono le acque . . . Soffiasti con il tuo soffio e il mare coprì i nemici” (Es 15, 8. 10). Così viene espressa in modo molto suggestivo la convinzione che il vento fu, in queste circostanze, lo strumento di Dio.

Dalle osservazioni fatte sul vento invisibile e potente, si è arrivati a concepire l’esistenza dello “spirito di Dio”. Nei testi dell’Antico Testamento, si passa facilmente da un significato all’altro, e anche nel Nuovo Testamento vediamo che i due significati sono presenti. Per far capire a Nicodemo il modo di agire dello Spirito Santo, Gesù adopera il paragone del vento e si serve dello stesso termine per designare tanto l’uno quanto l’altro: “Il soffio – cioè il vento – soffia dove vuole . . . così è di chiunque è nato dal Soffio, cioè dallo Spirito Santo” (Gv 3, 8).

4. L’idea fondamentale espressa dal nome biblico dello Spirito non è quindi quella di una potenza intellettuale, ma quella di un impulso dinamico, paragonabile all’impulso del vento. Nella Bibbia, la prima funzione dello Spirito non è di far capire, ma di mettere in moto; non d’illuminare, ma di comunicare un dinamismo.

Tuttavia questo aspetto non è esclusivo. Altri aspetti vengono espressi, i quali preparano la rivelazione successiva. Anzitutto l’aspetto d’interiorità. Il soffio, infatti, entra all’interno dell’uomo. In linguaggio biblico, questa constatazione si può esprimere dicendo che Dio mette lo spirito nei cuori (cf. Ez 36, 26; Rm 5, 5). Sottilissima, l’aria penetra non soltanto nel nostro organismo, ma in tutti gli spazi e interstizi; questo aiuta a capire che “lo Spirito del Signore riempie l’universo” e che “pervade”, in particolare, “tutti gli spiriti” (Sap 1, 7; 7, 23) come dice il Libro della Sapienza.

All’aspetto d’interiorità si ricollega l’aspetto di conoscenza. “Chi conosce le cose dell’uomo, domanda san Paolo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui?” (1 Cor 2, 11). Soltanto il nostro spirito conosce le nostre reazioni intime, i nostri pensieri non ancora comunicati ad altri. In modo analogo e a maggior ragione, lo Spirito del Signore, che è presente all’interno di tutti gli esseri dell’universo, conosce tutto dall’interno. Anzi, “lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio . . . Le cose di Dio nessuno le ha mai potute conoscere se non lo Spirito di Dio” (1 Cor 2, 10-11).

5. Quando si tratta di conoscenza e di comunicazione tra le persone, il soffio ha una connessione naturale con la parola. Infatti per parlare adoperiamo il nostro soffio. Le corde vocali fanno vibrare il nostro soffio, il quale trasmette così i suoni delle parole. Ispirandosi a questo fatto, la Bibbia metteva volentieri in parallelo la parola e il soffio (cf. Is 11, 4), o la parola e lo spirito. Grazie al soffio, la parola si propaga; dal soffio essa prende forza e dinamismo. Il Salmo 32 (v. 6) applica questo parallelismo all’evento primordiale della creazione e dice: “Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera . . .”.

In testi del genere, noi possiamo scorgere una lontana preparazione della rivelazione cristiana del mistero della santissima Trinità: Dio-Padre è principio della creazione; egli l’ha attuata mediante la sua Parola, cioè mediante il suo Verbo e Figlio e mediante il suo Soffio, lo Spirito Santo.

6. La molteplicità dei significati del termine ebraico “ruah”, adoperato nella Bibbia per designare lo Spirito, sembra dare adito a qualche confusione: effettivamente, in un dato testo, spesso non è possibile determinare il senso preciso della parola; si può esitare tra vento e respiro, tra alito e spirito, tra spirito creativo e Spirito divino.

Questa molteplicità, però, è anzitutto una ricchezza, perché mette tante realtà in comunicazione feconda. Qui conviene rinunciare parzialmente alle pretese di una razionalità preoccupata di precisione, per aprirsi a prospettive più larghe. Ci è utile, quando pensiamo allo Spirito Santo, tener presente che il suo nome biblico significa “soffio” e ha rapporto con il soffio potente del vento e con il soffio intimo del nostro respiro. Invece di attenerci a un concetto troppo intellettuale e arido, troveremo profitto nell’accogliere questa ricchezza di immagini e di fatti. Le traduzioni, purtroppo, non sono in grado di tramandarcela interamente, perché si trovano spesso costrette a scegliere altri termini. Per rendere la parola ebraica “ruah”, la traduzione greca dei Settanta adopera 24 termini diversi e quindi non permette di scorgere tutte le connessioni che si trovano tra i testi della Bibbia ebraica.

7. A conclusione di questa analisi terminologica dei testi dell’Antico Testamento sulla “ruah”, possiamo dire che da essi il soffio di Dio appare come la forza che fa vivere le creature. Appare come una realtà intima a Dio, che opera nell’intimità dell’uomo. Appare come una manifestazione del dinamismo di Dio, che si comunica alle creature.

Pur non essendo ancora concepito come Persona distinta, nell’ambito dell’essere divino, il “soffio” o “Spirito”, di Dio si distingue in certo modo da Dio che lo manda, per operare nelle creature. Così, anche sotto l’aspetto letterario, la mente umana viene preparata a ricevere la rivelazione della Persona dello Spirito Santo, che apparirà come espressione della vita intima di Dio e della sua onnipotenza.

GIOVANNI PAOLO II (17.10.1990) (TEMI: LO SPIRITO SANTO COME PERSONA, IL VENTO, LA COLOMBA)

dal sito:

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 17 ottobre 1990

(TEMI: LO SPIRITO SANTO COME PERSONA, IL VENTO, LA COLOMBA)

1. Nel Nuovo Testamento è contenuta la rivelazione circa lo Spirito Santo come Persona, sussistente col Padre e col Figlio nell’unità della Trinità. Ma non è rivelazione con i tratti marcati e precisi di quella riguardante le due prime Persone. L’affermazione di Isaia, secondo cui il nostro è un “Dio nascosto” (Is 45, 15), si può riferire in particolare proprio allo Spirito Santo. Il Figlio, infatti, facendosi uomo, è entrato nella sfera della visibilità sperimentale per quelli che hanno potuto “vedere con i loro occhi e toccare con le loro mani qualcosa del Verbo della vita”, come dice san Giovanni (1 Gv 1, 1); e la loro testimonianza offre un concreto punto di riferimento anche per le generazioni cristiane successive. Il Padre, a sua volta, pur rimanendo nella sua trascendenza invisibile e ineffabile, si è manifestato nel Figlio. Diceva Gesù: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9). Del resto la “paternità” – anche a livello divino – è abbastanza conoscibile per l’analogia con la paternità umana, che è un riflesso, sia pure imperfetto, di quella increata ed eterna, come dice san Paolo (Ef 3, 15).

2. La Persona dello Spirito Santo, invece, è più radicalmente al di là di tutti i nostri mezzi di avvicinamento conoscitivo. Per noi la Terza Persona è un Dio nascosto e invisibile, anche perché ha analogie più fragili in ciò che avviene nel mondo della conoscenza umana. La stessa genesi e spirazione dell’amore, che nell’anima umana è un riflesso dell’Amore increato, non ha la trasparenza dell’atto conoscitivo, che in qualche modo è autocosciente. Di qui il mistero dell’amore, a livello psicologico e teologico, come fa notare san Tommaso. Si spiega così che lo Spirito Santo – come lo stesso amore umano – trovi espressione specialmente nei simboli. Questi indicano il suo dinamismo operativo, ma anche la sua Persona presente nell’azione.

3. Così il simbolo del vento, che è centrale nella Pentecoste, evento fondamentale nella rivelazione dello Spirito Santo: “Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano (i discepoli con Maria)” (At 2, 2).

Il vento viene spesso presentato, nei testi biblici e altrove, come una persona che va e viene. Così fa Gesù nel colloquio con Nicodemo, quando prende l’esempio del vento per parlare della persona dello Spirito Santo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3, 8). L’azione dello Spirito Santo, per cui si “nasce dallo Spirito” (come avviene nella figliolanza adottiva operata dalla grazia divina) è paragonata al vento. Questa analogia impiegata da Gesù mette in rilievo la totale spontaneità e gratuità di questa azione, per mezzo della quale gli uomini sono resi partecipi della vita di Dio. Il simbolo del vento sembra rendere in modo particolare quel soprannaturale dinamismo, per mezzo del quale Dio stesso si avvicina agli uomini, per trasformarli interiormente, per santificarli e – in certo senso, secondo il linguaggio dei Padri – per divinizzarli.

4. Bisogna aggiungere che dal punto di vista etimologico e linguistico il simbolo del vento è quello più strettamente connesso con lo Spirito. Ne abbiamo già parlato in catechesi precedenti. Qui basti ricordare soltanto il senso della parola “ruah” (Gen 1, 2), cioè “il soffio”. Sappiamo che quando Gesù, dopo la risurrezione, appare agli apostoli, “alita” su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 22-23).

Occorre anche notare che il simbolo del vento, in riferimento esplicito allo Spirito Santo e alla sua azione, appartiene al linguaggio e alla dottrina del Nuovo Testamento. Nell’Antico Testamento il vento, come “uragano”, propriamente è l’espressione dell’ira di Dio (cf. Ez 13, 13), mentre il “mormorio di un vento leggero”, parla dell’intimità della sua conversazione con i profeti (cf. 1 Re 19, 12). Lo stesso termine è usato per indicare l’alito vitale, significativo della potenza di Dio, che restituisce la vita agli scheletri umani nella profezia di Ezechiele (Ez 37, 9): “Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”. Col Nuovo Testamento il vento diventa dichiaratamente simbolo dell’azione e della presenza dello Spirito Santo.

5. Altro simbolo: la colomba, che secondo i sinottici e il Vangelo di Giovanni si manifesta in occasione del battesimo di Gesù nel Giordano. Questo simbolo è più adatto di quello del vento per indicare la Persona dello Spirito Santo, perché la colomba è un essere vivente, mentre il vento è solo un fenomeno naturale. Gli evangelisti ne parlano in termini quasi identici. Scrive Matteo (Mt 3, 16): “Si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui” (cioè su Gesù). Similmente Marco (Mc 1,10), Luca (Lc 3, 21-22), Giovanni (Gv 1, 32). A motivo dell’importanza di questo momento nella vita di Gesù, che riceve in modo visibile l’“investitura messianica”, il simbolo della colomba si è consolidato nelle immagini artistiche, e nella stessa rappresentazione immaginativa del mistero dello Spirito Santo, della sua azione e della sua Persona.

Nell’antico Testamento la colomba era stata messaggera della riconciliazione di Dio con l’umanità ai tempi di Noè. Essa infatti aveva portato a quel patriarca l’annuncio della cessazione del diluvio sulla superficie della terra (cf. Gen 8, 9-11).

Nel Nuovo Testamento questa riconciliazione avviene mediante il battesimo, del quale parla Pietro nella sua prima Lettera, mettendolo in riferimento alle “persone . . . salvate per mezzo dell’acqua” nell’arca di Noè (1 Pt 3, 20-21). Si può dunque pensare a una anticipazione del simbolo pneumatologico, perché lo Spirito Santo, che è Amore, “versando quest’amore nei cuori degli uomini”, come dice san Paolo (Rm 5, 5), è anche il datore della pace, che è dono di Dio.

6. E ancora: l’azione e la Persona dello Spirito Santo sono indicate anche con il simbolo del fuoco. Sappiamo che Giovanni Battista annunciava sul Giordano: “Egli (cioè il Cristo) vi battezzerà in Spirito e fuoco” (Mt 3, 11). Il fuoco è fonte di calore e di luce, ma è anche una forza che distrugge. Per questo nei Vangeli si parla di “gettare nel fuoco” l’albero che non porta frutto (Mt 3, 10); si parla anche di “bruciare la pula in un fuoco inestinguibile” (Mt 3, 12). Il battesimo “in Spirito e fuoco” indica la potenza purificatrice del fuoco: di un fuoco misterioso, che esprime l’esigenza di santità e di purezza di cui lo Spirito di Dio è portatore.

Gesù stesso diceva: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12, 49). In questo caso si tratta del fuoco dell’amore di Dio, di quell’amore che “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5, 5). Quando il giorno di Pentecoste sopra le teste degli apostoli “apparvero lingue come di fuoco”, esse significavano che lo Spirito portava il dono della partecipazione all’amore salvifico di Dio. Un giorno san Tommaso avrebbe detto che la carità – il fuoco portato da Gesù Cristo sulla terra – è “una certa partecipazione dello Spirito Santo”. In questo senso il fuoco è un simbolo dello Spirito Santo, la cui Persona nella Trinità divina è Amore.

Papa Giovanni Paolo II, udienza 10 ottobre 1990 (tema: Paolo – lo Spirito Santo)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19901010_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 10 ottobre 1990 

1. Abbiamo visto nella catechesi precedente che la rivelazione dello Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria col Padre e col Figlio trova negli scritti paolini espressioni molto belle e suggestive. Continuiamo oggi ad attingere dalle Lettere di san Paolo altre variazioni su quest’unico motivo fondamentale. Esso ritorna spesso nei testi dell’apostolo, permeati di una fede viva e vivificante nell’azione dello Spirito Santo e nelle proprietà della sua Persona che, mediante l’azione, si rendono manifeste.

2. Una delle espressioni più elevate e più attraenti di questa fede, che sotto la penna di Paolo diventa comunicazione alla Chiesa di una verità rivelata, è quella della “inabitazione” dello Spirito Santo nei credenti, che sono il suo tempio. “Non sapete – egli apostrofa i Corinzi – che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3, 16). “Abitare” si dice normalmente di persone. Qui si tratta dell’“inabitazione” di una persona divina in persone umane. È un fatto di natura spirituale, un mistero di grazia e di amore eterno, che proprio per questo viene attribuito allo Spirito Santo. Tale inabitazione interiore influenza l’uomo intero, così com’è nella concretezza e nella totalità del suo essere, che l’apostolo più volte denomina “corpo”. Difatti anche in questo scritto, poco più oltre il passo citato, sembra incalzare i destinatari della sua Lettera con la stessa domanda: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6, 19). In questo testo il riferimento al “corpo” è quanto mai significativo circa il concetto paolino dell’azione dello Spirito Santo in tutto l’uomo!

Si spiega così e si capisce meglio l’altro testo della Lettera ai Romani sulla “vita secondo lo Spirito”. Leggiamo infatti: “Non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. “E se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 9. 11).

Dunque l’irradiazione dell’inabitazione divina nell’uomo è estesa a tutto il suo essere, a tutta la sua vita, che si colloca in tutti i suoi elementi costitutivi e in tutte le sue esplicazioni operative sotto l’azione dello Spirito Santo: dello Spirito del Padre e del Figlio, e quindi anche di Cristo, Verbo incarnato. Questo Spirito, vivente nella Trinità, è presente in virtù della redenzione operata da Cristo in tutto l’uomo che si lascia “abitare” da lui, in tutta l’umanità che lo riconosce e lo accoglie.

3. Un’altra proprietà attribuita da san Paolo alla persona dello Spirito Santo è lo “scrutare” tutto, come scrive ai Corinzi: “Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio”. “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1 Cor 2, 10. 11).

Questo “scrutare” significa l’acutezza e la profondità della conoscenza che è propria della Divinità, nella quale lo Spirito Santo vive col Verbo-Figlio nell’unità della Trinità. Per questo è uno Spirito di luce, che è per l’uomo maestro di verità, come l’ha promesso Gesù Cristo (cf. Gv 14, 26).

4. Il suo “insegnamento” riguarda prima di tutto la realtà divina, il mistero di Dio in se stesso, ma anche le sue parole e i suoi doni all’uomo. Come scrive san Paolo: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1 Cor 2, 12). È una visione divina del mondo, della vita, della storia, quella che lo Spirito Santo dà ai credenti; un’“intelligenza di fede” che fa innalzare lo sguardo interiore ben al di sopra della dimensione umana e cosmica della realtà, per scoprire in tutto la proiezione dell’azione divina, l’attuazione del disegno della Provvidenza, il riflesso della gloria della Trinità.

Per questo la liturgia nell’antica sequenza della Messa per la festa della Pentecoste ci fa invocare: “Veni, Sancte Spiritus, et emitte coelitus lucis tuae radium . . . Vieni, Spirito Santo, e donaci un raggio della tua luce di cielo. Vieni, padre dei poveri, elargitore di doni, vieni, luce dei cuori . . .”.

5. Questo Spirito di luce dà anche agli uomini – specialmente agli apostoli e alla Chiesa – la capacità di insegnare le cose di Dio, come per un’espansione della sua stessa luce. “Di queste cose noi parliamo, – scrive Paolo – non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali”. È il discorso dell’apostolo, il discorso della Chiesa primitiva e della Chiesa di tutti i tempi, il discorso dei veri teologi e catechisti, che parlano di una sapienza che non è di questo mondo, di “una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria” (1 Cor 2, 13. 6-7).

Una tale sapienza è un dono dello Spirito Santo, che occorre invocare per i maestri e predicatori di tutti i tempi: il dono di cui parla san Paolo nella stessa Lettera ai Corinzi: “A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza” (1 Cor 12, 8). Scienza, sapienza, forza della parola che penetra nelle intelligenze e nelle coscienze, luce interiore che mediante l’annuncio della verità divina irradia nell’uomo docile e attento la gloria della Trinità: tutto è dono dello Spirito Santo.

6. Lo Spirito, che “scruta anche le profondità di Dio” e “insegna” la sapienza divina, è anche Colui che “guida”. Leggiamo nella Lettera ai Romani: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio”. Qui si tratta della “guida” interiore, che va alle radici stesse della “nuova creazione”: lo Spirito Santo fa sì che gli uomini vivano la vita dei figli della divina adozione. Per vivere in questo modo, lo spirito umano ha bisogno della consapevolezza della divina figliolanza. Ed ecco, “lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 14. 16). La testimonianza personale dello Spirito Santo è indispensabile perché l’uomo possa personalizzare nella sua vita il mistero innestato in lui da Dio stesso.

7. In questo modo lo Spirito Santo “viene in aiuto” alla nostra debolezza. Secondo l’apostolo, ciò avviene in modo particolare nella preghiera. Egli scrive infatti: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Per Paolo, dunque, lo Spirito è l’artefice interiore dell’autentica preghiera. Egli, mediante il suo divino influsso, penetra dall’interno la preghiera umana, e la introduce nelle profondità di Dio.

Un’ultima espressione paolina in un certo modo comprende e sintetizza tutto ciò che abbiamo attinto finora da lui su questo tema. Eccola: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato” (Rm 5, 5). Lo Spirito Santo è dunque Colui che “riversa” l’amore di Dio nei cuori umani in modo sovrabbondante, e fa sì che possiamo prendere parte a questo amore.

Da tutte queste espressioni, così frequenti e coerenti col linguaggio dell’apostolo delle Genti, ci è dato di conoscere meglio l’azione dello Spirito Santo e la persona stessa di Colui che agisce nell’uomo in modo divino. 

Papa Giovanni Paolo II, udienza 3 ottobre 1990 (tema: Paolo – lo Spirito Santo)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19901003_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 3 ottobre 1990 

1. È ben noto l’augurio con cui san Paolo conclude la seconda Lettera ai Corinzi: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi!” (2 Cor 13, 13). È l’augurio che la liturgia pone sulle labbra del sacerdote celebrante all’inizio della Messa. Con questo testo di evidente significato trinitario, ci introduciamo nell’esame di ciò che le Lettere dell’apostolo Paolo ci dicono sullo Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria del Padre e del Figlio. Il testo della Lettera ai Corinzi sembra provenire dal linguaggio delle prime comunità cristiane e forse dalla liturgia delle loro assemblee. Con quelle parole l’apostolo esprime l’unità trinitaria partendo da Cristo, il quale come artefice della grazia salvifica rivela all’umanità l’amore di Dio Padre e lo partecipa ai credenti nella comunione dello Spirito Santo. Così risulta che secondo san Paolo lo Spirito Santo è la Persona che opera la comunione dell’uomo – e della Chiesa – con Dio.

La formula paolina parla chiaramente di Dio Uno e Trino, anche se in termini diversi da quelli della formula battesimale riferita da Matteo: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Essa ci fa conoscere lo Spirito Santo quale era presentato nella dottrina degli apostoli e recepito nella vita delle comunità cristiane.

2. Un altro testo di san Paolo prende come base dell’insegnamento sullo Spirito Santo la ricchezza dei carismi elargiti con varietà e unità di ordinamento nelle comunità: “Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 4-6). L’apostolo attribuisce allo Spirito Santo i doni della grazia (carismi); al Figlio – come al Signore della Chiesa – i ministeri (“ministeria”); al Padre-Dio, che è l’artefice di tutto in tutti, le “operazioni”.

È molto significativo il parallelismo espresso in questo brano tra lo Spirito, il Signore Gesù e Dio Padre. Esso indica che anche lo Spirito viene riconosciuto come Persona divina. Non sarebbe coerente mettere in parallelismo così stretto due Persone, quelle del Padre e del Figlio, con una forza impersonale. È ugualmente significativo che allo Spirito Santo venga attribuita in modo particolare la gratuità dei carismi e di ogni elargizione divina all’uomo e alla Chiesa.

3. Ciò viene ulteriormente ribadito nell’immediato contesto della prima Lettera ai Corinzi: “Tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole”. Lo Spirito Santo si manifesta dunque come un libero e “spontaneo” Datore del bene nell’ordine dei carismi e della grazia; come una Persona divina che sceglie e benefica i destinatari dei diversi doni: “A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede, per mezzo dello stesso Spirito”. E ancora: “Il dono di far guarigioni . . . il dono della profezia . . . il dono di distinguere gli spiriti . . . il dono di varietà delle lingue e il dono d’interpretazione delle lingue”. Ed ecco: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità” (1 Cor 12, 7-11). Proviene, dunque, dallo Spirito Santo la molteplicità dei doni, come anche la loro unità, la loro coesistenza. Tutto ciò indica lo Spirito Santo come una Persona sussistente e operante nell’unità divina: nella comunione del Figlio col Padre.

4. Anche altri passi delle Lettere paoline esprimono la stessa verità dello Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria, partendo dall’economia della salvezza. “Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi . . . perché Dio vi ha scelti come primizia della salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità . . . per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo”: così scrive l’apostolo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi (2 Ts 2, 13-14), per indicar loro il fine del Vangelo da lui annunziato. E ai Corinzi: “Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Cor 6, 11).

Secondo l’apostolo, il Padre è il principio primo della santificazione, la quale viene conferita dallo Spirito Santo a chi crede “nel nome” di Cristo. La santificazione nell’intimità dell’uomo proviene dunque dallo Spirito Santo, persona che vive e opera in unità col Padre e col Figlio.

In un altro passo l’apostolo esprime lo stesso concetto in modo suggestivo: “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21-22). Le parole “nei nostri cuori” indicano l’intimità dell’azione santificatrice dello Spirito Santo.

La stessa verità, in forma ancor più sviluppata, si trova nella Lettera agli Efesini: “Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo . . . ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”. E poco dopo l’autore dice ai credenti: “Avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità” (Ef 1, 3. 13-14).

5. Altra magnifica espressione del pensiero e degli intenti di san Paolo è quella della Lettera ai Romani, dove egli scrive che lo scopo del suo ministero evangelico è che “i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo”. Per questo servizio chiede ai destinatari della lettera la preghiera a Dio, e lo fa per Cristo e per “l’amore dello Spirito”. L’“amore” è un particolare attributo dello Spirito Santo (Rm 15, 16. 30. 5), così come la “comunione” (cf. 2 Cor 13, 13). Da questo amore viene la santità, che rende gradita l’oblazione. E questa è dunque ancora un’opera dello Spirito Santo.

6. Secondo la Lettera ai Galati, lo Spirito Santo trasmette agli uomini il dono dell’adozione a figli di Dio, sollecitandoli alla preghiera propria del Figlio. “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). Lo Spirito “grida” e si manifesta così come una persona che si esprime con grande intensità. Egli fa risonare nei cuori dei cristiani la preghiera che Gesù stesso rivolgeva al Padre (cf. Mc 14, 36) con amore filiale. Lo Spirito Santo è Colui che rende figli adottivi e dà la capacità della preghiera filiale.

7. La dottrina di san Paolo su questo punto è così ricca, che occorrerà riprenderla nella prossima catechesi. Per ora possiamo conchiudere che anche nelle Lettere paoline lo Spirito Santo appare come una Persona divina vivente nell’unità trinitaria col Padre e col Figlio. L’apostolo attribuisce a lui in modo particolare l’opera della santificazione. Lui è il diretto autore della santità delle anime. Lui è la Fonte dell’amore e della preghiera, nella quale si esprime il dono della divina “adozione” dell’uomo. La sua presenza nelle anime è il pegno e l’inizio della vita eterna.

Papa Benedetto: Paolo – Lo Spirito nei nostri cuori (2006) (sullo Spirito Santo)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20061115_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 15 novembre 2006 
 

Paolo – Lo Spirito nei nostri cuori

Cari fratelli e sorelle,

anche oggi, come già nelle due catechesi precedenti, torniamo a san Paolo e al suo pensiero. Siamo davanti ad un gigante non solo sul piano dell’apostolato concreto, ma anche su quello della dottrina teologica, straordinariamente profonda e stimolante. Dopo aver meditato la volta scorsa su quanto Paolo ha scritto circa il posto centrale che Gesù Cristo occupa nella nostra vita di fede, vediamo oggi ciò che egli dice sullo Spirito Santo e sulla sua presenza in noi, poiché anche qui l’Apostolo ha da insegnarci qualcosa di grande importanza.

Conosciamo quanto san Luca ci dice dello Spirito Santo negli Atti degli Apostoli, descrivendo l’evento della Pentecoste. Lo Spirito pentecostale reca con sé una spinta vigorosa ad assumere l’impegno della missione per testimoniare il Vangelo sulle strade del mondo. Di fatto, il Libro degli Atti narra tutta una serie di missioni compiute dagli Apostoli, prima in Samaria, poi sulla fascia costiera della Palestina, poi verso la Siria. Soprattutto vengono raccontati i tre grandi viaggi missionari compiuti da Paolo, come ho già ricordato in un precedente incontro del mercoledì. San Paolo però nelle sue Lettere ci parla dello Spirito anche sotto un’altra angolatura. Egli non si ferma ad illustrare soltanto la dimensione dinamica e operativa della terza Persona della Santissima Trinità, ma ne analizza anche la presenza nella vita del cristiano, la cui identità ne resta contrassegnata. Detto in altre parole, Paolo riflette sullo Spirito esponendone l’influsso non solo sull’agire del cristiano, ma anche sull’essere di lui. Infatti è lui a dire che lo Spirito di Dio abita in noi (cfr Rm 8,9; 1 Cor 3,16) e che “Dio ha inviato lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori” (Gal 4,6). Per Paolo dunque lo Spirito ci connota fin nelle nostre più intime profondità personali. A questo proposito, ecco alcune sue parole di rilevante significato: «La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte… Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm 8, 2.15), perché figli, possiamo dire “Padre” a Dio. Si vede bene dunque che il cristiano, ancor prima di agire, possiede già un’interiorità ricca e feconda, a lui donata nei sacramenti del Battesimo e della Cresima, un’interiotità che lo stabilisce in un oggettivo e originale rapporto di filiazione nei confronti di Dio.  Ecco la nostra grande dignità: quella di non essere soltanto immagine, ma figli di Dio. E questo è un invito a vivere questa nostra figliolanza, ad essere sempre più consapevoli che siamo figli adottivi nella grande famiglia di Dio. E’ un invito a trasformare questo dono oggettivo in una realtà soggettiva, determinante per il nostro pensare, per il nostro agire, per il nostro essere. Dio ci considera suoi figli, avendoci elevati a una dignità simile, anche se non uguale, a quella di Gesù stesso, l’unico vero Figlio in senso pieno. In lui ci viene donata, o restituita, la condizione filiale e la libertà fiduciosa in rapporto al Padre.

Scopriamo così che per il cristiano lo Spirito non è più soltanto lo «Spirito di Dio», come si dice normalmente nell’Antico Testamento e si continua a ripetere nel linguaggio cristiano (cfr Gn 41,38; Es 31,3; 1 Cor 2,11.12; Fil 3,3; ecc.). E non è neppure soltanto uno «Spirito Santo» genericamente inteso, secondo il modo di esprimersi dell’Antico Testamento (cfr Is 63,10.11; Sal 51,13), e dello stesso Giudaismo nei suoi scritti (Qumràn, rabbinismo). Alla specificità della fede cristiana, infatti, appartiene la confessione di un’originale condivisione di questo Spirito da parte del Signore risorto, il quale è diventato Lui stesso «Spirito vivificante» (1 Cor 15, 45). Proprio per questo san Paolo parla direttamente dello «Spirito di Cristo» (Rm 8,9), dello «Spirito del Figlio» (Gal 4,6) o dello «Spirito di Gesù Cristo» (Fil 1,19). E’ come se  volesse dire che non solo Dio Padre è visibile nel Figlio (cfr Gv 14,9), ma che pure lo Spirito di Dio si esprime nella vita e nell’azione del Signore crocifisso e risorto!

Paolo ci insegna anche un’altra cosa importante: egli dice che non esiste vera preghiera senza la presenza dello Spirito in noi. Scrive infatti: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare – quanto è vero che non sappiamo come parlare con Dio! -; ma lo Spirito stesso intercede per noi con insistenza, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27). È come dire che lo Spirito Santo, cioè lo Spirito del Padre e del Figlio, è ormai come l’anima della nostra anima, la parte più segreta del nostro essere, da dove sale incessantemente verso Dio un moto di preghiera, di cui non possiamo nemmeno precisare i termini. Lo Spirito, infatti, sempre desto in noi, supplisce alle nostre carenze e offre al Padre la nostra adorazione, insieme con le nostre aspirazioni più profonde. Naturalmente ciò richiede un livello di grande comunione vitale con lo Spirito. E’ un invito ad essere sempre più sensibili, più attenti a questa presenza dello Spirito in noi, a trasformarla in preghiera, a sentire questa presenza e ad imparare così a pregare, a parlare col Padre da figli nello Spirito Santo.

C’è anche un altro aspetto tipico dello Spirito insegnatoci da san Paolo: è la sua connessione con l’amore. Così infatti scrive l’Apostolo: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Nella mia Lettera enciclica “Deus caritas est” citavo una frase molto eloquente di sant’Agostino: «Se vedi la carità, vedi la Trinità» (n. 19), e continuavo spiegando: «Lo Spirito, infatti, è quella potenza interiore che armonizza il cuore [dei credenti] col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati lui» (ibid.). Lo Spirito ci immette nel ritmo stesso della vita divina, che è vita di amore, facendoci personalmente partecipi dei rapporti intercorrenti tra il Padre e il Figlio. Non è senza significato che Paolo, quando enumera le varie componenti della fruttificazione dello Spirito, ponga al primo posto l’amore: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, ecc.» (Gal 5,22). E, poiché per definizione l’amore unisce, ciò significa anzitutto che lo Spirito è creatore di comunione all’interno della comunità cristiana, come diciamo all’inizio della Santa Messa con un’espressione paolina: «… la comunione dello Spirito Santo [cioè quella che è operata da lui] sia con tutti voi» (2 Cor 13,13). D’altra parte, però, è anche vero che lo Spirito ci stimola a intrecciare rapporti di carità con tutti gli uomini. Sicché, quando noi amiamo diamo spazio allo Spirito, gli permettiamo di esprimersi in pienezza. Si comprende così perché Paolo accosti nella stessa pagina della Lettera ai Romani le due esortazioni: «Siate ferventi nello Spirito» e: «Non rendete a nessuno male per male» (Rm 12,11.17).

Da ultimo, lo Spirito secondo san Paolo è una caparra generosa dataci da Dio stesso come anticipo e insieme come garanzia della nostra eredità futura (cfr 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,13-14). Impariamo così da Paolo che l’azione dello Spirito orienta la nostra vita verso i grandi valori dell’amore, della gioia, della comunione e della speranza. Spetta a noi farne ogni giorno l’esperienza assecondando gli interiori suggerimenti dello Spirito, aiutati nel discernimento dalla guida illuminante dell’Apostolo.

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