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« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – Giuseppe Barbaglio

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Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 34° – 2012/2013

Annunciare e testimoniare oggi la buona notizia

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

(DIVIDO IN DUE, VANGELI E PAOLO)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

3. PAOLO
Rifletteremo ora su come Paolo ha vissuto la sua esistenza particolare qualificata dalla missione apostolica e su come ha interpretato il senso profondo dell’esistere nella precisa angolatura dell’esistere cristiano.
un rapporto personale con i Tessalonicesi
La personalità di Paolo appare nelle sue lettere in cui affronta problemi ecclesiastici, teologici, causati dalle situazioni concrete delle sue comunità o in cui parla di sé. Al di là dello sviluppo teologico del suo pensiero emerge il soggetto, lo spessore umano di Paolo, che viveva in modo molto unitario la sua esperienza umana e apostolica.
Seguiamo le lettere nell’ordine cronologico partendo dalla 1 Tessalonicesi che ha scritto da Corinto a cavallo dell’anno 50. E’ il primo scritto della Bibbia cristiana, circa 20 anni dopo la morte di Gesù. In questo scritto le connotazioni più personali sono esplicite; i primi tre capitoli sono una rievocazione dell’incontro che ha avuto con i Tessalonicesi. Non era rimasto a lungo a Tessalonica, da cui era dovuto fuggire inseguito dalla inimicizia dei giudei della sua stirpe; fece sosta ad Atene e giunse a Corinto. Paolo era molto preoccupato che la comunità potesse estinguersi poiché la sua opera non era stata completata. Tessalonica era la capitale della provincia romana di Macedonia e Corinto la capitale di Acaia. Paolo scrive rievocando l’incontro con i Tessalonicesi e, in 2,8 dice: « voi c’eravate talmente cari che a noi piaceva comunicare a voi non solo il Vangelo di Dio, ma anche le nostre stesse vite ». Il « noi » include i suoi collaboratori Timoteo e Sila. Paolo intende il suo esistere come una realtà da comunicare. Giunto ad Atene inviò Timoteo a raccogliere informazioni e questi lo raggiunse poi a Corinto con buone notizie sulla comunità che resisteva e che, dice Paolo ha « un buon ricordo di me ». In 3,8 dice « abbiamo ricevuto questa notizia, ora sì vediamo che voi state saldi nel Signore ». Il rapporto di Paolo come apostolo nella sua comunità non è solo funzionale, ma è personale, una comunione interpersonale.

Paolo assume il volto del Vangelo
Paolo costituì poi una comunità a Corinto di nuovo tipo perché era formata da incirconcisi in un ambiente greco. Corinto era una grossa metropoli che contava mezzo milione di abitanti, era centro culturale (Atene viveva allora un momento di eclisse) e commerciale. Il rapporto di Paolo con questa sua comunità, in cui era rimasto due anni e mezzo, è stato molto controverso, perché, dopo la sua partenza, erano subentrati altri predicatori di orientamento diverso che avevano ottenuto il consenso della comunità mettendola contro Paolo.
In 1 Corinti 2,1-5, Paolo parla della sua venuta. La comunità di Corinto era un po’ tronfia, piena di sé per la nuova esperienza, e con atteggiamenti trionfalistici. Paolo reagisce e dice: « anch’io fratelli quando venni da voi non ero portatore di una sapienza eccellente o di capacità retorica » – logos, abilità nel parlare e sophia, pensiero penetrante -. Il pensiero greco era incentrato, dal punto di vista culturale, sulla sapienza e sulla eleuteria, la libertà personale e politica. Paolo dice: non sono venuto facendomi scudo di parola retorica e di pensiero penetrante « sono venuto ad annunciarvi il mistero di Dio ed ho ritenuto bene, in mezzo a voi, di annunciarvi solamente Gesù Cristo e costui crocifisso ». Il crocifisso era la contraddizione più palese nei confronti di un mondo molto orgoglioso, molto superbo della propria saggezza umana. La croce aveva origine barbara, persiana, era riservata ai paria, ai ribelli e la sensibilità greca, molto raffinata, la rifiutava. Paolo si presentava sulla scena di Corinto in antitesi alla cultura dell’ambiente; « io venni in mezzo a voi nella debolezza – en asteneia – nel timore e in grande tremore » nella pochezza umana dell’annunciatore Il mio annuncio, il mio kerigma non venne in mezzo a voi con parole persuasive di sapienza ma con la manifestazione dello spirito della sua potenza affinché la vostra fede non sia basata sulla sapienza umana, ma sulla forza di Dio ».
In questo testo possiamo notare come la forma del Vangelo di Paolo incentrato sul Cristo crocifisso diventa la forma della sua vita. Non è il rifiuto del pensiero e della riflessione, ma il rifiuto di un pensiero che si erge a metro della realtà. C’è l’identificazione tra l’esistere di Paolo e il Vangelo di cui è portatore. Non è un funzionario del Vangelo, non lo vende sul mercato come se fosse un prodotto, ma Paolo assume il volto del Vangelo. Paolo è l’apostolo crocifisso non nel senso della sofferenza, ma della debolezza: il crocifisso è il segno della debolezza del figlio di Dio e della debolezza di Dio nella storia.
A Corinto la comunità si era suddivisa in gruppuscoli ed ognuno di essi aveva come sua bandiera un grande esperto; c’era il gruppo di Paolo, di Apollo, un predicatore cristiano di Alessandria formatosi secondo i canoni della paideia greca, dotato quindi di logos splendente e di sophia, c’era il gruppo di Cefa e il gruppo di Cristo. Vi era una personalizzazione dell’esperienza cristiana e Paolo reagisce dicendo che l’esperienza cristiana dipende da Cristo e non dal predicatore « forse che Paolo è stato crocifisso per noi? Forse che siete stati battezzati nel nome di Paolo? ». In 3,5 dice: « Chi è Paolo? Chi è Apollo? Sono soltanto amministratori (oiconomoi) », L’oiconomos era uno schiavo o un liberto che nella casa dei ricchi aveva compito di amministratore dei beni. Poiché costoro dicevano: io sono di Cefa, io sono di Apollo, Paolo rovescia il rapporto « tutto appartiene a voi, noi siamo vostri, ma voi siete di Cristo ».
Paolo modello di esistenza cristiana attenta ai deboli
L’esistere di Paolo come amministratore della casa emerge soprattutto al cap. 9 della 1 Corinti dove si presenta come modello, esempio di una esperienza cristiana attenta ai deboli nella comunità. Nella comunità di Corinto c’erano i forti ed i deboli che avevano molti scrupoli riguardo le carni immolate agli idoli. Nelle città greche e romane del tempo la maggioranza delle macellerie vendeva carne che era stata immolata al tempio. La carne infatti veniva in parte destinata ai sacerdoti, in parte bruciata, in parte data ai devoti e quella che eccedeva veniva venduta nelle macellerie. Alcuni cristiani avevano problemi di coscienza nel mangiarla mentre altri addirittura si sedevano nei ristoranti collegati al tempio in luoghi in cui si consumava il banchetto sacro da parte di colui che aveva offerto i sacrifici e dei suoi amici. Il capo ristorante, il macellaio e il sacerdote chiamato « magheiros » erano la stessa persona. C’era un intrico di significati sociali, sacri ed anche idolatrici. I forti esibivano la loro libertà interna, l’eleuteria, ostentandola ed i deboli erano scandalizzati.
Paolo dice che si deve fare attenzione ai deboli per i quali lui è il fratello, per i quali Cristo è morto. Il simbolo religioso diventa la ragione di un comportamento di attenzione al fratello debole: si deve rinunciare alla libertà quando questa si traduce in uno svantaggio per il fratello debole. Paolo dice: « Guardate a me. Non sono forse io libero, non sono forse apostolo? »
In quanto apostolo Paolo aveva diritto di essere mantenuto dalla comunità che era orgogliosa di farlo, invece ha rinunciato ed ha lavorato con le sue mani per mantenersi. La comunità era rimasta molto scossa ed aveva dato interpretazioni negative come se Paolo non si sentisse un vero apostolo, dicendo che i veri apostoli come Cefa e come i fratelli di Gesù, si erano dati alla missione e si facevano mantenere. Paolo rivendica il diritto e dice al v.12 « ma noi non ci siamo avvalsi di questo diritto bensì tutto sopportiamo per non creare un qualsiasi ostacolo al Vangelo di Gesù ». Paolo non ha voluto farsi mantenere perché non si potesse sospettare un suo interesse privato nell’annuncio del Vangelo. Nel mondo greco lavorare con le mani era compito di ceti molto bassi, popolari e veniva disprezzato; l’ideale greco e romano era l’otium, la contemplazione, la riflessione filosofica, la lettura. Paolo annunciando il Vangelo gratuitamente si sottraeva al sospetto di interesse privato, ma, lavorando manualmente come artigiano, si esponeva al disprezzo della società-bene del tempo. Negli ambienti stoici e cinici invece il fatto di lavorare personalmente era ritenuto un’espressione di libertà.
A quel tempo vi erano predicatori propagandisti religiosi e filosofici il cui problema di mantenimento era risolto in quattro modi: c’era chi entrava nella casa del re oppure in casa di personaggi importanti come precettore (ad es. Aristotele era istitutore dei figli di Filippo) ma il rischio era di perdere la libertà di giudizio; c’era chi si faceva dare un salario per l’insegnamento; c’era chi mendicava come i cinici; c’era infine chi lavorava personalmente per salvare la propria libertà. Il grande modello del mondo stoico di chi lavorava per essere libero era Socrate. Paolo ha scelto questa strada e dice, 9, 19-23: « Essendo io libero da tutto mi sono fatto schiavo di tutto affinché io possa guadagnare parecchie persone e sono diventato per i giudei come un giudeo perché potessi guadagnare i giudei, per quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno sotto la legge pur non essendo io sotto la legge affinché io potessi guadagnare quelli che sono sotto la legge; per quelli che sono senza legge io mi sono fatto come uno senza legge pur non essendo io un fuorilegge nei confronti di Dio, ma sono dentro la legge di Cristo affinché potessi guadagnare quelli che sono senza legge. Mi sono fatto a favore dei deboli come uno che è debole affinché io potessi guadagnare il debole; io mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare in ogni modo alcuni. Tutto io faccio per amore del Vangelo affinché io sia compartecipe con voi del Vangelo ». La parola tutto « panta » ritorna continuamente: come plurale neutro, come dativo (pasin), per tutte le persone, per rendere un linguaggio di totalità che riflette la totalità della dedizione di Paolo. L’esistenza di Paolo è intesa come dedizione totale assumendo i costumi altrui; non è il nostro problema dell’inculturazione del Vangelo, ma dell’evangelista.
La sua adattabilità ha però un punto fisso ed é l’amore del Vangelo. Nei versi 24-27 Paolo prosegue usando l’immagine dello sport, molto sentita dal mondo greco. I giochi di Corinto erano secondi solo ai giochi di Olimpia; l’atleta che vinceva la corsa non riceveva denaro, ma la corona che a Corinto era di rami di pino intrecciati, diventando così celebre. « Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti corrono, ma uno solo prende il premio? Così voi correte per prenderlo. Chiunque lotta nell’agone sportivo si disciplina in tutto e quelli lo fanno per una corona corruttibile. Noi invece corriamo per ricevere una corona incorruttibile. Perciò io corro non come uno che corre senza una meta fissa, faccio pugilato non come un pugile che colpisce l’aria, bensì colpisco sotto l’occhio il mio corpo (era il pugno più offensivo), e lo riduco in schiavitù affinché non avvenga che, dopo aver fatto l’araldo agli altri, io stesso finisca squalificato ». Paolo non si sente un uomo sicuro, non è un « superman ». Da una parte ha una dedizione totale per salvare qualcuno, ma dall’altra permane il timore, per cui si sottopone a severissima autodisciplina.
fiducia e speranza in colui che dà la vita piena
Al cap. 15 della I Corinti Paolo ricorda il momento drammatico che ha vissuto a Efeso e si esprime in termini metaforici: ho combattuto con le fiere e l’ho fatto perché avevo la speranza nella resurrezione. Se ho messo la vita a repentaglio, dice, l’ho fatto nella speranza di ricevere da Dio una vita piena. Paolo sente che la sua vita è preziosa, ma è pronto a pagare questo prezzo alto, a vendere la sua vita, non per masochismo, ma per creare vita agli altri e a se stesso. Nella 2 Corinti ritorna sul pericolo mortale che ha corso ad Efeso. Dice in 1,8 « non vogliamo infatti che voi ignoriate come noi nell’Asia siamo stati assaliti da una tribolazione, siamo stati oberati al di là delle nostre forze a tal punto che abbiamo dubitato di potere vivere e noi abbiamo portato dentro di noi la sentenza di morte affinché non riponessimo la fiducia in noi stessi, ma in Dio il quale risuscita i morti. Ci ha riscattati da tale morte e ci riscatterà affinché noi riponessimo la nostra speranza anche per il favore della vostra preghiera ». Paolo ha avvertito enormemente il pericolo e dall’altra parte ha la sorpresa di essere stato risparmiato e questo, dice, mi ha dato una lezione. Paolo ha imparato da questa esperienza drammatica a riporre la fiducia e la speranza in colui che dà la vita ed aggiunge: questo ve lo dico perché impariate.
In 2 Corinti 7,2 dice a questa comunità che lo aveva fatto soffrire moltissimo perché aveva dato ragione ai suoi avversari, ripercorrendo la vicenda, « voi avete un grande posto nel mio cuore ». E al verso 5 « la mia vita all’esterno è avvolta da lotte e all’interno vi sono paure ».
il valore dell’annuncio
La lettera ai Filippesi viene scritta da Paolo mentre si trova in prigione nella prospettiva di una condanna capitale. Poi Paolo verrà liberato, ma sarà nuovamente arrestato a Gerusalemme, portato a Cesarea, quindi a Roma dove subirà la sentenza di morte. Paolo si trova dunque in catene, con probabilità a Efeso. Oltre al pericolo di essere condannato a morte, vive anche il disagio creato dagli avversari che avevano approfittato della sua disgrazia per succedergli nella comunità. La reazione di Paolo è in 1,18 « io godo perché, o per motivi sinceri o anche abbietti, Cristo è annunciato ». Paolo, che è stato accusato di avere identificato troppo se stesso con il Vangelo, in questa occasione separa se stesso dal Vangelo e sottolinea il valore dell’annuncio. La reazione di fronte alla sentenza capitale è di incertezza; Paolo non sa se desiderare la morte perché in tal modo si unirebbe a Cristo oppure l’assoluzione per continuare ad essere utile. « Sono ondeggiante », dice, ma dopo lungo pensare conclude che preferirebbe sopravvivere (Filippesi 1,21-22).
un esempio di autarchia
Un altro testo molto bello sul costume di Paolo è un esempio di autarchia. L’essere economicamente autosufficiente era un ideale dei cinici, chiamati cani perché vivevano nella povertà, nel distacco totale, come Diogene. I Filippesi, che amavano molto Paolo, gli avevano mandato aiuti mentre si trovava in prigione. I detenuti infatti non venivano mantenuti, e si nutrivano solo se parenti o amici provvedevano. Gli avevano anche mandato uno per compagnia, come si usava. Paolo ne è felice, però rimanda questi dicendo « ve ne ringrazio, però ho imparato nella vita ad essere autarchico, ho imparato a vivere nella ricchezza ed ho imparato a vivere nella povertà » (Filippesi 4,11 ss.)
un inno di trionfo sulla morte
In 1 Corinti cap.15,54-55 c’è un inno di trionfo sulla morte: « La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione? », e prosegue al verso 57: « sia reso grazie a Dio il quale dà a noi la vittoria mediante il Signore nostro Gesù ». In 15, 26 la morte è definita « l’ultimo nemico dell’uomo ».
Paolo ha, in quanto erede della tradizione ebraica, una concezione altamente drammatica della morte e ritiene che la morte sia anche l’ultimo nemico di Cristo. La sua teologia è sempre caratterizzata dalla categoria della forza, della potenza. Confrontandosi con la domanda: chi ha il dominio del mondo? dice: la morte che tutti ci falcia. Però Cristo vuole essere il padrone del mondo, il Signore. Allora, dice Paolo, il nemico nostro è anche il nemico di Cristo; se noi crediamo alla signoria di Cristo speriamo che Lui vinca la morte in noi, per una causa sua. Cristo vince la morte in noi per sé perché si tratta della sua signoria. E’ un inno nella fede, nella speranza: che vinca Cristo! Non è una certezza, è una fiducia.
E’ un testo che viene ripreso nel cap. 8 di Romani dove Paolo dice che ci sono forze terribili di morte contro di noi. « Che cosa diremo? Se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Non ha risparmiato il figlio suo, anzi lo ha consegnato, a favore di tutti noi, alla morte. Se ha fatto questo, non ci farà dono, insieme con Cristo, di tutte queste cose? Chi ci accuserà? Chi accuserà gli eletti di Dio? Cristo è colui che è morto, anzi è risuscitato e siede alla destra di Dio ed intercede per noi ». L’azione di Cristo non è solo al passato, ma allo stato attuale intercede, è il nostro avvocato. « Chi mai potrà separarci dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angustia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada… ma in tutte queste traversie noi stravinciamo (ipernikomenon) a causa di colui che ci ha amati. Siamo persuasi che né morte né vita né angeli né principati né le cose presenti né le cose future né altezza né profondità né alcuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che lui ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore ». La fiducia è in questo amore indistruttibile che Dio ha per noi. Paolo vive la sua esistenza in questa fiducia radicale nell’amore di Dio e di Cristo.

LA CONVERSIONE DI PAOLO, MITO FONDATORE DELLA CULTURA MODERNA CRISTIANA?

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LA CONVERSIONE DI PAOLO, MITO FONDATORE DELLA CULTURA MODERNA CRISTIANA?

di Mauro Pesce

(Mauro Pesce biografia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Mauro_Pesce

Si può dire con una certa sicurezza che la conversione di Paolo abbia costituito in passato una delle narrazioni principali su cui si è costruita la nostra cultura. Alcuni celebri dipinti del Cinquecento del Seicento e del Settecento che la raffigurano costituiscono in qualche modo una manifestazione plastica di questo racconto. Lo schema iconografico che vi sta alla base è diventato uno dei simboli principali della nostra cultura religiosa moderna. Un esempio di questa raffigurazione è proprio la pala seicentesca della Caduta di san Paolo attribuita a Carlo Bonomi che si trova nella chiesa di San Paolo in Monte a Bologna presso di cui oggi parliamo.
In questa iconografia, Paolo è raffigurato, ad esempio da parte di Caravaggio, come caduto da cavallo, folgorato da una luce divina che lo atterra nel momento stesso in cui sta agendo con forza per perseguitare la chiesa nascente, secondo il triplice racconto degli Atti degli Apostoli (9,1-9; 22,6-11; 26,12-18). Per lunghi secoli questa immagine e questa conversione ha rappresentato i rapporti tra ebrei e cristiani, tra ebraismo e cristianesimo. L’accecamento di Paolo è simile a quello della Sinagoga, rappresentata cieca nell’iconografia medievale. Cristo è la luce, l’ebraismo rappresenta le tenebre. La conversione è il passaggio dalla fede ebraica a quella cristiana. Ma l’ebraismo non è solo tenebra, è anche ostilità, ostilità mortale verso la chiesa e i cristiani. Paolo, come ebreo perseguita Cristo. Ma Dio lo annienta. Lo getta a terra e lo acceca. La sua potenza si rivela debolezza, la sua pretesa religione si rivela cecità, il suo ardore persecutorio si rivela per quelle che è: odio verso la verità di Dio. L’ebraismo che si pretende fedele a Dio non è in realtà che la sua negazione.
In questa visione tutto è chiaro: la conversione di Paolo è la conversione dall’ebraismo al cristianesimo. Questa immagine, quest’iconografia così diffusa e amata, è il simbolo del rapporto tra le due religiosi. Gli ebrei debbono convertirsi al Cristianesimo, Gli ebrei rappresentano un pericolo, una forza ostile che si scatena, quando può, contro i cristiani. Necessità della conversione, necessità di neutralizzare il pericolo.
In realtà, tutta questa visione che riduce la conversione di Paolo a una conversione dall’ebraismo al cristianesimo non è affatto contenuta nell’iconografia che conosciamo, e soprattutto non è contenuta nel triplice racconto degli Atti degli Apostoli. Gli studi biblici recenti ci hanno mostrato che si tratta di una costruzione culturale che per secoli è stata proiettata sulla cosiddetta conversione di Paolo la quale, nel racconto degli Atti e nella esperienza religiosa dello stesso Paolo, ebbe invece un altro significato. La celebre iconografia moderna della conversione di Paolo che tuttora continuiamo ad incontrare nelle nostre chiese e nei nostri musei richiede una rilettura critica. Un esame approfondito del tema della conversione di Paolo di Tarso ci pone al cuore di uno dei grandi problemi della trasformazione culturale profonda in cui il mondo di oggi e quindi anche quello italiano si trova.
Una prima osservazione è che la caduta da cavallo che fa parte di questa iconografia moderna ormai classica non è affatto presenta nel racconto degli Atti degli Apostoli che non menziona affatto la presenza di un cavallo.[1] L’iconografia antica passa da una visione in cui Paolo si getta a terra volontariamente a «una caduta subita, che fa di Paolo la vittima passiva di una prova da superare il cui emblema è la destabilizzazione».[2] L’iconografia del XII secolo porterà poi due ulteriori sostanziali modifiche: la raffigurazione antropomorfica del Cristo e l’interpretazione della caduta come caduta da cavallo. Questa caduta diventa «L’archetipo della violenza subita che disarciona l’orgoglio».[3]
2. La revisisone dell’idea classica della conversione di Paolo, come sintomo di un passaggio culturale.
Un grande mutamento culturale è in atto, che investe alla radice le basi delle nostre tradizioni. Fra queste tradizioni c’è anche la Bibbia e le origini del cristianesimo. Non si tratta di negare le nostre radici bibliche, ma di rendersi conto che il nostro modo di leggerle è stato per secoli determinato da una cultura che ora volge decisamente al tramonto. Ma questa cultura, che è la nostra, e che per tanto tempo ci è apparsa come parte integrante del messaggio biblico, del messaggio di Gesù e di quello neotestamentario, in realtà non corrisponde al messaggio biblico.
In altre parole, per comprendere il significato storico della conversione di Paolo è anzitutto necessaria una nostra conversione. Una conversione al mondo delle origini cristiane in modo da poter guardare a Paolo, che delle origini cristiane è uno dei pilastri, con lo sguardo di allora e non con quelli di una stsoria che si è poco a poco accumulata su di noi.
Ci troviamo qui in un edificio, in un’istituzione, che si richiama a Francesco di Assisi. E Francesco sta al cuore dell’aspirazione alla conversione. Francesco ha posto in modo radicale la povertà di Gesù come l’obiettivo fondamentale della conversione della chiesa e prima di tutto di quella sua personale conversione. Se ci poniamo nello spirito radicale di Francesco, siamo quindi nell’atteggiamento ideale per capire quale profondo bisogno di conversione morale e intellettuale è nececessario per comprendere la vera natura della conversione di Paolo e per cancellare l’immagine erronea che ne abbiamo. Quale conversione è necessaria, allora, per poterci quindi avvicinare a Paolo e alla sua straordinaria esperienza?
Una parte di questa conversione al mondo delle origini è stata operata alla metà del Novecento dal Papa Pio XII, che, nel 1943, rivolse alla chiesa cattolica una lettera enciclica rimasta poi come punto di riferimento essenziale per gli studi biblici: la enciclica Divino Afflante Spiritu. Si trattava del primo vero e ampio testo ermeneutico sulla Bibbia di questi cento anni, e forse l’unico, certo il più decdesivo. La Dichiarazione sulla verità storica dei Vangeli del 1964 l’avrebbe in certo qual modo prolungato e portato a compimento. Certo, la costituzione dogmatica Dei Verbum del concilio Ecumenico Vaticano II sarebbe stato un documento di valore teologico molto più alto, ma la base ermeutica decisiva sta nel documento precedente del 1943.[4] Si trattava di un testo teologico molto articolato. Una prima affermazione fondamentale che esso contiene riguarda provvidenzialità dell’apporto conoscitivo nuovo e più profondo della Bibbia che si è verificato grazie alle scoperte archeologiche e letterarie:
«Tutto questo [cioè le scoperte archeologiche e letterarie], che non senza provvido consiglio di Dio fu concesso alla nostra età, invita ed in certo modo ammonisce gli interpreti delle sacre lettere a valersi premurosamente di tanta luce per scrutare più a fondo le Divine Pagine, illustrarle con più precisione, esporle con maggiore chiarezza».[5]
L’enciclica poi afferma, e questo è un secondo punto fondamentale, il progresso conoscitivo degli studi esegetici moderni rispetto alle età precedenti, compresa quella patristica. In alcuni casi, infatti, «agli stessi Padri» alcuni punti sono rimasti «ardui e quasi inaccessibili». In altri casi,
«solamente l’età moderna scoperse difficoltà prima insospettate dappoiché una conoscenza ben più profonda dei tempi antichi fece sorgere nuove questioni, per le quali si getta più addentro lo sguardo nel soggetto».[6]
In sostanza: la ricerca biblica, fondata su rigorosi metodi storici e filologici e sui dati che emergono dall’archeologia e dalle scienze documentarie dell’antichità permette di ricostruire il significato storico originario dei testi biblici.
Ora, la moderna scienza biblica, che ci permette di comprendere l’esperienza di Paolo alla luce del suo tempo, è pressoché concorde nell’affermare che non si può considerare la conversione di Paolo nel vecchio senso di un passaggio di religione. Di una conversione dall’ebraismo al cristianesimo, per Paolo, non si può più parlare.[7]
Lo si può ben verificare se si leggono le pagine che al tema dedicò nel 1993 un padre gesuita, professore di Storia del cristianesimo presso l’Università di Roma, Giancarlo Pani, che esprime un parere abbastanza moderato offrendo una panoramica delle principali tendenze della ricerca di allora.[8] Pani ci ricorda che una festa dedicata alla Conversio Sancti Pauli, esiste, al 25 gennaio, nella liturgia latina. «Non si tratta però di una festa antichissima poiché non se ne ha testimonianza prima del sec. X. L’antica liturgia romana conobbe, nel martirologio geronimiano, la Translatio S.Pauli apostoli, che solo molto più tardi divenne – forse perché si era perduto il significato della festa – Translatio et conversio S.Pauli in Damasco, o più semplicemente Festum in Conversione S.Pauli: così si trova, per la prima volta, nel calendario della corte papale compilato nel 1227, poi nel messale dei Minoriti, e infine in quello di Pio V».[9]
Bisogna, anzitutto, dire che Paolo non è si mai convertito. Certo, egli ha operato nella sua vita a un certo punto un cambiamento radicale e i grandi pittori dell’eta moderna, nei loro dipinti, ci rappresentano plasticamente molto bene questo cambiamento: Paolo accecato e atterrato. Si tratta certamente di un momento drammatico di cambiamento e di svolta nella sua vita. Paolo però non definisce mai il suo cambiamento di vita e di idee come una conversione, non usa mai la parola greca metanoia o il verbo metanoein per definire il proprio cambiamento.
Per conversione, infatti, si possono intendere due cose diverse: il passaggio da una vita sregolata e immorale a una vita santa oppure il passaggio da una religione a un’altra. Nel primo caso si tratta di conversione morale: un passaggio dal male al bene. Nel secondo si tratta di conversione religiosa (un transito da un gruppo religioso ad un’altro). Nella parabola del Vangelo di Luca, in cui il figlio dissipatore, dopo avere sperperato tutti i suoi soldi con prostitute, decide di mettersi sulla retta via e torna a casa dal padre, si parla di una conversione morale. Ma Paolo non si convertì da una pratica di vita immorale ad una buona. Per questo, dobbiamo dire che, da questo punto di vista, Paolo non si è mai “convertito”. Di una sua conversione morale certamente non si tratta perché egli dice chiaramente nella Lettera ai Filippesi – che è sicuramente scritta da lui – che prima di credere in Gesù egli era “irreprensibile (amemptos) quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6) e la legge non significa solo un insieme di prescrizioni formali, liturgiche o rituali, ma si tratta della legge morale del decalogo che è il nucleo fondamentale di quella biblica. Si tratta, come dice Paolo stesso, della giustizia (dikaiosynê) che è la base della moralità ebraica. Da questo punto di vista morale, egli si definisce «irreprensibile».
Il passaggio alla fede in Gesù non è quindi motivato dal bisogno di abbandonare una vita immorale. Paolo non aderisce a Gesù per cambiare vita. La sua non è una conversione etica. Non si tratta del grande peccatore che torna sulla retta via.
Ma anche nel secondo senso del termine, quello religioso, non si può dire che Paolo si sia convertito. Chi abbandona la propria religione per aderire ad un’altra è un apostata per i suoi antichi correligionari. Giuliano, il grande imperatore del IV secolo, che prima era cristiano e poi abbandona il cristianesimo, è passato alla storia sotto il nome denigratorio di “Apostata”. Paolo non fu un apostata. Su questo punto l’esegesi è pressoché concorde. Mons. Romano Penna, uno dei maggiori specialisti di Paolo in Italia, precisa che ai tempi di Paolo il cristianesimo ancora non esisteva e che comunque Paolo, nelle sue lettere, non usa mai il termine cristiano.[10] Nelle nostre ricerche Adriana Destro ed io abbiamo mostrato che Paolo definisce i seguaci di Gesù con due epiteti: i santi e i fratelli.[11] Paolo non è un cristiano, ma un ebreo, come recenti libri più volte sottolineano. Ma su questo punto dobbiamo fermarci più a lungo ed è bene che esaminiamo da vicino i testi che ce ne parlano.
Anzitutto, cominceremo col dire che, se anche non bisogna parlare di conversione, tuttavia ciò che Paolo sperimentò fu un grande cambiamento e una grande svolta nella sua vita. Anzi, si trattò di un cambiamento radicale e di grande efficacia e ricco di conseguenze, sia pratiche che intellettuali. Gli Atti degli apostoli ci riportano per ben tre volte l’evento che causò questo mutamento (nei capitoli 9, 22 e 26). Come abbiamo già detto, e lo spesso Paolo ne parla, soprattutto nella Lettera ai Galati e nella Lettera ai Filippesi, ma in realtà in modo abbastanza diverso da quanto troviamo nei racconti degli Atti degli Apostoli. Lo storico dovrà quindi rivolgersi alle fonti più attendibili e mettere tra parentesi il racconto degli Atti, scritti trent’anni dopo le lettere e da un autore di cui non siamo assolutamente certi che abbia conosciuto Paolo, ma che comunque spesso non presenta fedelmente il suo pensiero.
Un punto di rilevanza estrema, se si vuole comprendere il cambiamento di Paolo è che esso non consiste nella negazione di qualcosa che egli faceva prima. Non sta nel cambiare uno stile di vita o una serie di credenze prima abbracciate e ora negate per potere aderire ad altre. Il punto non sta nella negazione. Il cambiamento consistette in un evento, un’apparizione di Gesù, una rivelazione che aveva come contenuto Gesù stesso. Paolo sapeva bene che Gesù era morto, ma ora il fatto che gli apparisse in una rivelazione straordinaria stava a dimostrargli che egli era di nuovo vivo: Gesù era risorto. Anzi, secondo Paolo fu Dio stesso a fargli apparire Gesù. Nella Lettera ai Galati Paolo scrive: «…. colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili…» (Gal 1,15-16). E nella Lettera ai Filippesi Paolo parla della «sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore». È il venire a conoscere che Gesù vive che convince Paolo. Il punto d’inizio del cambiamento sta in una conoscenza ottenuta mediante rivelazione. Paolo lo dice chiaramente nella Prima lettera ai Corinzi (15,8): «Cristo apparve anche a me». E’ un’apparizione di Gesù risorto che cambia la sua vita.
Prima di allora, Paolo non credeva che Gesù fosse risorto. Non approvava le idee dei suoi seguaci che annunciavano la risurrezione di Gesù. Ora, invece, Paolo sa che Gesù è risorto e a questo punto sa che si sbagliava nel combattere i seguaci di lui. E nella Lettera ai Filippesi Paolo parla della «sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore» (3,8). È il venire a conoscere che Gesù vive che lo convince che qualcosa di fondamentale è accaduto, che Dio è intervenuto nella storia degli uomini in un modo particolare e definitivo: l’inizio della risurrezione dei morti.<span> </span>
Ma, in ogni caso, la fede nella risurrezione di Gesù non provoca un cambiamento di religione. Paolo era fariseo e quindi apparteneva ad un gruppo di ebrei che credevano nella risurrezione finale dei corpi morti, a differenza di altri ebrei che non consideravano fondamentale questa credenza. Paolo, quindi, non cambia religione per credere in Gesù, ma – al contrario – diventa seguace di Gesù proprio perché rimane nella sua religione di prima e di sempre. Il Dio che gli rivela Gesù è il Dio biblico ebraico in cui egli credeva prima. Fu, infatti, Dio stesso a fargli apparire Gesù. Nella lettera ai Galati Paolo scrive:
«…. colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili,..» (Gal 11,15-16).
È difficile dire se si tratti in questo caso della stessa rivelazione di cui Paolo parla nella Prima lettera ai Corinzi al capitolo 15. La teoria condivisa dai farisei della risurrezione dei morti è la dottrina che egli condivideva molto prima di diventare seguace di Gesù, ed è questa dottrina che gli permette di credere a Gesù.
Come ha scritto Bruce Chilton: la conversione è “non dal “giudaismo” al cristianesimo”, perché questi termini non significavano ancora qualcosa in contrasto l’uno con l’altro» …. Paolo fu inviato a «compiere lo scopo di Israele, non a distruggerlo», a «portare la relazione con Dio, che era privilegio di Israele, a coloro che non avevano mai conosciuto la legge di Mosè».[12]
Siccome Paolo credeva – in quanto ebreo – che alla fine dei tempi ci sarebbe stata la risurrezione dei corpi morti, quando gli apparve Gesù egli pensò che l’evento finale del mondo fosse arrivato perché Dio aveva risuscitato Gesù Cristo e gli aveva conferito una potere particolare nell’attesa della fine imminente quando tutti gli uomini sarebbero risorti.[13] Se Gesù era risorto, significava che la fine di questo mondo era iniziata, perché era iniziata la risurrezione dai morti.
Paolo nella Prima lettera ai Corinti dice chiaramente che la risurrezione di Gesù è come la primizia, come i primi frutti che anticipano il raccolto (cioè la risurrezione di tutti i morti) che verrà dopo. Con Gesù la fine è appena iniziata, poi verrà davvero la fine:
Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. [Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte (1 Cor 15, 20-26).
E siccome era giunta la fine, Paolo comincia a pensare che si dovevano realizzare gli eventi che le attese giudaiche del tempo pensavano che si sarebbero realizzati nel periodo della fine (la risurrezione, il giudizio universale finale, e l’unione dei santi con Dio nel paradiso situato al di sopra dei cieli), ma prima ancora della risurrezione avrebbe dovuto realizzarsi la conversione all’unico Dio ebraico di tutti i popoli non ebrei. Paolo pensava – come i profeti biblici (cfr. Is 60; 2,3-4; 25,6-9; 49,22-26; 51,4-5; 55,4-5; 56,3-8; 66,18-22; Zac 8,20-23) – che, al momento della fine tutte le genti (cioè i non-Giudei) si sarebbero convertite all’unico Dio. Anche da questo punto di vista Paolo rimane un ebreo e non diventa un cristiano, non cambia religione. Egli ragiona da buon ebreo tradizionale Che Paolo pensasse come i profeti biblici lo sappiamo da un brano della Prima lettera ai Corinzi:
Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi? Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti, giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi (1 Cor 14,23-25)[14].
Il testo del libro di Zaccaria prevedeva a che alla fine dei tempi i non giudei sarebbero andati in pellegrinaggio a Gerusalemme convertendosi al Dio unico e vero, riconoscendo che «Dio è tra voi». Ora questo si realizza nelle riunioni della chiesa di Corinto: quando un non ebreo entra in una di quelle riunioni viene interpellato da chi ha il dono profetico e riconosce “Dio è fra voi” esattamente come aveva previsto Zaccaria:
Dice il Signore degli eserciti: «Anche popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’altro: Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti; ci vado anch’io. Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a consultare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore». Dice il Signore degli eserciti: «In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi» (Zac 8,20-23).
Quando Paolo dice che quando un non-ebreo entra nella comunità dei seguaci di Gesù si manifestano «i segreti del suo cuore», ed egli « prostrandosi a terra» adora Dio, sta implicitamente affermando che si realizza nella chiesa quanto previsto dal profeta Daniele
Allora il re Nabuccodònosor piegò la faccia a terra, si prostrò davanti a Daniele e ordinò che gli si offrissero sacrifici e incensi. Quindi rivolto a Daniele gli disse: «Certo, il vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei re e il rivelatore dei misteri, poiché tu hai potuto svelare questo mistero» (Dan 2,46-47).
Come il re Nabuccodonosor si prostra e compie un atto di adorazione e riconosce che il Dio ebraico è quello vero perché Daniele ha rivelato dei misteri nascosti, così in seguito alla rivelazione dei segreti dei cuori da parte dei profeti della chiesa, i non Giudei riconoscono che il Dio vero è quello ebraico e si prostrano.
In sostanza, l’idea che emerge dalle ricerche recenti è che Paolo vive e interpreta l’esperienza della rivelazione che cambia la sua vita come un fatto interno alla sua esperienza giudaica. Non si tratta di qualcosa che lo faccia uscire dal giudaismo, ma invece di qualcosa che lo orienta a prendere una strada precisa all’interno del giudaismo stesso. La rivelazione cambia da alcuni unti di vista il suo modo di essere giudeo, ma in nessun modo lo attenua e tanto meno lo abolisce e neppure lo pone in crisi.
Per D.Boyarin, il problema che Paolo aveva era quello di conciliare l’esigenza universalistica della Legge biblica con il fatto che essa era rivolta ad un solo popolo e conteneva elementi che lo spingevano a differenziarsi dagli altri. Questo problema derivava dalla sua doppia formazione filosofico – ellenistica da un lato e giudaica dall’altro.

Così descrive Boyarin la conversione di Paolo:
«Un ebreo entusiasta del I secolo che parla greco, un certo Saul di Tarso, sta camminando su una strada, con la mente tormentata da un problema su cui si arrovella. La Torah nella quale egli crede fermamente, pretende di costituire il testo rivelato dall’unico vero Dio di tutto il mondo, che ha creato il cielo e la terra e tutta l’umanità e tuttavia il suo contenuto primario è la storia di un popolo particolare – quasi una famiglia – e le pratiche che prescrive sono spesso pratiche che segnano la particolarità di questa tribù, la sua tribù. Il motivo del tormento di Saul sta nella sua decisa dedizione alla verità dell’annuncio di quella Torah e alla sua pretesa di validità universale… Mentre cammina, assorto e tormentato, all’improvviso Saul sperimenta un momento di accecante intuizione. Talmente ricca e rivelatrice che egli comprende che si è trattato di una rivelazione. Un’apocalisse. Proprio quella setta, lungi dal meritare la persecuzione, fornisce la risposta al grande dilemma che Paolo ha di fronte. La nascita di Cristo come un essere umano e come un giudeo, la sua morte e la sua risurrezione in quanto spirituale e universale costituiva il modello e la apocalisse della trascendenza di quella Torah fisica e particolare, valida solo per i Giudei grazie al suo referente spirituale e universale per tutti. In quel momento Saul era morto e Paolo era nato».[15]

« EVENTO DI DAMASCO » E MISSIONE ALLE GENTI – DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/syria/GPsyr14.html

(mi sembra strano se non ho messo questo  stralcio – ed il prossimo post – di Padre Buscemi, ma non lo trovo nell’indice, quindi lo propongo, forse di nuovo)

« EVENTO DI DAMASCO » E MISSIONE ALLE GENTI

DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

dal libro: San Paolo. Vita opera messaggio

(SBF Analecta 43), 2a edizione, Gerusalemme 1997

Si è detto più volte che « l’evento di Damasco » lega insieme la visione di Cristo a Paolo e la sua missione di apostolo delle genti. Anzi, quest’ultima, in alcune fonti, sembra essere la conseguenza diretta della prima (Gal 1,15; At 26,15-16). Ma in realtà qual è la relazione tra cristofania e missione all’interno dell’ »evento di Damasco », così come risulta dalle fonti?
Gal 1,15-17: « Poi, quando Colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque di rivelare in me il suo Figlio affinché l’annunziassi tra le genti, subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue, né salii a Gerusalemme presso coloro che erano apostoli prima di me, ma andai in Arabia e poi di nuovo tornai a Damasco ».
At 9,15-16: « Ma il Signore gli (ad Anania) disse: Va’, poiché quest’uomo è per me uno strumento eletto per portare il mio nome davanti ai gentili, re e figli di Israele. Io gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome.
At 22,14-15: « Ed egli (Anania) disse: Il Dio dei nostri padri ti ha destinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e a sentire la voce dalla sua bocca. Tu, infatti, devi essere davanti a tutti gli uomini testimone di lui e di ciò che hai visto e sentito ».
At 26,16-18: « Io (Gesù) ti sono apparso per destinarti a ministro e testimone delle cose che tu hai viste e di quelle, per le quali ancora ti apparirò. Ti ho scelto di mezzo a questo popolo e di mezzo ai Gentili, ai quali ora ti invio, ad aprire i loro occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e così ricevano per mezzo della fede in me il perdono dei peccati e l’eredità con i santificati ».
Questi testi ci pongono subito dinanzi a un triplice problema: 1) A nessuno sfugge che tutti e tre i testi sono redatti alla luce delle descrizioni vetero-testamentarie delle vocazioni dei profeti, ma allora qual è la funzione teologica della visione di Damasco? 2) Dato che alcuni testi (At 9,15-16; 22,14-15) introducono la figura di Anania come mediatore dell’investitura missionaria di Paolo, bisogna chiederci: Paolo ha ricevuto nel momento stesso della visione l’investitura ad apostolo? 3) In che rapporto sta questa investitura con la tradizione della Chiesa primitiva?
Sia Paolo che Luca si sono serviti del modello veterotestamentario della vocazione dei profeti: Gal 1,15-16 ha per paralleli Is 19,1; Ger 1,5; At 9,15 si richiama a Ger 1,10; At 26,16-18 fa allusione a Is 48,6.7.16; Ger 1,5-8; Ez 2,1. Da questi paralleli risulta che la vocazione di Paolo viene messa in riferimento non solo con la vocazione dei profeti, ma anche e soprattutto con la vocazione del Servo sofferente di Jahwè. Non che Paolo venga equiparato tout-court al Servo di Jahwè; egli attualizza quella missione. Il vero Servo di Jahwè è Cristo (At 2,32), che è il modello della vocazione di Paolo: l’apostolo ha lo stesso compito di Gesù. Anzi, a Damasco Cristo è divenuto la vita stessa (Gal 2, 20; Fil 1,21) di Paolo, per cui egli si presenta a noi con la stessa funzione del Servo di Jahwè, che dona libertà e salvezza ai poveri e ai disprezzati, al popolo di Dio.
Per alcuni autori, Paolo ha ricevuto questa vocazione profetica al momento stesso della visione di Damasco: la visione era in funzione della sua vocazione ad apostolo delle genti. I testi ci dicono che Cristo è apparso a Paolo per costituirlo annunciatore del Figlio » (Gal 1,16), « portatore del suo nome » (At 9,15), « testimone di Cristo » (At 22,15; 26,16). Altri pensano invece che la visione di Damasco e la missione ad apostolo sono due fatti cronologicamente distinti, ma che sono uniti per il fatto che le fonti sono delle presentazioni retrospettive e accorciate dei fatti e inoltre debbono servire come legittimazione dell’investitura missionaria e apostolica di Paolo. Tanto è vero che gli Atti introducono la mediazione di Anania, proprio per sottolineare i due momenti distinti della visione e della missione. Probabilmente questi due punti di vista possono essere anche armonizzati: al momento stesso della cristofania Paolo non ha avuto chiara la visione della sua elezione ad apostolo, anche se ha sentito profondamente di esserne stato investito da Cristo. Egli ribadisce spesso che la sua missione non è un incarico ecclesiastico, ma un vero carisma divino che lo ha mutato e lo ha reso testimone e apostolo. È il Cristo stesso, risuscitato e glorioso, che, per un privilegio unico, lo ha reso simile agli altri apostoli. Però, allo stesso tempo Dio ha voluto che questa missione gli divenisse chiara all’interno della Chiesa stessa, per non cadere nell’illusione di « correre o di aver corso in vano » (Gal 2,2). La mediazione di Anania non aveva il compito di presentargli una dottrina nuova, ma quello di aiutare Paolo a comprendere la sua investitura apostolica alla luce della tradizione ecclesiale. In una continua rilettura degli avvenimenti di Cristo alla luce dell’AT Paolo ha così compreso, mediante questa mediazione, il valore profondo e salvifico della sua missione apostolica.
Questo punto di vista mi sembra anche confermato dallo stesso Paolo, quando afferma di riferire ai suoi fedeli una tradizione (1Cor 11,2; 11,23; 15,1). Paolo non vede una contraddizione tra la sua missione e la tradizione ecclesiale: egli da una parte afferma che la missione l’ha ricevuto da Cristo, dall’altra sente profondamente che il contenuto profondo di tale missione coincide con quello della Chiesa primitiva: esso è l’annuncio di Cristo Signore, per noi morto e risuscitato; è il messaggio di liberazione da ogni schiavitù nel Cristo Gesù, divenuto nostra unica salvezza, giustizia e nel quale diveniamo figli di Dio. Se una differenza c’è, la si deve cercare nell’espressione: « apostolo dei Gentili », che precisa il campo specifico dell’apostolato paolino (Gal 2,8-9). Ma il Vangelo rimane unico. Qualsiasi apostolato cristiano dipende da una autorivelazione di Cristo, predica l’unico Vangelo, che è Gesù Cristo Signore, trasmette l’unica tradizione fondamentale: Cristo è la salvezza dell’uomo. Quindi, Paolo, e anche Luca che da lui dipende, sente fortemente la sua indipendenza di apostolo che ha visto il Signore e contemporaneamente si sente legato intimamente agli altri apostoli nella trasmissione dell’unico messaggio cristiano.

IL SENSO DELL’ »EVENTO DI DAMASCO » – DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/syria/GPsyr13.html

IL SENSO DELL’ »EVENTO DI DAMASCO »

DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

dal libro: San Paolo. Vita opera messaggio

(SBF Analecta 43), 2a edizione, Gerusalemme 1997

Molti hanno parlato e continuano a parlare di conversione, ma il termine non si adatta bene al caso eccezionale di Paolo. Anzi, genera confusione e tradisce il senso profondo dei testi, sia delle Lettere che degli Atti. Per Paolo non si trattò di passare da una religione ad un’altra: fino a quel momento il cristianesimo non aveva ancora operato nessuna rottura ufficiale con il giudaismo e quindi al massimo Paolo sarebbe passato da una setta giudaica ad un’altra setta giudaica; né si trattò di una crisi religiosa – il testo di Rom 7,7-25 non ha certamente valore autobiografico – che determinò il passaggio da una fede mediocre ad un’esistenza religiosamente più impegnata: Paolo è sempre stato un uomo zelante di Dio e della sua legge.
Il mutamento di Paolo è stato qualcosa di più radicale: a contatto con Cristo egli è divenuto una « creatura nuova ». Dio, facendo irruzione nella sua vita per mezzo di Cristo, ha determinato in lui una nuova creazione, qualitativamente e radicalmente diversa. Paolo stesso, forse richiamandosi a questa sua esperienza damascena, dirà in 2Cor 5,17: « Chi è in Cristo, questi è una nuova creatura ». La luce del volto di Cristo brillò per opera di Dio nella sua vita: « Iddio che ha detto: ‘Dalle tenebre lampeggi la luce’ (Gen 1,3), proprio lui ha brillato nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo » (2Cor 4,6). « Da quel momento considerai tutto una perdita di fronte alla suprema cognizione di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ho stimato come immondizia allo scopo di guadagnare Cristo e ritrovarmi in lui non con la mia giustizia che deriva della legge, ma con quella che si ottiene con la fede » (Fil 3,8-9). Il fariseo Paolo, che fino allora aveva esaltato al di sopra di ogni cosa la legge, da quel momento in poi dirà: « La mia vita è Cristo » (Fil 1,21), « perché niente ha valore né l’essere ebreo né gentile, ma ciò che conta è essere una nuova creatura » (Gal 6,15); nessun’altra sapienza di questo mondo ha più importanza, se non conoscere Gesù Cristo, anzi Gesù Cristo crocifisso (1Cor 2,2); e rifiutando il vanto della legge dirà: « Quanto a me, di nessun’altra cosa mi glorierò se non della Croce del Signore nostro Gesù Cristo, sulla quale il mondo per me fu crocifisso e io per il mondo » (Gal 6,14). Cristo è divenuto per lui il « termine della legge » (Rom 10,4): ha finito il suo ruolo di « pedagogo » (Gal 3,24) e ha trovato il suo totale perfezionamento nella « legge di Cristo » (Gal 6,2), nella legge dell’amore (Gal 5,14).
È Paolo stesso che ci offre una simile interpretazione di quest’esperienza che ha rivoluzionato la sua vita, scrivendo ai Galati: « Poi, quando Colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque di rivelare in me il suo Figlio affinché lo annunziassi tra le genti, subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue… » (Gal 1,15-16). Quindi, Paolo vede « l’evento di Damasco » non come una conversione, ma come il culmine della sua esistenza: dalla nascita egli è stato condotto da Dio lentamente e pazientemente a questo momento decisivo, in cui il Cristo l’ha afferrato e l’ha fatto suo per sempre (Fil 3,12). L’iniziativa è di Dio, che sceglie chi vuole e quando vuole: l’imperscrutabile e libera decisione divina aveva un disegno concreto su di lui e lo ha realizzato « quando si compiacque di farlo ». In quel momento tutto è cambiato: « Tutte quelle cose che per me erano guadagni, io le ho stimate invece una perdita per amore di Cristo » (Fil 3,7). Sta qui, nell’amore di Cristo la chiave interpretativa di tutto « l’evento di Damasco », quell’evento che ha reso Paolo un innamorato di Cristo e un apostolo infaticabile del suo Signore.
Gli Atti degli Apostoli, con la triplice narrazione di quest’ »evento » non si distaccano molto dall’interpretazione che Paolo ha dato di esso. Pur non essendo una copia conforme, l’opera lucana presenta « l’esperienza di Damasco » come un incontro di Cristo con Paolo, durante il quale l’apostolo viene investito della missione tra i gentili. La concordanza essenziale tra Gal 1,15-16 e At 26,12-18, sotto quest’aspetto, mi sembra evidente: una visione e l’investitura per una missione. È vero che, rispetto alle Lettere, l’autore degli Atti insiste soprattutto nella descrizione della visione oggettivando fortemente il dato esperienziale del « rivelare in me il suo Figlio » di Gal 1,16, ma nonostante ciò è proprio la descrizione di Atti che si mantiene ad un livello molto più prudente di quanto non fa Paolo. Egli continuamente ripete nelle sue Lettere: « io ho visto il Signore » (1Cor 9,1; 15,8-9; Gal 1,15-16), fondando così la sua posizione di apostolo delle genti (Gal 2,8-9) nella chiesa, mentre gli Atti si limitano a dire soltanto che l’apostolo fu avvolto in una grande luce e sentì la voce del Cristo che lo investiva della missione delle genti (9,3b-6; 22,6b-10; 26,13-18). Ciò è molto significativo per noi e ci induce a pensare che Luca sia rimasto molto fedele alla sua fonte storica, anche se da un punto di vista letterario ha dovuto fare le sue scelte. Gli accenni all’ »evento di Damasco » nelle « lettere paoline » sono tutti occasionali, negli Atti invece fanno parte integrante di un preciso programma letterario, che ci presenta « l’evento » sotto forma di « racconto », al momento in cui esso sembra inserirsi nello sviluppo storico della Chiesa primitiva, e sotto forma di « discorso apologetico », largamente interpretato teologicamente, quando Paolo ha da rendere la sua testimonianza dinanzi ai giudei, ai re e ai gentili.
Non è questo il luogo di addentrarci in minuziose analisi, per dimostrare l’attendibilità storica dei testi. Molti autori, hanno già svolto questo lavoro con molta competenza e acume. A noi interessa qui ribadire un concetto fondamentale: la triplice narrazione dell’ »evento di Damasco », fatta dagli Atti, non deve essere considerata né come l’esatta relazione cronachistica degli avvenimenti né come una pura invenzione. Luca riferisce una tradizione storicamente bene attestata dalle lettere di Paolo e la inserisce nel contesto vitale dello sviluppo della Chiesa primitiva, interpretandola e attualizzandola alla luce dei racconti veterotestamentari delle vocazioni profetiche e di quelle del servo sofferente di Jahwè.

IL SIGNORE TI BENEDICA (01.05.05) – LA BENEDIZIONE SACERDOTALE

http://pierostefani.myblog.it/tag/benedizione+ebraica

01/05/2005

IL SIGNORE TI BENEDICA (01.05.05)

Meditazione sulla “benedizione sacerdotale” (Nm 6,22-27), svolta nel corso del XII convegno di teologia della pace, Sacerdozio: una mediazione per la pace, Ferrara 10 aprile 2005.

PIETRO STEFANI

        «Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e dì loro: Voi benedirete così i figli d’Israele; direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti  custodisca.
Il Signore faccia risplendere il suo volto per te
e ti faccia grazia.
Il Signore elevi il suo volto  su di te
e ponga su di te la pace.
Così porranno il mio nome sui figli d’Israele
e Io li benedirò». (Nm 6,22-27).

Quattro brevi pensieri.
1. L’azione sacerdotale non è un atto che ha valore in se stesso; non è dotata di alcun potere intrinseco: è obbedienza alla parola. Tutto inizia dall’ascolto prestato al comando di Dio che scende su Mosè e si dilata verso i sacerdoti: «Il Signore disse a Mosè: ‘Parla ad Aronne e ai suoi figli [i sacerdoti]…». Lo stesso vale per l’incipit del più sacerdotale tra tutti i libri biblici, il Levitico: «Il Signore chiamò Mosè dalla tenda del convegno e gli disse…» (Lv 1,1).
I figli di Aronne sono posti in mezzo tra la parola del Signore, giunta loro grazie a  Mosè, e i figli d’Israele. Il sacerdozio non ha significato senza ascolto obbediente e senza essere posto al servizio della comunità.
2. La mediazione sacerdotale è paragonabile al fermento catalitico: consente la reazione ma non ne fa parte in modo diretto, non è un protagonista in prima persona: «Così benedirete i figli d’Israele, dicendo loro: il Signore vi benedica e vi custodisca». La benedizione del sacerdote sta nel chiedere al Signore di benedire e custodire con impegno (si usa il verbo shamar, lo stesso adoperato per l’osservanza dei precetti)  il proprio popolo. Non c’è benedizione maggiore dell’obbligo di custodia assunto dal Signore nei confronti dei figli d’Israele. La benedizione sacerdotale è quella che chiama in causa in prima istanza il Signore: «Il Signore elevi il suo volto su di te e ponga su di te la pace. Porrete il mio nome sui figli d’Isarele e Io li benedirò». In ebraico la presenza del termine «io» (’ani) è  enfatica, qui dunque si vuole rimarcare volutamente l’azione di Dio. In questo senso i commenti rabbinici sono di una chiarità solare: «“E Io li benedirò”. Queste parole sono aggiunte perché i figli d’Israele non pensino che le loro benedizioni dipendano dai loro sacerdoti; allo stesso modo i sacerdoti non debbono dire “Siamo noi a benedire Israele”» (Sifre Numeri, Naso, par. 43).
3. La cornice della benedizione evoca una dimensione plurale. Inizia dicendo «Così benedirete i figli d’Israele» e si conchiude con la promessa divina «E Io li benedirò». Ci troviamo nell’ambito di una comunità. Nel mezzo però tutto si riferisce a un singolare di seconda persona: «Il Signore ti benedica e ti custodisca…». La benedizione sta nel fatto che il Signore ti riconosce come un soggetto davanti a lui e nel contempo come parte di una comunità. Dio non benedice nazioni, popoli, patrie o bandiere. Qui non lo fa neanche in relazione alla collettività d’Israele. Non si benedice però nemmeno l’individuo in quanto tale o il singolo. Si benedice il soggetto colto come parte di una comunità. Ben lo comprese Francesco d’Assisi quando, dopo aver trascritto la benedizione del libro dei Numeri, concluse con queste parole «il Signore benedica te, Frate Leone». In un documento autentico, inserita nel nome di Leone, si trova una tau vergata dal  pugno del santo. Lo spirito  di Francesco è esattamente quello biblico. Si benedice chi appartiene a un gruppo (Frate), ma ci si rivolge a lui come persona (Leone).
4. «Il Signore faccia risplendere il suo volto (ja’er) per te e  ti faccia grazia (wichunnekh)». Le due cose sono una: il far risplendere il volto (espressione non rara nella Scrittura, cfr. per es. Sal 31,167; 67,2; 80,4.8.20…) coincide con l’atto stesso di far grazia. Per comprenderlo appieno occorre guardare al suo opposto, vale a dire all’espressione che indica il nascondimento del volto (str panim)  di Dio. Essa nella Bibbia  è ancora più frequente (cfr. per es. Dt 31,17; 33,20; Is 8,17; 54,8; 59,2; 64,6; Ger 33,5; Ez 33,23; Gb 13,23-24). Il più delle volte indica un ritrarsi del Signore che lascia l’uomo in preda al suo peccato; in tali circostanze egli è temporaneamente escluso dalla grazia di Dio. Al contrario, quando il volto di Dio risplende su di te significa che il tuo peccato ti è stato cancellato. Questo atto di misericordia ti riconsegna a essere pienamente un soggetto benedetto davanti a Dio e riconciliato con i membri della tua comunità. La pace non è altro che questo: «Elevi il Signore il suo volto su di te [vale a dire non lo nasconda] e ponga su di  te la pace».

Piero Stefani

PAOLO IL TEOLOGO – BY FRÉDÉRIC MANNS

http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/intros/GPint07.html

(mi sembra proprio di non aver messo questo studio di Padre Manns…eppure ho cercato tutto del docente)

PAOLO IL TEOLOGO

BY FRÉDÉRIC MANNS

(STUDIUM BIBLICUM FRANCISCANUM – JERUSALEM)

Un re di Francia incontra un giorno dei tagliatori di pietra in pieno lavoro. Alla domanda : Che cosa fate? il primo dice : Sire, io taglio delle pietre; il secondo dice : Sire, io riunisco delle pietre tagliate, ed il terzo : Sire, io costruisco una cattedrale.
All’inizio del terzo millennio la Chiesa sta scoprendo l’urgenza di una rinnovata evangelizzazione. Il santo Padre sollecita i cristiani a ritrovare lo slancio delle origini nei confronti del mondo contemporaneo. Chi ha incontrato il Signore Risorto non può tacere. « Guai a me se non predicassi il vangelo », esclamava in tal senso l’apostolo Paolo (1Cor 9,16). Il viaggio del santo Padre sulle orme di San Paolo in Grecia, Siria e Malta propone come modello di evangelizzatore Paolo di Tarso, uomo di una doppia cultura, che ha fatto l’esperienza del Risorto e che ha dedicato la vita a proclamare la sua certezza che Cristo è vivo. Vale la pena di riflettere sulle intuizioni e il pensiero teologico dell’apostolo delle genti.

Il corpo mistico
In mezzo ai messaggeri della Buona Novella, Paolo è colui che ha costruito la prima cattedrale del pensiero cristiano. Il rosone che rischiara e trasfigura tutto il suo edificio, è l’apparizione di Cristo resuscitato sulla via di Damasco. Questa esperienza, dura e beneficente alla fede, illumina Paolo malgrado la sua momentanea cecità. Strumento di prima scelta, illuminato dallo Spirito Santo, istruito dagli altri Apostoli, l’Apostolo trarrà le conseguenze da questo incontro insperato. Perseguitare i cristiani, era perseguitare Gesù stesso. In un lampo Paolo, l’intuitivo, ha compreso tutta la dottrina della Chiesa come corpo mistico di Cristo. Il Cristo è la testa del corpo ed i cristiani sono le membra del corpo.
Tra le verità che appaiono in rilievo nelle epistole che rischiarano la cattedrale di Paolo come delle vetrate, occorre indicare il primato di Cristo, la posizione essenziale della resurrezione, l’abolizione della legge mosaica, e la giustificazione per mezzo della fede in Gesù Cristo e l’intima unione di tutti i credenti nel Cristo e tra loro.
La dottrina del primato di Cristo era già stata celebrata nell’inno pre-paulino ai Colossesi. E’ nell’ordine della creazione e della ri-creazione che Cristo ha ottenuto il primato. Tutto è stato creato per lui ed in vista di lui. Per la sua resurrezione dai morti, egli è divenuto il primo-nato tra i morti.
Paolo prega assiduamente la Passione, al punto da poter dire che egli ostenta l’immagine di Gesù crocifisso davanti ai suoi ascoltatori (Gal 3,1). Ma egli non separa mai la resurrezione di Cristo dal suo sacrificio redentore. Egli amava ripetere le formule cherigmatiche che annunciavano la morte e la resurrezione di Gesù. Egli probabilmente non ha conosciuto Gesù durante la sua vita mortale (2 Cor 5,16), ma egli ha visto il Cristo resuscitato; l’apparizione sulla via di Damasco l’ha costituito autenticamente apostolo (1 Cor 9,1; 15,8) ed egli conserva sempre nel suo cuore l’ineffabile ricordo della manifestazione del Signore della Gloria (1 Cor 2,8). Egli si riferisce incessantemente alla resurrezione come all’avvenimento decisivo senza il quale la fede cristiana sarebbe vana e senza scopo (1 Cor 15,14-17). Egli vi vede la copia e la causa della resurrezione spirituale del cristiano ed il pegno della resurrezione corporale che coronerà all’ultimo giorno l’opera redentrice (Rm 6,4-11 ; Fil 3,10-11 ; 1 Cor 15,20-22).

La Parusia
Le lettere di Paolo sono degli scritti di circostanza. E’ per rispondere a concrete questioni pastorali che egli detta le sue lettere che firma tuttavia di sua mano. Nelle lettere ai Tessalonicesi Paolo affronta il problema del ritorno di Cristo o della parusia. Parusia significa presenza. Il termine era riservato alla visita dei grandi personaggi. Nel Nuovo Testamento, e particolarmente presso Paolo, egli designa cosi l’avvento glorioso di Cristo alla fine dei tempi (1 Ts 3,13 etc.; 2 Ts 2,1-8; 1 Cor 15,23). La cristianità primitiva viveva in un ardente desiderio di questo avvenimento. Nella liturgia eucaristica si acclamava il Cristo : Marana tha ! Vieni, Signore Gesù! Paolo condivideva questa preghiera e questo desiderio. La parusia segnerà il compimento della redenzione e l’instaurazione totale e definitiva del regno di Dio. La vittoria di Cristo sarà allora definitiva. Una presentazione mal compresa di questa speranza provocò a Tessalonica la convinzione di un ritorno prossimo del Salvatore, al punto che alcuni fedeli incrociavano le braccia e vivevano nell’ozio. L’attesa di Cristo era diventata un’attesa passiva. L’Apostolo rimprovera con forza i Tessalonicesi (1 Ts 4,11-12 e sopratutto 2 Ts 3,6-15). Parecchi in mezzo a loro erano morti dopo il loro ingresso al cristianesimo. Da cui l’inquietudine della comunità : questi morti potevano mancare la venuta del Signore ? Paolo si sente solidale con questa angoscia. La risposta che egli dà si può cosi riassumere : prima della venuta del Signore i morti risusciteranno. In seguito, noi i viventi che saremo ancora là, saremo portati sulle nubi per incontrare il Signore nei cieli. Cosi noi saremo per sempre con il Signore (1 Ts 4,15-17). Questa consolazione sembra insinuare che Paolo ha atteso l’avvento definitivo mentre era vivo. Ma non è per lui un motivo per non vivere che nell’attesa. Paolo predica la vigilanza. Si tratta di rivestire la corazza della fede e della carità, il casco della speranza. Nessuno sa il giorno nè l’ora : ragione di più per essere pronto.
Paolo insegna inoltre che la conversione dei pagani, poi quella degli Ebrei precederà la parusia (Rm 9-11), ciò che sembra suggerire un prolungato ritardo. Il Cristo deve presentare a suo Padre i frutti della sua vittoria. Fino a che tutti non sono entrati nell’unico battello, il ritorno di Cristo nella gloria è ritardato. Paolo insiste anche sulle lotte, le divisioni e le apostasie che precederanno il ritorno di Cristo (2 Ts 2,1-12), ma lo fa in termini oscuri, come in tutti i passaggi apocalittici del Nuovo Testamento. La Bibbia aveva intravisto prima della fine del mondo un ultimo sussulto del male (Ez 38-39) ; Dn 11,21-45). Paolo sottolinea due punti che a lui sembrano importanti. Il primo è che la morte introduce nella società di Cristo coloro la cui vita è stata conforme al Vangelo. Il secondo è che l’ultima generazione la quale sarà testimone della parusia avrà il privilegio di non passare attraverso la morte (1 Ts 4,15-18 ; 1 Cor 15,51-54); i corpi saranno trasformati in un batter d’occhio e resi simili ai corpi dei defunti ormai resuscitati. In breve, Paolo ricorda che il definitivo deve ancora venire. La prova ne è che il male e sempre misteriosamente presente ed attivo nel mondo. Ne deriva l’urgenza dell’annuncio della Parola e della conversione.

La giustificazione per mezzo della fede
Figlio di Farisei, Paolo credeva prima della sua conversione che l’osservanza della legge gli sarebbe valsa per essere considerato come giusto. Ed ecco che il Cristo resuscitato lo chiama gratuitamente. Il suo universo religioso crolla. Nelle lettere ai Galati ed ai Romani Paolo ha sviluppato la dottrina della giustificazione per mezzo della fede in Gesù, ad esclusione delle opere della legge mosaica. La fede non è una pratica intellettuale. Essa è la confessione della divinità di Cristo, un dono totale ed irrevocabile della sua persona a Colui nel quale egli riconosceva il Figlio di Dio. Che devo fare, Signore ? (At 22,10) : Paolo è tutto intero in questa risposta al Resuscitato. Una fede astratta, senza influenza sulla vita, è per lui inconcepibile. La fede che giustifica, è la fede operante per mezzo della carità (Gal 5,6) la fede accompagnata dalle buone opere che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo (Ef 2,8-10). Fiducia nella parola di Cristo, la fede comporta il pentirsi degli errori ed il proposito di cambiare la propria vita. Paolo non cessa d’insistere sulla fuga dal peccato, la morte dell’uomo vecchio che deve fare posto all’uomo nuovo (Rm 6,6; Ef 4,22-24), la pratica assidua di tutte le virtù unite dalla carità (1 Cor 13; Col 3,14). Il gesto decisivo della fede con tutto ciò che essa comporta germoglia alla domanda del battesimo ed a una radicale conversione che fa del cristiano una nuova creatura (Gal 6,15).

La fede e la Legge
La giustificazione per la fede in Cristo presuppone che le opere della Legge (Gal 2, 16) sono impotenti ad ottenere la giustificazione. Se l’osservanza della Legge mosaica poteva giustificare, si potrebbe concludere che Cristo è morto per niente (Gal 2,21) e che il sacrificio della croce è stato inutile, ciò che sarebbe una manifesta assurdità. La Legge è stata inchiodata alla croce da Cristo (Col 2,14) ; essa è ormai abolita e non poteva essere imposta ai convertiti. Nell’epistola ai Romani Paolo rintraccia la storia dell’umanità dopo Adamo (5,12) fino alla venuta di Cristo. Ebrei e pagani hanno dato scacco al piano di Dio. Tutti sono l’oggetto della collera di Dio e votati alla punizione. Nondimeno gli Ebrei avevano la Legge che doveva loro servire da guida. Quanto ai pagani, è la coscienza che era la legge iscritta nei loro cuori. Gli Ebrei si sono glorificati della loro relazione privilegiata con Dio grazie alla Legge. Essi hanno interpretato l’alleanza come un privilegio, in luogo di vederla come una missione. Di fatto la Legge fu per essi un’occasione di disobbedire (4,15). Neppure il pagano è stato fedele alla sua coscienza. Egli si è abbandonato al peccato (7,14). Ma, la giustizia di Dio si è manifestata senza la Legge. Al tempo della collera segue quello della giustizia. Dio fa misericordia a riguardo di tutti per pura grazia. Su questo fondamento è costruito l’uomo nuovo. Egli è fedele grazie allo Spirito (8,12). Non vi è pió differenza tra Ebrei e pagani che erano sottomessi senza distinzione al peccato e che sono discolpati in virtù della redenzione (3,24). Paolo dimostra con molta abilità che Abramo è stato giustificato per la sua fede alla promessa divina di una posterità innumerevole e non per la Legge mosaica, posteriore di numerosi secoli (Gal 3,6-9 ; 16-18), nè ugualmente per la circoncisione, ma per la fede (Rm 4,1-12). Il cristiano a sua volta è giustificato attraverso la sua fede in Gesù che ha il medesimo oggetto di quella di Abramo, a conoscere le promesse divine realizzate per mezzo di Cristo (Rm 4,16-25). E’ dunque per mezzo della fede che Dio giustifica, tanto prima della promulgazione della Legge mosaica quanto dopo la sua abolizione : da Mosè a Gesù Cristo, quando la Legge era in vigore, essa non concorreva alla discolpa presso i santi dell’Antico Testamento che per il motivo che la fede si univa alle promesse, come per Abramo. Le opere della Legge non si sono mai potute giustificare per se stesse. Se fosse stato diversamente, il carattere gratuito e trascendente dell’ordine soprannaturale sarebbe compromesso. L’uomo non è discolpato dalle sue opere; la fede stessa è un dono di Dio. In nessun modo l’uomo puo glorificarsi come se egli fosse l’autore della sua salvezza (Gal 5,5-6; 1 Cor 1,28-31; Rm 3,27-28 ; Ef 2,8-10). E’ umilmente che egli deve accogliere il dono della salvezza.
Il ragionamento di Paolo prendeva di mira insieme alcuni convertiti i quali pensavano che la Legge rimaneva tuttora in vigore e gli Ebrei che pretendevano di osservare con le loro sole forze la Legge e le tradizioni che i maestri vi avevano aggiunto e poneva fine ad un vicolo cieco. La legge non giustificava senza la fede.

Il corpo mistico di Cristo
Sulla via di Damasco Paolo ha compreso che il Cristo ed i cristiani sono un tutt’uno. Nella prima lettera ai Corinti egli sviluppa questo pensiero. Egli aveva dovuto intervenire a proposito di divisioni in seno alla comunità. Delle divisioni si erano manifestate anche nelle assemblee liturgiche. Per di più, nelle comunità, dei gruppi di credenti si proclamavano di Paolo, altri d’Apollo, altri ancora di Cefa. Paolo combatte questa sapienza umana. Nelle scuole filosofiche, i maestri arruolavano i discepoli. Se la stessa divisione si produceva nella Chiesa, essa sarebbe votata a sbriciolarsi in differenti gruppuscoli. Il cristianesimo non è una filosofia, un prodotto del genio umano. Il messaggio del Vangelo è stato accolto non dai filosofi, ma dai poveri e dai piccoli. Il Regno è promesso ai poveri, ai dolci ed ai misericordiosi. La sapienza di Dio è follia agli occhi degli uomini.
La doppia formazione di Paolo gli tornava utile. Paolo ha dovuto affrontare la mentalità ellenistica in ciò che concerne i corpi. Per i Greci il corpo è trascurabile, esso è un ostacolo alla realizzazione totale del destino umano. Esso è la tomba dell’anima. Sôma, Sêma (corpo, tomba), ripetevano i Greci. Per la Bibbia il corpo è una creatura di Dio. L’uomo è un corpo vivente. Perfino il corpo è chiamato ad essere glorificato. Paolo deve difendere la dignità del corpo. Egli non tollera il ricorso alle prostitute (6,12-20) e scomunica l’incestuoso che vive con la donna di suo padre (5,1-13). E’ la dignità del corpo che lo esige : il corpo, è il tempio dello Spirito e il dovere del cristiano e di servirsene per offrire a Dio il culto della sua fedeltà. Il corpo e chiamato a resuscitare, perché la resurrezione di Cristo primo nato di tra i morti, significa che egli trae tutta l’umanità dalla morte alla vita. Definendo il corpo come tempio dello Spirito, Paolo riprendeva una antica tradizione ebraica la quale sottolineava che tutti gli elementi presenti nel Tempio di Gerusalemme trovavano il loro corrispondente nel corpo umano e nel cosmo. Vi sono dunque tre templi dove l’uomo può incontrare Dio.

L’agape
La mentalità greca favoriva la conoscenza. Apollo è il dio delle belle arti e del chiarore. Paolo ricorda ai Corinti che la scienza deve essere al servizio della carità. La comunità si costruisce grazie ai doni spirituali di cui Dio la gratifica. Questi carismi sono diversi, ma essi devono servire all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa. Questi doni provengono dallo Spirito. Vi è un solo e medesimo Spirito che opera nella Chiesa e che distribuisce i suoi doni come egli crede. Paolo riprende allora dai retori romani il confronto del corpo – il midrash ebraico lo conosce ugualmente : allo stesso modo come il corpo è un tutto unico avente più membra, e che tutte le membra non formano che un solo corpo, cosi è di Cristo. E’ in un solo Spirito che noi siamo stati battezzati per non formare che un corpo : Ebrei o Greci, schiavi o uomini liberi. Paolo ripeterà spesso che non vi è più né Ebreo né Greco, né schiavo né uomo libero, né uomo né donna. Nel Cristo tutti noi non formano che un solo corpo. Per comprendere questa insistenza occorre ricordarsi che nella preghiera del mattino l’Ebreo recitava una tripla benedizione : « Io ti benedico per non avermi creato pagano, ma Ebreo, per avermi creato libero e non schiavo ; uomo e non donna ». Dopo la resurrezione di Cristo questa formula e desueta agli occhi di Paolo.
In mezzo ai più nobili doni, tutti devono cedere il passo all’amore (1 Cor 13,13). E’ ancora il l’amore-dono che permette ai cristiani di partecipare degnamente al culto eucaristico. Creando delle differenze tra loro nella mancanza di compartecipazione i cristiani offendono la carità fraterna indissociabile dal Banchetto nuziale di Cristo.

Continuità dei due testamenti
San Paolo è il teologo della continuità del piano divino della redenzione che appare da una parte nell’unità dei due Testamenti, dall’altra nell’identità fondamentale tra lo stato del cristiano discolpato quaggiù e lo stato glorioso che gli è promesso.
L’Antico Testamento, che si è compiuto nel Nuovo (Rm 1,2; 3,21), ha un carattere tipologico e profetico : è uno dei punti sui quali Paolo è stato profondamente illuminato dallo Spirito. Il Cristo è il si per eccellenza : tutte le promesse fatte da Dio ad Israele hanno trovato in lui la loro realizzazione (2 Cor 1,19-20). Paolo cita nominatamente l’Antico Testamento più di duecento volte, ed un rapido colpo d’occhio su una traduzione delle epistole permette di rendersi conto come al di fuori delle citazioni esplicite le reminiscenze sono continue, conformemente all’uso dei rabbini di ricorrere ai testi biblici per sostenere i loro ragionamenti. Le citazioni sono fatte più spesso secondo la versione greca dei Settanta, comune agli Ebrei ed ai cristiani della Diaspora, la maggior parte dei convertiti non conosceva l’ebraico. Accade che le citazioni siano approssimative e fatte a memoria e che esse siano delle semplici illustrazioni del pensiero per un riferimento alla Scrittura. Qualche volta lo stesso Paolo si avvicina alle tradizioni targumiche lette alla sinagoga. Qualche volta il ragionamento di Paolo non corrisponde alla nostra logica. Cosi la diffusione rapida del Vangelo e sottolineata nell’epistola ai Romani, 10, 18 con un versetto del salmo dove si tratta del linguaggio silenzioso degli astri percepito dovunque. Questo accomodamento non è un argomento scritturistico, si tratta di una semplice forma letteraria corrente presso gli Ebrei. Ma Paolo cita anche delle vere profezie, per esempio quando dichiara che il Cristo è morto per i nostri peccati e che egli è stato resuscitato conformemente alle Scritture (1 Cor 15,3-4) e cita sovente la Bibbia in senso letterale, come Osea 2,25, in Rm 9,25-26. 
D’altra parte Paolo dà al testo una completezza di significato che l’autore sacro non aveva senza dubbio intravisto, ma che era voluta da Dio e che egli riconosce alla luce della rivelazione evangelica. E’ alla luce della Resurrezione che la Scrittura trova il suo vero significato. La giustificazione per mezzo della fede in Ab 2,4 significa direttamente che la fede alle promesse divine sarà ricompensata con la fine della prigionia in Babilonia. Paolo vede in questa liberazione storica l’annuncio della vera liberazione, la salvezza messianica che sarà liberazione dal peccato e sorgente della vera vita del profeta : Il giusto vivrà per la fede è approfondita in una linea che non la deforma, perché si tratta di fiducia nella parola di Dio (Gal 3,11; Rm 1,17), rivelazione ancora frammentaria ai tempi del profeta e completata da Cristo (Eb 1,2). Paolo rinforza questo argomento con il salmo 142,2 ove si dice che nessuno è giusto davanti a Dio (Gal 2,16). Egli applica al caso degli Ebrei che attendono dalla Legge la loro discolpa l’affermazione senza restrizione del salmo ed egli si ritiene incaricato a dichiarare che nessuno è giustificato per mezzo delle opere della Legge, ciò che è inoltre stabilito per delle altre ragioni nei versetti che seguono (2,17). Alcuni ragionamenti scritturistici di Paolo non cessano di meravigliare il lettore moderno. Quando si ricordi la formazione rabbinica di Paolo, si comprendono meglio i suoi metodi di lettura ed il suo approccio al testo ispirato che deve parlare ancora al giorno d’oggi.

Tipologia
Ai piedi di Gamaliele, Paolo aveva appreso a leggere le Scritture. Ma il Cristo Resuscitato si era manifestato a lui come colui che ha compiuto le Scritture. La lettura midrashica doveva cedere il passo alla lettura cristologica. Negli avvenimenti dell’Antico Testamento Paolo vede il carattere, la preparazione di quelli del Nuovo. La tradizione giovannea applica a Cristo gli episodi del serpente di bronzo (Gv 3,14), della manna (Gv 6, 32-33.58), dell’acqua viva (Gv 7,37-38), del buon pastore (Gv 10,11). I Sinottici usano lo stesso procedimento : il salmo 22 è applicato a Cristo durante la sua Passione (Mt 27,46); Gesù è il vero sposo e la vera vigna (Mc 2,19-20 ; Mt 22,1-14 ; Mc 12,1-9 ; Gv 15,1-8), la pietra angolare (Mc 12,10-11). La prima lettera di Pietro (2, 22-25) e l’autore dell’Apocalisse sottintendono la medesima dottrina. Paolo pone in principio che la Legge è l’ombra delle cose a venire (Col 2,17) e ne fa numerose applicazioni : Adamo è il tipo o figura di Cristo (Rm 5,12), la giustificazione di Abramo per mezzo della fede prefigura quella dei cristiani (Rm 4, 17.23) ; il Cristo è il vero agnello pasquale (1 Cor 5,7) ; l’antica alleanza annuncia la nuova conclusa nel sangue di Cristo (1 Cor 11,25), la manna del deserto e l’acqua sgorgata dalla roccia simbolizzano i sacramenti cristiani (1 Cor 10,1-6) e la punizione degli Israeliti privati dall’entrare nella terra promessa a causa della loro indocilità deve far temere ai cristiani la collera divina se essi seguono questo esempio (1 Cor 10,6-11) ; l’unione dell’uomo e della donna deve prendere esempio da quella di Cristo e della Chiesa (Ef 5,22-33) ; l’antico Israele, discendenza carnale di Abramo, prefigura l’Israele nuovo, secondo lo spirito (Gal 3,7-9.26), l’Israele di Dio (Gal 6,16) che non è più limitato ad un solo popolo, ma abbraccia tutta l’umanità (Gal 3,26-28).

Conversione
Paolo esamina cosi il significato profondo dell’Antico Testamento. A Qumran gli Esseni avevano già paragonato le Scritture al pozzo d’acque vive dato al popolo nel deserto. I rabbini compararono incessantemente la Legge all’acqua. Tuttavia le Scritture sono orientate verso il Cristo. Dimenticare questo orientamento messianico, è far prova di cecità. Il velo che era sul volto d’Israele nella lettura dell’Antico Testamento cade definitivamente quando ci si converte al Signore (2 Cor 3,13-16). Questo ragionamento, senza dubbio valevole solamente per chi riconosce il carattere ispirato e profetico della Scrittura, porta una conferma alle altre prove della fede. Eccezionalmente Paolo lo usa nell’allegoria di Sara e di Agar (Gal 4,21-31) con una sottigliezza degna dei metodi rabbinici. Vi è dunque tutta una gamma nell’utilizzazione della Scrittura da parte di Paolo; ogni citazione deve essere pesata con cura onde evitare di maggiorare o minimizzare l’insegnamento dell’Apostolo.

Continuità della vita di grazia e della vita eterna
L’unità e la continuità dei due Testamenti hanno per complemento e coronamento la continuità tra la vita della grazia quaggiù e la vita eterna.
Il dono dello Spirito Santo fa del cristiano il figlio del Padre celeste ed il fratello e coerede del Figlio (Gal 4,6-7; Rm 8,16-17.29). Il cristiano diviene figlio nel Figlio. Egli è trasformato fino al profondo del suo essere e posto in un nuovo stato che egli può perdere per il peccato, ma che non differisce dalla vita eterna che nel grado e non in natura. Le lettere di Paolo ritornano in diversi modi su questo aspetto del mistero redentore. Il cristiano vive nel tempo e nell’eternità; gli ultimi tempi sono iniziati per lui. La parusia, presenza velata di Cristo nei cuori (Ef 3,17), è l’inizio della sua parusia finale nella gloria; nostra vita, nascosta ora in Dio con il Cristo, si schiuderà con lui nella gloria al momento del suo ritorno nella Gloria (Col 3, 3-4). La celebrazione eucaristica, nel corso della quale i cristiani annunciano il ritorno di Cristo, è il legame per eccellenza tra questi due avvenimenti (1 Cor 11-26). I pegni e le primizie dello Spirito che noi possediamo ora (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23) garantiscono il dono totale. Noi viviamo della vita di Cristo (Gal 2,20). Il regno di Dio è incominciato, attendendo di divenire completo e definitivo (1 Cor 15,24-28). Dio ci chiama al suo Regno ed alla sua gloria (1 Ts 2,12) e noi vi siamo ora introdotti strappandoci alla potenza delle tenebre (Col 1,13). Paolo riprende la definizione della Pasqua ebraica per parlare della Pasqua definitiva. E’ nella speranza che noi saremo stati salvati (Rm 8,24). Tuttavia la nostra salvezza e parzialmente acquisita, noi siamo nei giorni della salvezza (2 Cor 6,2).
La liberazione dal peccato e dalla morte è iniziata; si tratta di rimanere fedeli. Il cristiano non è destinato alla collera, ma all’ottenimento della salvezza per mezzo di Gesù (1 Ts 5,9). Egli è salvato dalla bontà di Dio mediante la fede (Ef 2,8). Tempi ed eternità si compenetrano. Benché vivente sulla terra il cristiano è già cittadino dei cieli (Fil 3,20). Paolo rivolta in tutti i significati questo pensiero che caratterizza la speranza cristiana : esso non può sbagliare (Rm 5,5). Un’inadempienza ed un insuccesso non sono possibili. La connessione costante delle due prospettive temporale ed eterna che si frammischiano può a prima vista sembrare oscura. La giustapposizione dei due orizzonti era già conosciuta nel pensiero apocalittico.

Vista d’insieme sul piano redentore
La dottrina della redenzione della salvezza traspare dappertutto nelle lettere di Paolo. Le sue grandi articolazioni sono facili da cogliere, sopratutto nell’epistola ai Romani. Altrove esse sono più diffuse. Nulla di strano che Pietro abbia avuto difficoltà a seguire il pensiero di Paolo. Quest’ultimo è molto meno occupato a dare un insegnamento sistematico che a rispondere alle questioni concrete delle comunità cristiane. Dei casi delicati di coscienza si presentano in alcune comunità. Inoltre dei dottori di menzogne cercano di dividere il gregge di Cristo. Le eresie nascenti, in particolare quelle dei giudaizzanti che preconizzavano un ritorno all’osservanza della Legge ebraica, hanno avuto tuttavia una fortunata influenza : esse hanno portato Paolo ad approfondire la sua dottrina, a formularla in maniera più precisa, più completa.
Paolo parla del suo Vangelo (Gal 1,11; Rm 2,16). Attraverso quello, egli intende meditare il mistero della redenzione universale, mistero di Cristo che associa coloro che credono in lui alla sua morte ed alla sua resurrezione.
L’umanità ha fatto l’esperienza del peccato. Nessuno penserà di negarla. Lo spettacolo di Atene riempita di idoli aveva indignato Paolo (At 17,16). Nell’epistola ai Romani (1,18-3,20)) è redatta una tavola della corruzione del mondo pagano e dell’infedeltà d’Israele, che pone gli Ebrei in situazione cosi spiacevole come i pagani. Il regno del peccato e della morte risale alla disobbedienza di Adamo che ha fatto perdere all’umanità l’amicizia divina ed ha scatenato le passioni malvagi. Gli uomini sono sprofondati nella rivolta contro Dio. Il mondo pagano non ha saputo riconoscere il Creatore nelle sue opere. Israele, benché favorita dalle rivelazioni divine, si è dimostrata indocile ed ha violato i precetti della Legge. La Legge non le ha dato la forza di vivere il messaggio rivelato.
Dio aveva, nella sua misericordia, promesso per mezzo dei profeti un Messia discendente da Davide che ridarà i sei oggetti perduti a causa del peccato di Adamo e che concluderà la nuova alleanza con tutta l’umanità. Quando i tempi furono compiuti, Dio a inviato il suo unico Figlio, preesistente, creatore ed eterno come lui. Nato dalla discendenza di Davide, secondo la carne, il Figlio di Dio ha rivestito una natura umana soggetta alla sofferenza ed alla morte. Nel suo amore per gli uomini, egli si è fatto obbediente fino alla morte in croce, divenendo secondo una volontà eterna del Padre mezzo d’espiazione per gli uomini. La sua obbedienza ha riparato le disobbedienze di Adamo. Il nuovo Adamo crea cosi una nuova umanità. Per la fede in lui i peccatori sono giustificati ; la solidarietà in Gesù Cristo è più forte che la solidarietà in Adamo. Per manifestare l’efficacia del sacrificio di Cristo, Dio l’ha sovranamente esaltato con la resurrezione e l’ascensione. Glorificato alla destra del Padre, Gesù ha ricevuto il titolo di Signore. Come redentore egli riconcilia gli uomini con Dio. Tale è il messaggio della redenzione.

La redenzione
E’ il sangue di Cristo che redime l’uomo peccatore (1 Cor 6,20 ; 7,23). Ma Dio che ci ha redenti senza di noi, non ci salva senza chiederci il nostro libero consenso; questa soluzione è degna di Dio e dell’uomo. La risposta alla chiamata di Dio è data dalla fede che è accettazione per mezzo dell’intelligenza del messaggio cristiano e consacrazione vitale del credente al Salvatore nel suo essere e nella sua vita. La fede è essa stessa un dono di Dio. Dio non la rifiuta agli uomini di buona volontà. L’adesione a Cristo porta il convertito a chiedere il battesimo, che significa una nuova nascita, il perdono del peccato ed il dono della vita soprannaturale (Rm 6,3-11) che lo fa morire, lo seppellisce e lo risuscita spiritualmente con il Cristo. Egli muore al peccato e vive d’ora innanzi per Dio nel Cristo. Per non decadere dal suo stato di giustificato, il cristiano deve lottare contro le tendenze malvagi che sussistono in lui. Paolo conosce l’antropologia delle due tendenze che sono presenti nel cuore dell’uomo. La vita diventa cosi una battaglia spirituale. Per riportare la vittoria il cristiano e armato con il dono dello Spirito che lo fortifica per crocifiggere la carne, per vivere nella pratica della carità e di tutte le virtù, per riprodurre in se l’immagine del Cristo, al fine d’essere trasformato in questa stessa immagine (2 Cor 3,8). Lo Spirito lo illumina, l’ispira, gli dà gli aiuti indispensabili per vivere veramente da figlio del Padre celeste, da fratello di Cristo, da membro del suo corpo e da tempio dello Spirito. L’Eucaristia che fa memoria del sacrificio redentore è il mezzo privilegiato di trasmettere ed accogliere la vita divina.

La Chiesa
Depositaria dell’insegnamento di Cristo e degli apostoli, essa è guardiana della fedeltà alle esigenze della vita cristiana. Membro di questo grande corpo (Col 1, 24 : Ef 1,22-23), il cristiano non è isolato. Egli è sostenuto dalla preghiera, gli esempi ed i sacrifici dei suoi fratelli; egli sa che tutte le sue azioni contribuiscono all’edificazione del corpo di Cristo. Nella posizione in cui Dio l’ha chiamato, verginità o matrimonio, si ricorda che egli ha carico dei suoi fratelli, unito a loro dal legame dell’Eucaristia. Lavorando alla salvezza di tutti nello stesso tempo che sua, egli cammina con amore verso la vita gloriosa promessa. Nella speranza del ritorno di Cristo, egli collabora alla venuta del Regno. 

Né Ebreo né pagano 
Tutti gli uomini sono invitati a superare il nazionalismo ed a realizzare che non vi sia più né Ebreo né pagano, né schiavo né uomo libero. Se Israele nella sua grande maggiorità ha tenuto una benda sugli occhi, un giorno verrà in cui riconoscerà in Gesù di Nazaret il Messia annunciato dalle Scritture. La sua incredulità ha portato la benedizione sui pagani; ma le promesse divine non saranno messe in scacco. Il popolo eletto rimane amato da Dio per merito dei Padri e sarà salvato a sua volta. 
Un terribile dramma si giocò in effetti dopo la caduta del primo uomo. Il Cristo ha vinto Satana sulla croce. Ma i nemici di Cristo e del Vangelo non hanno perduto tutta la loro virulenza e la battaglia continua. Il mistero d’iniquità, l’uomo del peccato che si sostituisce a Dio, sono sempre in azione. Delle apostasie affliggono la Chiesa. Tutti i cristiani sono attori in questo dramma e sono invitati a perseverare fino alla fine. Coloro che rimarranno fedeli saranno per sempre con il Cristo quando la morte verrà a porre un termine al loro soggiorno sulla terra. La battaglia proseguirà fino al giorno conosciuto soltanto da Dio quando il Salvatore discenderà dal cielo, annienterà l’Empio con il soffio della sua bocca ed il fulgore del suo avvento (2 Ts 2,1-12). Distruggendo la morte stessa, Gesù resusciterà per l’azione dello Spirito Santo, coloro che si sono addormentati; allora egli rimetterà il Regno nelle mani di suo Padre, i corpi mistici avranno raggiunto la loro statura perfetta e Dio sarà ormai tutto in tutti (1 Cor 1,24-28). 
Paolo insiste molto sulla libertà del cristiano. Da sottile dialettico egli afferma che tutto appartiene al cristiano, ma il cristiano appartiene a Cristo ed il Cristo appartiene a Dio. Tutto ciò che tiene conto di questo orientamento finale è lecito. « Ama e fai ciò che vuoi », dirà sant’Agostino.
Paolo ed i suoi discepoli non furono dei teorici né degli speculativi. Prima di tutto essi furono dei pastori, sacerdoti ad illuminare il popolo di Dio. La loro teologia inizia da una vita spirituale profonda che fa di loro degli innati ottimisti. Sicuri dell’amore divino e della vittoria di Cristo sulla morte, essi avanzano in mezzo alle difficoltà. La croce e le prove non furono loro risparmiate. Ma unendo le loro sofferenze a quelle di Cristo essi completano nei loro corpi ciò che manca alla passione di Cristo (Col 1,24). In effetti, il Cristo è in agonia fino alla fine dei tempi.

SCOPERTE ARCHEOLOGICHE E TRADIZIONI SULLA DORMIZIONE E ASSUNZIONE DI MARIA – PADRE MANNS

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SCOPERTE ARCHEOLOGICHE E TRADIZIONI SULLA DORMIZIONE E ASSUNZIONE DI MARIA

INSERITO DA LATHEOTOKOS DOMENICA 3 LUGLIO 2011

 DI FRÉDÉRIC MANNS, OFM, IN AA. VV., L’ASSUNZIONE DI MARIA MADRE DI DIO. SIGNIFICATO STORICO-SALVIFICO A 50 ANNI DALLA DEFINIZIONE DOGMATICA, PAMI, CITTÀ DEL VATICANO 2001, PP. 169-182.

Le scienze storiche progrediscono grazie all’archeologia e allo studio delle fonti letterarie. Problemi che erano stati confinati negli archivi possono essere ripresi quando scoperte archeologiche portano alla luce elementi nuovi o quando lo studio delle fonti produce risultati originali. Questo principio generale vale per la storia della fede nell’Assunzione di Maria. I recenti scavi archeologici della chiesa detta del Kathisma1 invitano i cercatori a riprendere in mano il dossier della storia della Dormizione di Maria. Sulla strada da Gerusalemme a Betlemme, a 350 metri a nord del convento greco di Mar Elias, gli archeologi ebrei hanno scoperto nel 1992 i resti del santuario dedicato alla Madonna, chiamato il Kathisma, il riposo di Maria. Nel 1997 e nel 1999 gli scavi hanno permesso di scoprire tutta la zona archeologica intorno alla chiesa. La tomba di Rachele2 che mori partorendo non è lontana. Negli scavi fu scoperta una chiesa ottagonale con pavimenti musivi. Ci sono tre ottagoni concentrici con cappelle laterali. Nel centro della chiesa un pezzo di roccia è rimasto visibile. Probabilmente veniva presentato ai pellegrini come la roccia dove la Vergine si sedette per riposare prima di entrare a Betlemme. È difficile non fare il confronto con la moschea detta di Omar, che ha nel suo centro la roccia del Moriah secondo la tradizione ebraica. Altri paralleli sono quello della chiesa della Vergine sul Monte Garizim scavata da Magen3 e quello della Chiesa di Cafarnao4. Anch’esse hanno la forma ottagonale. Basta ricordare che per i Padri della Chiesa l’ottavo giorno era il simbolo del giorno escatologico e del riposo definitivo5.
Tra i mosaici scoperti nella chiesa del Kathisma c’è ne uno che merita attenzione. Rappresenta una palma che porta frutti giganti6. Perché questa palma? Forse ricorda l’episodio narrato nel Vangelo dello Pseudo-Matteo7. Durante la l’uva in Egitto, mentre la sacra famiglia soffriva dalla fame, Gesù diede ordine alla palma di piegarsi per dare da mangiare a Maria. E’ possibile che questa palma ricordi anche la palma che l’angelo portò a Maria tre giorni prima di lasciare il corpo, come ricorda l’apocrifo della Dormizione. Altre interpretazioni della palma sono possibili. In Giordania, nella chiesa della Vergine a Madaba8, una palma viene rappresentata sul pavimento musivo. Come sul mosaico del Kathisma sembra che l’elemento principale siano i frutti della palma. Che la palma possa rappresentare una persona, in questo caso la Vergine, si può dedurre dal Salmo 91 (92) 13 che paragona il giusto a una palma e da un apocrifo ebraico scoperto a Qumran, il Genesi Apocrifo 19,14. Nell’apocrifo Abramo prima di scendere in Egitto con sua moglie Sara ebbe un sogno. Vide due alberi: un cedro e una palma. Vide poi della gente che voleva tagliare il cedro per lasciare solo la palma. La palma si mise a gridare: Lasciate il cedro. E il cedro fu salvato per l’intervento della palma. Il cedro è il simbolo di Abramo e la palma è il simbolo di Sara che gli Egiziani volevano prendere. Il parallelismo Sara-Maria è antico. Risale al Vangelo di Luca. Nel racconto dell’annunciazione l’autore riporta la frase: « Nulla è impossibile a Dio », che ricorda il libro di Genesi (18,14).

Le fonti letterarie
Nel Protovangelo di Giacomo un apocrifo di origine giudeo-cristiana9, si legge al capitolo 17:
«Giuseppe sellò il suo asino e vi fece sedere Maria. Suo figlio tirava le briglie e Samuele seguiva. Alla distanza di tre miglia, Giuseppe si voltò e la vide triste. Disse tra sé: « Probabilmente ciò che è in lei la fa soffrire ». Si voltò di nuovo e la vide sorridente. Allora le disse: « Maria che succede? Ti vedo triste poi sorridente». Maria rispose a Giuseppe: « Con i miei occhi vedo due popoli, l’uno piange mentre l’altro si rallegra ». Arrivati a metà strada Maria disse a Giuseppe: « Giuseppe fammi scendere dall’asino: quello che è in me mi preme per venire alla luce ». La fece scendere e disse: « Dove ti devo condurre per mettere al riparo il tuo pudore? Il posto è deserto ». Qui c è una grotta. La fece entrare».
Maria annuncia in modo profetico l’accoglienza del Vangelo da parte dei pagani e il rifiuto da parte degli Ebrei come aveva predetto l’Evangelo di Luca 2,34. Maria viene presentata come nuova Rebecca. In Gen 25,22 la madre d’Israele riconosceva di avere nel seno due nazioni, una sarebbe stata più forte dell’altra, mentre la nazione più grande avrebbe servito quella più piccola. Due indicazioni topografiche sono importanti nell’Apocrifo: si parla di tre miglia e « a mezza strada ». Queste due indicazioni sono sinonimi per indicare la distanza tra Gerusalemme e Betlemme10.
Nel sesto secolo il pellegrino Teodosio11 ricorda questa tradizione:
«Est locus tcrtio miliario de Hierusalem civitate. Dum Maria Mater Domini iret in Bethlehem, descendit de asina et sedit super petram et benedixit eam».
Esisteva nel III secolo una tradizione sulla nascita di Cristo in una grotta al terzo miglio da Gerusalemme, probabilmente in mano ai giudeo-cristiani, perché ne parla solo una fonte giudeo-cristiana. La tradizione bizantina non ha considerato le indicazioni del Protovangelo per localizzare la grotta della Natività. Ma ha collocato in quel posto una festa mariana conosciuta nei calendari liturgici più antichi: il lezionario armeno12 (V secolo) e il lezionario georgiano13 (VIII secolo). Nel lezionario armeno la festa di Maria la Theotokos14 viene menzionata il 15 agosto al « secondo o terzo miglio di Betlemme ». Le letture liturgiche erano Is 7,10-16: la Vergine che partorisce; Ga 3,29-4,7: non siete schiavi, ma figli; Luca 2,1-7, il testo sul censimento di Augusto e il parto di Maria. Il salmo di meditazione era il salmo 131: alzati verso il luogo del tuo riposo e il salmo 109: siedi alla mia destra15. È chiaro che le allusioni dei testi al riposo ricordano il riposo di Maria. Non è escluso del tutto che il primo riposo di Maria evocasse anche il suo riposo definitivo16. Una semplice chiesa poi permetteva ai cristiani di fare memoria di Maria17. Sembra che la chiesa del Kathisma sia stata edificata dopo la redazione del lezionario armeno. Le prediche di Esichio18 e di Crisippo di Gerusalemme19 pronunciate per la festa parlano solo della maternità di Maria senza nessuna allusione al suo riposo.
Fino alla meta del V secolo a Gerusalemme veniva ricordata una sola festa mariana: la memoria di Maria al terzo miglio di Betlemme secondo il lezionario armeno che riproduce il lezionario di Gerusalemme20″: « Il 15 agosto, di Maria, la Theotokos », scrive il lezionario armeno. Non si trattava della festa della Dormizione, né della festa della dedicazione della chiesa. Si faceva memoria del riposo di Maria, la Theotokos. In quel periodo esisteva una piccola chiesa. Sappiamo che solo verso il 455 Hikelia, una pia cristiana fece costruire una chiesa. Il lezionario armeno, anteriore alla costruzione della chiesa del Kathisma, non fa nessuna allusione alla festa della Dormizione di Maria.
Il lezionario georgiano afferma che il 15 agosto l’assemblea liturgica si tiene al Getsemani, per far memoria dell’Assunzione di Maria. La festa del terzo miglio di Betlemme al Kathisma era anticipata al 13 agosto21. Il tre dicembre veniva celebrata la dedicazione della chiesa del Kathisma22:
«Mense decembri III. In via Bethlehem, a tribus milibus, in Cathismate, dedicatio».
Per il 15 agosto appare questa notizia:
«In Mauricii regis aedificatio, ill Gesamania, commemotatio sanctae Deiparae»23.
Secondo il lezionario georgiano, che riflette la prassi liturgica tra il 450 e il 750, i fedeli facevano la memoria di Maria in una chiesa del Getsemani restaurata da Maurizio. Questo imperatore regnò dal 582 fino al 602. Il breviarius de Hierosolyma 7 fa menzione della basilica di santa Maria e del suo sepolcro24. Nella Vita di S. Teodosio il cenobiarco 5, scritta da Teodoro di Petra25, si trova un accenno alla costruzione e al nome della chiesa del Kathisma:
«Hikelia, sposa del governatore, era diventata diaconessa di Cristo. Fece edificare la Chiesa costruita in quel luogo – il vecchio Kathisma (to polaion Kathisma) – in onore dell’immacolata Madre di Dio e sempre vergine ai tempi del beato arcivescovo Giovenale»26.
Quindi la chiesa del Kathisma fu edificata tra il 422 e il 458. E’ possibile però precisare meglio la data grazie ad una informazione di Cirillo di Scythopolis. Cirillo di Scythopolis nella sua Vita di Teodosio27 afferma che il giovane Teodosio arrivò a Gerusalemme durante il regno di Marciano (450-457) e aggiunge:
«la beata Hikelia costruiva la chiesa del Kathisma della Madre di Dio. Lo accolse tra i monaci che dipendevano da Lei»28.
Giovenale vescovo di Gerusalemme negli anni 422-458, è famoso per le numerose chiese che fece edificare. La chiesa del Getsemani fu edificata nel V secolo e in essa fu fatta una memoria di Maria intorno alla sua tomba venerata da tempo. Questa chiesa era il bastione dell’opposizione al concilio di Calcedonia e anche al vescovo Giovenale dopo il 451 come si vede nel Panegirico di Macario di Tkow fatto dallo Pseudo Dioscoro di Alessandria30. Questa opposizione spiegherebbe la costruzione della chiesa del Kathisma di Hikelia. Il partito dei fedeli a Calcedonia celebrava in quel posto la memoria di Maria, mentre gli oppositori del concilio occupavano il Getsemani. Questa situazione durò fino alla costruzione di santa Maria la Novella: titolo dato alla chiesa in opposizione a Santa Maria l’antica al Getsemani. Nel VI secolo l’imperatore Maurizio che impose la festa dell’Assunzione, viene presentato come fondatore della chiesa del Getsemani quando i monofisiti ne furono espulsi.
Perché la Dormizione di Maria fu celebrata il 15 agosto? Probabilmente perché era la data di fondazione del Kathisma. Nel medio Evo alcuni hanno visto i pavimenti musivi della chiesa. Nicolò da Poggibonsi dice che da lì la stella apparve ai magi dopo la loro partenza da Gerusalemme per Betlemme31.

La tomba di Maria al Getsemani
Si conosce abbastanza bene la storia del santuario della Tomba di Maria. I primi cristiani veneravano il posto rispettandone i luoghi. Se si può credere agli apocrifi, il corpo di Maria sarebbe stato deposto in un complesso funebre di tre stanze. Più tardi la tomba fu trasformata in santuario probabilmente dai gentilo-cristiani. Si costruì una chiesa a forma di croce, tagliando le tombe vicine, nascondendo le altre che non presentavano interesse. In questo luogo vi fu il centro degli oppositori al concilio di Calcedonia. Un secolo dopo, sotto l’imperatore Maurizio (582-602), dopo l’espulsione degli oppositori, fu costruita una chiesa superiore di forma rotonda ad imitazione dell’Anastasi e della chiesa dell’Ascensione. La chiesa superiore dell’imperatore Maurizio fu distrutta ed i crociati ne eressero un’altra simile, che fu distrutta da Saladino appena riuscì a riconquistare Gerusalemme. Rimase allora la chiesa primitiva con una grande scalinata aggiunta dai Crociati. Nella parete esterna a nord della camera sepolcrale, si vede il rivestimento crociato fatto per mettere i marmi. In basso sono due colonnine che abbellivano le quattro pareti e a sinistra un pezzo di roccia scoperta in seguito ai nuovi lavori. Il bassorilievo sopra la porta è di fattura crociata, ma non è inerente al mistero e nella decorazione crociata esso era coperto da marmi e da mosaici. L’inondazione del 1972 ha permesso di verificare che la tomba tradizionale di Maria era del primo secolo32. Una volta caduti gli intonaci è stato possibile vedere completamente la roccia. Essa si eleva da m. 1,60 a m. 1,80 e presenta due aperture. una a nord e l’altra ad ovest. Sono le porte attuali per le quali passano i devoti per entrare. La tomba di Maria ha tutte le caratteristiche di una tomba del primo secolo, benché i crociati abbiano abbellito il banco roccioso, che presenta quattro resti di decorazioni succedutesi le une alle altre tra il IV e il XII secolo. I frammenti in lingua siriaca pubblicati dal Wright33 parlano di un complesso funebre di tre stanze. Dopo l’inondazione del 1972 il Bagatti ha potuto costatare che di fatto c’erano tre stanze. Scoprì una stanza tagliata nella roccia a sinistra della tomba venerata. La terza stanza fu tagliata per isolare meglio la terza che è la tomba venerata.

Le fonti letterarie sulla Dormizione
Il Bollandista Van Esbroeck34 ha pubblicato uno studio approfondito sulle fonti letterarie della Dormizione. Ha classificato i manoscritti conosciuti in diverse famiglie di testi: alcuni manoscritti fanno menzione della palma che Maria riceve tre giorni prima di lasciare il corpo, altri invece dell’annuncio fatto a Gerusalemme parlano di Betlemme. Questi ultimi sono caratterizzati dalle incensazioni e hanno una nota liturgica molto chiara. I 67 manoscritti conosciuti si dividono in due grandi famiglie di testi: la prima localizza a Gerusalemme la partenza di Maria utilizzando il simbolo della palma, mentre la seconda preferisce Betlemme e ha un aspetto più liturgico. Questa seconda famiglia di testi potrebbe essere legata alle celebrazioni liturgiche che venivano fatte al Kathisma sulla strada di Betlemme. Van Esbroeck pubblicò nel 1973 gli apocrifi georgiani della Dormizione35 e nel 1974 un altro testo sulla Dormizione attribuito a san Basilio36. Padre Arras, un francescano belga, pubblicava nello stesso anno un’edizione critica dei manoscritti etiopici37 nel CSCO 343, in modo particolare il Liber Requiei. Arras ha notato che il Liber Requiei è vicino ai frammenti in lingua siriaca pubblicati dal Wright e ai frammenti in lingua georgiana. Un’altra caratteristica del Liber Requiei è l’aver integrato moltissime aggadot giudaiche che hanno avuto una esistenza indipendente. Si sapeva già che la Chiesa etiopica è molto vicina al giudaismo, sia per le tradizione letterarie sia per il modo di vivere. Recentemente il professore Mimouni38 ha dedicato la sua tesi di ricerca ai manoscritti della Dormizione di Maria. La tesi è pubblicata da Beauchesne nella collana « Théologie historique ». Introduce distinzioni curiose nell’antropologia giudaica antica. Mentre il Mimouni faceva le sue ricerche all’Ecole Biblique, io presentai la mia tesi alla commissione biblica sul testo greco della biblioteca vaticana chiamato Romanus o Vaticanus 198239, che era stato pubblicato dal Wenger40. Il merito di Wenger era quello di stabilire la priorità del Romanus in confronto con i testi liturgici. Molte volte nelle note del testo, pubblicato con alcune omissioni, il Wenger sottolineava il carattere oscuro di molte espressioni del documento. Il Padre Bagatti aveva già avuto l’intuizione che il Romanus poteva essere di origine giudeo-cristiana41. Questa idea servì di base alla mia ricerca.
La famiglia dei testi che sfruttano il simbolo della palma riprende uno schema identico: Maria riceve l’ordine da un angelo di recarsi al Monte degli Ulivi. L’angelo gli consegna una palma e gli annuncia la morte prossima. Tornata a casa Maria si prepara alla morte. Viene all’improvviso Giovanni l’apostolo. Maria lo rimprovera perché il Signore gli aveva affidato sua madre. Giovanni si difende citando l’ordine del Signore di partire in missione. Maria affida la palma a Giovanni. Arrivano poi, portati su nuvole, gli altri Apostoli che si meravigliano di trovarsi insieme. Ciascuno fa la narrazione del suo apostolato. Pietro invita tutti a pregare per conoscere il motivo del loro incontro. Sviluppa il tema della lucerna accesa ed esorta tutti a perseverare nella fede. La preghiera continua tutta la notte. All’alba viene Cristo accompagnato dagli angeli. Bacia sua madre e prende la sua anima che rimette nelle mani di Michele arcangelo. Gli apostoli ricevono l’ordine di portare il corpo di Maria in una nuova sepoltura nella valle del Cedron. Mentre si recano verso la valle del Cedron cantando il salmo: Israele uscì dall’Egitto. Il sommo sacerdote, incuriosito viene a sapere che gli Apostoli portano Maria nella sua ultima dimora. Vuol rovesciare il feretro sul quale giace la Vergine. I Giudei sono colpiti da cecità e Jephonia, il sommo sacerdote, confessa la sua colpa. Quelli che credono sono guariti. Segue un dialogo tra Pietro e Paolo, giacché anche Paolo è venuto presso Maria. Dopo tre giorni gli angeli scendono e portano in cielo il corpo della Vergine, che viene riunito all’anima. Il genere letterario dell’apocrifo è chiaramente quello del Testamento. Tale genere era molto sfruttato nel primo secolo. I Testamenti dei 12 Patriarchi sono esempi tipici di tale genere. Una caratteristica dell’apocrifo è il ricorso ai simboli. Il simbolo della palma apre l’apocrifo, poi il simbolo delle nuvole ricorda il dono delle nuvole di gloria date a Succot nel deserto, mentre il simbolo della lampada sfruttato da Pietro sottolinea il tema della luce. Infine il simbolo del profumo al momento della morte di Maria dà un tono particolare al testo. Tutti questi simboli possono essere associati alla festa giudaica delle capanne: la palma, le nuvole di gloria, il profumo che ricorda l’etrog, il frutto dell’albero bello e, infine, la luce che ricorda l’illuminazione del cortile della donne durante la festa di Succot. Per Za 14,16 sarà sul monte degli Ulivi che i sopravissuti delle nazioni, che hanno fatto la guerra a Gerusalemme, si raduneranno per celebrare la festa delle capanne. Alla fine gli Apostoli, quando portano il corpo di Maria nella valle del Cedron cantano l’hallel, il salmo che veniva cantato per le grande feste ebraiche. La mishna Suc 4,8 dice che l’hallel fa parte della festa delle capanne. Per di più nell’apocrifo la casa di Maria viene chiamata skênoma. La festa delle capanne durava sette giorni. Questo schema viene rispettato nell’apocrifo. Tre giorni prima della morte Maria riceve l’annuncio della morte. Gli apostoli rimangono tre giorni presso il corpo di Maria, presso la tomba e il Signore viene il quarto giorno. In totale sono sette giorni. Si sa che la festa delle capanne era presentata come festa della risurrezione. Filone di Alessandria afferma che la festa è speranza di immortalità. Rivela la luce cosmica e la migrazione dal mondo presente al mondo immateriale (Spec Leg 212). La letteratura rabbinica vede nel simbolo della tenda la prefigurazione del giorno escatologico (Suc 45b) e il simbolo della dimora dei giusti nell’aldilà (PRK Sup 2,3). Paolo in 2Co 5,1 chiama tenda la nostra dimora terrestre, che sarà distrutta, mentre la dimora eterna sta nei cieli. I Padri della Chiesa hanno sviluppato il simbolismo della festa delle tende. Origene dice che la festa ricorda che la vita attuale è un luogo di passaggio (Om. Num 23,11). Nella sua Omelia su Esodo 9,4 dice che la palma è il simbolo della vittoria dello spirito sulla carne, il salice è simbolo di castità e l’albero con molte foglie è simbolo della vita eterna. Metodio di Olimpo sfrutta questo simbolismo. La festa delle capanne è la festa della risurrezione. Quello che serve per costruire la tenda sono le opere di giustizia (Banq 243). L’etrog è il frutto dell’albero della vita che cresceva nel Paradiso e si trova adesso nella Chiesa. La palma è il simbolo dell’ascesi che purifica l’anima. I rami con foglie sono simbolo della carità che porta frutti. Il salice è simbolo della castità (Banq 245-251).
La festa delle capanne esprime il riposo del settimo millennio. La vita è un passaggio verso la vita eterna. Chi pratica le virtù potrà celebrare la festa e risorgere durante il settimo millennio (Banq 254). Se la patristica prenicena fornisce paralleli all’interpretazione dei simboli presenti nel Transitus Mariae, questo significa che l’apocrifo della Dormizione può essere datato al secondo o terzo secolo. Se questo simbolismo è accettato, il senso dell’apocrifo sarebbe questo: Maria celebra la sua ultima festa delle capanne sul Monte degli Ulivi. Il simbolismo giudaico di tale festa illustrava bene il senso della sua morte e la sua fede nella risurrezione. In altre parole significa che la fede nell’Assunzione di Maria risale ai giudeo-cristiani di Gerusalemme. I giudeo cristiani erano ben preparati ad accettare l’assunzione di Maria, perché dal giudaismo avevano ereditato la fede che Myriam, la sorella di Mosè, non aveva conosciuto la corruzione della tomba. Maria non è altro che la nuova Myriam. Ha ricevuto gli stessi privilegi. Se lo sfondo dell’apocrifo è il mondo giudeo-cristiano, si capiscono bene la cristologia con Cristo angelo, l’ecclesiologia primitiva, la mariologia che vede in Maria la colomba e la madre dei dodici rami42. Il giudeo-cristianesimo che si esprime nell’apocrifo è di un tipo speciale: accetta Paolo tra i discepoli. Paolo non è il nemico come in altri testi giudeo-cristiani. Solo i Nazareni accettavano Paolo come discepolo di Cristo. Essi sono conosciuti dal Panarion di Epifanio.
In conclusione: è necessario oggi approfondire il discorso sugli apocrifi giudeo-cristiani. Essi appartengono alla letteratura aggadica del mondo giudaico del quale riprendono le categorie, i simboli e i modi di espressione. Per questo vanno letti come la aggadà giudaica. Quando la Chiesa si è inculturata nel mondo greco la aggadà giudeo-cristiana fu esclusa dal canone. Visto che questo cambiamento è avvenuto nel 135 si può dire che molte tradizioni dell’apocrifo sono anteriori al 135. La comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme del secondo secolo, dunque, aveva già espresso con categorie giudaiche la fede nell’Assunzione di Maria, nuova Myriam. La giovane di Nazaret veniva presentata come il compimento di tutte le figure bibliche femminili.

NOTE
1 Amnon Ramon, Around the Holy City. Between Jerusalem, Bethlehem and Jericho, Jerusalem 2000.
2 Rachele significa « ancella ». Tale titolo viene dato a Maria da Melitone di Sardi verso il 160 nel suo trattato Peri Pascha.
3 F. Manns-E. Alliata (a cura di), Christian Archaeology. Monuments and Documents, Jerusalem 1993, 131.
4 F. Manns-E. Alliata (a cura di), Christian Archaeology, 91.
5 J. Daniélou, Bible et Liturgie, Paris 1958, 355.
6 Nella liturgia siriana per la Dormizione di Maria viene sfruttato il simbolo dell’uva: « La grappe Marie a porté une grappe pleine de merveilles… La Visone Marie est sortie de cette vigne de David qui avait été plantée dans la terre des vivants et avait été bénie. La vigne Marie se tenait parmi les autres ceps de la vigne et l’unique grappe qu’elle portait était plein de merveilles », cité par M. Deprez, L’adoration des mages de Ste Marie Majeure et le concile d’Ephèse, Vaucreson 2000, 41, Excursus 25.
7 Questa è l’ipotesi de Amnon Ramon, p. 18.
8 M. Piccirillo, Chiese e mosaici di Madaba, Jerusalem 1989, 43-46.
9 E Cothenet, `’Protévangile de Jacques ». SDB 8, Paris 1970, 1374-1384
10 E curioso costatare sull’arco elesino della Basilica di santa Maria Maggiore a Roma le due città di Gerusalemme e di Betlemme. Il massacro degli innocenti viene rappresentato a sinistra e Rachele – vestita di nero- siede accanto a Maria vestita in giallo sul terzo panello di sinistra.
11 Geyer (ed), De situ terrae sanctae, 28, CCL 175,124.
12 Le Codex arménien Jérusalem 121. I. Introdution aux origines de la liturgie hiérosolymitaine. II. Edition comparée du texte et de deux autres manuscrits, PO 35/1; 36/2, Turnhout 1969 et 1971.
13 A. Garitte, Le calendrier palestino-géorgien du Sinaiticus 34, Bruxelles 1958.
14 Cirillo di Alessandria per l’apertura del concilio di Efeso associa tredici volte il tema della luce (stella) a quella della maternità divina.
15 B. Capelle, « Le fête de la Vierge à Jérusalem au cinquièrne siècle », MUS 56 (1943) 1-33. A. Heisenber, « Zur Feier von Weihnachten und Himmelfahrt im alten Jerusalem », BZ 24 (1923-24) 329-335. A. Jugie « La première fête mariale en Orient et en Occident », Les Echos d’Orient 25 (1927) 129-152. B. Botte, « Le lectionnaire arménien et la fête de la Théotokos à Jérusalem au cinquièm siècle », SEJG 8 (1949) 111-122.
16 M. Deprez, L’adoration des mages, 42: ‘Le `Natale’ de la Vierge Marie – c`est-à-dire le jour où défunte elle est née à la vie étennelle – répondait ainsi directement au `Noel` uù elle donna le jour au Christ Jesus ». Quando il Papa Sergio I istituirà la festa del 15 agosto a Roma la chiamerà Natale.
17 Capelle, « La fête de la Vierge », p. 21 parla di un Khan, luogo di riposo.
18 Dictionnaire de Spiritualité 7, 399-408. K. Jiissen, « Die mariologie des Hesychius von Jerusalem », in Theologie in Geschichte ubd Gegenwart. M. Schmaus zum 60 Geburstag, München 1957, 651-670. M. Aubineau, Les Homélies festales d’Hésy-chius de Jérusalem, I., Bruxelles 1978, 170. L’omelia 5 fu pronunciata prima della costruzione della chiesa probabilmente dopo il concilio di Efeso.
19 Homélies mariales byzantines, PO 19, 336-343. R. Caro, La homiletica mariana griega, Maria Library Studies 3, Dayton 1971, 211-226.
20 B. Fischer, « ‘Das älteste armenische Lectionar als Zeuge für den gottesdienstlichen Scrhiftgebrauch im Jerusalem des beginnenden 5. Jahrhunderts », Concilium 11 (1975)93-96.
21 Capelle, « La fête de la Vierge », 32 spiega così il cambiamento del 15 agosto al 13 agosto: « Lorsque -vers 500?- on transféra au sanctuaire marial de Gethsémani la fête du 15 août, peut-être aura-t-on voulu garder au Kathisma, où elle s`était justement tenue, quelque chose de son ancien privilège, en y établissant à une date toute proche -13 aout – une synaxe qui perpétuerait le souvenir des solennités d’antan~? »
22 Capelle, « La fête de la Vierge », 32.
23 Lectionaire géorgien, n. 1148, CSCO 204, 30.
24 « Ibi est basilica sanctae Mariae et ibi est sepulcrum ejus », CCL 175,122.
25 A. Festugière, Les moines d’Orient, Paris 1963, 86-160.
26 A. Festugière, Les moines d’Orient 3/3, 57-58. E. Honigmann, « Juvenal of Jerusalem », DOP 5 (1950) 209-279.
27 A. Festugière, Les moines d’Orient 3/3, 57.
28 A. Festugière, Les moines d’Orient 3/3, 57-58.
29 A L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, Brescia 1980.
30 D. W. Johnson, A Panegyric on Macarius Bishop of Tkow, CSCO 415-416, Louvain 1 980.
31 Fra Nicolò da Poggibonsi, Libro d’Oltremare (1346-1350), Jerusalem 1945. Durante la Dedicazione della Basilica di santa Maria Maggiore, il Papa Sisto III fece memoria dei martiri che chiamò Testes uberi, testimoni del parto di Maria. Ai martiri sono connessi i magi.
32 B. Bagatti, M. Pieirillo, A Prodromo, New Discoveries at the Tomb of the Virgin Mary in Getsemane, Jerusalem 1975.
33 W. Wright, Obsequiae. Contribution to the apocryphal Literature of the New Testament, collected and edited frome syriac manuscripts in the British Museum with an english translation and note, London 1865, 55-65.
34 M. Van Esbroeck, « Les textes littéraires sur l’Assomption avant le dixième siècle », in Les Actes Apocriphes, Genève 1981, 266.
35 Analecta Bollandiana 93 (1973) 69-73.
36 Analecta Bollandiana 94 (1974) 128-163.
37 De transitu Mariae. Apocrypha Aethiopice, CSCO 343, I. Louvain 1973; CSCO 352, II. Louvain 1974.
38 S. Mimouni, Dormition et assomption de Marie. Histoire des traditions anciennes, Paris 1995.
39 F. Manns, Le récit de la Dormition de Marie (Vat. Crec 1982). Contribution à l’étude des origines de l’exégèse chrétienne, Jerusalem 1989.
40 A. Wenger, L’Assomption de la T.S. Vierge dans la tradition byzantine du Vle au Xe siècle, Paris 1955.
41 B. Bagatti, « Le due redazioni del ‘Transitus Mariae »‘, Marianum 32 (1970) 179-287. Lo stesso autore ha studiato l’iconografia della Koimesis nel suo articolo: ‘Ricerche sull’iconografia della Koimesis o Domitio Mariae », LA 25 (1975) 225-253.
42 A F. Manns. Le judéo-christianisme, mémoire ou prophétie? Paris 2000, 249.

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