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La speranza nella Bibbia (4 punti tra i quali uno su Paolo)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=5

La speranza nella Bibbia

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 28 febbraio-1 marzo 1981

Nella relazione ci si sofferma su quattro filoni:
1) sulla fede di Abramo che è speranza;
2) sulla speranza come pianticella esile, ma anche rigogliosa, che cresce lungo i fiumi di Babilonia: l’esperienza dell’esilio per il popolo di Israele;
3) sulla speranza in alcuni testi di Paolo;
4) la speranza di Gesù.

1. la fede di Abramo che è speranza

Il capitolo 15 della Genesi contiene la riflessione del redattore sulla vicenda di Abramo quale fu rivissuta da Israele in tempi molto lontani dall’esistenza di Abramo stesso.
« Abramo credette e gli fu computato a giustizia ».
Nella tradizione biblica, credere significa stare appoggiato. Abramo credette: stette saldamente appoggiato alla Parola di Dio, visse ancorato alla promessa di Dio. La promessa di Dio è promessa di una terra e promessa di una numerosa discendenza. Ma la promessa di una terra è contraddittoria, perché i possessori di questa terra sono altri (i Cananei); anche la promessa di una numerosa discendenza è contraddittoria, perché Abramo non ha discendenti. E’ una promessa in un contesto di deserto di vita. La promessa di Dio si pone perciò in termini alternativi alla storia, alle condizioni obiettive.
Abramo credette, superò la contraddizione tra promessa e realtà attuale e si ancorò alla promessa. La sua fede gli permise di occupare la giusta collocazione nei confronti di Dio. L’appoggiarsi di Abramo alla promessa di Dio (alternativa, contraddittoria rispetto alla situazione attuale) è la speranza.
Scrive Paolo nella lettera ai Romani (4,18): « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ». Credette in un Dio « che rende vita ai morti e chiama all’essere le cose che ancora non sono » (versetto 17). La riflessione di Paolo è in chiave cristologica, perché Paolo ha presente la resurrezione di Cristo. Come Dio resuscitò dalla sterilità di Sara e dall’anzianità di Abramo il figlio Isacco, così Dio resuscitò da morte suo figlio Gesù. Dice Paolo: come ad Abramo fu computato a giustizia, così anche per noi. Abramo è il prototipo di colui che crede contro ogni speranza umana.
Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza in un Dio che resuscita e che chiama all’essere ciò che non esiste; è speranza contro ogni speranza umana. La speranza di Abramo (che rappresenta il tipo di ogni credente) non va confusa con il facile ottimismo. Non è un ottimismo che si basa sull’evoluzione positiva delle situazioni, ma è una speranza che si coniuga in termini di sfida alla situazione attuale. È una speranza nonostante. Questo deve far riflettere noi, che siamo i figli delle speranze facili, ottimistiche, a basso prezzo (quali le speranze del ’68: sembrava che i cambiamenti fossero dietro l’angolo). La speranza di Abramo (e perciò dei credenti) è ad altissimo prezzo.
- La speranza di Abramo è speranza in possibilità prodigiose, le quali sono promesse di vita, di resurrezione (in senso molto vasto). Prendiamo i discorsi sui miracoli della Bibbia: non vanno interpretati secondo la nostra sensibilità positivista. Il metro della realtà è il metro del prodigio, del miracolo, della possibilità di vita dove regna la morte, della resurrezione nella nostra storia nonostante tutto. La speranza è sotto il segno della contraddizione, si lega al prodigio, che è promessa.
- La promessa di Dio (promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione, promessa di una terra ad Abramo mentre ci sono altri possessori, di una discendenza dove non ci sono figli), che sfida lo status quo, non va interpretata in chiave trascendentalistica; al contrario, essa è incarnata nella promessa umana, si colloca in un orizzonte in cui giocano le promesse umane. La promessa di Dio, il dono di Dio, lo Spirito di Dio non sono una realtà che ci coglie direttamente: sono mediati (a cominciare da Cristo, che è il solo mediatore). Troviamo la promessa di Dio nelle promesse che ci scambiamo. Essa è lo sfondo della promessa di vita e resurrezione tra noi, la profondità escatologica finale delle promesse tra noi. Le promesse che ci scambiamo sono vere nella misura in cui riflettono la logica della promessa di Dio, che è promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione dove c’è cimitero.
- La speranza è affidarsi alla promessa, è appoggiarsi. Ma questo affidarsi alla promessa di Dio, questa fiducia, non vanno interpretate in termini di pigrizia storica. Abramo non si è affidato alla promessa di Dio in termini contemplativi: si è mosso, ha agito, è venuto nella terra che era sua per promessa, ma dei Cananei per titolo storico, giuridico. Affidarsi alla promessa significa uscire dalla situazione, dal passato e dal presente, che possediamo, e camminare verso. E’ un processo di sradicamento. Abramo è stato sradicato dalla sua situazione di possesso (« Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua parentela ») per un nuovo radicamento: nella terra promessa.
- La speranza di Abramo è speranza di nomade, di chi perde ciò che possiede. Abramo, ancorandosi alla promessa di Dio, ha abbandonato quello che possedeva. Venendo in Canaan, non ha ancora quello che avrà. La speranza di Abramo è la speranza dei poveri, di quelli senza alcun titolo di possesso, perché sono usciti dalla sicurezza, dal possesso, e non hanno ancora quello che è stato promesso. Possiedono solo la parola promissoria di Dio. In base ad essa si sono mossi, camminano. Il camminare, il muoversi ha valore simbolico. Nella lettera agli Ebrei (cap. 13, versetto 14) si parla dei credenti come di coloro che non hanno qui la loro città, stabile, ma sono in cerca di quella futura. Abramo è in cerca della terra futura.

2. la speranza durante l’esperienza dell’esilio del popolo di Israele
Nel 586 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, conquista Gerusalemme e la rade al suolo. Alcune migliaia di abitanti del regno di Giuda (gli strati più elevati) vengono deportati lungo i fiumi di Babilonia. Il salmo 137 è il canto nostalgico degli esuli che, lontani dalla loro patria, hanno appeso le cetre ai salici: non possono cantare un cantico del Signore in terra straniera. « Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te, se io non metterò Gerusalemme al di sopra di ogni mia allegrezza ».
C’è una grande nostalgia in questi esuli, anche perché Gerusalemme contava tutto per loro. Su una sponda del fiume di Babilonia cresce la pianta della rassegnazione, del disfattismo, della disperazione, poiché questi esuli sono coscienti di aver perduto tutto: terra, re, tempio, sacerdozio. Pensano che il progetto di Dio su di loro, popolo di Dio, sia finito, che sia la fine della storia dell’Alleanza. Dicono: siamo morti, come ossa aride, sparse nella valle tra i due fiumi; o si considerano dei cadaveri chiusi ermeticamente nei sepolcri. Sull’altra sponda del fiume di Babilonia si fa udire la voce profetica di Geremia e Ezechiele, in contraddizione con il disfattismo degli esuli.
Geremia abitava a Gerusalemme, ma seguiva da vicino gli esuli, col cuore era con loro, ritenendo che la rinascita del popolo di Israele partisse da loro. Quando a Gerusalemme la svalutazione delle proprietà terriere era al culmine, Geremia fece un gesto in contraddizione rispetto al processo inflazionistico, che spingeva tutti a vendere: comprò un campo e pubblicamente stese un atto notarile di compravendita (i profeti annunciavano la Parola di Dio non solo vocalmente, ma anche con azioni simboliche). Davanti alla meraviglia di tutti di fronte al suo gesto, Geremia disse: « Verrà quel giorno in cui si compreranno campi in questo paese, di cui voi dite: « È una desolazione, senza uomini e senza bestiame, abbandonato in potere dei Caldei. Si compreranno campi con denaro, si stenderanno dei contratti e si sigilleranno… » (32-43-44). Geremia annuncia la speranza in un momento di desolazione.
Ezechiele viveva con gli esuli, perché faceva parte della classe sacerdotale di Gerusalemme. La sua parola però risuonava in esilio. Ha una visione di una valle piena di ossa aride; da Dio riceve l’ordine di profetizzare su quelle ossa, cioè di dire la Parola di Dio. Sotto l’effetto della Parola di Dio pronunciata dal profeta, il popolo si rialza, ma non può ancora camminare. Allora Dio dà ad Ezechiele il secondo ordine, di dire a quelle ossa aride: « Io mando il mio Spirito che è soffio di vita ». La parola profetica di Ezechiele annuncia la rianimazione delle ossa aride e lo scoprimento dei sepolcri. Su questa sponda del fiume di Babilonia nasce la pianticella di speranza per bocca di Geremia ed Ezechiele.
Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza contro ogni motivo di disfattismo, di disperazione. Ancora una volta è una speranza contraddittoria rispetto allo status quo; è speranza di resurrezione di un popolo.
- Mentre la storia di Abramo è la storia di un credente (anche se il prototipo di tutti i credenti) la parola di Geremia ed Ezechiele presenta una speranza comunitaria, di popolo.
- È una speranza sostenuta sia dalla Parola di Dio (che rimette in piedi, ma non fa muovere), sia, in un secondo momento, dallo Spirito di Dio (che è il principio creativo). La speranza presentata dai profeti non equivale ad un programma per il futuro, da realizzare più o meno volontaristicamente, ma nasce in un campo di lotta tra forze di rassegnazione e forze vivificanti, dello Spirito. Speranza, nella bibbia, è sinonimo di dinamismo, di creazione, di movimento. La speranza è una bandiera puntata sul campo di lotta che in noi e intorno a noi. Le forze vivificanti sono forze donate da Dio, che è lo Spirito: perciò sono forze di vita, di resurrezione. La speranza si gioca nella lotta. Non è attendere comodamente che piova la manna dal cielo: è la speranza dei combattenti che si appoggiano alla forza della Parola di Dio. Questa è forza che produce fiducia, che fa passare alla speranza; è energia, è come una pioggia, che risale al cielo non senza aver fecondato il campo; è creatrice, suscitatrice di essere dove non c’è essere. Parola e Spirito di Dio nella bibbia sono sempre coniugate come forze operative, creatrici. Giovanni: la Parola è energia creatrice solo se animata dallo Spirito.
- La speranza, in quanto si appoggia allo Spirito di Dio, alle forze creatrici, è una forza creatrice del nuovo. La storia del popolo di Dio, così come viene interpretata dai profeti, è storia contraddittoria, perché da una parte c’è la speranza di Dio e dall’altra parte c’è la delusione, poiché la storia non realizza mai i grandi sogni di speranza. Tuttavia dalla delusione non nasce la rassegnazione, ma un rilancio di speranza. Poi subentrerà una nuova delusione, ma il rilancio di speranza continua. Isaia, in una situazione di delusione, rilancia la speranza. Promette in nome di Dio la creazione di qualcosa di nuovo. « Non abbiate nostalgia del passato: Io, Dio, sto per creare cose nuove ». Scrive Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (1, 20): « Tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate ‘sì’ « . Il rilancio della speranza dopo Cristo è un rilancio della speranza per coloro che solidarizzano con Cristo.
- Lo Spirito di Dio sostiene questa speranza che è forza creazionistica. Lo Spirito di Dio non va inteso in termini trascendentalistici: al contrario, è una realtà che ci è donata, che è in noi, che è operante in noi. Dio promette: Io darò il mio Spirito al popolo. La speranza assume il volto della disponibilità allo Spirito, del fare spazio all’azione dello Spirito che è in noi.

3. Paolo fa della speranza il tema specifico della sua teologia

Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 14-18)
Paolo risponde ai quesiti che gli pone la comunità di Tessalonica (che noi dobbiamo ricostruire sulla base della risposta di Paolo). È convinzione comune tra i cristiani, in questi primi anni dalla morte di Gesù (neanche vent’anni dopo la sua morte), che Cristo ritornerà a brevissima distanza di tempo a chiudere la storia. Il suo ritorno provocherà il rapimento dei credenti nel cielo. Questi non passeranno attraverso la morte perché, essendo risorto Cristo, non c’è più morte, si pensa, ma solo un passaggio da questo all’altro mondo. Accade che a Tessalonica avvengano alcuni decessi: si crede allora che queste persone morte siano ormai perdute, non possano essere più salvate. La comunità giace nella desolazione, nell’abbattimento, che nasce appunto dalla perdita di speranza nel destino dei morti. Ma i cristiani di Tessalonica sono nella desolazione anche per se stessi. Si chiedono infatti: « Se morissi anch’io prima del ritorno di Cristo? Anch’io avrei questo destino di perdizione. » Paolo dice loro che si comportano « come coloro che non hanno speranza », cioè come i pagani. Questa è la sua prima risposta: « Come crediamo che Gesù è morto e resuscitato, così anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li radunerà con Lui » (versetto 14). Paolo si appella alla fede cristiana nella resurrezione di Cristo: Dio ha resuscitato Cristo, cioè ha vinto la morte a favore di Cristo, ne consegue la speranza nella comunione nostra con Cristo. La speranza, cioè, nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo, nell’intervento di Dio che ha vinto la morte in Cristo. È una speranza che poggia sulla solidarietà nostra con Cristo. È Cristo risorto il motivo della nostra speranza. In questo solidarizziamo con Lui nella fede, possiamo sperare. Non più abbattimento, ma consolazione, o meglio incoraggiamento. Paolo entra poi nel problema di quelli che sono morti e di quelli che sono ancora vivi: « … noi, i vivi, non saremo avvantaggiati su quelli che si sono addormentati. Perché il Signore stesso, a un cenno, alla voce di arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole… »
Alcune riflessioni:
- Esiste un legame molto stretto tra fede e speranza. La speranza è una possibilità che nasce dalla fede, non da una visione ottimistica delle cose; la speranza cristiana si fonda sull’adesione al Cristo risorto, non su una concezione filosofica o antropologica della realtà. Ciò vuol dire che la speranza cristiana ha una dimensione cristologica, è speranza in Cristo come fonte di aggregazione (Cristo risorto che aggrega a sé i credenti nella resurrezione). La speranza cristiana è quel movimento per cui scopriamo, nella fede, la dimensione di promessa che ha l’Evento (la resurrezione di Cristo). È evento avvenuto, per Cristo e promessa di realizzazione per noi. La speranza scaturisce da un Evento, si compie unicamente nella fede.
- I contenuti obiettivi della speranza (in cosa speriamo). Paolo conclude: « e così saremo sempre con il Signore ». Questo è il contenuto: la comunione con il Signore. La speranza dona a questa comunione il carattere di indefettibilità: sarà comunione per sempre, totale. L’oggetto della speranza è una realtà interpersonale (Gesù). Il soggetto è il noi della comunità cristiana: noi saremo sempre con il Signore.
Prima lettera ai Corinzi (cap. 15).
A Corinto c’era una vivace minoranza di credenti, che interpretava la salvezza di Cristo in termini di attualismo e di spiritualismo. Non credeva nella resurrezione futura e corporea: la resurrezione è già avvenuta (attualismo) e riguarda l’io interiore (spiritualismo). Il legame con la storia, con il mondo, con il tempo, c’è ancora, ma esso non è determinante. Davanti a quest’interpretazione massimalistica, di « fuga in avanti », Paolo dice:
1) la salvezza, la resurrezione, non sono attuali, ma future. Non siamo ancora risorti.
2) la resurrezione che attendiamo è corporea.
Paolo fonda la resurrezione futura e corporea rifacendosi a Cristo: Cristo è risorto (lo crediamo e lo predichiamo), perciò i credenti resusciteranno. Pone un rapporto tra evento e promessa. Se i morti in Cristo non resuscitano, allora neppure Cristo è risuscitato. Perché questo legame tra Cristo e la resurrezione futura dei credenti? Perché Cristo è resuscitato non come caso sporadico ed eccezionale, ma come primizia; come primo, non come unico. Ci sono i secondi, e siamo noi i secondi. Ma l’immagine della primizia fa pensare ad una successione cronologica: al contrario, il legame tra Cristo e noi è più profondo di una successione cronologica. Infatti a questa immagine segue quella del Cristo risorto come nuovo Adamo. Adamo rappresenta un individuo e insieme il genere umano. Tre sono i rapporti tra Cristo (l’Evento) e l’evento promesso per noi:
- prima lui, poi noi;
- come lui, così noi (a sua immagine)
- noi in forza di lui (lui è il resuscitato che resuscita noi).
Cristo è risorto come primizia, immagine esemplare per noi, principio di resurrezione per noi, per cui l’evento della resurrezione di Cristo comporta la promessa di resurrezione per noi. La speranza nasce da questa solidarietà tra Cristo e noi. Da ciò comprendiamo come Cristo sia la nostra salvezza. Cristo è un individuo singolo, ma occupa nella storia della salvezza un posto unico: quella di avere una funzione per gli altri uomini. Cristo è il principio di una nuova umanità. Cristo, il nuovo Adamo, per l’umanità significa speranza. L’evento di Cristo è promessa per noi.
Da questa lettera di Paolo emerge anche il tema della resurrezione corporea. Per corpo qui si intende non la parte materiale contrapposta allo spirito, ma tutto l’uomo in quanto si apre, si relaziona a Dio, agli altri, al mondo. La resurrezione dei corpi interessa l’uomo come soggetto relazionale, comunicativo, in rapporto agli altri, a Dio, al mondo. Paolo declina i contenuti della speranza in chiave personalistica. La speranza riguarda l’uomo come persona, nella sua comunicatività, relazionalità. La solidarietà dell’uomo è il suo rapporto con gli altri, la sua mondanità è il suo rapporto nel mondo.
La speranza cristiana di Paolo è in antitesi con la speranza del mondo greco. Questa si basa sull’abbandono del mondo, sull’esilio dal mondo. In Paolo la mondanità è intensificata, è oggetto di speranza, nel senso della sua piena realizzazione. Dice Paolo che i corpi resuscitati saranno corpi spirituali: è la corporeità invasa e pervasa dallo Spirito di Dio, il principio della creatività. L’uomo spiritualizzato non è l’uomo tolto dalla storicità, ma è l’uomo in cui la mondanità raggiunge la sua pienezza e purezza in forza dello Spirito. L’uomo vive in questo mondo, è persona a questo mondo.
Lettera ai Romani (8, 18-25)
Al presente, l’intero mondo creato è in attesa del riscatto, della redenzione. Al presente, geme nella sofferenza « e soffre nelle doglie del parto »: sono i dolori che preparano una nuova nascita, dolori pieni di vita, di una nuova vita, anche se a caro prezzo. Anche noi credenti gemiamo come il mondo: i cristiani non rappresentano il piccolo numero degli arrivati, ma sono integrati perfettamente nel gemito. Gemono nell’attesa del riscatto della loro corporeità, mondanità. In questo testo c’è la negazione del tentativo di fare della comunità cristiana un luogo a parte, di privilegiati, di esseri in stato di possesso, mentre il resto dell’umanità è in stato di ricerca. I credenti sono solidali con il mondo nel gemito, nella sofferenza, nel dubbio, nella disperazione. Ma sono i dolori della nuova nascita. Allora speranza vuol dire « attendere con costanza ». La « upomoné » (pazienza) significa stare sotto senza piegare le ginocchia, sopportare un peso, ma senza arrendersi. Esige perciò la costanza, il tener duro, il non arrendersi nella lotta delle doglie. La speranza è un tener duro in un contesto di gemiti, di doglie del parto. La costanza è l’agire in condizioni difficilissime, senza cedere, è la resistenza. I credenti che sono quelli che sperano, in opposizione ai pagani, sono i resistenti nella storia, coloro che non si arrendono. Questa è la speranza. La speranza non è semplice: le pianticelle cresciute senza sforzo si rivelano speranze con frutti non buoni. L’unica speranza è la speranza dei crocefissi, la speranza che nasce all’ombra della croce.

4. la speranza di Gesù

a) nella sua vita, nella sua missione
Un dato certo è che Gesù ha incentrato la sua missione profetica nell’annuncio imminente del Regno di Dio. « Regno di Dio » è un’espressione peculiare della tradizione giudaica per dire che Dio si fa re. Il Regno di Dio è la regalità di Dio, non il territorio in cui Dio regna. L’antico Israele, come altri popoli, aveva una particolare ideologia regale: il re è anche l’istanza suprema di difesa, di giustizia nei confronti di coloro che non ne hanno nella società. La giustizia del re (da distinguere da quella della magistratura) è partigiana, sempre a favore dell’oppresso, del povero, dell’indifeso. La monarchia di Israele non soddisfece le attese dei poveri, perciò essi proiettarono la loro speranza in Dio re, nel Regno di Dio. Gesù si innesta in questo filone di attese dei poveri che Dio si faccia re e ne annuncia l’imminenza. Non è più un’attesa a lunga scadenza, ma ormai Dio bussa alla porta della storia. Gesù ha avuto coscienza di rappresentare nella storia questo momento in cui Dio re sta per entrare nella storia a rendere giustizia. Ma Gesù non si limita a proclamare quest’imminenza: egli proclama beati i beneficiari di Dio re.
« Beati gli umili, perché di loro è il Regno dei Cieli » (Matteo 5, 3). « Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli » (Luca, 6,20). La beatitudine è una proclamazione di felicità: fortunati voi. In questa proclamazione, Gesù si felicita con i poveri. È paradossale che Gesù si feliciti con i poveri, cioè con quelli che non hanno potere nella storia, gli emarginati, i disperati. Per quale motivo? Non perché gli emarginati sono i più disponibili al suo annuncio, al Regno di Dio, ma perché Dio sta per diventare re a loro favore. Sta per venire il giorno in cui i poveri non saranno più tali, perché Dio farà giustizia. Dio è a loro favore con la sua giustizia partigiana. Gesù si congratula per questo, c’è la sua partecipazione.
Ma Gesù non si limita a congratularsi, opera per la venuta del Regno, apre la porta attraverso la quale Dio entra nella storia come re. Nella missione di Gesù, una delle caratteristiche peculiari, è la guarigione degli indemoniati. Gli indemoniati erano persone con malattie psichiche, nella cultura di allora attribuite ad un possesso demoniaco, non potendo dare di esse una spiegazione scientifica. Gli avversari di Gesù attribuivano la sua attività sdemonizzatrice in senso malevolo, demoniaco. Rispondeva Gesù: « Ma se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora il Regno di Dio è già venuto fra voi » (Matteo 12, 28). La versione di Luca è più primitiva: « Ma se io scaccio i demoni col dito di Dio, è dunque venuto tra voi il Regno di Dio ». Il Regno di Dio comincia realmente a germinare nella storia attraverso l’azione di Gesù. Dio si fa re nella storia, è Lui che viene a rendere giustizia, ma non interviene immediatamente, bensì mediante l’azione di un uomo. Il Regno di Dio è una svolta rivoluzionaria come appare nelle parabole di Gesù cosiddette della crisi (le parabole del seminatore, della zizzania, del grano di senape), raccontate da Gesù in un momento in cui la gente, dopo un grande entusiasmo iniziale, iniziò a dubitare della venuta del Regno, non vedendo quel cambiamento in cui aveva sperato. Gesù, con queste parabole, voleva recuperare credibilità nei suoi ascoltatori. La parabola del seminatore ci dice che la missione di Gesù è esposta allo scacco, alla frustrazione, ma alla fine un quarto del suo annuncio porta frutto. Il piccolissimo granello di senape rappresenta il Regno che comincia a germinare nella storia, mentre l’albero derivato da quel granello è il Regno nella sua esplosione ultima.
La speranza di Gesù è operativa. È una speranza che lo fa mediatore di questo anticipo reale, anche se parziale. La speranza di Gesù è una speranza riposta in Dio re. Se Dio è re, Gesù non è ancora quello che sarà, perché non è ancora diventato re, lo sarà alla fine, ma comincia ad essere nella storia quello che sarà rendendo giustizia. La speranza è speranza nella pienezza dell’essere degli uomini, correlativa alla speranza nella pienezza dell’essere di Dio. Speriamo di essere nella pienezza e speriamo che Dio sia anch’egli nella pienezza come re.
La missione di Cristo si prolunga nella missione della comunità dei discepoli di Cristo. La speranza di Dio divenuto re a favore dei poveri dipende da questa mediazione storica. Dio si è legato a Cristo per diventare Lui re a beneficio dei poveri. La speranza è finalizzata alla piena realizzazione della realtà finale, però questa realtà escatologica è connessa con la sua validità per la storia. La speranza nella sua profondità escatologica diventa credibile solo se riesce ad anticipare realmente questa esplosione ultima nella storia, se pure solo parzialmente. È proprio per questa anticipazione che si può sperare nella realtà finale. Bisogna far germinare il Regno, portare nella storia i segni del Regno.

b) nella sua morte in croce.
Gesù si accorse che lo stavano condannando a morte. Pensò anche che il suo destino fosse simile a quello del servo di Dio (Isaia, capitoli 52 e 53), che subisce passione e morte violenta e attraverso essa rende riscatto al popolo e che sarà glorificato da Dio nella morte. Gesù andò incontro alla morte nella speranza che Dio gli avrebbe reso giustizia. Si affidò a Dio (« Nelle tue mani consegno la mia vita »). Gesù morì in croce con la speranza in Dio.
La speranza cristiana è la speranza dei crocifissi, che nasce all’ombra della croce, nascosta nei fori dei chiodi che trafissero Gesù. La speranza dei crocifissi è una speranza nell’impotenza, nella frustrazione estrema. Ma la speranza all’ombra della croce non è la speranza di chi si dimette dai suoi compiti, di chi si rassegna nella storia, di chi si abbandona a Dio. La croce, al contrario, significa lotta, azione nella storia, ma lotta da poveri, da crocifissi. Gesù è morto in piedi sulla croce. Non è sceso a compromessi, ma si è battuto bene, fino alla fine; però si è battuto da povero, da uomo qualunque, non da forte, perché questa sarebbe stata una speranza satanica. Gesù non è venuto meno nel suo battersi, nel senso che è morto in piedi contestando le forze che lo stavano schiacciando. Non scendendo a compromesso, non gettando le armi, ha tolto la maschera a queste forze: sono forze violenti, più forti di Gesù, ma non onnipotenti, perché non riescono a firmare l’atto di resa. Finché ci sono i resistenti, le forze della morte sono battibili, la lotta va avanti. E’ una lotta tra forze non onnipotenti. La speranza è la lotta che continua, è il risorgere della lotta.
La Croce significa morte dei sogni di onnipotenza dell’uomo. Essa annulla la pretesa dell’uomo di giocare nella storia da superuomo. Chi più di Gesù poteva giocare da Figlio di Dio nella storia? C’è un modo demoniaco di confessare Gesù Figlio di Dio: quello che esce dalla bocca dei demoni. Al contrario il centurione confessa questo guardando la Croce. È l’ombra della Croce che rende vera la figliolanza di Dio. Guardando la Croce, non c’è più l’equivoco di costituirsi come comunità messianica potente nella storia. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che non risparmia la morte a suo figlio e quindi a noi, suoi figli. È speranza in un Dio neppure Lui onnipotente nella storia. Non è stato potente a liberare Gesù dai suoi nemici. Dio non ha liberato Gesù perché non ha potuto, non perché non ha voluto: sarebbe un Dio malvagio se, potendo liberare suo figlio, non lo facesse.
Gli uomini hanno sempre sognato l’onnipotenza; ma, di fronte alle frustrazioni, ammettono realisticamente di non essere onnipotenti. Tuttavia trasferiscono in Dio questo loro sogno di onnipotenza. « Se non sono io onnipotente, lo sia almeno Dio. Io lo prego e ho a disposizione un Dio onnipotente ». Il Dio di Gesù sconvolge questa immagine di Dio: sulla Croce di Gesù, con il Figlio di Dio che muore crocifisso, muore quest’immagine di Dio onnipotente. Dio si è battuto accanto a suo figlio, non da onnipotente, ma standogli accanto, morendo con Lui. Allo stesso modo, Dio si batte con noi nella storia, ma non ci rende più forti.
Ogni discorso su Dio parte da Gesù. In Gesù leggiamo il volto di Dio. Gesù è crocifisso: allora Dio è crocifisso. Se Dio non ha risparmiato la morte, ciò significa che è incapace di risparmiare la morte ai suoi. Dio è colui che resuscita, non colui che risparmia ai suoi, né colui che fa ai suoi sconti generosi di travaglio storico. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che resuscita. Non ha risparmiato la morte a Gesù, ma lo ha resuscitato. Questo Dio che resuscita è il modo di Dio di essere presente nella storia oggi. Dio non è vincente, perché se Cristo è battuto, Dio è battuto in Cristo. Ma Cristo resuscita, Dio resuscita in Cristo: cioè, la sconfitta non è definitiva, non è ultima. La lotta continua. Cristo resuscita, si batte di nuovo, esce vivo, più vivo di prima, anche se la vitalità di Dio nella storia è ancora debole. Quando l’ultimo nemico sarà vinto e anche la morte sarà vinta, allora Gesù sarà diventato re, anche lui si assoggetterà a Dio e Dio sarà il re. Davanti ai fallimenti storici diciamo: questo fallimento è una lotta perduta, ma non perduta totalmente, perché la lotta rinasce di nuovo. Le resurrezioni storiche sono la lotta che non cessa. Finché ci si rialza, nella storia questa è la resurrezione. La speranza nasce dal disfacimento. La vita che si crea nella storia è resurrezione, nasce dalla morte con resurrezione. È una vita a caro prezzo, una vita che scaturisce dalle doglie. I dolori del parto producono vita; ma, in quanto dolori, sono dolori. Cristo ha dato la sua vita perché noi abbiamo la vita. La vita scaturisce da questo dare la vita, non nel senso materiale del morire. Lottare fino all’estremo produce germi di resurrezione. Il Dio di Gesù benedisse « il maledetto » resuscitandolo. Quando gli apostoli si accorsero che Dio aveva resuscitato Gesù, dissero: il Dio di Gesù Cristo è colui che benedice i crocifissi, è il Dio che sale il Golgota insieme con i crocifissi. Dio è il custode, l’alleato dell’uomo, è colui che cammina con l’uomo, non rendendolo per questo più forte, ma stando accanto a lui. L’uomo, cosciente di avere Dio accanto, si batte e Dio si batte con l’uomo. I grandi sogni del ’68, le grandi speranze troppo facili coltivate in certe comunità cristiane, cedono il posto alla speranza all’ombra della Croce, che sta nei fori lasciati dai chiodi di Gesù. Questa speranza lascia un vuoto, ma è proprio in questo vuoto che si annida la speranza. Le altre speranze sono più comode, esaltanti. Il Cristo risorto porta i segni del crocifisso: non è trionfante; sarà vincente alla fine, ma allo stato attuale si batte con i suoi e la lotta si trova nei fori dei chiodi della Croce. 

Publié dans:temi - la speranza |on 29 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

TEOLOGIA PAOLINA – ANNO 2009 – (sul tema della speranza)

dal sito:

http://www.parrocchiadiarenzano.it/FileDoc/2009/LezioneMarzo09.doc

TEOLOGIA PAOLINA – ANNO 2009 – Don Claudio Doglio

Lezione del 09/03/2009

Leggiamo dalla Lettera ai Filippesi il cap 3 su cui ci siamo soffermati particolarmente a trattare il tema della giustificazione per fede come argomento fondamentale della teologia di Paolo. L’elemento altrettanto significativo è l’attesa della Risurrezione. Paolo scrive il suo desiderio di conoscere la potenza della Risurrezione di Cristo: pronto a diventare partecipe della morte nella speranza di giungere alla Risurrezione dai morti. Avevamo già accennato al tema della speranza, ma è meglio tornarci sopra perché è un argomento decisivo per la nostra spiritualità cristiana.
Purtroppo non siamo aiutati dalla parola perché ormai nella lingua corrente il verbo « sperare » il sostantivo « speranza » hanno un significato debole: indicano semplicemente una ipotesi che può verificarsi o no.
Sono termini di incertezza che indicano una attesa, ma decisamente vago. Questo è un limite perché le nostre parole hanno perso il peso; non comunicano più il loro valore teologico.
Dobbiamo valorizzare meglio le parole o cambiarle, trovando qualcosa di meglio
« Speriamo » significa « viviamo nell’incertezza ». Ciò che determina la speranza cristiana è la certezza; invece la parola corrente è sinonimo di incertezza… « io speriamo che me la cavo »…
La speranza è la virtù teologale, quindi che viene da Dio e ha come oggetto Dio. E’ il desiderio di Dio. La speranza è attesa certa: è aspettativa ma non ipotetica e incerta.
E’ l’attesa certa: aspetto che si realizzi qualcosa di cui sono certo.
San Tommaso d’Aquino ci presenta la speranza come l’attesa certa di un bene futuro arduo, ma possibile. E’ una realtà che non c’è ancora perché ciò che si vede non è più speranza. E’ arduo, difficile da raggiungere, non è una banalità; è qualcosa che va al di là, che ci supera; è un bene talmente grande che non dipende da noi. Pensiamo alla felicità: chi non desidera essere felice? Ogni essere umano vive nella beata speranza: è l’attesa della beatitudine.
L’esperienza cristiana offre speranza cioè garantisce l’attesa. La speranza è la certezza che si realizzi questo bene futuro, arduo, ma possibile. Noi annunciamo che è possibile la realizzazione di questo bene. Che cosa speriamo? Non possiamo moltiplicare gli oggetti della speranza; è una cosa seria. Non è una virtù teologale sperare bel tempo o nella vittoria di una squadra.
« Mio Dio spero per la tua bontà, per le tue promesse e per i meriti di Gesù Cristo Nostro Signore, la vita eterna ». E’ una preghiera dottrinale sintetica dove ogni parola ha il suo peso e il suo valore.
« Mio Dio spero » – prima di mettere l’oggetto (la vita eterna) ci sono tre fondamenti:
«  La tua bontà
«  Le tue promesse
«  I meriti di Gesù Cristo

Questi tre elementi sono fondamentali: garantiscono la solidità dell’attesa perché la differenza di ciò che non è solido e viene aspettato, rispetto alla speranza, è illusione.
Dalle illusioni nascono le delusioni.
La speranza non delude (San Paolo – Lettera ai Romani) perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori.
La speranza non delude perché è fondata. Ogni attesa infondata illude, cioè prende in giro. Quando uno entra nel gioco si illude; quando esce fuori, cadendo giù è de-luso: il gioco è finito.
La nostra vita è un gioco di attese da cui si entra e da cui si esce. La speranza invece non delude perché non è l’aspettativa mia di qualcosa che semplicemente mi piace, ma è l’attesa della vita eterna sul fondamento della bontà di Dio, della sua promessa e dei meriti di Gesù Cristo. Il punto di partenza è la conoscenza di un Dio buono.
Il peccato originale è il dubbio che Dio non voglia il nostro bene che sia un Dio antagonista, nemico dell’uomo. La rivelazione cristiana parte dall’idea che Dio è per noi; la natura di Dio è a nostro favore.
Io posso aspettare con certezza da Dio solo quello che Dio ha promesso di darmi. Tutta la scrittura è basata sul tema della promessa.
La nostra fede è basata su una promessa: Dio si è rivelato come colui che promette. Dio ha promesso ad Abramo un figlio poi glielo chiede, ma non glielo porta via. Glielo da in pienezza perché sia proprio il figlio della fede.
Abramo si rende conto che Dio mantiene la promessa; gli chiede fiducia totale, ma Dio merita questa fiducia totale perché l’ha detto e l’ha fatto.
Anche Gesù promette ai discepoli tante cose: non ha promesso una buona salute e una vita lunga senza difficoltà e problemi. Quindi noi non possiamo sperare la salute del corpo o sperare di vivere a lungo, o sperare di non avere grane perché non rientrano nelle promesse di Dio. E’ il verbo sbagliato: che ognuno di noi desideri essere sano, vivere tanto è naturale, ma non è la speranza cristiana, è l’istinto di tutti, anche dei peggiori peccatori. Sperare la salute non è una virtù cristiana; non è un dono di Dio e non stiamo aspettando la promessa di Dio, ma aspettiamo quello che istintivamente ci piace. Dio ha promesso attraverso Gesù la vita eterna e questa vita è possibile per i meriti di Gesù Cristo. Non per le nostre opere, ma per quelle che ha fatto Cristo. Io spero la vita eterna e i meriti di Gesù Cristo nostro Signore. Ma che cos’è la vita eterna? Anche qui il linguaggio non ci aiuta perché ormai è diventato sinonimo di « al di là ».
La vita eterna è il paradiso…ma non è sufficiente…
La vita eterna non è semplicemente la vita che dura tanto. L’aggettivo « eterno » non significa solo « senza fine », con una durata illimitata, il concetto di eterno è simile a quello di pieno, perfettamente buono.
Il Signore vuole per noi una vita bella, pienamente bella, vuole che ci possiamo godere la vita, ma noi abbiamo confuso il fine con i mezzi; abbiamo valorizzato i mezzi dimenticandoci i fini. Il fine è la felicità, è la vita, pienamente bella.
Ogni persona desidera realizzarsi. Il contrario di realizzato è fallito. C’è il rischio di essere dei falliti. Dio vuole la nostra realizzazione, non ci vuole falliti; vuole che realizziamo tutte le nostre potenzialità.
Quando una persona si realizza totalmente  ha una vita bella; quando realizza tutte le sue potenzialità è una persona perfetta. Questa è la vita eterna: la piena realizzazione della nostra persona.
La virtù teologale della speranza ha come oggetto la vita bella, pienamente realizzata nel progetto di Dio. Questa parola a volte può suonare male perché viene usata come auto – realizzazione, come se io dicessi: « mi faccio da me ». Io non mi realizzo da me con le mie capacità e i miei sforzi, ma accolgo il dono di una vita bella.
La vita eterna è iniziata nel battesimo: io sono stato ammesso a questa vita ed è in parte già presente, non ancora del tutto; io spero quello che ancora manca e quello che c’è, già lo vivo.
Nella lettera agli Ebrei (cap 11,vers 1) si da la definizione di fede, dicendo che è sostanza di cose sperate. La nostra vita di battezzati è un evento reale. Questo è il fondamento delle cose sperate. Io spero che si compia tutto perché ho la garanzia che è già cominciato e le cose che non vedo ancora le intuisco sulla base di quelle che vedo.
Mi accorgo dei passi in avanti che ho fatto con la grazia di Dio e sono convinto che si possa fare. Sono convinto che la potenza di Dio può portare a compimento l’opera che ha iniziato in me. Il portare a compimento l’opera è la vita eterna.
Quando Paolo ha cominciato a predicare il Vangelo, ha insistito proprio su questo aspetto. Il primo oggetto della predicazione di Paolo, soprattutto nel mondo greco, non poteva essere un Messia degli Ebrei. Agli Ebrei poteva dire: « il Cristo che aspettavamo è venuto; c’è l’annuncio di un compimento delle promesse ». I Greci per annunciare il Vangelo di Gesù non avevano il riferimento alle Scritture. Paolo presenta la figura di Gesù come Colui che è in grado di dare la vita.
Nella lettera agli Efesini, al cap 2, vers 12 c’è un passaggio molto importante dove si dice che « voi greci eravate in questa situazione tragica, seguendo i desideri della carne. Eravate senza Cristo esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai fatti della promessa , senza speranza e senza Dio in questo mondo ».
Si adopera la parola « atei ». I greci non erano atei; l’ateismo come lo intendiamo noi, è una questione moderna.
Solo alcuni pochi razionalisti moderni hanno teorizzato l’ateismo come negazione di Dio. Gli antichi assolutamente non se lo immaginavano; i greci e i romani erano pieni di divinità.
Per Paolo, Dio e la speranza sono strettamente congiunte. Paolo comincia la predicazione cristiana annunciando che c’è speranza di vita.
Nella prima fase della predicazione paolina questo annuncio della speranza di vita equivaleva anche all’annuncio di un imminente venuta gloriosa del Cristo, proprio come il garante della vita. Ma l’attesa della venuta imminente non era un elemento dottrinale certo, che Paolo insegnasse, ma era probabilmente una sua opinione, un suo desiderio.
Paolo adopera un termine tecnico del linguaggio greco – romano e dice « parusia ». Non significa il ritorno di Cristo; è un termine comune della lingua greca.
E’ composto da due termini: para e usia = l’esserci
I greci chiamavano parusia la visita ufficiale dell’imperatore. Quando l’imperatore  o qualche grande rappresentante dello stato veniva in visita ufficiale nella città si chiamava parusia.
Paolo, usando il linguaggio corrente della gente greca annuncia una visita di stato: il Cristo risorto sta per venire qui; la Sua è una presenza imminente. La parusia va preparata: è una visita piacevole che deve essere vissuta con preparazione di accoglienza. Paolo parte da questa immagine; non annuncia la fine del mondo come immagine negativa e paurosa; annuncia qualcosa di bello e di entusiasmante.
Quando ha cominciato questo tipo di predicazione con la comunità cristiana di Tessalonica, ha dovuto interrompere molto presto perché è stato perseguitato e allontanato e ha scritto la Prima Lettera ai Tessalonicesi proprio per completare la catechesi che non era riuscito a concludere. Si era reso conto che il rischio del fraintendimento c’era e i suoi collaboratori devono avergli riferito che avevano capito male. Nel frattempo, da quando se n’era andato Paolo, qualche cristiano di Tessalonica, era morto. Erano le prime esperienze, non avevano mai visto morire un battezzato. Avevano capito male. Se Paolo proponeva l’immersione nella morte di Cristo, si moriva sacramentalmente e si risorgeva con Lui per la vita eterna; significava che il battezzato non moriva più. Era morto simbolicamente nel battesimo e aveva cominciato una vita nuova che sarebbe stata la vita eterna. Nel momento in cui qualcuno della comunità cristiana muore, crea il problema. Ma allora che vita eterna ha promesso il Cristo se i cristiani muoiono? Se è morto, è perso perché quando il Cristo viene non lo trova più. Il mondo greco non dava nessuna speranza oltre la morte e quindi non riuscivano a pensare ad una vita eterna oltre la morte; al massimo era una vita duratura su questa terra. Paolo interviene e offre una catechesi molto importante.
« Non voglio lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti perché continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza »
Quelli che non hanno speranza continuano ad affliggersi e ritengono che la perdita sia irrecuperabile.
« Noi crediamo che Gesù è morto ed è resuscitato, così anche quelli che sono morti Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui. Questo vi diciamo sulla Parola del Signore. Noi che viviamo e che saremo ancora in vita per la parusia del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti ».
Paolo mette se stesso fra quelli che sono ancora vivi e la venuta del Signore?
Sta parlando in modo molto familiare, non con l’intenzione di scrivere un trattato teologico. E proprio perché parla in un modo coinvolgente, usa il « noi » di tipo ipotetico: « noi che saremo ancora vivi » equivale a « quelli che saranno ancora vivi ».
« Il Signore stesso ha un ordine alla voce dell’arcangelo, al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo e prima risorgeranno i morti in Cristo. Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo partiti insieme con loro tra le nubi per andare incontro al Signore nell’aria ».
Paolo usa un linguaggio simbolico dove le nubi indicano la trascendenza, una dimensione sovra terrena, diversa da quella della terra. Quando arriva al vertice dice « saremo sempre con il Signore ». Questa è l’escatologia paolina, l’annuncio delle cose ultime.
Poi continua Paolo, dicendo che bisogna stare svegli, sobri (2° parte dell’atto di speranza)
« Spero la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che io debbo e voglio fare ». Spero l’amore di Dio, che mi renda capace di vivere nel modo che piace a Lui perché la vita bella è la vita come piace a Dio. La mia realizzazione è la realizzazione del progetto di Dio.

Publié dans:temi - la speranza, TEOLOGIA |on 2 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

dal sito:

http://www.taize.fr/it_article1198.html

COMUNITÀ DI TAIZÉ

La speranza

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

In un tempo in cui spesso si fatica a trovare delle ragioni per sperare, coloro che mettono la propria fiducia nel Dio della Bibbia hanno più che mai il dovere di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (1 Pietro 3,15). Spetta a loro cogliere ciò che la speranza della fede contiene di specifico, per poter viverlo.

Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Nella Lettera 2003, frère Roger lo ricorda: «[La sorgente della speranza] è in Dio, che non può che amare e che instancabilmente ci cerca».

Nelle Scritture ebraiche, questa Sorgente misteriosa della vita che noi chiamiamo Dio si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro. La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed e emet (per es. Esodo 34,6; Salmi 25,10; 40,11-12; 85,11). Generalmente, si traducono con «amore» e «fedeltà». Dapprima ci dicono che Dio è bontà e benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi, e in secondo luogo, che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Ciò inizia già con la storia di Abramo: «Ti benedirò, disse Dio ad Abramo. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3).

Una promessa è una realtà dinamica che opera delle possibilità nuove nella vita umana. Questa promessa guarda verso l’avvenire, ma si radica in una relazione con Dio che mi parla qui e ora, che mi chiama a fare delle scelte concrete nella mia vita. I semi del futuro si trovano in una relazione presente con Dio.

Questo radicamento nel presente diventa ancora più forte con la venuta di Gesù Cristo. In lui, dice san Paolo, tutte le promesse di Dio sono già una realtà (2 Corinzi 1,20). Certo, ciò non si riferisce unicamente a un uomo che è vissuto in Palestina 2000 anni fa. Per i cristiani, Gesù è il Risorto che è con noi nel nostro oggi. «Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo» (Matteo 28,20).

Un altro testo di san Paolo è ancora più chiaro. «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5,5). Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Come vivere della speranza cristiana?
La speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già presente oggi, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli è offerta, Dio gli disse: «Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? … Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura… Voi mi sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,11; Marco 16,15; Atti 1,8).

Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio. Scrivendo ai Romani, san Paolo evoca le sofferenze della creazione in attesa, paragonandole alle doglie del parto. Poi continua: «Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8,18-23). La nostra fede non ci fa dei privilegiati fuori dal mondo, noi «gemiamo» con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» (1 Giovanni 2,8).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare in società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. A causa di Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo. Superando divisioni di ogni tipo che li tenevano lontani gli uni dagli altri, quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2,42-47). Si sforzavano ad avere «un solo spirito, uno stesso amore, i medesimi sentimenti» (Filippesi 2,2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2,15). Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra.

Lettera da Taizé: 2003/3

CARD. CARLO MARIA MARTINI (temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_virtu6.htm

CARD. CARLO MARIA MARTINI (temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)
LA SPERANZA (*)

Premessa

Desidero iniziare la riflessione sulla speranza raccontandovi un’intuizione, molto semplice, che ho avuto trentaquattro anni fa, nel 1959, celebrando per la prima volta la Messa al Santo Sepolcro, a Gerusalemme. Si tratta di una piccola cella e per entrarvi bisogna curvarsi a fatica. In quel luogo misterioso e affascinante si venera la pietra su cui è stato deposto il corpo di Gesù morto. Era il 13 luglio, anniversario della mia ordinazione sacerdotale, tra le quattro e le cinque del mattino. Ricordo ancora con grande impressione il pensiero che mi illuminava: tutte le religioni – dicevo a me stesso – hanno considerato il problema della morte, il senso di questo evento, e si sono chieste se esista qualcosa al di là di esso. E io sto celebrando nel posto in cui Cristo morto ha riposato e da dove è risorto vivo. Qui è la risposta unica, cristiana, alla domanda universale: che cosa si può sperare dopo la morte?
Il tema della speranza riguarda anzitutto il momento drammatico, di non ritorno, che è la morte: ecco a che cosa si riferisce la virtù, la forza della speranza. Al problema della morte nessuno può sfuggire; anche se poi l’arco delle attese di futuro diventa amplissimo, coglie tutta l’esistenza umana, il destino e le speranze dei popoli, del mondo inteso come unità. I molteplici interrogativi su ciò che sarà di me, di noi, dell’umanità, hanno a che fare con la speranza, perché sperare è vivere, è dare senso al presente, è camminare, è avere ragioni per andare avanti.

(*) Questa catechesi è stata tenuta dall’Arcivescovo nel Duomo di Milano, dove erano convenute migliaia di persone da tutta la diocesi.

Abbiamo speranza?

Il punto focale della nostra riflessione si riassume in una sola domanda: noi che siamo radunati insieme, abbiamo speranza? ho in me la speranza cristiana? oppure è soltanto una parola? la speranza cristiana abita davvero dentro di me?
Occorre rispondere seriamente, non avendo paura di riconoscere che, forse, la nostra speranza si riduce a un lumicino (e sarebbe già molto).

Un esegeta contemporaneo, Heinrich Schlier, descrive, partendo da san Paolo, gli effetti della mancanza di speranza nel mondo, in questi termini: « Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al suo appello e invito, ci si sforza di superare la spossatezza, la vacuità e la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza » . E aggiunge che i sintomi della non speranza sono « la verbosità dei vuoti discorsi, l’esigenza costante della discussione, l’insaziabile curiosità, la sbrigliata dispersione nella molteplicità e nell’arruffio, l’intima ed esteriore irrequietezza » – noi diremmo: le varie forme di nevrosi – « la mancanza di calma, l’instabilità nella decisione, il rincorrersi di continuo verso sempre nuove sensazioni » .
Cercherò dunque di aiutarvi a rispondere alla domanda su che cosa sia la speranza, per verificare se e in quale misura ci abiti.

Che cos’è la speranza cristiana?

Da quando ho pensato di preparare la lettera pastorale Sto alla porta, ho continuato a riflettere sulla speranza cristiana e, più vi rifletto, più mi appare indicibile.
La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima; essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio, ed è appunto difficilmente descrivibile.

Tuttavia desidero darvi un tentativo di definizione attraverso sei brevi tesi.

1. La prima tesi paragona la speranza cristiana con le speranze del mondo. Perché la speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c’è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell’attenderlo.
La vita umana è inconcepibile senza una tensione verso il futuro, senza progetti, programmi, attese, senza pazienza e perseveranza. Ma è pure intessuta di delusioni e quindi è permeata dalla speranza e anche dalla disperazione.
Ora – è la prima tesi – la speranza cristiana è qualcosa di tutto ciò, ed è diversa da tutto ciò: è diversa da ogni forma che il mondo chiama speranza, perché ha a che fare sì e no con le speranze di questo mondo.

2. La speranza cristiana viene da Dio, dall’alto, è una virtù teologale la cui origine non è terrena. Infatti essa non si sviluppa dalla nostra vita, dai nostri calcoli, dalle nostre previsioni, dalle nostre statistiche o inchieste, ma ci è donata dal Signore. Spesso dimentichiamo questa verità e consideriamo la speranza cristiana come « qualcosa in più », che si aggiunge alle altre cose.
Dunque, sperare è vivere totalmente abbandonati nelle braccia di Dio che genera in noi la virtù, la nutre, l’accresce, la conforta.
Mentre la prima tesi paragonava la speranza cristiana con le speranze di questo mondo, asserendo che in qualche modo è uguale alle altre ma anche diversa, la seconda tesi ci dà la ragione della diversità: la speranza è da Dio soltanto, è fondata sulla sua fedeltà.

3. Dobbiamo allora comprendere qual è il contenuto, l’oggetto della speranza cristiana. Sappiamo che, essendo virtù divina, ci rende partecipi della vita di Dio, è un mistero ineffabile, inimmaginabile, inesplicabile, indicibile appunto. Scrive san Paolo, nella Lettera ai Romani: « Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? » (Rm 8, 24). In un’altra Lettera afferma che « mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano » (1Cor 2,9): mai cuore ha potuto gustare, dunque neppure il nostro cuore, che è il centro di noi stessi. La speranza è uno strumento conoscitivo di straordinaria lungimiranza, acutezza, lucidità. Neppure il nostro cuore può comprendere, con tutti i suoi sogni, aspirazioni e desideri, quel bene senza limiti che Dio ci prepara, che è l’oggetto della nostra speranza: qualcosa che è al di là di ogni attesa e di ogni desiderio, anche se li colma e li riempie in modo indescrivibile. Il contenuto della speranza cristiana è quello di cui Dio ci riempie e ci riempirà, se ci fidiamo totalmente di lui.

4. La speranza cristiana ha però un termine, un punto di riferimento come suo oggetto: guarda a Gesù Cristo e al suo ritorno. A questo si appunta, perché ciò che Dio ci prepara, nel suo amore infinito, non è un’incognita: è Gesù, il Signore della gloria.
Noi speriamo che Gesù si incontrerà pienamente, svelatamente, in tutta la sua divina potenza di Crocifisso-Risorto, con ciascuno di noi, con la Chiesa, e ci farà entrare nella sua gloria di Figlio accanto al Padre: sarà il regno di Dio, la celeste Gerusalemme, la vita in Dio.
La nostra speranza è che vivremo sempre con lui, saremo con lui, nostro amore, e lui sarà con noi; saremo, come figli nel Figlio, nella gloria del Padre, nella pienezza del dono dello Spirito.
Questo è il termine della speranza cristiana.

5. Dobbiamo fare, tuttavia, un chiarimento importante. Il ritorno di Gesù, che noi speriamo, è anche un giudizio. È necessario sottolinearlo in questi giorni in cui si parla tanto di giustizia, di crisi. La manifestazione di Cristo Gesù sarà pure un giudizio, una « crisi » nel senso originario della parola greca, che significa appunto « giudizio ». Quando Cristo apparirà, nell’ora voluta dal Padre, si verificherà per ogni uomo la decisione definitiva sulla sua vita, sarà per ciascuno di noi e per l’umanità intera il momento critico, la crisi per eccellenza, il giudizio finale.
Nella nostra vita terrena e nella vita delle nostre società ci sono spesso crisi, grandi o piccole, personali o familiari, economiche, sociali, politiche, congiunturali, strutturali. Ma tutte queste crisi, anche quando ci sembrano quasi totali, raggiungono sempre soltanto una parte dell’esistenza umana e ne lasciano intatti altri aspetti. Non si dà sotto il sole una crisi davvero totale; e dunque nessuna crisi dovrebbe turbarci, spaventarci, se non in relazione alla crisi provocata dalla manifestazione definitiva del Signore, l’unica totale, l’unica in cui il giudizio sarà irrevocabile e irresistibile.
Per questo san Paolo avverte di « non giudicare nulla prima del tempo finché venga il Signore, il quale metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio » (lCor 4, 5). In quel momento del giudizio e della crisi finale, tutto ciò che è stato sepolto nelle profondità delle coscienze e tutto ciò che è stato rimosso di fronte agli altri o addirittura a noi stessi, sarà rivelato e consegnato al tribunale inappellabile della decisione divina. In pubblico sarà emanato il giudizio pieno e definitivo di ciascuno e di tutti: giudizio imparziale, vero, sicuro.

6. Se attendiamo il giudizio di Dio, come mai possiamo guardare a esso con speranza?
La risposta è semplice: perché ci aggrappiamo ancora una volta a Gesù nostra speranza, che ci giudicherà come Salvatore di quanti hanno sperato in lui; come colui che ha dato la vita morendo per salvarci dai nostri peccati; come colui che ha uno sguardo misericordioso per coloro che hanno creduto e sperato, che sono stati battezzati nella sua morte e risorti con lui nel Battesimo, che gli sono stati uniti nel banchetto dell’Eucaristia, che si sono nutriti della sua Parola e riconciliati con lui nel Sacramento del perdono, che si sono addormentati in lui sostenuti dal sacramento dell’Unzione dei malati.
La speranza è, quindi, fin da ora la fiducia incrollabile che Dio non ci farà mancare in nessun momento gli aiuti necessari per andare incontro al giudizio finale con l’animo abbandonato in Colui che salva dal peccato e fa risorgere i morti.
Gesù, nostra speranza, nostra salvezza, nostra redenzione, nostra certezza, ci sostiene nei cammini difficili della vita e ci permette di superare, giorno dopo giorno, le piccole e grandi crisi della quotidianità e della società. E noi camminiamo guardando a un termine di gioia perfetta, di giustizia piena, di riconciliazione totale in lui che, nell’Eucaristia, continuamente si offre per noi sull’altare unendoci alla sua misericordia e ci immerge nell’amore del Padre.

Domande per la riflessione personale

Dopo aver cercato di descrivere la speranza cristiana, il suo orizzonte, il suo termine e che cosa comporta di gioia e di vigilanza fin da ora, vi propongo quattro domande per la riflessione personale.

1. Noi cristiani, io stesso, il nostro tempo, la nostra società, abbiamo davvero speranza? siamo adeguati all’ampiezza della speranza cristiana? Se constatiamo di avere una speranza fioca, tenue, di orizzonte ristretto, già questo può diventare motivo di preghiera: Donaci, o Padre, la speranza, donaci il pane quotidiano della speranza; rimetti a noi i nostri peccati di poca speranza!
È importante esprimere al Signore il desiderio che lui infonda la speranza vera.

2. Quali sono, in me e intorno a me, nella società, i segni di mancanza di speranza? Ne abbiamo indicati alcuni citando l’esegeta Heinrich Schlier: ogni cedimento al malumore, al nervosismo, all’inquietudine, all’amarezza; ogni mancanza di calma, la verbosità di discorsi vuoti, la voglia di discutere sempre, la. curiosità, la dispersione nella molteplicità delle cose, l’instabilità di decisioni nella vita. Sono tutti segni di non speranza.
E, nella società, sono segni di mancanza di speranza la non chiarezza, la non obiettività, la non linearità, l’incoerenza, la disonestà. Talora, guardandoci intorno con occhio indagatore, ci sembra di scorgere dietro a tante forme di vita dei segnali dolorosi di disperazione nascosta, che attende di essere curata, lenita, medicata, guarita.
Quali sono, dunque, in me e intorno a me, i segni di mancanza di speranza?

3. Quali, al contrario, i segni positivi che vedo in me di speranza teologale? Non semplicemente segnali di buon umore, di buona salute (pur se sono doni di Dio), ma segni di vera speranza. Per esempio, quando nelle difficoltà non mi perdo d’animo; quando nelle crisi personali, familiari e sociali so contemplare la provvidenza di Dio che ci viene incontro, ci purifica, ci ricopre con la sua misericordia; quando so guardare all’eternità, al giudizio di Dio con serenità. Ci sono in noi questi piccoli o grandi segni di speranza teologale? e quali i segni positivi che scorgo nella comunità, nella parrocchia, nella società?

4. Dove ho più bisogno di speranza? Dobbiamo porci questa domanda cercando di pregare sui punti deboli della nostra speranza, perché la speranza è vita e senza di essa non siamo cristiani, anzi non possiamo neppure essere persone umane capaci di sostenere il peso dell’esistenza. La speranza ci è necessaria come l’aria, come l’acqua, come il pane, come il respiro.
Signore, dona speranza a noi e alla nostra società che ne ha tanto bisogno!

Conclusione

Desidero concludere con una preghiera, bellissima, di un nostro carissimo prete, don Luigi Serenthà, morto a 48 anni, nel settembre 1986:

« Signore Gesù, tu sei i miei giorni.
Non ho altri che te nella mia vita.
Quando troverò un qualcosa che mi aiuta,
te ne sarò intensamente grato.
Però, Signore,
quand’anche io fossi solo,
quand’anche non ci fosse nulla che mi dà una mano,
non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene,
tu, Signore, mi basti,
con te ricomincio da capo.
Tu sei il mio desiderio! ».

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