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SAN PAOLO – SULLA CARITÀ (testo originale francese, traduzione mia, teologia)

testo originale francese, traduzione mia, dal sito: Biblio-domuni, percorso per il ritrovamento del testo:

corso di teologia,
Théologie morale : La Charité
Michel Labourdette op (année 1959 – 1960)
Seconde partie du cours concernant les vertus théologales affectives. Secunda-Secundae q. 23-46:

http://biblio.domuni.org/

Si tratta quindi di un corso di teologia già fatto, nel testo sono evidenti gli inserimenti discorsivi; io utilizzo la Bibbia Cei e la sua traduzione, il testo francese è leggermente differente, non è la « Bible de Jerusalem » che conosco, naturalmente le differenze sono di versione e non di sostanza; forse è bene guardare comunque al testo originale ed alla impostazione grafica, è utile perché -  per non prendere troppo « spazio » sul blog – io devo togliere gli « spazi » che ci sono nel testo e lo chiarificano, « spazi » tra una preposizione e l’altra;

B – SAN PAOLO – SULLA CARITÀ

Non ci sono epistole di Paolo che non abbiano parole sulla carità; ma nella maggior parte, la carità è una tema più o meno sviluppato, molte volte ripreso. Io noto solamente qualche grande punto caratteristico:
« del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. » (Ts 11,3, cfr 5,6). Che cosa è questa carità?
1.
È soprattutto l’amore di cui Dio ci ama, amore che è al principio di tutta l’economia della salvezza, ossia di tutto il grande disegno che è stato rivelato pienamente in Cristo.
« Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti, con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia
Che ci ha dati nel suo figlio diletto » (Ef 1,3-6)
Accanto a Dio, l’agape è il principio di una liberalità tutta gratuita, che si manifesta in tutti gli effetti della carità di Dio, fino al più eclatante: il Cristo, Figlio di Dio, liberato dalla morte per noi, è, per così dire, la prova obiettiva di questo amore, di cui, d’altronde, la garanzia ci è donata interiormente nello Spirito Santo:
« La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora a stento si trova che sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi: » (Rm 5, 5-8)
Questo Spirito, presenza attiva dell’amore di Dio in noi, ci assimila al Cristo, figli come lui ed eredi:
« E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. » (Gal 4, 6-7).
2.
La carità è, dunque, anche, l’amore di cui noi amiamo Dio precisamente come un Padre. Perché se lo Spirito riempie i nostri cuori dell’amore del quale Dio ci ama, e realizza la sua presenza attiva nei nostri cuori, così suscita la nostra risposta: l’amore filiale che ci fa invocare il Padre e ci mette in comunicazione intima con lui, facendo, che in definitiva, tutto non può realizzare che il nostro bene:
« La scienza gonfia, mentre la carità edifica. Se qualcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto – in termini biblici: è amato da Dio, è conosciuto da lui come un amico (1Cor 8,1b-3)
Del resto noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Perché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. » Rm 8, 28-29)3.
Ed ecco perché la stessa carità è anche l’amore con il quale amiamo i fratelli, amore che impara alla scuola di Dio:
« Riguardo l’amore fraterno, voi non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri » (1Ts 4,9)
Ed è bene, perché è ancora un grande mistero che questa carità fraterna, quella stessa della edificazione della Chiesa, cioè del Corpo di Cristo, di cui precisamente è il legame. Qui sarebbe necessario citare troppo; è, come voi sapete, uno degli apporti più personali di San Paolo, una delle pietre miliari del suo pensiero; là dove San Giovanni mette davanti l’esempio di Cristo e del suo comandamento nuovo, San Paolo invoca il mistero di Cristo e della Chiesa: Qualche testo è sufficiente ad ricordare questo tema particolarmente studiato oggi:
« Al contrario, vivendo  secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto  il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità. » (Ef 4, 15-16).
Ecco, una nuova città, è la città di Dio, che si costruisce così e che chiama ad avere dei rapporti completamente nuovi, un amore, un’amicizia, caratteristiche de quella società:
« Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo. » (Ef 2, 19-20).
Fino là, c’è il popolo di Dio, Israele e le Nazioni; ma il Cristo ha ucciso l’odio, superate queste divisioni, riunendo i due popoli in uno solo, cioè chiamando tutti gli uomini, Giudei, Greci e barbari (Ef 2, 14-17). Ed ecco la grande ed essenziale « cosa » essa è l’amore:
« Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma quello degli altri, Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù: » (Fil 2, 1-5). « Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo (Col 3, 14-15).
Io non mi fermo al grande testo, celebre, l’Inno alla carità (1Cor 13). Esso è troppo conosciuto perché parlarne in generale possa essere utile e uno studio dettagliato ci porterebbe troppo lontano; voi lo farete da soli, voi stessi, e, in tutti i casi, io lascio a voi l’esegesi. Voi sapete che  abbiamo discusso la questione di sapere se questo è altro che la carità fraterna. Si tratta di questa, sicuramente, direttamente; ma se si intende come una semplice attitudine morale, si resterebbe, evidentemente, molto al « di qua » del testo di Paolo; qui, ancora, si tratta del mistero della carità che è presente, proposto esplicitamente da uno dei suoi lati, ma che implica tutte le sue dimensioni e la sua profondità. Questa carità che sorpassa tutti i carismi, è il legame [lien in francese= legame, quello che unisce]  della perfezione, il legame di tutto il Corpo di Cristo, essa è la « via » (una via che sorpassa tutto – 1Cor 12,31) insegnato da Cristo e per il quale noi imitiamo Dio.
« Fatemi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. » (Ef 5, 1-2).
E questa idea di sacrificio a strappato a San Paolo una espressione che farà problema,   l’influenza di questa espressione è stata grande nella riflessione cristiana:
« Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne… » (Rm 9,3)
Ed infine, questa carità, nel suo ruolo d’unione e di assimilazione a Cristo, e con la comunione di tutti i fedeli, ha un sacramento:
« …e il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane noi , pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10, 16-17)

Publié dans:temi - la carità , teologia - morale |on 2 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI e la predicazione di San Paolo sulla giustificazione (mercoledì 19 novembre 2008)

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-16201?l=italian

Benedetto XVI e la predicazione di San Paolo sulla giustificazione

Intervento in occasione dell’Udienza del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro. Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione sulla giustificazione.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto luomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nellosservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). Lilluminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l’esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come « spazzatura » di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l’osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore.

Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui: il Risorto era diventato linizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dellintegrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12).

È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo unirriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, laltro fondato sulla grazia della fede in Cristo. Lalternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: « Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno » (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che « tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge « Noi riteniamo, infatti che luomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge » (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: « giustificato per la sola fede ». Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa « Legge » dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle « opere della Legge » che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva lopinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; lopinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dalletica. Così a Corinto circolava la parola « BV µ@4 X>,FJ4<" (tutto mi è lecito). E ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.

Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nellinterpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che derminavano sostanzialmente lidentità delluomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa losservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso luniformità culturale e minacciava così lidentità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nellunico Dio e nelle promesse di Dio.Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l

identità israelitica, ma anche la fede nellunico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, delleredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, lunico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro così dice nella Lettera agli Efesini tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politeismo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò lespressione « sola fide » di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, allamore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è lamore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).

Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l’amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l’amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c’è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.

Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo, trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dallamore di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della Diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, con il loro Pastore Mons. Vito De Grisantis, qui convenuti per ricambiare la visita, che ho avuto la gioia di compiere nella loro terra nello scorso mese di giugno. Cari amici, ancora una volta vi ringrazio per laffetto con cui mi avete accolto, ed auspico che da quel nostro incontro scaturisca per la vostra Comunità diocesana una rinnovata, fedele e generosa adesione a Cristo e alla sua Chiesa. Saluto i rappresentanti della Federazione italiana cuochi e i Carabinieri della Regione Umbria. Tutti ringrazio per la presenza, ed auguro a ciascuno di essere messaggeri di gioia e di condivisione fraterna.

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dellUniverso. Cari giovani, ponete Gesù al centro della vostra vita, e da Lui riceverete luce e coraggio. Cristo, che ha fatto della Croce un trono regale, insegni a voi, cari malati, a comprendere il valore redentivo della sofferenza vissuta in unione a Lui. A voi, cari sposi novelli, auguro di riconoscere la presenza del Signore nel vostro cammino familiare.

Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo – udienza 12 novembre 2008

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-16105?l=italian

Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 12 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro. Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione riguardo alla seconda venuta del Signore.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell’attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dallevento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti.

Probabilmente nellanno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l’Apostolo scrive così: « Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti » (4,14). E continua: « Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore » (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è « essere con il Signore »; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata.Nella seconda

Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare dice come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: « Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo! » (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dellarrivo del Signore vi sarà l’apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato uomo iniquo, il figlio della perdizione (2,3), che la tradizione chiamerà poi lAnticristo. Ma lintenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: « Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità » (3, 10-12). In altre parole, lattesa della parusia di Gesù non dispensa dallimpegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi lattesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo.

La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia ritorno del Giudice/Salvatore e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: « Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi » (1, 21-26).Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perci

ò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.

E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell’attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro.In secondo luogo, la certezza che Cristo

è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c’è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.

Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna è giudice e salvatore insieme ci ha lasciato limpegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.Un ulteriore dato dell

insegnamento paolino riguardo all’escatologia è quello delluniversalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9).

Infine, un ultimo punto che forse appare un po’ difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell’area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa « Signore nostro, vieni! » (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si chiude con questa preghiera: « Signore, vieni! ». Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: « Vieni, Signore Gesù! ». Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c’è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! « Vieni, Signore Gesù! », e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.

PAPA BENEDETTO XVI/JOSEPH RATZINGER: 2. Alleanza ed alleanze nell’Apostolo Paolo

PAPA BENEDETTO XVI/JOSEPH RATZINGER

stralcio dal libro: La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, (MI) 2000;

stralcio dal capitolo II: La Nuova Alleanza; Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo Testamento;

pagg. 31-34;

(metto solo le note che sono esplicative del testo, le altre, spesso in tedesco, mi sembrano un sovrappiù per un testo su un Blog)

2. Alleanza ed alleanze nell’Apostolo Paolo

In Paolo risalta anzitutto la decisa sottolineatura dell’alleanza instaurata da Cristo rispetto all’alleanza mosaica. Ed è questa sottolineatura che caratterizza generalmente la differenza tra “antica” e “nuova” alleanza. La contrapposizione più netta tra i due Testamenti si trova in 2Cor 3, 4-18 e in Gal 4, 21-31. Mentre l’espressione “nuova alleanza” deriva dalle promesse profetiche (Ger 31,31) e lega pertanto tra loro le due parti della Bibbia, l’espressione “antica alleanza” si trova solo in 2Cor 3,14; la lettera agli Ebrei parla invece di “prima alleanza” (9,15) e chiama la nuova alleanza – oltre che con questa definizione classica – anche alleanza “eonica”, cioè “eterna” (13,20), con una terminologia che è ripresa dal canone romano nel racconto dell’istituzione, laddove si parla di “nuova ed eterna alleanza”.

Alleanza di Cristo e alleanza mosaica

Nella seconda lettera ai Corinzi Paolo pone in netta antitesi l’alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosè, definendo quest’ultima transitoria e la prima permanente. Caratteristica dell’alleanza mosaica appare quindi la sua transitorietà, che Paolo vede rappresentata nelle tavole di pietra. La pietra è l’espressione della morte e che resta chiuso nell’ambito della legge di pietra, resta nell’ambito della morte.

Con ciò Paolo pensava certo alla profezia di Geremia, secondo cui nella nuova alleanza la legge sarà scritta nel cuore come pure alle parole di Ezechiele, secondo cui il cuore di Pietra sarà sostituito da un cuore di carne.

Se nel testo si mette anzitutto in evidenza la transitorietà dell’alleanza mosaica, la sua caducità, si finisce per trovarsi di fronte a una prospettiva nuova e diversa. A chi volge il proprio sguardo al Signore è tolto il velo dal cuore e può quindi vedere lo splendore interiore, la luce pneumatica nella Legge e interpretarla quindi nella maniera giusta.

Qui e diverse altre volte in Paolo il cambiamento di immagini che possiamo constatare non rende molto chiaro il senso delle sue affermazioni, ma nell’immagine del velo tolto l’idea della provvisorietà della Legge appare comunque modificata: dove il velo cade dal cuore, viene alla luce ciò che della Legge è più autentico e definitivo; essa ste4ssa diviene Spirito e finisce per identificarsi con il nuovo ordine di vita che nasce dallo Spirito.

Alleanza con Noè, con Abramo, con Giacobbe-Israele

La rigida antitesi tra le due alleanze, l’antica e la nuova, sviluppata da Paolo nel terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi ha da allora segnato profondamente il pensiero cristiano, e in ciò si è prestata scarsa attenzione al sottile rapporto di lettera e Spirito che si annuncia nell’immagine del velo. Soprattutto, però, si è dimenticato che in altri passi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato.

Nell’elogio di Israele fatto da Paolo nel nono capitolo della Lettera ai Romani, tra i doni che Dio ha elargito al suo popolo figura anche questo: sue sono le “alleanze”, i patti che Dio ha concluso con lui. Il termine “alleanza” appare qui al plurale, conformemente alla tradizione sapienziale (Rm 9,4). E in effetti l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; esse corrispondono ai tre gradi dell’alleanza o alle tre Alleanze. L’Antico Testamento consoce l’alleanza con Noè, quella con Abramo, quella con Giacobbe-Israele; quella stabilita sul Sinai, quella di Dio con Davide.

Tutte queste alleanze hanno una loro caratteristica specifica, su cui occorrerà ritornare. Paolo sa quindi che la parola alleanza, a partire dalla storia della salvezza prima di Cristo, deve essere pensata e detta al plurale; delle diverse alleanze ne pone in evidenza due in maniera particolare, mettendole a confronto e riferendole, ciascuna a suo modo, all’alleanza stabilita da Cristo: l’Alleanza la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè è “sopraggiunta in seguito” (Rm 5,20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal 3,17), che non ha affatto privato quest’ultima del suo valore, rappresentando piuttosto uno stadio intermedio nel piano di Dio.

Diritto e promessa

È una forma della pedagogia di Dio con gli uomini; le singole componenti vengono meno quando il fine dell’educazione è raggiunto. Si abbandonano le vie percorse, resta il senso. L’alleanza mosaica si inserisce in quella stabilita con Abramo, la Legge diventa uno strumento della promessa. Così Paolo ha operato una netta distinzione tra le due modalità dell’alleanza che, di fatto, si incontrano nelle stesso Antico Testamento: l’alleanza che è una proclamazione del diritto e quella che è sostanzialmente promessa, dono di un’amicizia che viene offerta senza condizioni.

In effetti nel Pentateuco la parola berit (alleanza) è spesso usata come sinonimo di legge e comandamento. Una berit è oggetto di un comando; in Es 24 l’alleanza sinaitica appare sostanzialmente come un’ “imposizione di leggi e di obblighi per il popolo” . Una simile alleanza può anche essere spezzata; del resto nell’Antico testamento la stessa storia di Israele appare continuamente come storia dell’alleanza spezzata.

Un’unità carica di tensione: l’unica alleanza nelle alleanze

D’altra parte l’alleanza con i patriarchi è considerata eternamente valida. Mentre l’alleanza come obbligo legale riproduce il patto vassallatico, l’alleanza della promessa ha come modello la donazione regale. In questo senso Paolo, con la sua distinzione tra alleanza abramitica e alleanza mosaica, ha interpretato in maniera del tutto corretta il testo della Bibbia. Nello stesso tempo, con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica alleanza.

Se le cose stanno così, non si possono assolutamente contrapporre L’Antico e il Nuovo Testamento come se si trattasse di due diverse religioni; c’è una sola volontà di Dio nei riguardi degli uomini, un solo agire storico di Dio con gli uomini, che si compie nei suoi interventi, certamente diversi e in parte anche contrapposti, ma in verità sempre intimamente legati l’uno all’altro.

Giovanni Paolo II – Udienza 22 maggio 1991 (sul tema della carità)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1991/documents/hf_jp-ii_aud_19910522_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 22 maggio 1991

1. Nellanima del cristiano c’è un nuovo amore, per il quale egli partecipa allamore stesso di Dio: Lamore di Dio – afferma San Paolo – è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5, 5). È un amore di natura divina, ben superiore perciò alle capacità connaturali allanima umana. Nel linguaggio teologico esso prende il nome di carità. Questamore soprannaturale ha un ruolo fondamentale per la vita cristiana, come rileva per esempio San Tommaso, il quale sottolinea con chiarezza che la carità non solo è la più nobile di tutte le virtù” (excellentissima omnium virtutum), ma è anche la forma di tutte le virtù, poiché grazie ad essa i loro atti sono ordinati al debito ed ultimo fine (S. Thomae, Summa theologiae, II-II q. 23, aa. 6 et 8).

La carità è pertanto il valore centrale dell’uomo nuovo, ricreato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (Ef 4, 24; cf. Gal 3, 27). Se si paragona la vita cristiana a un edificio in costruzione, è facile riconoscere nella fede il fondamento di tutte le virtù che lo compongono. È la dottrina del Concilio di Trento, secondo il quale la fede è linizio dellumana salvezza, fondamento e radice di ogni giustificazione (Denz.-S. 2532). Ma lunione con Dio mediante la fede ha come scopo lunione con Lui nellamore di carità, amore divino partecipato allanima umana come forza operante e unificatrice.

2. Nel comunicare il suo slancio vitale allanima, lo Spirito Santo la rende atta ad osservare, in virtù della carità soprannaturale, il duplice comandamento dell’amore, dato da Gesù Cristo: per Dio e per il prossimo.

Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore . . . (Mt 12, 30; cf. Dt 6, 4-5). Lo Spirito Santo fa partecipe lanima dello slancio filiale di Gesù verso il Padre, sicché – come dice San Paolo – tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio (Rm 8, 14). Fa amare il Padre come il Figlio lo ha amato, cioè con un amore filiale, che si manifesta nel grido Abbà” (cf. Gal 4, 6; Rm 8, 15), ma si estende a tutto il comportamento di coloro che, nello Spirito, sono figli di Dio. Sotto linflusso dello Spirito, tutta la vita diventa un omaggio al Padre, carico di riverenza e di amore filiale.

3. Dallo Spirito Santo deriva anche losservanza dellaltro comandamento: l’amore del prossimo. Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati, comanda Gesù agli Apostoli e a tutti i suoi seguaci. In quelle parole: Come io vi ho amati, vi è il nuovo valore dellamore soprannaturale, che è partecipazione allamore di Cristo per gli uomini, e quindi alla Carità eterna, nella quale ha la sua prima origine la virtù della carità. Come scrive San Tommaso dAquino, lessenza divina è per se stessa carità, come è sapienza e bontà. Perciò, come si può dire che noi siamo buoni della bontà che è Dio, e sapienti della sapienza che è Dio, perché la bontà che ci rende formalmente buoni è la bontà di Dio, e la sapienza che ci rende formalmente sapienti è una partecipazione della divina sapienza; così la carità con la quale formalmente amiamo il prossimo è una partecipazione della carità divina (S. Thomae, Summa theologiae, II-II, q. 23, a. 2, ad 1). E tale partecipazione avviene ad opera dello Spirito Santo che ci rende così capaci di amare non solo Dio, ma anche il prossimo, come Gesù Cristo lo ha amato. Sì, anche il prossimo: perché, essendo lamore di Dio riversato nei nostri cuori, per esso possiamo amare gli uomini e anche, in qualche modo, le stesse creature irrazionali (cf. Ivi, q. 25, a.3) come le ama Dio.

4. Lesperienza storica ci dice quanto sia difficile lattuazione concreta di questo precetto. E tuttavia esso è al centro dell’etica cristiana, come un dono che viene dallo Spirito e che bisogna chiedere a Lui. Lo ribadisce San Paolo, che nella Lettera ai Galati li esorta a vivere nella libertà data dalla nuova legge dellamore, purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri (Gal 5, 13). Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Gal 5, 14). E dopo aver raccomandato: Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne (Gal 5, 16), segnala lamore di carità (agape) come primo frutto dello Spirito Santo (Gal 5, 22). È dunque lo Spirito Santo che ci fa camminare nellamore e ci rende capaci di superare tutti gli ostacoli alla carità.

5. Nella prima Lettera ai Corinzi San Paolo sembra voler indugiare nellelenco e nella descrizione delle doti della carità verso il prossimo. Infatti, dopo aver raccomandato di aspirare ai carismi più grandi (1 Cor 12, 31), fa lelogio della carità, come di qualcosa di ben superiore a tutti i doni straordinari che può concedere lo Spirito Santo, e di più fondamentale per la vita cristiana. Sgorga così dalla sua bocca e dal suo cuore lInno alla carità, che si può considerare un inno allinflusso dello Spirito Santo sul comportamento umano. In esso la carità si configura in una dimensione etica con caratteri di concretezza operativa: La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dellingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor 13, 4-7).

Nellelencare i frutti dello Spirito, si direbbe che San Paolo, correlativamente allInno, voglia indicare alcuni atteggiamenti essenziali della carità. Tra questi:

1) la pazienza, innanzitutto (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 4). Si potrebbe osservare che lo Spirito dà lui stesso lesempio della pazienza verso i peccatori e il loro difettoso comportamento, come nei Vangeli si legge di Gesù, che veniva chiamato amico dei pubblicani e dei peccatori (Mt 11, 19; Lc 7, 34). È un riflesso della stessa carità di Dio, osserva San Tommaso, che usa misericordia per amore, perché ci ama come qualcosa di se stesso (Summa theologiae, II-II, q. 30, a. 2, ad 1).

2) Frutto dello Spirito è, poi, la benevolenza (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 4). È anchessa un riflesso della divina benevolenza verso gli altri, visti e trattati con simpatia e comprensione.

3) C’è poi la bontà (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 5). Si tratta di un amore disposto a dare generosamente, come quello dello Spirito Santo che moltiplica i suoi doni e partecipa ai credenti la carità del Padre.

4) Infine la mitezza (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 5). Lo Spirito Santo aiuta i cristiani a riprodurre le disposizioni del cuore mite e umile (Mt 11, 29) di Cristo, e ad attuare la beatitudine della mitezza da lui proclamata (cf. Mt 5, 5).

6. Con lenumerazione delle opere della carne (cf. Gal 5, 19-21), San Paolo chiarisce le esigenze della carità, da cui derivano doveri ben concreti, in opposizione alle tendenze dell’“homo animalis, cioè vittima delle sue passioni. In particolare: evitare gelosie e invidie, volendo il bene del prossimo; evitare inimicizie, dissensi, divisioni, contese, promuovendo tutto ciò che conduce allunità. A ciò allude il versetto dellInno paolino, secondo il quale la carità non tiene conto del male ricevuto (1 Cor 13, 5). Lo Spirito Santo ispira la generosità del perdono per le offese ricevute e i danni subiti, e ne rende capaci i fedeli, ai quali, come Spirito di luce e di amore, fa scoprire le esigenze illimitate della carità.

7. La storia conferma la verità di quanto esposto: la carità risplende nella vita dei santi e della Chiesa, dal giorno della Pentecoste ad oggi. Tutti i santi, tutte le epoche della Chiesa portano i segni della carità e dello Spirito Santo. Si direbbe che in alcuni periodi storici la carità, sotto lispirazione e la guida dello Spirito, ha preso forme particolarmente caratterizzate dallazione soccorritrice e organizzatrice degli aiuti per vincere la fame, le malattie, le epidemie di tipo antico e nuovo. Si sono avuti così i Santi della carità”, come sono stati denominati specialmente nellOttocento e nel nostro secolo. Sono Vescovi, Presbiteri, Religiosi e Religiose, laici cristiani: tutti diaconi della carità. Molti sono stati glorificati dalla Chiesa; molti altri dai biografi e dagli storici, che riescono a vedere con i loro occhi o a scoprire nei documenti la verace grandezza di quei seguaci di Cristo e servi di Dio. E tuttavia i più restano in quellanonimato della carità che riempie di bene il mondo, continuamente ed efficacemente. Sia gloria anche a questi ignoti militi, a queste silenziose testimoni della carità! Dio li conosce, Dio li glorifica veramente! Noi dobbiamo essere loro grati, anche perché sono la riprova storica dell’“amore di Dio riversato nei cuori umani dallo Spirito Santo, primo artefice e principio vitale dellamore cristiano.

Publié dans:temi - le virtù teologali |on 30 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo – mercoledì 29 ottobre

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15958?l=italian

Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro. Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: « Limportanza della cristologia – La teologia della Croce » nella predicazione paolina.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nella personale esperienza di san Paolo c’è un dato incontrovertibile: mentre all’inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu unesistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nellincontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti; luniversalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l’amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimentava che la salvezza era grazia, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non cerano. Il « vangelo della grazia » diventò così per lui l’unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita.

Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dellumanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dellApostolo: l’esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l’unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l’annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla « potenza di Dio » (cfr1 Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L’Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: « La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio…è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani » (1 Cor 1,18-23).Le prime comunit

à cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l’Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo scandalo e la stoltezza della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c’è tutta la potenza dell’Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e lamore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l’essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.

Paolo stesso in più di un’occasione fece l’amara esperienza del rifiuto dell’annuncio cristiano giudicato insipiente, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto? « Ti sentiremo su questo unaltra volta » (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare unaberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto levento « Gesù di Nazaret » sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico.Ma perch

é san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela « la potenza di Dio » (cfr1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: « Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini » (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l’uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell’uomo e, dall’altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell’amore: proprio questa totale gratuità dell’amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: « Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12,9); e ancora: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti » (1 Cor 1,28). LApostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch’egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell’Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.

San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall’altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E da questo « ministero della riconciliazione » che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo « ministero della riconciliazione », che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dellamore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nellumiltà dellamore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo dire: « Mi ha amato e ha dato se stesso per me ».

Bartolomeo I: San Paolo, il primo “teologo dell’unità”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15773?l=italian

Un incontro panortodosso promuove l’unità dei cristiani

Bartolomeo I: San Paolo, il primo “teologo dell’unità”

di Miriam Díez i Bosch

ISTANBUL (Turchia), mercoledì, 15 ottobre 2008 (ZENIT.org).- San Paolo, l’unità della Chiesa, la bioetica, la creazione, la laicità e l’annuncio cristiano al mondo. Sono i temi che emergono dalla dichiarazione finale di un incontro tra leader ortodossi svoltosi a Istanbul (Turchia) con la presidenza del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I.

Nel suo intervento iniziale, il 10 ottobre, il Patriarca ha presentato l’apostolo Paolo come forse il “primo teologo dell’unità” e ha ricordato che “non si può onorare San Paolo in modo adeguato se allo stesso tempo non si lavora per l’unità della Chiesa”.

L’incontro, chiamato “Sinaxis”, ha riunito i maggiori rappresentanti delle Chiese ortodosse legate al Patriarcato di Costantinopoli per tre giorni a El Fanar, la sede del Patriarcado Ecumenico.

“Per San Paolo l’unità della Chiesa non è meramente una questione interna alla Chiesa stessa. Insiste tanto nel mantenere l’unità perché questa è inestricabilmente legata all’unità di tutta l’umanità”, ha affermato Bartolomeo I.

La proposta dell’ortodossia oggi, ha aggiunto, “non dovrebbe essere aggressiva, come purtroppo accade a volte, ma dialogica, dialettica e riconciliatrice”.

In un comunicato finale emesso al termine dell’incontro, i leader ortodossi presenti hanno ricordato che, nonostante i conflitti interni alla Chiesa ortodossa per motivi “nazionalisti ed etnici o per estremismi ideologici del passato”, è importante trovare un modo per far sì che l’ortodossia abbia un “impatto” sul mondo contemporaneo.

Ricordando anche l’apostolo Paolo, affermano che “il dovere supremo della Chiesa è l’evangelizzazione del Popolo di Dio, ma anche di coloro che non credono a Cristo”, e questo dovere deve essere realizzato “non in modo aggressivo o con varie forme di proselitismo”, ma “con amore, umiltà e rispetto per l’identità di ogni individuo e per la particolarità culturale di ogni persona”.

I leader hanno ammesso che tutti i cristiani ortodossi “condividono la responsabilità della crisi contemporanea di questo pianeta con altra gente, credente o no”, e hanno ricordato l’attenzione che merita la natura e la sensibilità di fronte alla bioetica, chiedendo la creazione di un comitato ortodosso che dia il suo punto di vista su vari temi bioetici.

Riconoscendo inoltre che gli sforzi per separare la religione dalla vita sociale costituiscono “la tendenza comune di molti Stati moderni”, sottolineano che anche se il principio dello Stato secolare deve essere preservato è “inaccettabile che tale principio venga interpretato come una radicale emarginazione della religione dalla sfera della vita pubblica”.

La distanza tra ricchi e poveri “cresce drammaticamente a causa della crisi finanziaria”, hanno proseguito i leader ortodossi, chiedendo “un’economia che combini l’efficacia con la giustizia e la solidarietà sociale”.

Il documento è stato firmato dai Primati delle Chiese ortodosse di Costantinopoli, russa, greca, albanese, di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Cipro, dal Primate della Chiesa ortodossa della Cechia e della Slovacchia e dai rappresentanti delle Chiese georgiana, serba, rumena, bulgara e polacca.

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