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IL VANGELO DELLA PACE NELLE SCRITTURE EBRAICO-CRISTIANE (anche Paolo)

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IL VANGELO DELLA PACE NELLE SCRITTURE EBRAICO-CRISTIANE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 17 GENNAIO 2004

L’espressione « vangelo della pace » si trova in Paolo nella lettera agli Efesini: è la lieta notizia della pace, annunciata e realizzata da Dio stesso.
La parola pace ha molti significati, sia nel mondo biblico che in quello greco-romano.
Può anzitutto indicare una condizione in cui il popolo si trova, negativamente la condizione in cui non c’è guerra, positivamente la condizione di benessere, soprattutto materiale.
Può avere un significato collettivo, indicando rapporti buoni tra i popoli e tra i gruppi.
Nella tradizione biblica è presente la concezione della pace come rapporti buoni tra l’umanità e Dio e della pace come salvezza.
Meno presente è la concezione di pace come serenità d’animo, o come rapporti interpersonali buoni.
ubi desertum faciunt pacem appellant
L’anelito alla pace emerge anche nel mondo greco romano. Nel 9 a.C. Augusto, sconfitti i nemici, inaugura un’era di pace e fa costruire l’Ara pacis, l’altare alla dea della pace. Era una svolta per una città, Roma, la cui divinità principale era Marte, il dio della guerra.
Nel frattempo, Tacito, molto critico nei confronti della politica imperiale afferma con ironia che i romani fanno deserto della terra e la chiamano pace (ubi desertum faciunt pacem appellant).
pace e sicurezza
Stupefacente la modernità di alcuni testi scritturistici antichi. Paolo, nel più antico scritto neotestamentario, chiama figli della luce i membri della piccola comunità di Tessalonica che vivevano in un contesto molto ostile, mentre sostiene che per la stragrande maggioranza, che si illude di vivere nella pace e nella sicurezza, sarà la rovina: Quando dicono pace e sicurezza allora all’improvviso verrà su di loro la rovina…
la pace nella bibbia ebraica

Verranno presi in esami alcuni testi profetici.
Geremia
È un profeta dalla parola molto libera, osteggiato dal potere politico, ma anche da altri profeti, suoi avversari, che dicevano pace: dicono pace, pace, ma pace non è (8,11). Pace è utilizzato in senso negativo, come legittimazione di una situazione esistente ingiusta. O si cambia o non ci sarà pace, dice il profeta. In un altro brano Geremia afferma che Dio coltiva pensieri di pace (29,11).
Isaia
In Isaia 52,7 appare la categoria del vangelo della pace, del lieto annuncio da parte del profeta dell’esilio (l’attuale libro di Isaia è composto di almeno tre distinti testi di diversi autori): Come sono belli i passi dell’evangelista, del lieto annunciatore, che proclama la pace.
In Isaia 9,1-5, nel libro dell’Emmanuele che contiene gli oracoli del grande Isaia, si presenta l’ideologia regale del principe di pace. Dio dona la pace attraverso l’azione umana del principe, che instaura una pace senza fine, fondata sulla giustizia. La giustizia del re è una giustizia molto particolare, diversa da quella dei tribunali, ed è volta a rendere giustizia a chi giustizia non ha, a prendere le difese dei deboli.
L’anelito alla giustizia è il grande portato di Israele all’umanità.
Questa azione giusta del re è ampiamente descritta al capitolo 11: giudicherà con giustizia i poveri e emetterà sentenze giuste a favore dei miseri del paese.
Questa pace fondata sulla giustizia si estende a tutto il cosmo, a tutto il mondo creato: il lupo dimorerà presso l’agnello / e la tigre si accovaccerà accanto al capretto / il vitello e il leone pascoleranno insieme / e un bambino piccolo li condurrà…
Sulla stessa linea è il testo di Isaia 2,1-5, in cui si sogna il grande pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme. La pace diventa pace universale.
Zaccaria
Un testo famoso di Zaccaria, utilizzato anche da Matteo per illustrare Gesù messia pacifico, indica il re che entra a Gerusalemme cavalcando un asino. È la cavalcatura utilizzata in occasioni di pace.
la pace nel nuovo testamento

Nelle lettere di Paolo il saluto è: « grazia e pace », cioè vi auguro il dono della pace.
Romani 5,1: pace come salvezza
« …abbiamo pace nei confronti di Dio… » Paolo dopo aver detto che la lieta notizia è che Dio accoglie in modo indiscriminato tutti sulla base della fede, afferma che, sempre come dono di grazia, abbiamo un buon rapporto con Dio.
Romani 5,11: pace come riconciliazione
Paolo usa il termine riconciliazione in senso religioso: Dio ci ha riconciliato.
Dio non ha bisogno di essere riconciliato, al contrario di quanto sosteneva la religione romana tutta intenta a placare la ira Deum (l’ira degli dei) con riti e preghiere. C’era una concezione minacciosa del divino, che appare anche nella tradizione ebraica recente, come nel libro dei Maccabei. Paolo dice che è Dio a vincere la nostra distanza da lui.
Giovanni e Luca: pace come dono
Il Pace a voi del Cristo risorto nel vangelo di Giovanni, come il pace in terra agli uomini che sono oggetto della benevolenza divina di Luca (2,14) indicano la pace come dono di Dio. Dio ha donato la pace agli uomini sulla terra.
Matteo: la pace interpersonale
La beatitudine in Matteo 5,9: beati i creatori di pace, saranno chiamati figli di Dio. Nel rabbinismo, a cui Matteo è vicino, emerge il significato di pace interpersonale, di pace come riconciliazione tra persone.
Anche in Matteo 5,23: Se ti avviene di presentare il tuo dono all’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti…La comunione con Dio, espressa nel culto che si celebra, non avviene se due persone non sono in comunione tra loro.
Efesini 2: nella croce crollano i muri di separazione
È una lettera della scuola di Paolo, in cui si afferma che la chiesa universale è il luogo dove gli opposti si sono riconciliati. Nel mondo di allora c’erano molte divisioni. I greci distinguevano le persone tra greci e barbari (quelli che non parlavano greco). I romani tra romani, greci e tutti i barbari.
Anche nel mondo ebraico c’era una grande divisione di tipo religioso dell’umanità: gli incirconcisi (la maggioranza, 70 milioni di persone) e i circoncisi (la consistente minoranza di ebrei, 6 milioni di persone). Queste due parti si disprezzavano cordialmente (anche Gesù parla di « cagnolini » riferendosi alla Cananea). I non ebrei disprezzavano gli ebrei, accusati di ogni tipo di nefandezze (uccisioni rituali…)
…Ma ora in Cristo Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini mediante la morte violenta di Cristo. Egli infatti è la pace. Lui che ha fatto le due parti le ha ridotte ad unità. Ha sbriciolato questa parete che sta in mezzo e che separa. Cioè l’inimicizia l’ha distrutta mediante la sua carne, ha reso inoperante la legge mosaica dei comandamenti che si esprime nei precetti.
Gesù toglie le radici del conflitto, cioè la legge mosaica. La legge mosaica era il segno della separatezza: privilegio per chi la possedeva e handicap per gli altri.
Paolo dice che gli ebrei possono tenersi la legge, ma questa non può essere il motivo della identità del credente.
Le diversità non sono annullate, ma sono depotenziate. Le diversità (essere circoncisi o incirconcisi) non sono più elemento separatore. Il muro è abbattuto.
Egli è venuto ad annunciare, a dare la lieta notizia della pace, a voi che eravate lontani e pace a voi che eravate i vicini, perché mediante lui noi abbiamo questa entratura in un solo Spirito presso l’unico Padre.
La legge non è più la carta di identità dell’uomo.
Dietro questo testo c’è la teologia di Paolo, cioè la grazia incondizionata di Dio verso gli uni e verso gli altri e la giustificazione sulla base della sola fede, senza la legge. Giudei e non giudei sono su di un piede di parità nei confronti del vangelo della pace, del vangelo della riconciliazione.
Mentre la comunità di Gerusalemme, capitanata da Giacomo, il fratello di Gesù, era aperta al mondo pagano, a patto che si giudaizzasse, accettando la circoncisione, e mentre la comunità di Antriochia era composta anche da gentili a cui si chiedeva di osservare i precetti della legge, Paolo proclama la libertà dalla legge, non solo nella pratica ma anche attraverso una giustificazione, una riflessione.
i muri di separazione oggi
Anche oggi occorre saper far risuonare l’antica lieta notizia del vangelo di pace individuando quali sono i muri di separazione di cui annunciare l’abbattimento. Oggi la grande divisione non è più tra circoncisi e incirconcisi, ma tra nord e sud del mondo.
La lieta notizia per i deprivati, per gli esclusi, per i lontani di oggi ha come punto di riferimento remoto il Cristo in croce che viene a chiamare su di un piede di parità alla salvezza, e come punto di riferimento prossimo Paolo che ha annunciato e operato l’abbattimento del muro di separazione tra circoncisi e incirconcisi.
A noi spetta il compito di individuare il muro di separazione di oggi e di annunciarne anche fattivamente l’abbattimento, proclamando così la lieta notizia, il vangelo della pace.

LA SPERANZA NELLA BIBBIA (anche Paolo) – Giuseppe Barbaglio

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LA SPERANZA NELLA BIBBIA (anche Paolo)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

Verbania Pallanza, 28 febbraio-1 marzo 1981
Nella relazione ci si sofferma su quattro filoni: 1) sulla fede di Abramo che è speranza; 2) sulla speranza come pianticella esile, ma anche rigogliosa, che cresce lungo i fiumi di Babilonia: l’esperienza dell’esilio per il popolo di Israele; 3) sulla speranza in alcuni testi di Paolo; 4) la speranza di Gesù.

1. la fede di Abramo che è speranza
Il capitolo 15 della Genesi contiene la riflessione del redattore sulla vicenda di Abramo quale fu rivissuta da Israele in tempi molto lontani dall’esistenza di Abramo stesso.
« Abramo credette e gli fu computato a giustizia ».
Nella tradizione biblica, credere significa stare appoggiato. Abramo credette: stette saldamente appoggiato alla Parola di Dio, visse ancorato alla promessa di Dio. La promessa di Dio è promessa di una terra e promessa di una numerosa discendenza. Ma la promessa di una terra è contraddittoria, perché i possessori di questa terra sono altri (i Cananei); anche la promessa di una numerosa discendenza è contraddittoria, perché Abramo non ha discendenti. E’ una promessa in un contesto di deserto di vita. La promessa di Dio si pone perciò in termini alternativi alla storia, alle condizioni obiettive.
Abramo credette, superò la contraddizione tra promessa e realtà attuale e si ancorò alla promessa. La sua fede gli permise di occupare la giusta collocazione nei confronti di Dio. L’appoggiarsi di Abramo alla promessa di Dio (alternativa, contraddittoria rispetto alla situazione attuale) è la speranza.
Scrive Paolo nella lettera ai Romani (4,18): « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ». Credette in un Dio « che rende vita ai morti e chiama all’essere le cose che ancora non sono » (versetto 17). La riflessione di Paolo è in chiave cristologica, perché Paolo ha presente la resurrezione di Cristo. Come Dio resuscitò dalla sterilità di Sara e dall’anzianità di Abramo il figlio Isacco, così Dio resuscitò da morte suo figlio Gesù. Dice Paolo: come ad Abramo fu computato a giustizia, così anche per noi. Abramo è il prototipo di colui che crede contro ogni speranza umana.

Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza in un Dio che resuscita e che chiama all’essere ciò che non esiste; è speranza contro ogni speranza umana. La speranza di Abramo (che rappresenta il tipo di ogni credente) non va confusa con il facile ottimismo. Non è un ottimismo che si basa sull’evoluzione positiva delle situazioni, ma è una speranza che si coniuga in termini di sfida alla situazione attuale. È una speranza nonostante. Questo deve far riflettere noi, che siamo i figli delle speranze facili, ottimistiche, a basso prezzo (quali le speranze del ’68: sembrava che i cambiamenti fossero dietro l’angolo). La speranza di Abramo (e perciò dei credenti) è ad altissimo prezzo.
- La speranza di Abramo è speranza in possibilità prodigiose, le quali sono promesse di vita, di resurrezione (in senso molto vasto). Prendiamo i discorsi sui miracoli della Bibbia: non vanno interpretati secondo la nostra sensibilità positivista. Il metro della realtà è il metro del prodigio, del miracolo, della possibilità di vita dove regna la morte, della resurrezione nella nostra storia nonostante tutto. La speranza è sotto il segno della contraddizione, si lega al prodigio, che è promessa.
- La promessa di Dio (promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione, promessa di una terra ad Abramo mentre ci sono altri possessori, di una discendenza dove non ci sono figli), che sfida lo status quo, non va interpretata in chiave trascendentalistica; al contrario, essa è incarnata nella promessa umana, si colloca in un orizzonte in cui giocano le promesse umane. La promessa di Dio, il dono di Dio, lo Spirito di Dio non sono una realtà che ci coglie direttamente: sono mediati (a cominciare da Cristo, che è il solo mediatore). Troviamo la promessa di Dio nelle promesse che ci scambiamo. Essa è lo sfondo della promessa di vita e resurrezione tra noi, la profondità escatologica finale delle promesse tra noi. Le promesse che ci scambiamo sono vere nella misura in cui riflettono la logica della promessa di Dio, che è promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione dove c’è cimitero.
- La speranza è affidarsi alla promessa, è appoggiarsi. Ma questo affidarsi alla promessa di Dio, questa fiducia, non vanno interpretate in termini di pigrizia storica. Abramo non si è affidato alla promessa di Dio in termini contemplativi: si è mosso, ha agito, è venuto nella terra che era sua per promessa, ma dei Cananei per titolo storico, giuridico. Affidarsi alla promessa significa uscire dalla situazione, dal passato e dal presente, che possediamo, e camminare verso. E’ un processo di sradicamento. Abramo è stato sradicato dalla sua situazione di possesso (« Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua parentela ») per un nuovo radicamento: nella terra promessa.
- La speranza di Abramo è speranza di nomade, di chi perde ciò che possiede. Abramo, ancorandosi alla promessa di Dio, ha abbandonato quello che possedeva. Venendo in Canaan, non ha ancora quello che avrà. La speranza di Abramo è la speranza dei poveri, di quelli senza alcun titolo di possesso, perché sono usciti dalla sicurezza, dal possesso, e non hanno ancora quello che è stato promesso. Possiedono solo la parola promissoria di Dio. In base ad essa si sono mossi, camminano. Il camminare, il muoversi ha valore simbolico. Nella lettera agli Ebrei (cap. 13, versetto 14) si parla dei credenti come di coloro che non hanno qui la loro città, stabile, ma sono in cerca di quella futura. Abramo è in cerca della terra futura.

2. la speranza durante l’esperienza dell’esilio del popolo di Israele
Nel 586 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, conquista Gerusalemme e la rade al suolo. Alcune migliaia di abitanti del regno di Giuda (gli strati più elevati) vengono deportati lungo i fiumi di Babilonia. Il salmo 137 è il canto nostalgico degli esuli che, lontani dalla loro patria, hanno appeso le cetre ai salici: non possono cantare un cantico del Signore in terra straniera. « Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te, se io non metterò Gerusalemme al di sopra di ogni mia allegrezza ».
C’è una grande nostalgia in questi esuli, anche perché Gerusalemme contava tutto per loro. Su una sponda del fiume di Babilonia cresce la pianta della rassegnazione, del disfattismo, della disperazione, poiché questi esuli sono coscienti di aver perduto tutto: terra, re, tempio, sacerdozio. Pensano che il progetto di Dio su di loro, popolo di Dio, sia finito, che sia la fine della storia dell’Alleanza. Dicono: siamo morti, come ossa aride, sparse nella valle tra i due fiumi; o si considerano dei cadaveri chiusi ermeticamente nei sepolcri. Sull’altra sponda del fiume di Babilonia si fa udire la voce profetica di Geremia e Ezechiele, in contraddizione con il disfattismo degli esuli.
Geremia abitava a Gerusalemme, ma seguiva da vicino gli esuli, col cuore era con loro, ritenendo che la rinascita del popolo di Israele partisse da loro. Quando a Gerusalemme la svalutazione delle proprietà terriere era al culmine, Geremia fece un gesto in contraddizione rispetto al processo inflazionistico, che spingeva tutti a vendere: comprò un campo e pubblicamente stese un atto notarile di compravendita (i profeti annunciavano la Parola di Dio non solo vocalmente, ma anche con azioni simboliche). Davanti alla meraviglia di tutti di fronte al suo gesto, Geremia disse: « Verrà quel giorno in cui si compreranno campi in questo paese, di cui voi dite: « È una desolazione, senza uomini e senza bestiame, abbandonato in potere dei Caldei. Si compreranno campi con denaro, si stenderanno dei contratti e si sigilleranno… » (32-43-44). Geremia annuncia la speranza in un momento di desolazione.
Ezechiele viveva con gli esuli, perché faceva parte della classe sacerdotale di Gerusalemme. La sua parola però risuonava in esilio. Ha una visione di una valle piena di ossa aride; da Dio riceve l’ordine di profetizzare su quelle ossa, cioè di dire la Parola di Dio. Sotto l’effetto della Parola di Dio pronunciata dal profeta, il popolo si rialza, ma non può ancora camminare. Allora Dio dà ad Ezechiele il secondo ordine, di dire a quelle ossa aride: « Io mando il mio Spirito che è soffio di vita ». La parola profetica di Ezechiele annuncia la rianimazione delle ossa aride e lo scoprimento dei sepolcri. Su questa sponda del fiume di Babilonia nasce la pianticella di speranza per bocca di Geremia ed Ezechiele.

Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza contro ogni motivo di disfattismo, di disperazione. Ancora una volta è una speranza contraddittoria rispetto allo status quo; è speranza di resurrezione di un popolo.
- Mentre la storia di Abramo è la storia di un credente (anche se il prototipo di tutti i credenti) la parola di Geremia ed Ezechiele presenta una speranza comunitaria, di popolo.
- È una speranza sostenuta sia dalla Parola di Dio (che rimette in piedi, ma non fa muovere), sia, in un secondo momento, dallo Spirito di Dio (che è il principio creativo). La speranza presentata dai profeti non equivale ad un programma per il futuro, da realizzare più o meno volontaristicamente, ma nasce in un campo di lotta tra forze di rassegnazione e forze vivificanti, dello Spirito. Speranza, nella bibbia, è sinonimo di dinamismo, di creazione, di movimento. La speranza è una bandiera puntata sul campo di lotta che in noi e intorno a noi. Le forze vivificanti sono forze donate da Dio, che è lo Spirito: perciò sono forze di vita, di resurrezione. La speranza si gioca nella lotta. Non è attendere comodamente che piova la manna dal cielo: è la speranza dei combattenti che si appoggiano alla forza della Parola di Dio. Questa è forza che produce fiducia, che fa passare alla speranza; è energia, è come una pioggia, che risale al cielo non senza aver fecondato il campo; è creatrice, suscitatrice di essere dove non c’è essere. Parola e Spirito di Dio nella bibbia sono sempre coniugate come forze operative, creatrici. Giovanni: la Parola è energia creatrice solo se animata dallo Spirito.
- La speranza, in quanto si appoggia allo Spirito di Dio, alle forze creatrici, è una forza creatrice del nuovo. La storia del popolo di Dio, così come viene interpretata dai profeti, è storia contraddittoria, perché da una parte c’è la speranza di Dio e dall’altra parte c’è la delusione, poiché la storia non realizza mai i grandi sogni di speranza. Tuttavia dalla delusione non nasce la rassegnazione, ma un rilancio di speranza. Poi subentrerà una nuova delusione, ma il rilancio di speranza continua. Isaia, in una situazione di delusione, rilancia la speranza. Promette in nome di Dio la creazione di qualcosa di nuovo. « Non abbiate nostalgia del passato: Io, Dio, sto per creare cose nuove ». Scrive Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (1, 20): « Tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate ‘sì’ « . Il rilancio della speranza dopo Cristo è un rilancio della speranza per coloro che solidarizzano con Cristo.
- Lo Spirito di Dio sostiene questa speranza che è forza creazionistica. Lo Spirito di Dio non va inteso in termini trascendentalistici: al contrario, è una realtà che ci è donata, che è in noi, che è operante in noi. Dio promette: Io darò il mio Spirito al popolo. La speranza assume il volto della disponibilità allo Spirito, del fare spazio all’azione dello Spirito che è in noi.

3. Paolo fa della speranza il tema specifico della sua teologia
Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 14-18)
Paolo risponde ai quesiti che gli pone la comunità di Tessalonica (che noi dobbiamo ricostruire sulla base della risposta di Paolo). È convinzione comune tra i cristiani, in questi primi anni dalla morte di Gesù (neanche vent’anni dopo la sua morte), che Cristo ritornerà a brevissima distanza di tempo a chiudere la storia. Il suo ritorno provocherà il rapimento dei credenti nel cielo. Questi non passeranno attraverso la morte perché, essendo risorto Cristo, non c’è più morte, si pensa, ma solo un passaggio da questo all’altro mondo. Accade che a Tessalonica avvengano alcuni decessi: si crede allora che queste persone morte siano ormai perdute, non possano essere più salvate. La comunità giace nella desolazione, nell’abbattimento, che nasce appunto dalla perdita di speranza nel destino dei morti. Ma i cristiani di Tessalonica sono nella desolazione anche per se stessi. Si chiedono infatti: « Se morissi anch’io prima del ritorno di Cristo? Anch’io avrei questo destino di perdizione. » Paolo dice loro che si comportano « come coloro che non hanno speranza », cioè come i pagani. Questa è la sua prima risposta: « Come crediamo che Gesù è morto e resuscitato, così anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li radunerà con Lui » (versetto 14). Paolo si appella alla fede cristiana nella resurrezione di Cristo: Dio ha resuscitato Cristo, cioè ha vinto la morte a favore di Cristo, ne consegue la speranza nella comunione nostra con Cristo. La speranza, cioè, nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo, nell’intervento di Dio che ha vinto la morte in Cristo. È una speranza che poggia sulla solidarietà nostra con Cristo. È Cristo risorto il motivo della nostra speranza. In questo solidarizziamo con Lui nella fede, possiamo sperare. Non più abbattimento, ma consolazione, o meglio incoraggiamento. Paolo entra poi nel problema di quelli che sono morti e di quelli che sono ancora vivi: « … noi, i vivi, non saremo avvantaggiati su quelli che si sono addormentati. Perché il Signore stesso, a un cenno, alla voce di arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole… »

Alcune riflessioni:
- Esiste un legame molto stretto tra fede e speranza. La speranza è una possibilità che nasce dalla fede, non da una visione ottimistica delle cose; la speranza cristiana si fonda sull’adesione al Cristo risorto, non su una concezione filosofica o antropologica della realtà. Ciò vuol dire che la speranza cristiana ha una dimensione cristologica, è speranza in Cristo come fonte di aggregazione (Cristo risorto che aggrega a sé i credenti nella resurrezione). La speranza cristiana è quel movimento per cui scopriamo, nella fede, la dimensione di promessa che ha l’Evento (la resurrezione di Cristo). È evento avvenuto, per Cristo e promessa di realizzazione per noi. La speranza scaturisce da un Evento, si compie unicamente nella fede.
- I contenuti obiettivi della speranza (in cosa speriamo). Paolo conclude: « e così saremo sempre con il Signore ». Questo è il contenuto: la comunione con il Signore. La speranza dona a questa comunione il carattere di indefettibilità: sarà comunione per sempre, totale. L’oggetto della speranza è una realtà interpersonale (Gesù). Il soggetto è il noi della comunità cristiana: noi saremo sempre con il Signore.

Prima lettera ai Corinzi (cap. 15).
A Corinto c’era una vivace minoranza di credenti, che interpretava la salvezza di Cristo in termini di attualismo e di spiritualismo. Non credeva nella resurrezione futura e corporea: la resurrezione è già avvenuta (attualismo) e riguarda l’io interiore (spiritualismo). Il legame con la storia, con il mondo, con il tempo, c’è ancora, ma esso non è determinante. Davanti a quest’interpretazione massimalistica, di « fuga in avanti », Paolo dice:
1) la salvezza, la resurrezione, non sono attuali, ma future. Non siamo ancora risorti.
2) la resurrezione che attendiamo è corporea.
Paolo fonda la resurrezione futura e corporea rifacendosi a Cristo: Cristo è risorto (lo crediamo e lo predichiamo), perciò i credenti resusciteranno. Pone un rapporto tra evento e promessa. Se i morti in Cristo non resuscitano, allora neppure Cristo è risuscitato. Perché questo legame tra Cristo e la resurrezione futura dei credenti? Perché Cristo è resuscitato non come caso sporadico ed eccezionale, ma come primizia; come primo, non come unico. Ci sono i secondi, e siamo noi i secondi. Ma l’immagine della primizia fa pensare ad una successione cronologica: al contrario, il legame tra Cristo e noi è più profondo di una successione cronologica. Infatti a questa immagine segue quella del Cristo risorto come nuovo Adamo. Adamo rappresenta un individuo e insieme il genere umano. Tre sono i rapporti tra Cristo (l’Evento) e l’evento promesso per noi:
- prima lui, poi noi;
- come lui, così noi (a sua immagine)
- noi in forza di lui (lui è il resuscitato che resuscita noi).
Cristo è risorto come primizia, immagine esemplare per noi, principio di resurrezione per noi, per cui l’evento della resurrezione di Cristo comporta la promessa di resurrezione per noi. La speranza nasce da questa solidarietà tra Cristo e noi. Da ciò comprendiamo come Cristo sia la nostra salvezza. Cristo è un individuo singolo, ma occupa nella storia della salvezza un posto unico: quella di avere una funzione per gli altri uomini. Cristo è il principio di una nuova umanità. Cristo, il nuovo Adamo, per l’umanità significa speranza. L’evento di Cristo è promessa per noi.
Da questa lettera di Paolo emerge anche il tema della resurrezione corporea. Per corpo qui si intende non la parte materiale contrapposta allo spirito, ma tutto l’uomo in quanto si apre, si relaziona a Dio, agli altri, al mondo. La resurrezione dei corpi interessa l’uomo come soggetto relazionale, comunicativo, in rapporto agli altri, a Dio, al mondo. Paolo declina i contenuti della speranza in chiave personalistica. La speranza riguarda l’uomo come persona, nella sua comunicatività, relazionalità. La solidarietà dell’uomo è il suo rapporto con gli altri, la sua mondanità è il suo rapporto nel mondo.
La speranza cristiana di Paolo è in antitesi con la speranza del mondo greco. Questa si basa sull’abbandono del mondo, sull’esilio dal mondo. In Paolo la mondanità è intensificata, è oggetto di speranza, nel senso della sua piena realizzazione. Dice Paolo che i corpi resuscitati saranno corpi spirituali: è la corporeità invasa e pervasa dallo Spirito di Dio, il principio della creatività. L’uomo spiritualizzato non è l’uomo tolto dalla storicità, ma è l’uomo in cui la mondanità raggiunge la sua pienezza e purezza in forza dello Spirito. L’uomo vive in questo mondo, è persona a questo mondo.

Lettera ai Romani (8, 18-25)
Al presente, l’intero mondo creato è in attesa del riscatto, della redenzione. Al presente, geme nella sofferenza « e soffre nelle doglie del parto »: sono i dolori che preparano una nuova nascita, dolori pieni di vita, di una nuova vita, anche se a caro prezzo. Anche noi credenti gemiamo come il mondo: i cristiani non rappresentano il piccolo numero degli arrivati, ma sono integrati perfettamente nel gemito. Gemono nell’attesa del riscatto della loro corporeità, mondanità. In questo testo c’è la negazione del tentativo di fare della comunità cristiana un luogo a parte, di privilegiati, di esseri in stato di possesso, mentre il resto dell’umanità è in stato di ricerca. I credenti sono solidali con il mondo nel gemito, nella sofferenza, nel dubbio, nella disperazione. Ma sono i dolori della nuova nascita. Allora speranza vuol dire « attendere con costanza ». La « upomoné » (pazienza) significa stare sotto senza piegare le ginocchia, sopportare un peso, ma senza arrendersi. Esige perciò la costanza, il tener duro, il non arrendersi nella lotta delle doglie. La speranza è un tener duro in un contesto di gemiti, di doglie del parto. La costanza è l’agire in condizioni difficilissime, senza cedere, è la resistenza. I credenti che sono quelli che sperano, in opposizione ai pagani, sono i resistenti nella storia, coloro che non si arrendono. Questa è la speranza. La speranza non è semplice: le pianticelle cresciute senza sforzo si rivelano speranze con frutti non buoni. L’unica speranza è la speranza dei crocefissi, la speranza che nasce all’ombra della croce.

4. la speranza di Gesù
a) nella sua vita, nella sua missione
Un dato certo è che Gesù ha incentrato la sua missione profetica nell’annuncio imminente del Regno di Dio. « Regno di Dio » è un’espressione peculiare della tradizione giudaica per dire che Dio si fa re. Il Regno di Dio è la regalità di Dio, non il territorio in cui Dio regna. L’antico Israele, come altri popoli, aveva una particolare ideologia regale: il re è anche l’istanza suprema di difesa, di giustizia nei confronti di coloro che non ne hanno nella società. La giustizia del re (da distinguere da quella della magistratura) è partigiana, sempre a favore dell’oppresso, del povero, dell’indifeso. La monarchia di Israele non soddisfece le attese dei poveri, perciò essi proiettarono la loro speranza in Dio re, nel Regno di Dio. Gesù si innesta in questo filone di attese dei poveri che Dio si faccia re e ne annuncia l’imminenza. Non è più un’attesa a lunga scadenza, ma ormai Dio bussa alla porta della storia. Gesù ha avuto coscienza di rappresentare nella storia questo momento in cui Dio re sta per entrare nella storia a rendere giustizia. Ma Gesù non si limita a proclamare quest’imminenza: egli proclama beati i beneficiari di Dio re.
« Beati gli umili, perché di loro è il Regno dei Cieli » (Matteo 5, 3). « Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli » (Luca, 6,20). La beatitudine è una proclamazione di felicità: fortunati voi. In questa proclamazione, Gesù si felicita con i poveri. È paradossale che Gesù si feliciti con i poveri, cioè con quelli che non hanno potere nella storia, gli emarginati, i disperati. Per quale motivo? Non perché gli emarginati sono i più disponibili al suo annuncio, al Regno di Dio, ma perché Dio sta per diventare re a loro favore. Sta per venire il giorno in cui i poveri non saranno più tali, perché Dio farà giustizia. Dio è a loro favore con la sua giustizia partigiana. Gesù si congratula per questo, c’è la sua partecipazione.
Ma Gesù non si limita a congratularsi, opera per la venuta del Regno, apre la porta attraverso la quale Dio entra nella storia come re. Nella missione di Gesù, una delle caratteristiche peculiari, è la guarigione degli indemoniati. Gli indemoniati erano persone con malattie psichiche, nella cultura di allora attribuite ad un possesso demoniaco, non potendo dare di esse una spiegazione scientifica. Gli avversari di Gesù attribuivano la sua attività sdemonizzatrice in senso malevolo, demoniaco. Rispondeva Gesù: « Ma se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora il Regno di Dio è già venuto fra voi » (Matteo 12, 28). La versione di Luca è più primitiva: « Ma se io scaccio i demoni col dito di Dio, è dunque venuto tra voi il Regno di Dio ». Il Regno di Dio comincia realmente a germinare nella storia attraverso l’azione di Gesù. Dio si fa re nella storia, è Lui che viene a rendere giustizia, ma non interviene immediatamente, bensì mediante l’azione di un uomo. Il Regno di Dio è una svolta rivoluzionaria come appare nelle parabole di Gesù cosiddette della crisi (le parabole del seminatore, della zizzania, del grano di senape), raccontate da Gesù in un momento in cui la gente, dopo un grande entusiasmo iniziale, iniziò a dubitare della venuta del Regno, non vedendo quel cambiamento in cui aveva sperato. Gesù, con queste parabole, voleva recuperare credibilità nei suoi ascoltatori. La parabola del seminatore ci dice che la missione di Gesù è esposta allo scacco, alla frustrazione, ma alla fine un quarto del suo annuncio porta frutto. Il piccolissimo granello di senape rappresenta il Regno che comincia a germinare nella storia, mentre l’albero derivato da quel granello è il Regno nella sua esplosione ultima.
La speranza di Gesù è operativa. È una speranza che lo fa mediatore di questo anticipo reale, anche se parziale. La speranza di Gesù è una speranza riposta in Dio re. Se Dio è re, Gesù non è ancora quello che sarà, perché non è ancora diventato re, lo sarà alla fine, ma comincia ad essere nella storia quello che sarà rendendo giustizia. La speranza è speranza nella pienezza dell’essere degli uomini, correlativa alla speranza nella pienezza dell’essere di Dio. Speriamo di essere nella pienezza e speriamo che Dio sia anch’egli nella pienezza come re.
La missione di Cristo si prolunga nella missione della comunità dei discepoli di Cristo. La speranza di Dio divenuto re a favore dei poveri dipende da questa mediazione storica. Dio si è legato a Cristo per diventare Lui re a beneficio dei poveri. La speranza è finalizzata alla piena realizzazione della realtà finale, però questa realtà escatologica è connessa con la sua validità per la storia. La speranza nella sua profondità escatologica diventa credibile solo se riesce ad anticipare realmente questa esplosione ultima nella storia, se pure solo parzialmente. È proprio per questa anticipazione che si può sperare nella realtà finale. Bisogna far germinare il Regno, portare nella storia i segni del Regno.

b) nella sua morte in croce.
Gesù si accorse che lo stavano condannando a morte. Pensò anche che il suo destino fosse simile a quello del servo di Dio (Isaia, capitoli 52 e 53), che subisce passione e morte violenta e attraverso essa rende riscatto al popolo e che sarà glorificato da Dio nella morte. Gesù andò incontro alla morte nella speranza che Dio gli avrebbe reso giustizia. Si affidò a Dio (« Nelle tue mani consegno la mia vita »). Gesù morì in croce con la speranza in Dio.
La speranza cristiana è la speranza dei crocifissi, che nasce all’ombra della croce, nascosta nei fori dei chiodi che trafissero Gesù. La speranza dei crocifissi è una speranza nell’impotenza, nella frustrazione estrema. Ma la speranza all’ombra della croce non è la speranza di chi si dimette dai suoi compiti, di chi si rassegna nella storia, di chi si abbandona a Dio. La croce, al contrario, significa lotta, azione nella storia, ma lotta da poveri, da crocifissi. Gesù è morto in piedi sulla croce. Non è sceso a compromessi, ma si è battuto bene, fino alla fine; però si è battuto da povero, da uomo qualunque, non da forte, perché questa sarebbe stata una speranza satanica. Gesù non è venuto meno nel suo battersi, nel senso che è morto in piedi contestando le forze che lo stavano schiacciando. Non scendendo a compromesso, non gettando le armi, ha tolto la maschera a queste forze: sono forze violenti, più forti di Gesù, ma non onnipotenti, perché non riescono a firmare l’atto di resa. Finché ci sono i resistenti, le forze della morte sono battibili, la lotta va avanti. E’ una lotta tra forze non onnipotenti. La speranza è la lotta che continua, è il risorgere della lotta.
La Croce significa morte dei sogni di onnipotenza dell’uomo. Essa annulla la pretesa dell’uomo di giocare nella storia da superuomo. Chi più di Gesù poteva giocare da Figlio di Dio nella storia? C’è un modo demoniaco di confessare Gesù Figlio di Dio: quello che esce dalla bocca dei demoni. Al contrario il centurione confessa questo guardando la Croce. È l’ombra della Croce che rende vera la figliolanza di Dio. Guardando la Croce, non c’è più l’equivoco di costituirsi come comunità messianica potente nella storia. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che non risparmia la morte a suo figlio e quindi a noi, suoi figli. È speranza in un Dio neppure Lui onnipotente nella storia. Non è stato potente a liberare Gesù dai suoi nemici. Dio non ha liberato Gesù perché non ha potuto, non perché non ha voluto: sarebbe un Dio malvagio se, potendo liberare suo figlio, non lo facesse.
Gli uomini hanno sempre sognato l’onnipotenza; ma, di fronte alle frustrazioni, ammettono realisticamente di non essere onnipotenti. Tuttavia trasferiscono in Dio questo loro sogno di onnipotenza. « Se non sono io onnipotente, lo sia almeno Dio. Io lo prego e ho a disposizione un Dio onnipotente ». Il Dio di Gesù sconvolge questa immagine di Dio: sulla Croce di Gesù, con il Figlio di Dio che muore crocifisso, muore quest’immagine di Dio onnipotente. Dio si è battuto accanto a suo figlio, non da onnipotente, ma standogli accanto, morendo con Lui. Allo stesso modo, Dio si batte con noi nella storia, ma non ci rende più forti.
Ogni discorso su Dio parte da Gesù. In Gesù leggiamo il volto di Dio. Gesù è crocifisso: allora Dio è crocifisso. Se Dio non ha risparmiato la morte, ciò significa che è incapace di risparmiare la morte ai suoi. Dio è colui che resuscita, non colui che risparmia ai suoi, né colui che fa ai suoi sconti generosi di travaglio storico. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che resuscita. Non ha risparmiato la morte a Gesù, ma lo ha resuscitato. Questo Dio che resuscita è il modo di Dio di essere presente nella storia oggi. Dio non è vincente, perché se Cristo è battuto, Dio è battuto in Cristo. Ma Cristo resuscita, Dio resuscita in Cristo: cioè, la sconfitta non è definitiva, non è ultima. La lotta continua. Cristo resuscita, si batte di nuovo, esce vivo, più vivo di prima, anche se la vitalità di Dio nella storia è ancora debole. Quando l’ultimo nemico sarà vinto e anche la morte sarà vinta, allora Gesù sarà diventato re, anche lui si assoggetterà a Dio e Dio sarà il re. Davanti ai fallimenti storici diciamo: questo fallimento è una lotta perduta, ma non perduta totalmente, perché la lotta rinasce di nuovo. Le resurrezioni storiche sono la lotta che non cessa. Finché ci si rialza, nella storia questa è la resurrezione. La speranza nasce dal disfacimento. La vita che si crea nella storia è resurrezione, nasce dalla morte con resurrezione. È una vita a caro prezzo, una vita che scaturisce dalle doglie. I dolori del parto producono vita; ma, in quanto dolori, sono dolori. Cristo ha dato la sua vita perché noi abbiamo la vita. La vita scaturisce da questo dare la vita, non nel senso materiale del morire. Lottare fino all’estremo produce germi di resurrezione. Il Dio di Gesù benedisse « il maledetto » resuscitandolo. Quando gli apostoli si accorsero che Dio aveva resuscitato Gesù, dissero: il Dio di Gesù Cristo è colui che benedice i crocifissi, è il Dio che sale il Golgota insieme con i crocifissi. Dio è il custode, l’alleato dell’uomo, è colui che cammina con l’uomo, non rendendolo per questo più forte, ma stando accanto a lui. L’uomo, cosciente di avere Dio accanto, si batte e Dio si batte con l’uomo. I grandi sogni del ’68, le grandi speranze troppo facili coltivate in certe comunità cristiane, cedono il posto alla speranza all’ombra della Croce, che sta nei fori lasciati dai chiodi di Gesù. Questa speranza lascia un vuoto, ma è proprio in questo vuoto che si annida la speranza. Le altre speranze sono più comode, esaltanti. Il Cristo risorto porta i segni del crocifisso: non è trionfante; sarà vincente alla fine, ma allo stato attuale si batte con i suoi e la lotta si trova nei fori dei chiodi della Croce.

AGOSTINO D’IPPONA: SANGUE SPARSO – Vittorino Grossi, osa

http://www.csscro.it/

AGOSTINO D’IPPONA: SANGUE SPARSO

Vittorino Grossi, osa

(Vittorino Grossi è stato mio professore, non è molto importante, ma mi fa piacere presentarvi qualcosa di suo)

SOMMARIO
1. La morte di Cristo.
2. « Il sangue sparso » e i sacramenti.
3. « Sangue sparso-remissione dei peccati » (La II Penitenza).
4. Il « sangue sparso » e la celebrazione eucaristica.
5. Conclusioni.
Note
Bibliografia

Il tema del « sangue sparso » era molto comune nell’antichità cristiana fin dai tempi subapostolici. Lo esaminiamo soprattutto nel Commento di s. Agostino al Vangelo di Giovanni. Esso rappresenta, nell’opera agostiniana, un ampio arco di tempo (dal 406 al 418), e riflette perciò le linee del pensiero di Agostino relativo sia alla polemica donatista che a quella pelagiana. La polemica donatista approfondì la natura essenziale circa le questioni sacramentarie. Un sacramento, ne fu la conclusione, è della Chiesa, ne è essa il ministro, perciò a nessuna persona singola è concesso sia di monopolizzarlo che di manipolarlo. La polemica pelagiana approfondì l’universalità della redenzione. Cristo, cioè, ha sparso il suo sangue per tutti e non solo per una classe di uomini, gli adulti, che sarebbero in possesso di una supposta coscienza sviluppata e perciò responsabili del loro agire, escludendo di conseguenza i menomati psichici e in particolare i bambini.
Nella questione del « sangue di Gesù » si ha quindi, nel Commento a Giovanni, l’intreccio della questione sacramentaria con quella più generale della « morte di Cristo », cioè le ragioni soteriologiche. Il « sangue sparso » era già, ai tempi di Agostino, un’espressione tecnica per significare la morte. Questa riceve significato dal come e dal perché la si accetta. Cristo poteva dare e diede significato alla sua morte, constatata come quella di tutti che avvenne, tra l’altro, con una grande dispersione di sangue. Morire perciò fu per lui anche uno « spargere sangue » fisicamente, sino a non averne più, morì
cioè anche lui. Agostino, d’altra parte, visse in un momento storico in cui le città romane, sottoposte ad assedi e occupazioni da parte di popoli invasori, venivano spesso lasciate intrise di tanto sangue umano. Il sangue sparso degli uomini ritrovava allora nella riflessione di Agostino un suo significato nel « sangue sparso » di Cristo. Egli perciò nel Tractatus in lohannem (cfr 119, 4) parla della morte che, in Cristo, riceve significato dall’umiltà di accettarla (cfr 119, 4); ne parla come vita perché in Cristo si tratta della morte del re delle genti (cfr 117, 5). Morendo lui vivono gli altri, perché Cristo rappresenta l’uomo che, pur morendo, non muore; l’uomo che, se muore lui, muoiono tutti. Parlando della morte di Cristo si parla perciò della « potenza della sua morte » e non della sua disfatta a causa della morte, così come abitualmente si dice della morte di tutti (cfr 31, 6).

1. LA MORTE DI CRISTO
La morte di Cristo è vista da Agostino come espressione di somma libertà per lui e di speranza per l’umanità di non sottostare più alla condanna di dover morire. La morte del Signore non fu cioè frutto di un destino segnato, da capire all’interno del fatum pagano, ma frutto ed espressione di una libertà somma. Cristo infatti, per Agostino, non subì la morte, ma l’aspettò come aveva atteso il tempo della sua nascita tra gli uomini (cfr Gv 7,30). Al concetto « agostiniano » di redenzione è perciò non solo necessaria, ma inerente la componente libertà. Il valore degli atti umani si misura sulla dimensione della libertà che in Cristo fu somma. Il sangue versato da Cristo non va valutato sul piano meramente fisiologico, quasi esso abbia valore in quanto tale, bensì quale sangue versato, cioè di vita donata. È questo un primo elemento per comprendere il sangue legato a una redenzione, anzi la semantica stessa del « sangue sparso » di Cristo include in Agostino tale nozione. La morte cruenta del Figlio di Dio è pertanto da leggersi nella sua vita non come un epilogo di nascita-crescita-morte, bensì nell’ambito della missione che doveva compiere.
Da tale base Agostino fa derivare la speranza umana di non disperare più di dover vagare lontano da Dio, anche per coloro stessi che lo uccisero. Cristo infatti cancellò sulla croce la sentenza di morte che gravava sull’umanità: morrete nel vostro peccato (Gv 8, 24). Egli, facendone un’applicazione alla comunione eucaristica, si esprime così: (Cristo) non considerava che riceveva la morte da loro, ma che moriva per loro. È così grande il favore ad essi accordato con la morte di Cristo, da loro inflitta e per loro accettata, che nessuno deve disperare per la remissione dei propri peccati… Continuarono (coloro che l’uccisero) a disperare nella loro salvezza, finché non bevvero il sangue che avevano versato (In Johannis Evangelium tractatus, 32, 9)… (Cristo) li richiamò alla speranza… Ridonò la speranza a chi l’aveva perduta… perfino a chi aveva ucciso Cristo… molti credettero, ricevettero il sangue di Cristo come dono affinchè, bevendolo, ottenessero la liberazione invece che essere condannati per la colpa di averlo versato: chi potrà dunque disperare? (Ib., 38, 7). La speranza è per tutti perché Cristo è morto per tutti, come venne indicato nel titolo di re appeso sul legno della croce. Se non si può alterare – si chiede Agostino – ciò che Pilato ha scritto, si potrà alterare ciò che la Verità ha detto? E poi Cristo è re soltanto dei Giudei o anche di tutte le genti? È certamente re di tutte le genti… Cristo dunque è il re dei Giudei, ma dei Giudei circoncisi nel cuore, secondo lo spirito e non secondo la lettera; è il re di coloro che traggono la loro gloria non dagli uomini ma da Dio, che appartengono alla Gerusalemme che è libera, che è la nostra madre celeste (Ih., 117, 5; vedi anche sul significato di Cristo « Re dei Giudei »: ib., 51, 4 e 9; Enarra-tiones in psalmos, 59, 9).

2. « IL SANGUE SPARSO » E I SACRAMENTI
Il rapporto tra il sangue versato sulla croce, in particolare quello uscito dal costato di Cristo secondo il racconto di Gv 19, 34, e i sacramenti, è preso in considerazione da Agostino nella sua omelia 120 del Commento a Giovanni, da datarsi dopo il 416. Al centro della riflessione di Agostino vi è Cristo redentore in primo luogo, e quindi, in secondo luogo, la Chiesa e i sacramenti. Il sangue di Cristo, uscito dal suo costato, ferito dalla lancia del soldato romano, costituisce ora il punto di partenza per decifrare sia la Chiesa che i suoi sacramenti.
Nell’ottica antidonatista Agostino articolava così il suo discorso soteriologico: i sacramenti della Chiesa operano ciò che significano e indipendentemente da chi li pone. Essi infatti non sono dei segni falsi e hanno valore perché Cristo è presente nel ministero di chi li pone. Emerge in questo modo di ragionare la centralità della Chiesa e quella di Cristo attraverso la mediazione dei segni sacri della Chiesa, vale a dire dei sacramenti. Ora invece, nell’omelia 120 del Commento a Giovanni, emerge sovrana la centralità del sangue di Cristo, dal quale traggono valore e comprensione la Chiesa e i suoi sacramenti. Agostino vuol rilevare l’universalità di Cristo redentore e come ogni efficacia di tale redenzione trae origine dal sangue versato sulla croce.
Ascoltiamone prima il testo principale e quindi daremo qualche rilievo di natura ecclesiologica e sacramentaria. Nel costato di Cristo, scrive Agostino, fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa… Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati; quell’acqua tempera il calice della salvezza e e insieme bevanda e lavacro… Il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l’acqua che sgorgarono dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c’è di più puro di questo sangue? Che cosa c’è di più salutare di questa ferita? (In lohannis, o. e., 120, 2)1.

La Chiesa, secondo questo testo, nasce dal costato aperto di Cristo come da una porta, simile a Eva uscita dal fianco di Adamo assopito. L’immagine di Chiesa che ne risulta non è quella di una società già formata che vive della redenzione e dei sacramenti datile da Cristo, perché giunga alla vita eterna. La Chiesa sono gli uomini che, toccati dal Cristo redentore, escono dal suo fianco. Quel fiotto di sangue, che fluisce dal costato di Cristo, è la Chiesa, cioè gli uomini che, passando attraverso quel fiotto di sangue e acqua, la costituiscono. I redenti perciò non dicono riferimento immediato alla Chiesa ma a Cristo e, passando attraverso di lui, la sua passione, il suo sangue, formano e generano la Chiesa. È lui il primo, la Chiesa nasce da lui2. La porta di salvezza degli uomini e quindi della stessa Chiesa è primieramente il costato di Cristo e non i sacramenti, che sono invece la mediazione nata da quel sangue.
Agostino, nella medesima omelia, indica anche la dimensione di comprensione di tale realtà. Essa è la fede rivelataci dalle Scritture che, in Cristo, trovano il loro compimento (cfr ìb., 120, 3). L’approfondimento della fede egli lo sviluppa in modo particolare relazionandolo al battesimo. La stessa acqua battesimale deriva la sua virtus di purificazione dalla parola della fede e ciò sia per il bambino che per l’adulto3.

3. « SANGUE SPARSO-REMISSIONE DEI PECCATI »
(LA II PENITENZA)
Quanto a un esame in Agostino del binomio « sangue sparso-remissione dei peccati », considerato non a sé ma quale testimonianza della vita ecclesiale della fine del sec. IV e la prima metà del sec. V, va anzitutto rilevato come lui, in questioni riguardanti i misteri cristiani, avesse un istinto teologico tale che gli consentiva di non isolare per settori gli aspetti più diversi, percepiva i « frammenti cristiani » sempre all’interno di un tutto, che decifrava nel Cristo redentore, unico mediatore (la filigrana delle Confessioni e della Città di Dio). Tutto ciò fu in lui particolarmente vero a proposito della remissione dei peccati che, al suo tempo, conosceva un triplice modo di perdono: il battesimo (dato semel), la preghiera del Padre nostro considerata battesimo quotidiano, la « seconda penitenza » che, nella linea battesimale, veniva data una sola volta in vita. Agostino, pur attestandosi sulla prassi tradizionale del semel, immise in essa elementi che consentirono di superare i limiti connaturali alla regola di poterne usufruire una sola volta4.
Agostino pone la fondazione teologica del perdono nella Chiesa in una triade di natura sua non separabile: « sangue di Cristo, Spirito Santo e Chiesa ».
Il « sangue di Cristo », formula equivalente di quella tradizionale « sangue sparso », costituisce la radice del tutto; lo Spirito Santo mette in atto il perdono, cioè, come si esprimeva già Clemente Alessandrino, il sangue di Cristo diviene sangue spirituale per gli uomini. Il perdono, in altri termini, è il frutto che gli uomini colgono dall’albero della redenzione. Ciò viene reso possibile nella Chiesa, « luogo dello Spirito » secondo la tradizione asiatica accolta da quella africana, ma anche mediazione ministeriale perché a lei, a tale scopo, sono state date le chiavi del regno dei deli5.
Nel sermone sulla trasmissione del simbolo (il 214, datato nella quaresima del 391), Agostino, prete da poco tempo, spiega l’articolo « credo nella remissione dei peccati », sintetizzando la questione nel modo seguente: La Chiesa del Dio vivo… ha ricevuto le chiavi del regno dei deli, affinchè in essa, per mezzo del sangue di Cristo, operante lo Spirito Santo, ci sia la remissione dei peccati (Sermones, 214,11). È questo un principio teologico che tiene presente l’insieme degli elementi riguardanti la remissione dei peccati. Agostino infatti colloca il perdono nella terza parte del simbolo, rispettandone l’articolazione, che era costruita sullo Spirito Santo; il quale nella Chiesa opera la remissione dei peccati, ma lo riannoda al sangue di Cristo che ne è la radice. A proposito di alcuni che facevano una catechesi parziale al riguardo, egli si chiede: Niente sullo Spirito Santo, niente sulla santa Chiesa, niente sulla remissione dei peccati? (De fide et operibus, 9,14).
Una questione connessa con la remissione dei peccati, oggi molto sentita pastoralmente, e che anche teologicamente inizia a essere sottoposta a una più attenta riflessione, riguarda l’ampiezza concreta accordata ai cristiani nell’antichità in occasione di gravi fallimenti spirituali. Già al tempo di Cipria-nò correnti rigoriste all’interno della « Cattolica » non accordavano la pace agli adulteri impedendo loro, di conseguenza, di accedere alla penitenza. Si adduceva la ragione che il perdono non costituisse motivo d’incitamento al crimine piuttosto che di allontanamento. Tertulliano montanista aveva formulato la regola nel modo seguente: La Chiesa può condonare un delitto, ma io (il Paraclito) non lo farò, affinchè altri non pecchino ulteriormente (De pudicitia, 21).
Al tempo di Agostino, verso il 396, esistevano ancora alcuni che negavano alla Chiesa il potere di remissione di ogni peccato (cfr De agone christiano, 31, 33). Quanto all’estensione di tale perdono egli ne indica la fonte nel Cristo morente sulla croce il cui sangue versato per la remissione dei peccati… è insieme bevanda e lavacro (In lohannis, o. c., 120, 2), e nel donarsi dello Spirito Santo che opera ogni remissione6.
Il vescovo d’Ippona ebbe chiara l’idea che la causa della riconciliazione è sempre la medesima in ogni modalità penitenziale 7; sul piano pratico, tuttavia, non si nascondeva la difficoltà che paragonava all’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi.
Scrivendo all’amico Paolino di Noia si confidava: Che dire, Paolino, del problema se si debba punire o meno… occorre tener presente non solo la natura e il numero delle colpe, ma anche la forza d’animo con cui uno sopporta o rifiuta il castigo, affinchè ne ritragga vantaggio o almeno non ne ricavi uno svantaggio. Quanto è misterioso tutto ciò… Quanto a me ti confesso che mi succede di sbagliare ogni giorno. Anche quando pare doveroso giudicare, quale ansia, quale angoscia (Epistulae, 95, 3)!
Nei testi penitenziali agostiniani possiamo cogliere alcune linee fondamentali che trovano la loro giustificazione nell’unica causa della riconciliazione: « il sangue versato sulla croce ». Tali linee sono:
1. Nessun crimine è sottratto al perdono della Chiesa. Egli scrive: L’impudicizia, l’idolatria e l’omicidio vengono puniti con scomuniche finché si risanino per mezzo della penitenza la più umile (De fide et operibus, 19,34). Certamente quella penitenza sa di lutto. C’è una ferita grave: forse un adulterio, forse un omicidio, forse un sacrilegio. È una cosa grave, c’è una ferita grave, letale, mortifera, ma (c’è) anche un medico che può tutto (Sermones, 352, 2, 8).
2. La scomunica che s’infligge per determinati crimini non riveste un significato strettamente penale ma medicinale, essa è quindi tesa al ravvedimento e perciò può essere inflitta solo per un determinato tempo (cfr Sermones, 331): si ha pertanto sempre un legame tra la scomunica e la riconciliazione (cfr Epistulae, 265, 7).
3. Si tollera, anche se a malincuore, la situazione di chi non accetta la scomunica, che si comporta come se nulla fosse successo8; e di chi sia almeno disposto ad accettare una correzione alternativa a quella penitenziale pubblica (cfr Sermones, 82,3-7; Epistulae, 73,9; De fide et operibus, 26,48: quibusdam correptionum medicamentis).
Tale orientamento Agostino lo derivava da tre elementi presi nel loro insieme: a) l’autorità della Chiesa che ha sempre una finalità medicinale: la sua funzione è aiutare gli uomini a recuperarsi dai loro fallimenti; b) la misericordia di Dio verso l’uomo non conosce defettibilità, essa pertanto è nella Chiesa un elemento prioritario a ogni considerazione disciplinare (cfr Epistulae, 153, 3, 7), in modo particolare di fronte all’angoscia umana sotto l’impero del peccato; c) il cammino penitenziale di un credente coincide col suo cammino di fede, e questo si esperimenta come recupero della propria libertà perduta (cfr In lohannis, o. c., 41,10).
Agostino mise in pratica tali principi direttivi portando nell’ambito di una penitenza privata peccati che, secondo la tradizione, rientravano nell’iter penitenziale pubblico. In tal modo egli tenne fede alla prassi penitenziale pubblica che veniva contemplata semel, cioè una volta, ma mise anche le basi per essere perdonati e quindi non emarginati dalla comunità cristiana a motivo di nessun peccato, anche se ripetuto. La prassi della Chiesa raggiungeva così, di fatto, nel suo quotidiano, di godere del prezzo infinito del « sangue sparso » del Redentore. Se nei testi penitenziali a disposizione, per le ragioni che abbiamo visto, il binomio linguistico « sangue sparso-remissione dei peccati » non è presente in essi, sul piano della prassi esso, grazie anche all’azione pastorale e alla riflessione teologica di Agostino, ritrovava la sua unità inscin-dibile e originaria.

4. IL « SANGUE SPARSO » E LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA
Nel Commento di Agostino al Vangelo di Giovanni c’è tutto un blocco di testi che legano insieme, nella figura unificatrice dell’agnello pasquale e di agnello di Dio, la Pasqua degli Ebrei, la Pasqua del Signore, la Pasqua dei cristiani, la celebrazione eucaristica come Pasqua, nel significato di redenzione degli uomini.
Ci si trova dinanzi a termini ed espressioni come « morte, spargere il sangue, redimere, mangiare la carne, bere il sangue, divenire membra di Cristo », che costituiscono un insie
me semantico difficilmente separabile perché conglobano, allo stesso tempo, il dato storico del sangue di Cristo versato sulla croce e quello della celebrazione della Pasqua ebraica, il dato misterico di partecipazione alla Pasqua del sangue versato da Cristo e il dato soteriologico per coloro che credendo vi partecipano.
L’agnello pasquale che viene immolato costituisce il legame tra i vari momenti e modalità di una comune azione redentrice: come anticipazione e figura di Cristo immolato sulla croce (il vero agnello pasquale) nell’agnello della Pasqua ebraica; come partecipazione all’immolazione del vero agnello pasquale nella celebrazione eucaristica dei cristiani. Prima di avvicinare un po’ più da vicino i testi che ci interessano, riteniamo necessario precisare la sintesi operata da Agostino nella comprensione della Pasqua. Egli venne a trovarsi alla fine di un dissidio tra gli asiani e gli occidentali nel celebrare la Pasqua. Ce ne parla Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, V, 23-25. Le comunità cristiane dell’Asia minore erano di tradizione giovannea e di estrazione giudaica, legate perciò alla continuità del giudaismo col cristianesimo. Ciò si espresse in modo particolare nel celebrare la data della Pasqua il 14 di Nisan, il venerdì dell’immolazione dell’agnello pasquale, tanto che tali comunità vennero chiamate comunità della Pasqua quartodecimana. Il significato della Pasqua ebraica, ritualizzato nell’immolazione e nella manducazione dell’agnello, era nell’aspettativa del passaggio di Jahveh in mezzo al popolo mentre celebrava la Pasqua, del realizzarsi di una notte di luce divenuta armai giorno perenne. I cristiani di estrazione giudaica videro il realizzarsi di tale aspettativa nella morte di Gesù, lui il vero agnello pasquale che, con la sua passione, celebrò la Pasqua. La sua morte è luce e vita per tutti, così come era la dimensione della Pasqua ebraica.
Per associarsi a tale mistero di vita e di luce bisognava celebrare la Pasqua del Signore, e questa era la celebrazione eucaristica dei cristiani. Il venerdì di Passione era pertanto, per le comunità asiane, la celebrazione del giorno di Pasqua, che è vita e luce per l’umanità. Papa Vittore interdisse agli asiani la celebrazione di Pasqua il 14 Nisan. I motivi non sono ancora del tutto chiari. Il vescovo di Roma impose la data della do
menica dopo il plenilunio di primavera. Questa era la tradizione ancorata ai sinottici, che pongono di domenica il giorno della risurrezione del Signore, visto appunto come vita e luce. Era la Pasqua vista come « passaggio » secondo l’etimologia ebraica della parola Pasqua; quella quartodecimana derivava invece il suo significato dal greco « paskein » (patire). Nella Pasqua, ancorata ai sinottici, è un « passaggio » che crea la vita, la novità cristiana; nella Pasqua quartodecimana è invece il soffrire stesso del Signore, la sua morte, il suo spargimento di sangue, la sua sofferenza che si traduce in vita per tutti gli uomini che sono, secondo la visione dello Pseudo-Barnaba, « una terra che soffre » (Pseudo-Barnaba, 6, 2)9.
Agostino mise insieme i due grandi filoni di comprensione della Pasqua nelle comunità cristiane antiche. Tale fusione l’abbiamo nel suo Commento al Vangelo di Giovanni. Essa, tenuta presente, getta molta luce nella comprensione del suo pensiero soteriologico che si articola nel legame tra la Pasqua del Signore e quella dei cristiani. La Pasqua del Signore è il suo immolarsi, simile all’agnello pasquale degli Ebrei, la sua morte, il « sangue sparso » del Signore; la Pasqua dei cristiani è la celebrazione della loro eucaristia dove si beve il sangue del Signore. Bere il sangue del Signore è, per Agostino, « sperare, non essere più lontano, è vivere ». Ascoltiamo direttamente qualche testo.
Quello più esteso e comprensivo si ha nell’omelia 55: Pasqua, fratelli, – egli spiega – non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice ‘paskein’, per cui si è creduto che Pasqua volesse dire passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua lingua, l’ebraico, Pasqua vuoi dire ‘passaggio’, per la ragione che il popolo di Dio celebrò la Pasqua per la prima volta allorché, fuggendo dall’Egitto, passò il mar Rosso. Ora, però, quella figura profetica ha trovato il suo reale compimento quando il Cristo come pecora viene immolato, e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla schiavitù e dall’eccidio in Egitto; e celebriamo un passaggio sommamente salutare, quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall’instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno… Ecco la Pasqua, ecco il passaggio (In lohannis, o. c., 55,1)10.
Agostino, nel sottolineare il significato sacrificale redentivo della morte del Signore, in contesto di comprensione pasquale, usa il termine « immolare ». Nella linea della 1 Cor 5, 7 (Pascha nostrum immolatus est Christus) e nel contesto pasquale quartodecimano, traduce il pronuntiasse sententiam ‘Reus est mortis’ di Mt 26, 66 con pronuntiasse immolationem Domini Ofc.,117,2).
Il rapporto del sangue di Cristo con la Pasqua e con l’eucaristia Agostino lo sviluppa espressamente quando fa la trattazione sullo Ecce Agnus Dei di Gv 1, 35-36 nell’omelia settima. Egli, rilevata la singolarità dell’Agnello di Dio perché col suo sangue redime il mondo, ci dà il riferimento eucaristico oltre che nell’uso delle espressioni come « bere sangue », etc, nel racconto di un rito pagano, da lui riportatoci, che si celebrava in onore di Attis e di Cibele in coincidenza con l’equinozio di primavera conosciuto come « il giorno del sangue ». Tale rito consisteva nello strappare gli orecchini dai lobi auricolari di un donna. Lo strappo provocava un’uscita di sangue che, impregnando gli orecchini, li faceva aumentare di peso e quindi di prezzo. Al rito vi partecipavano, come è facile supporre, molte donne anche cristiane che, per l’occasione, disertavano la celebrazione eucaristica. Agostino, nella linea di un’antica tradizione apologetica, che vedeva i riti pagani come una scimmiottatura di quelli cristiani, giudica anche tale rito pagano un plagio della liturgia eucaristica durante la quale si offre il sangue dell’Agnello, il solo sangue versato capace di redenzione. E perché non si ponga il rito cristiano sulla medesima linea dei riti pagani, magici e superstiziosi, egli spiega il significato di fede del sangue versato dal Signore. Non è credere a un puro versare sangue, è cercare lui, è porre solo in lui le speranze del proprio destino. Ascoltiamo direttamente A-gostino (Ib.)\ Solo Cristo è l’agnello per eccellenza, è l’agnello di Dio perché in modo del tutto singolare solo col sangue di questo agnello gli uomini hanno potuto essere redenti (7,5)… Fratelli miei, se riconosciamo che il prezzo della nostra redenzione è il sangue dell’agnello, che dire di coloro che oggi celebrano la festa del sangue di non so quale donna?.. Se il sangue di una donna ha pesato tanto da inclinare il piatto della bilancia su cui stava l’oro, quale peso non avrà, per far pendere la bilancia dalla parte del mondo, il sangue dell’agnello per mezzo del quale il mondo è stato creato? … Quando venne il tempo della misericordia di Dio, venne l’Agnello… È davvero un grande spettacolo quello che si offre ai vostri occhi per tutta la terra… Ha cercato di scimmiottare questo rito quello spirito diabolico, il quale voleva che la sua immagine fosse acquistata a prezzo di sangue, perché sapeva che in definitiva il genere umano doveva essere redento col sangue prezioso (7, 6)… Non cercate dunque il Cristo in altro luogo, se non dove il Cristo ha voluto essere a voi annunziato; e proprio come ha voluto essere a voi annunziato, così ritenetelo e così incidetelo nel vostro cuore… Non ricorriamo agli stregoni, agli indovini, a rimedi inutili quando abbiamo mal di testa. Come volete, o fratelli, che non pianga per voi? Ogni giorno vedo queste cose; e che devo fare? Non sono dunque ancora riuscito a convincere i cristiani che bisogna riporre in Cristo ogni speranza? E se poi uno, al quale è stato applicato un rimedio superstizioso, muore (…), con quale coraggio si presenterà la sua anima davanti a Dio? … Riconosciamo dunque l’Agnello, o fratelli, e rendiamoci conto del prezzo che ha pagato per noi (7, 7).
In Agostino l’espressione « sangue versato » è spesso legata al verbo bere, per cui si ha « bere il sangue versato ». Egli intende tale espressione nell’accezione di partecipare alla redenzione di Cristo, ma l’immagine è presa dal rito eucaristico di bere al calice11. In Africa era anche comune dare da bere il sangue eucaristico perfino ai neonati, dopo il loro battesimo. Ciò lo si faceva per esprimere il diritto del battezzato (il fidelis) di ricevere l’eucaristia (cfr De peccatorum meritis et remissione, 1,24,34).

5. CONCLUSIONI
A conclusione sulla comprensione della voce « sangue » in Agostino, in particolare nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, possiamo dire:
1. Tale voce era comune già prima di lui sotto l’espressione « il sangue versato », sanguis effusus, per indicare la redenzione venuta all’umanità dalla morte di Gesù Cristo.
2. Agostino, accanto a tale espressione, usa spesso l’altra: « bere il sangue versato », indicando con ciò la partecipazione dell’umanità alla redenzione di Cristo. Tale espressione riflette l’uso di partecipare all’eucaristia bevendo al calice oltre che mangiando il pane eucaristico.
3. La terminologia di « sangue versato » e di « bere il sangue » non vanno intesi in sé come dei riti recepiti nella loro materialità, essi sono legati all’intelligenza della fede.
Riguardo a Cristo che versò il sangue sulla croce, l’espressione va unita alla nozione di libertà, nell’accezione di libera donazione della sua vita per l’umanità; quanto agli uomini, « bere il sangue versato » ha il significato espresso dalla comprensione della Pasqua quartodecimana recepita da Agostino nella celebrazione eucaristica, come partecipazione al mistero di vita e di luce di Cristo e quindi di salvezza e di liberazione, dalle tenebre della disperazione di vivere e di morire, in cui si dibatte l’oscurità umana. Per evitare ogni equivoco di partecipare a un rito solo materialmente, alla maniera dei sacrifici pagani, fatto al più solo d’impressione psicologica, Agostino scrive al riguardo: Questo è quanto il Signore ci ha detto del suo corpo e del suo sangue. Ci ha promesso la vita eterna attraverso la partecipazione a questo dono. Perciò ha voluto farci intendere che davvero mangiano la sua carne e bevono il suo sangue coloro che rimangono in lui e nei quali egli rimane. Questo non capirono coloro che non credettero in lui e che, intendendo in senso carnale le cose spirituali, si scandalizzarono… Tutto ciò dunque, o dilettissimi, ci serva di lezione, affinchè non abbiamo a mangiare la carne e a bere il sangue di Cristo solo sacramentalmente, come fanno anche tanti cattivi cristiani; ma affinchè lo mangiamo e lo beviamo in modo da giungere alla partecipazione del suo Spirito e da rimanere nel corpo, senza scandalizzarci se molti di coloro che con noi mangiano la carne e bevono il sangue, ma solo esteriormente, saranno alla fine condannati (Ib., 27,11).

NOTE -l La purificazione, che deriva dal sangue versato sulla croce, viene sviluppata da Agostino nella categoria dell’umiltà. Questa esprime la totalità dell’accettazione della vita umana: vedi In lohannis Evangelium tractatus, 55, 7: Tutta la sua passione è la nostra purificazione… Tanto importante è per l’uomo l’umiltà, che la divina maestà ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio (= la lavanda dei piedi, Gv 13, 2-5). L’uomo superbo si sarebbe perduto per sempre, se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi… L’uomo si era perduto per aver seguito la superbia del tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l’umiltà del redentore; In lohannis Evangelium, 119, 4: Noi siamo purificati dall’umiltà di Cristo: se egli non si fosse umiliato facendosi obbediente fino alla morte di croce, il suo sangue non sarebbe stato versato per la remissione dei peccati, cioè per la nostra purificazione. Sul sangue di Cristo che da all’acqua battesimale la virtus di generare i cristiani, vedi Sermones, 352, 3. – 2 La natura universale della Chiesa, sia perché diffusa su tutta la terra, sia perché la grazia circola in essa tutt’intera, è considerata da Agostino nel commento al c. 19, 23-24 di Giovanni sulle vesti divise in quattro parti e la tunica tirata a sorte (cfr In lohannis, o. e., 118,1-4). – 3 II battesimo è definito da Agostino nella linea della Lettera di Paolo agli Efesini 5, 18: Lavacrum aquae in verbo (cfr In lohannis, o. e., 15, 4; 80, 3). Nell’omelia 124, 5 abbiamo poi una delle sue migliori sintesi antipelagiane: Mediante la fede in lui, unita al lavacro di rigenerazione, siamo prosciolti da tutti i peccati, cioè dal peccato originale contratto mediante la generazione (soprattutto per liberarci da esso è stato istituito il sacramento di rigenerazione) e da tutti gli altri peccati che si commettono vivendo male. – 4 Epistulae, 153, 3, 7: Semel in Ecclesia concedatur; vedi anche C. Vogel, Le péché et la pénitence, Parigi 1961. – 5 Sermones, 214, 11: Inoltre onorate, amate, predicate ‘la santa Chiesa’… A beneficio del suo frumento… essa ha ricevuto le chiavi del regno dei deli, e così in lei, per mezzo del sangue di Cristo, ad opera dello Spirito Santo, si ha ‘la remissione dei peccati’; Sermones, 295,2; Io. ep., 10,10. – 6 Agostino sviluppò molto l’azione dello Spirito Santo per la remissione dei peccati e non evitò la difficoltà « sul peccato irremissibile contro lo Spirito Santo » di cui parla Le 12, 10 (cfr Ad Romanos inchoata expositio, 21; Enchiridion ad Laurentium, 22, 83; Sermones, 71). – 7 De adulterinis coniu-giis, 1, 28, 35: La causa della riconciliazione di un penitente è la medesima di quella del battesimo qualora un penitente venga a trovarsi in pericolo di vita. -Sermones, 4, 32, 35: Non accade forse nella Chiesa che a uomini che la vogliono turbare, per necessità di pace, si tollera che siano ammessi dentro e ricevano i sacramenti comuni a tutti? E talvolta si sa che sono cattivi ma non possono essere riconosciuti tali, vale a dire non possono essere riconosciuti di doversi emendare, di venir degradati, esclusi, scomunicati. E se qualcuno insiste si corre il rischio che la Chiesa si laceri. A tanto viene costretto chi della Chiesa è pastore; Sermones, 351, 7: A questo altare… alla celebrazione dei misteri divini, possono accedere anche molti scellerati: Dio pazienta in questo tempo presente perché in quello futuro si stemperi la sua severità. – 9 Per un’informazione sull’argomento, vedi Ch. Mohrmann, « Pascha, Passio, Transitus », EL 66 (1952), 37-52; V. Grossi, « La Pasqua quartodeci mana e il significato della croce nel II secolo », Aug 16 (1976), 557-571; R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, Torino 1978. – 10 Vedi anche In lohannis, o. e., 120, 3 al commento di Gv 19, 36-37: Non gli sarà spezzato un solo osso.. Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto. -11 Ad esempio In lohannis, o. e., 31, 9: bevvero il sangue (di Cristo) da loro versato; nel n. 11 si parla della carne di Cristo che si mangia, divenendo membra di Cristo: Noi lo abbiamo conosciuto nella carne e tuttavia ci è stato concesso di mangiare la sua carne e di essere membra del suo corpo. Nell’omelia 26, 13-18 commenta Gv 6, 50-57 (« mangiare la sua carne, bere il suo sangue »), e ci viene riferito come l’uso di bere anche al calice, oltre che ricevere il corpo del Signore, era in alcuni luoghi quotidiano, in altri a tempi distanziati: // sacramento di questa realtà, cioè dell’unità del corpo e del sangue di Cristo, viene apparecchiato sulla mensa del Signore, in alcuni luoghi tutti i giorni, in altri con qualche giorno d’intervallo, e si riceve dalla mensa del Signore (ib., 15). La conclusione è nel tractatus 27, 11: sui manducatores et potatores carnis et sanguinis sui (= Domini).

« IN SPIRITO E VERITÀ » – GESÙ E IL SACRO; PAOLO DI TARSO E IL SACRO – Rinaldo Fabris

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=102

« IN SPIRITO E VERITÀ » – GESÙ E IL SACRO; PAOLO DI TARSO E IL SACRO

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris
Verbania Pallanza, 9 dicembre 1995

La verità è il tema dominante del IV vangelo. Non è la verità come conoscenza intellettuale della realtà, ma come fedeltà, fiducia, relazione. L’esperienza biblica del sacro rimanda ad una relazione di ascolto, ad una relazione di amore: Ascolta Israele, ama il Signore con tutto il cuore, la mente, le forze. Più che ritorni di Dio oggi ci sono i ritorni degli dei: è la tendenza umana a controllare e a identificare la realtà divina in qualcosa di manipolabile e visibile. È il vitello d’oro.

GESÙ E IL SACRO
Gesù è un laico che si colloca nella linea profetica. Invece il falegname, il terapeuta, il maestro itinerante è stato sacralizzato.
Gesù e il tempo sacro (il sabato). Gesù prende posizione nei confronti del giorno di riposo, del sabato, la cui osservanza è al centro delle dieci parole. Il sabato era la memoria della creazione e della liberazione dall’Egitto. Gesù prende posizione contro il modo di osservare il sabato, osservanza diventata scrupolosa e ossessiva in Israele (elenco minuzioso delle azioni interdette) come modo per distinguersi dagli altri popoli.
Gesù (Marco 2,23-28) afferma che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, rispondendo all’accusa dei farisei. Fa così comprendere che l’ambito del sacro non è tanto un tempo definito, quanto la relazione tra Dio e l’essere umano. Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato. Tutti gli esseri umani sono signori del sabato, del sacro.
Inoltre il criterio della vera sacralità del sabato è fare il bene, salvare una vita (Marco 3,1-6), come emerge dall’episodio della guarigione di un uomo con la mano inaridita in giorno di sabato. Il sacro è nel rapporto con Dio che passa attraverso l’attenzione agli uomini.
Nell’episodio della guarigione della donna curvata in giorno di sabato (Luca,13-10-17) emerge la concezione del sabato come memoriale della liberazione. Di fronte alle critiche del capo della sinagoga Gesù sottolinea l’importanza del gesto di guarigione-liberazione in giorno di sabato. La sacralità risiede per Gesù nel gesto iniziale della creazione e nei gesti di liberazione.
Gesù e lo spazio sacro (il tempio). Gesù prende posizione nei confronti del tempio scontrandosi con i funzionari del potere sacro.
Innanzitutto Gesù entra nel tempio (Marco 11,15-19) e si mette a scacciare quelli che vendevano e comperavano, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi. È un intervento contro il mercato. Il tempio era un’industria di turismo e di pratica religiosa. Gesù afferma il tempio come luogo di preghiera contro la sua trasformazione in spelonca di ladri. Il tempio può consentire l’incontro con Dio, ma non perché è uno spazio sacro.
Il tema del tempio si sviluppa lungo tutto il racconto della Passione. Gesù è accusato di avere annunciato la distruzione del tempio e la costruzione di un tempio non fatto da mano d’uomo. In Luca si parla del tempio nell’episodio di Stefano che dichiara che l’altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d’uomo (Atti,7,48). Il Dio trascendente non può essere racchiuso in nessuna struttura umana. Stesse espressioni si trovano nel discorso all’Aeropago di Paolo. Il tempio di Gerusalemme viene assimilato ai templi pagani, al tentativo umano di controllare Dio attraverso un’immagine o uno spazio.
Gesù propone di superare la distinzione tra puro e impuro, con un nuovo criterio di sacro: passare dalle cose alle relazioni, dall’interno all’esterno (Marco7,1-23).
Segno della distinzione del popolo scelto è la dieta kashér. Il tema del cibo sarà presente anche nella chiesa primitiva, imponendo ai pagani convertiti alcuni divieti alimentari. Nell’antichità il mangiare e il bere erano una delle modalità per entrare in contatto con la divinità. Gesù sostiene che nonc’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo. Sono invece le cose che escono dall’uomo che possono contaminare. Il contatto con Dio non passa attraverso i cibi, ma attraverso la relazione profonda che viene dal cuore. È ciò che esce dal cuore dell’uomo che rende impuro.
La carica rivoluzionaria presente nel laico, falegname, non sacerdote, terapeuta Gesù, schiacciato dal potere religioso, è spesso non colta.
la manifestazione di Dio avviene attraverso la parola e l’azione di Gesù, azione che rende libere le persone e che si manifesta nella creazione e nell’esodo (nel Regno).
Gesù riporta il sacro alla relazione profonda del cuore. Dio è santo perché non si lascia imprigionare in nessuna struttura umana.
L’ambito privilegiato in cui si manifesta Dio il santo è la relazione giusta e positiva.

PAOLO DI TARSO E IL SACRO
Paolo affronta il problema dell’entusiasmo, dell’esperienza estatica e dei carismi nella lettera agli Corinzi ed indica tre criteri per valutare l’esperienza del sacro.
Anzitutto la fede in Gesù Cristo (1Cor 12,1-3). La fede in Gesù è un orizzonte che consente di orientare l’esperienza dello Spirito.
Un secondo criterio riguarda l’origine, la fonte e l’orientamento dei carismi (1Cor 12,4-11). Paolo sostiene che i doni vengono da Dio e sono in funzione della costruzione della comunità. Meno importanti quelli più « spettacolari ». Lo Spirito dà ad ognuno una qualità per la manifestazione e la crescita della comunità. Ognuno ha un dono dello Spirito per l’utilità comune.
Terzo criterio è il significato cristologico e ecclesiale dei carismi (1Cor12,12-27). Non c’è nessuna gerarchia in funzione dell’esperienza privilegiata di qualcuno. Anzi i carismi meno appariscenti sono quelli che vanno maggiormente curati. I carismi più importanti sono quelli della parola annunciata, condivisa e insegnata.
E il carisma per eccellenza è l’agape. Paolo chiama amore quello che Gesù formulava con altro linguaggio, l’interesse per l’essere umano, per la vita, per la libertà, per la dignità. Quale rapporto tra questa energia che dà sapore e senso alla vita e la realtà che chiamiamo Dio? Qui è il sacro.
L’amore è il supercarisma, che dà senso a tutti i doni. Perché l’amore sia forza vitale deve trovare le vie della relazione. Anche i doni più alti, senza agape, sono nulla. L’amore non è un fatto emotivo, ma una realtà che si vive nelle relazioni.
L’unica realtà che si può collegare con Dio è l’amore.
Paolo rappresenta il cuore dell’esperienza religiosa nell’amore, che è il vero sacro. Nella pienezza vedremo faccia a faccia, …come anch’io sono conosciuto. È un essere avvolti nella realtà di Dio, un essere conosciuti, non un possedere.
Per vivere l’esperienza dello Spirito nella comunità che si riunisce nella preghiera bisogna assegnare un ruolo privilegiato al carisma della parola profetica(1Cor 14,1-5). La profezia per Paolo è la capacità di comunicare partendo da un’esperienza di fede. La profezia edifica.
Inoltre è centrale la costruzione e la intensificazione dei rapporti comunitari (1Cor 14,6-25). Le esperienze carismatiche che non comunicano sono segni confusi.
Infine tutto per Paolo deve essere fatto per l’edificazione (1Cor14,26-40), cioè per far crescere la comunità, dando la possibilità a tutti di esprimersi come corpo vivo di Cristo.
Si può dire in conclusione che l’esperienza dello Spirito fa parte della dimensione originale profonda della fede cristiana. Solo attraverso il dono dello Spirito si può riconoscere che Gesù è il Signore.
Nella storia della chiesa lo Spirito è stato identificato spesso con l’istituzione, con il privilegio del carisma di governo rispetto a quello della carità. In questi anni la morale è stata proposta come norme, divieti e principi piuttosto che come relazioni da potenziare.
La via di collegamento tra lo Spirito e la comunità è la relazione.

LA RADICE BIBLICA: L’INCONTRO CON L’ALTRO – Piero Stefani

http://bes.biblia.org/index.php/percorsi-ed-esperienze-didattiche/secondaria-di-ii-grado/la-ardice-biblica-lincontro-con-laltro.html

(anche Paolo, sono quattro pagine, prendo solo la prima tra l’altro c’ è il copyright del 2009).

LA RADICE BIBLICA: L’INCONTRO CON L’ALTRO

PIERO STEFANI   tratto da: La radice biblica. La Bibbia e i suoi influssi sulla cultura occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 116-145 (per gentile concessione dell’editore)

1. LA VISIONE BIBLICA DELLO STRANIERO La lingua ebraica, pur essendo piuttosto povera di vocaboli, dispone di vari termini per nominare il forestiero. “Straniero” è parola relativa, in quanto si è definiti tali non già in se stessi, ma nei confronti di qualcun altro, e poiché la Bibbia si presenta come il libro di un popolo particolare, quello d’Israele, in essa necessariamente si parla molto dell’“altro”. Il cosmopolitismo secondo cui l’uomo si qualifica come “cittadino del mondo”, tema costante della saggezza ellenistica (specie di matrice stoica), è estraneo alla concezione propriamente biblica, la quale non dimentica mai l’esistenza di una distinzione tra il popolo d’Israele e le altre genti. Questa situazione non sfocia meccanicamente in un sentimento di contrasto o di contrapposizione nei confronti degli altri, né diviene, per forza, espressione di orgoglio nazionale (tratti, peraltro, in parte effettivamènte presenti); va vista piuttosto come una precondizione indispensabile per parlare di rapporti con gli stranieri, questione ancora oggi attualissima.

Tre parole chiave In ebraico esistono almeno tre parole chiave per indicare lo straniero: zar, nekhàr (o il connesso aggettivo, spesso sostantivato, nokhrì) e gher. Zar significa “straniero” o “estraneo”. Lo si impiega per riferirsi ai popoli con cui Israele ha direttamente a che fare: in particolare è termine con cui si indicano i nemici politici ed è quindi spesso caricato di un senso di antagonistico. In altri contesti vuol dire, però, semplicemente “estraneo” rispetto a qualcosa o a qualcuno. Nekhàr ha un significato simile al precedente, volendo dire anch’esso “straniero o forestiero”. A volte si è voluta chiarire la sottile differenza fra i due termini sostenendo che nekhàr indica quanto non si riconosce come proprio, mentre zar esprime quel che appartiene a qualcun altro. Nel loro insieme essi sembrano quindi contenere le due facce della dimensione tipica dell’essere straniero: l’“altro” come diverso da noi e l’“altro” come colui che viene definito indipendentemente da noi. Essi si riferiscono a un “diverso” avvertito come estraneo e nei cui confronti si manifestano non di rado atteggiamenti negativi. Tuttavia, tra “noi” e l’“altro” non sempre sono erette demarcazioni invalicabili: il forestiero da estraneo può diventare vicino. Nasce così la figura del gher, lo straniero che risiede in mezzo a una popolazione a una popolazione diversa dalla propria. La Bibbia dedica una particolare attenzione proprio a quest’ultima figura e lo fa sia guardando alle antiche vicende del popolo d’Israele sia dettando varie norme al riguardo. È infatti significativo che il termine gher venga impiegato per riferirsi ad alcune grandi figure della storia ebraica che soggiornarono presso popolazioni diverse dalla propria: Abramo fu gher in Egitto (Gen 12,10), a Gherar (Gen 20,1) e a Hebron (Gen 23,4); Mosè lo fu a Madian dove ebbe un figlio che chiamò Gherson (nome derivato appunto da gher); inoltre tutti i figli d’Israele furono gherìm (plurale di gher) in terra d’Egitto (cfr. Es 22,20; 23,29; Lv 19,34; 25,33; Dt 10,19). Nello snodarsi della storia che dai patriarchi giunge fino alla generazione dell’esodo, l’esperienza di essere gher, cioè minoranza, più volte vessata e perseguitata, diviene tratto accomunante dell’intero popolo.

Dall’essere minoranza all’ospitarla Vi è però anche un momento successivo, quando il popolo ebraico, ormai insediato nella propria terra, diviene, a sua volta, colui che ospita in mezzo a sé degli stranieri. La Bibbia mostra quindi di conoscere assai bene tanto l’esistenza di società multietniche, multiculturali e multireligiose, quanto l’impiego, nei confronti del forestiero residente, di strategie orientate, in modo oscillante, all’accoglimento, allo sfruttamento o alla chiusura. Stando al primo libro delle Cronache, nel censimento voluto da Salomone (X sec. a.c.) furono enumerati ben 153.600 stranieri residenti in terra d’Israele (1Cr 2,16; cfr. 1Cr 22,2). Si è calcolato che una simile cifra potesse, grosso modo, corrispondere all’8-9 % della popolazione globale. Sempre in quest’epoca, in connessione alla costruzione del Tempio e della reggia di Gerusalemme, venne utilizzata manodopera straniera per lavori di fatica o per opere edilizie poco familiari agli ebrei. Il re Salomone prese settantamila stranieri «come portatori, ottantamila come scalpellini perché lavorassero sulla montagna e tremilacinquecento come sorveglianti perché facessero lavorare la gente» (2Cr 2,17. Difficile, osservando questa moltitudine di stranieri impiegati in lavori che non si vogliono (o non si sanno) fare, non cogliere – nonostante le ovvie differenze – analogie piuttosto forti con dinamiche presenti nelle società contemporanee. Secondo le normative bibliche il gher non gode di tutti i diritti del popolo ebraico presso cui risiede, per esempio a lui non spetta alcuna parte del territorio. Di solito si trova al servizio di qualcuno che è suo signore e protettore, è annoverato tra i poveri e, al pari delle categorie economicamente più deboli. gode del diritto di spigolatura, vale a dire della possibilità di raccogliere le spighe rimaste nei campi dopo la mietitura (Lv 19,10; 23,22; Dt 2,19-21). Le condizioni di precarietà propria del gher attirano su di lui la protezione divina: il Signore «rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama lo straniero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18). La situazione del gher prospettatici dalla Bibbia è dunque multiforme: egli in genere vive in condizioni di insicurezza economica, pur avendo dei diritti non è parificato all’ebreo dal punto di vista giuridico, tuttavia, appunto per questa sua debolezza, è amato in modo particolare dal Signore; la Scrittura, inoltre, ribadisce a più riprese il precetto di amare lo straniero.   Lo straniero nel Vangelo Nei Vangeli il significato di straniero si conforma, in genere, a quello fin qui illustrato: con questo termine si indicano infatti i non appartenenti al popolo ebraico. Nel cosiddetto “discorso missionario” Gesù impone ai dodici apostoli di non andare fra i gentili (cioè, i non ebrei) e di non entrare nelle città dei samaritani, ma di rivolgersi piuttosto alle pecore sperdute della casa d’Israele, cioè comanda loro di dedicarsi agli ebrei peccatori (cfr. Mt 10,5-6); e Gesù stesso qualifica in modo analogo il proprio compito (Mt 15,24). I Vangeli descrivono però vari incontri di Gesù con stranieri (cfr. per es. Mt 15,21-28; Mc 5,1-20; 7,24-30; Lc 8,26-39); anzi, riportano sue affermazioni che additano alcuni non ebrei come esempi di fede (cfr. per es. Mt 8,5-13; Lc 7 ,l-10). Tuttavia, a ben guardare, proprio questi passi tendono più a confermare che a smentire la sussistenza di una diversità tra gli appartenenti al popolo di Israele e i membri di altri popoli. Dopo la pasqua di Gesù, l’annuncio apostolico è, invece, rivolto a costituire comunità formate da credenti in Gesù Cristo provenienti sia dal popolo d’Israele sia dalle genti (questo termine, come quello simile di gentile, si riferisce a tutti i non ebrei; in Paolo, tale senso è a volte espresso pure dalla parola “greci”). Questo allargamento verso le genti è particolarmente sottolineato nell’incontro tra Pietro e il centurione romano Cornelio descritto negli Atti degli apostoli, episodio che si conclude con il battesimo di quest’ultimo e con la consapevolezza instillata nell’apostolo che a Dio è gradito colui che pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga (cfr. At 10,1-11.18).   Paolo, l’apostolo delle genti Anche nelle grandi dichiarazioni teologiche presenti nelle lettere di Paolo – l’apostolo delle genti (egli infatti, più di ogni altro, si impegnò a far giungere l’annuncio evangelico ai non ebrei) – l’uguaglianza tra i credenti in Cristo non annulla le differenze di ordine etnico, antropologico e sociale; esse però sono ormai viste in una nuova luce: «Tutti siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quando siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più né giudeo, né greco, non più schiavo o libero, non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo» (Gal 3,28). Il senso di tale affermazione è che in Cristo vengono meno le discriminazioni; l’essere o il non essere circoncisi (cioè l’essere giudei o greci) non dà più luogo a una separazione reciproca (cfr. Gal 5,6;6,15; 1Cor 7,19). In Lui i credenti formano un’unità spirituale, senza che ciò comporti il venir meno delle distinzioni tra uomini e donne, ebrei e gentili, e, per l’epoca di Paolo, anche tra schiavi e liberi. 

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO – PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA: «ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»

http://www.indaco-torino.net/gens/06_05_04.htm

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO – PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA
 
«ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»
 
L’autore è professore di Antico Testamento e decano della Facoltà di teologia cattolica all’Università di Augsburg. Il presente contributo mette a fuoco come il Primo Testamento parla del “prendere dimora di Dio fra gli uomini”. L’articolo segnala poi le ripercussioni storiche di questa nozione veterotestamentaria sia nel discorso postbiblico-giudaico della “Shekhinah” che negli scritti del Nuovo Testamento sulla presenza di Cristo in mezzo ai suoi.
Era un tempo di crisi. Ciò che per secoli aveva fornito appoggi e orientamenti era venuto meno. Mancavano prospettive. Le grandi speranze erano crollate. E nessuno sapeva in che modo si potesse continuare. Il paese era devastato, occupato dai nemici. Il tempio, il luogo della presenza di Dio, giaceva in macerie. Parte della popolazione era stata deportata, viveva in esilio, lontano dalla propria patria. Era subentrato il caos sulla gente di quel tempo. Sembrava che Dio avesse nascosto il suo volto.
1. L’anelito di Dio: l’uomo vivente
Alcuni teologi, di cui non conosciamo i nomi, posero gli uomini del loro tempo davanti a un’alternativa: o ci fissiamo sul negativo, sul caos, e allora questa confusione insanabile continuerà a condizionare la nostra vita. Oppure diamo un’opportunità a Dio e in questo modo anche in mezzo ai deserti crescono gli spazi della speranza, spazi di vita. Perché – questa è l’esperienza degli autori biblici – Dio desidera abitare presso gli uomini. Dio vuole prendere abitazione, impiantare la sua tenda in mezzo al caos umano1.

Scoprire nel caos il sì di Dio
A quell’epoca – nel tempo del cosiddetto esilio babilonese – fu scritto il primo grande testo della Bibbia, Gn 1, 1-2, 4a. Secondo questo “racconto della creazione” Dio realizza – dal caos invivibile (Gn 1, 2) e con l’azione della sua parola potente e generatrice di vita – uno spazio adatto alla vita. Ad ogni creatura, ad ogni essere vivente viene assegnato il proprio ambiente vitale (Gn 1, 3-31). La creazione dell’uomo e della donna rappresenta un vertice del racconto della creazione (Gn 1, 26-31). Dio decide dentro di sé: «Facciamo l’uomo». Si tratta di una presa di posizione consapevole e ponderata per l’uomo. Dio vuole l’uomo! Indipendentemente da come l’uomo sia arrivato ad essere tale da un punto di vista evoluzionistico, vale per lui: tu sei voluto da Dio. Sulla tua vita c’è un grande SÌ. È il SÌ di Dio – fin dal principio.
Allo stesso tempo l’essere umano fa parte della creazione. Voluto e amato da Dio, l’uomo condivide il suo destino con l’intera creazione. Insieme ad essa egli è rinviato a Dio e dipende da Dio.

L’uomo – immagine di Dio
«Facciamo l’uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine». Nell’antico Oriente, nel mondo dal quale proviene la Bibbia, i governanti erano considerati spesso immagini delle rispettive divinità, come ad esempio i re dell’Assiria e di Babilonia o i faraoni egiziani. Ritenevano inoltre che una parte dello splendore e della gloria divini fossero riversati su di loro. Ciò che attorno a Israele veniva considerato vero solamente per i grandi e potenti vale – secondo la testimonianza biblica – per tutti gli uomini. Ogni essere umano, forte o debole, sano o malato, uomo o donna, piccolo o grande: ogni essere umano reca in sé una dignità regale. Lo splendore della luce divina è sopra di lui. Ogni essere umano è chiamato ad essere portatore e diffusore di tale luce.
Si ricordi pure un’altra tradizione del mondo biblico. Spesso i Re che governavano un grande regno, facevano collocare immagini di sé nelle varie province del loro regno. In questo modo intendevano affermare: in questa immagine – una statua o un bassorilievo –  sono presente io. L’immagine rappresentava il sovrano, lo rendeva “presente”.
Applicato all’affermazione che l’uomo è immagine di Dio, ciò significa: nell’essere umano Dio si rende presente ed opera in un modo speciale nella sua creazione. Attraverso di lui Dio vuole essere presente nel mondo. L’uomo è, per così dire, la presenza di Dio nella creazione, il luogo in cui Dio e la creazione possono rendersi presenti in modo particolare l’uno all’altra.

L’immagine tradita
La vocazione ad essere immagine di Dio comprende anche una speciale responsabilità. Per questo motivo l’uomo è incaricato di “dominare” – un’espressione di non facile comprensione, a volte malintesa e abusata. “Dominio” non significa arbitrio e sottomissione né esercizio di potere ad ogni costo o sfruttamento irrispettoso delle risorse disponibili, sia in natura che nell’umanità. Al contrario! “Dominare”, nell’antico Oriente, è un’espressione dalle connotazioni assai positive. Il “dominatore” è al contempo il pastore. Spetta a lui difendere la pace,  preservare e dar forma all’ambiente vitale, imporre il diritto e la giustizia, perché sia possibile una vera convivenza. Secondo il racconto biblico della creazione l’uomo non può concepire tale incarico in modo autosufficiente o arbitrario. È un compito che gli è stato affidato da Dio stesso. E perciò deve compierlo anche con responsabilità di fronte a Dio e secondo le sue intenzioni. L’uomo agisce in quanto immagine di Dio, se segue le indicazioni divine,  se si orienta secondo la volontà di Dio. La potente ed efficace parola di Dio, che l’ha chiamato in essere, deve anche farsi spazio nella sua vita, rinnovarlo e indicargli il cammino.
Ma com’è in realtà il mondo dell’uomo? La Bibbia accosta al racconto della creazione il racconto del diluvio universale: l’uomo tradisce la sua chiamata ad essere immagine di Dio. Esercita violenza – il contrario di “dominio” – e così scatena il caos, che si esplicita nell’immagine cosmica del diluvio. Questa è, spesso, la realtà dell’uomo. I due grandi racconti della creazione e del diluvio universale non rappresentano un “prima” e un “dopo”; mostrano bensì il mondo, così com’è stato pensato da Dio (l’uomo a sua immagine) e così come viene ripetutamente ridotto dall’uomo (l’immagine tradita). All’immagine “reale” del mondo – il diluvio come esperienza del caos: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra”  (Gen 6, 5) – viene contrapposta l’immagine ideale del mondo voluto da Dio: «E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto buono» ovvero «molto bello»2. In questo mondo contraddittorio, che da una parte viene scosso dalla distruzione e dal caos, ma che al contempo è realizzato in modo tale da poter accogliere la presenza trasformatrice e rinnovatrice di Dio, vive Israele, vive la Chiesa.
Ma se la vocazione di ogni uomo è già quella di esprimere la presenza di Dio in questo mondo contraddittorio, per quale fine dunque esiste Israele? E perché è necessaria una Chiesa, la quale, secondo gli scritti neotestamentari, traccia il profilo della propria autocomprensione proprio riagganciandosi ai testi veterotestamentari? Perché la Bibbia parla ancora di un “popolo eletto”, se ogni essere umano nella creazione è chiamato ad essere “presenza di Dio”?

2. La tenda di Dio tra gli uomini
Torniamo al primo racconto biblico. Il settimo giorno Dio riposa – un’affermazione significativa. Il settimo giorno è il giorno del compimento e della pienezza di vita (Gn 2, 1-4a). Il riposo di Dio è segno del compimento. Ma espressamente si parla soltanto del riposo di Dio, non del riposo dell’uomo. Presso Dio e in Dio la creazione è compiuta. Ma come giunge questa pienezza agli esseri umani e nel loro mondo? La descrizione di questo settimo giorno in Gn 2, 1-4a, attraverso l’utilizzo di parole-chiave, si spinge ben al di là del racconto della creazione e rinvia al racconto sinaitico di Es 19-403.

Portatori della luce divina
Dopo gli avvenimenti della liberazione dal potere del faraone (Es 1-15), passando attraverso il deserto (Es 15-18), il popolo di Israele raggiunge il Sinai (Es 19ss). Per sei giorni – come si legge in Es 24, 15ss – il monte è coperto dalla nuvola. Non succede nulla. La nuvola è segno della presenza di Dio. Dio appare come l’indisponibile e l’inavvicinabile. Il settimo giorno invece Mosé sale sul monte ed “entra” nella nuvola. Sperimenta il Dio presente. Lo splendore di Dio si mostra all’intero popolo. Israele può prendere parte al compimento e alla gloria di Dio. Questo settimo giorno è per l’appunto il giorno nel quale, secondo Gn 2, 1-4, il mondo è compiuto in Dio.
«Mosé salì dunque sul monte. La nube coprì la cima del monte e il Signore si manifestò sul Sinai in tutta la sua gloria. Essa appariva agli occhi di tutto il popolo come un fuoco divorante. La nube coprì il monte per sei giorni; al settimo il Signore dal mezzo della nube chiamò Mosé, e Mosè entrò nella nube e salì sulla cima. Egli rimase là quaranta giorni e quaranta notti» (Es 24, 15-18).
Ciò significa che in Israele si manifesta – e così diventa visibile nel mondo – qualcosa della pienezza e dello splendore di Dio. La magnificenza di Dio, il suo sabato deve incendiare Israele «come fuoco che consuma» e attraverso Israele deve raggiungere e toccare il mondo. Nel Nuovo Testamento ciò corrisponde al messaggio del discorso della montagna: «Siete la luce del mondo… Una città costruita sopra una montagna non può rimanere nascosta» (Mt 5, 14-16).
Per quale motivo e per quale fine allora esistono Israele e la Chiesa? In un mondo sperimentato come conflittuale e lacerato, attraverso il popolo eletto da Dio deve diventare “visibile” qualcosa dell’integrale pienezza creata da Dio e che lui intende realizzare. Israele viene scelto, perché Dio vuole rendere visibile nel mondo lo splendore della pienezza. Grazie a questa luce viene sempre di nuovo in rilievo la dignità e la grandezza dell’uomo come immagine di Dio. Per questo motivo a Israele e alla Chiesa spetta in modo speciale il compito di proteggere la dignità riconosciuta da Dio all’essere umano e di metterla sempre di nuovo “in luce”.

Una casa di pietre vive
Cosa avviene sulla montagna? Mosè guarda il Santuario celeste, la dimora di Dio in cielo. Perché vede la dimora celeste? Deve costruire quel Santuario sulla terra.
Es 25, 1.8-9: «Il Signore disse a Mosè: “Gli Israeliti mi consacreranno un luogo particolare, così io abiterò in mezzo a loro. Farete la tenda e gli oggetti di culto uguali al modello che io ti mostrerò”».
Dio desidera abitare sulla terra, così come abita in cielo. Israele stesso deve essere il suo santuario, una casa di pietre vive. Dio vuole essere presente nel suo popolo Israele e attraverso di esso nel mondo. Per questo quindi esiste Israele, il popolo eletto, e per questo esiste anche la Chiesa: affinché Dio abiti in mezzo a loro e gli sia possibile comunicare qualcosa della pienezza che è presso di lui.

La presenza trasformante di Dio
Ci soffermeremo ora sulla tenda sacra, sulla “tenda dell’incontro”, e sulla forza trasformante della presenza divina.
«In quel luogo mi incontrerò con gli israeliti, ed esso sarà consacrato dalla mia presenza gloriosa. La tenda dell’incontro e l’altare saranno consacrati a me. Anche Aronne e i suoi figli saranno consacrati a me per servirmi come sacerdoti. Abiterò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Riconosceranno che io, il Signore, il loro Dio, li ho fatti uscire dall’Egitto per poter abitare in mezzo a loro. Io, il Signore, sono il loro Dio (Es 29, 43-46).
La presenza di Dio in mezzo al suo popolo non conduce soltanto ad una percezione nuova di Dio da parte di Israele. In questo incontro Israele stesso viene rinnovato e santificato. La presenza di Dio fa vedere a Israele in una luce nuova anche la propria storia e gliela fa capire come un cammino con Dio. Il cammino di Dio con il suo popolo è orientato a questo obiettivo: preparare a Dio una dimora.
La ragione d’essere di Israele risiede quindi in questo: essere, se così si può dire, “contenitore” della presenza di Dio nel mondo. Israele, con tutti i suoi limiti, rende possibile che Dio faccia irradiare il suo splendore nel mondo. La forza trasformante della presenza di Dio diviene così messaggio per il mondo.

Tendere l’orecchio
al ritmo di vita di Dio
Del completamento della creazione (Gn 2, 1-4a) fa parte il completamento del santuario (Es 40, 33). Non soltanto la storia della salvezza di Israele, bensì anche l’intera storia della creazione tende a questo: preparare d Dio una dimora, attraverso Israele. Dove Dio è presente, la realtà della creazione e quella della salvezza si incontrano rinviando l’una all’altra.
«Così Mosè terminò tutti i lavori. Allora la nube coprì la tenda dell’incontro e la presenza gloriosa del Signore riempì l’abitazione. Mosè non poté più entrare nella tenda dell’incontro perché su di essa c’era la nube e la presenza gloriosa del Signore riempiva l’abitazione» (Es 40, 33b-35).
Il grande compito di Israele nel mondo e per il mondo consiste quindi nell’affinare l’attenzione alla realtà divina e nel custodire il santo che gli è affidato. Tale opera di custodia della presenza di Dio non può ovviamente essere realizzata esclusivamente nel giorno del sabato e nella celebrazione sacra. Questo impegno abbraccia tutta la vita, il giorno del sabato e la quotidianità. Anche la vita quotidiana con i suoi ritmi dev’essere intrisa di questa presenza divina. Nelle parole del testo biblico: «A ogni tappa, quando la nube si alzava dall’Abitazione, gli Israeliti levavano l’accampamento. Se però la nube non si alzava, essi non partivano e attendevano che la nube si fosse alzata» (Es 40, 36-37).
Il compito principale di Israele lungo il cammino attraverso il deserto verso la Terra Promessa della pienezza consiste dunque in primo luogo nell’essere attento alla presenza divina. I tempi per riposare e per essere attivi, i tempi per riflettere e per ricominciare sono determinati a partire dalla presenza di Dio. La presenza di Dio forgia il ritmo vitale del popolo di Dio. Questo “ante omnia” di un amore vigilante per la presenza di Dio è costitutivo per il cammino di Israele attraverso i tempi e rimane costitutivo anche per il cammino della Chiesa3.

3. Ebrei e cristiani: testimoniare insieme il Dio vivente
Che Dio voglia prendere dimora fra gli uomini è illustrato dall’Antico Testamento in molteplici modi. Non soltanto i racconti dei Patriarchi della Genesi o i testi citati sopra del Libro dell’Esodo, anche i Salmi (cf Sl 23; 46) e gli Scritti profetici si occupano di questo argomento. Così ad esempio il profeta Ezechiele, nel suo annuncio di salvezza, traccia immagini che preannunciano una vita futura e non più perdibile nella presenza di Dio: «… Stabilirò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. Abiterò con loro: essi saranno il mio popolo, io sarò il loro Dio. Quando avrò messo il mio santuario in mezzo a loro per sempre, allora le nazioni riconosceranno che io sono il Signore e che ho consacrato Israele al mio servizio» (Ez 37, 26-28).
Questo messaggio biblico-veterotestamentario sul “prendere dimora” di Dio nel suo popolo ha avuto un influsso decisivo, nel suo doppio seguito storico, sia sull’ebraismo che sul cristianesimo. Entrambe le religioni sorelle testimoniano, benché in modi diversi, il Dio vivente che in quanto trascendente si prende cura del mondo e non lo lascia in balia degli eventi.

La teologia giudaica postbiblica della Shekhinah
Nella tradizione ebraica, in epoca post-biblica, il messaggio della dimora di Dio tra gli uomini si ripercuote nell’insegnamento della Shekhinah. Quando i Romani, nel 70 d.C. distrussero il secondo Tempio (luogo della presenza di Dio) e quando il popolo di JHWH fu costretto ad affrontare grosse difficoltà, la teologia della Shekhinah – sorta durante il periodo dell’esilio e dopo l’esilio – venne ulteriormente approfondita nella riflessione rabbinica e venne sviluppata narrativamente in numerosi racconti sotto forma di parabola. Si trattava di dare conforto e motivazione a rimanere fedeli alla comunione con Dio. Questa teologia riflessiva e narrativa serviva ad Israele quale rassicurazione di sé e del proprio cammino con Dio, per vivere saldi nella comunione con Dio specialmente nelle notti della fede5.
Nonostante le differenze evidenti, si rilevano anche forti legami tra la concezione biblica  del “dimorare di Dio fra gli uomini”, il discorso postbiblico-ebraico della Shekhinah e il messaggio del Nuovo Testamento sulla presenza del Signore risorto fra i suoi (cf Mt 18, 20; 28, 20).

Il messaggio del Nuovo Testamento
L’idea veterotestamentaria del dimorare di Dio presso il suo popolo ha trovato espressione anche nel Nuovo Testamento. Accanto alle affermazioni fondamentali del Vangelo di Matteo5, ciò diviene manifesto soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni, il cui prologo interpreta l’incarnazione del Logos divino sullo sfondo del messaggio veterotestamentario del dimorare di Dio fra gli uomini: «E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» ovvero: «e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Nelle parole di Gesù, nelle sue opere e nel suo patire, il Padre stesso è all’opera. A chi corrisponde all’amore di Gesù, vive la sua parola e le rimane fedele, Gesù promette: «… il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il vivere secondo la Parola fa sì che chi segue Gesù diventi tempio vivo, nel quale Dio stesso prende dimora.
Anche Paolo – facendo riferimento a Lv 26, 1 – in 2Cor 6, 16 sottolinea che la comunità dei credenti in Cristo è «Tempio del Dio vivente». La parola di Cristo abita in mezzo alla comunità dei credenti (Col 3, 17). Ciò vale nella stessa misura dei singoli credenti, che si aprono al mistero di Dio nella fede. In loro abita lo spirito di Dio (Rm 8, 9.11; 1Cor 3, 16; 2Tit 1, 14); Cristo stesso abita nel loro cuore (Ef 3, 17).
Il libro dell’Apocalisse infine ci presenta la promessa veterotestamentaria come il traguardo delle vie di Dio: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli uomini; essi saranno suo popolo ed egli sarà “Dio con loro”. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore» (Ap 21, 3-4).
Questa immagine di una salvezza non più perdibile in un futuro realizzato da Dio non toglie però la responsabilità di fronte al presente. Al contrario! La salvezza futura deve agire sulla vita presente e modellarla. Essa chiede di cercare e di mettere in atto già fin da qui ed ora vie e forme di vita nelle quali si prepari una dimora al Dio vivente nel quotidiano. E, come afferma un detto ebraico: Dio prende dimora dove lo si fa entrare.
Israele e la Chiesa sono sollecitati a testimoniare insieme, pur in modi diversi, che Dio vuole abitare in questo mondo ed essere presente agli uomini. Così può farsi strada nel mondo una speranza che non inganna e che sostiene.

Franz Sedlmeier
 
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1)     È presumibilmente al tempo dell’esilio in Babilonia, nel 6° sec. prima di Cristo, che nasce la teologia della Shekhinah, quale teologia narrativa che parla dell’abitare di Dio presso il suo Popolo, nonostante il fatto che i fedeli di JHWH nell’esilio sperimentino in maniera drammatica la perdizione e la lontananza da Dio.
2)     La parola ebraica “buono” può significare anche “bello” e si riferisce pertanto alla beatitudine che Dio prova al cospetto del suo operato.
3)     Questo “ante omnia” muove l’autore della Prima Lettera di Pietro quando chiede alle prime comunità: «Soprattutto conservate tra voi una grande carità» (1Pt 4, 8). Tale sfondo biblico spiega la nota iniziale con cui si aprono gli Statuti generali del Movimento dei focolari e che formula in queste parole la “premessa di ogni altra regola”: «La mutua e continua carità, che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività, è per le persone che fanno parte dell’Opera di Maria la base della loro vita in ogni suo aspetto: è la norma delle norme, la premessa di ogni altra regola».
4)     Per la genesi e il significato della teologia della Shekhinah cf tra l’altro Hanspeter Ernst, Die Schehkina in rabbinischen Gleichnissen, Judaica et Christiana 14, Frankfurt 1994.
5)     Cf più ampiamente il contributo di Gérard Rossé in questo numero di “Gen’s”, pp. 156-163.
 

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – II – Giuseppe Barbaglio

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=79

Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 34° – 2012/2013

Annunciare e testimoniare oggi la buona notizia

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

(DIVIDO IN DUE, VANGELI E PAOLO)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

VANGELI

Il tema nascere-vivere-morire è legato alla riflessione sapienziale, uno dei filoni dell’Antico Testamento; gli israeliti si sono interrogati razionalmente e sperimentalmente sul senso dell’esistenza umana e questo campo di riflessione, che ha prodotto la letteratura sapienziale, era ciò che li accomunava agli altri popoli e costituiva una base per il dialogo. Mentre l’esperienza narrata nei libri storici come pure gli scritti della letteratura profetica erano solo di Israele, la riflessione sul vivere ed il morire accomuna tutti gli uomini. Nel Nuovo Testamento non esiste un filone sapienziale e bisogna perciò cogliere, là dove emergono, alcuni riflessi di questo discorso. Il tema del vivere e del morire non è assunto in proprio dal Nuovo Testamento in senso diretto, tutto centrato a porre l’attenzione sulla novità di Gesù.
Gesù però ha alcuni aspetti sapienziali: non è stato solo un profeta o per certi versi un apocalittico, ma è stato anche un saggio. Nella testimonianza evangelica cogliamo due momenti: 1°, il vissuto di Gesù, cioè come lui affronta l’esperienza umana nel suo animo; 2° come Gesù parla, sente, vive l’esperienza di ogni uomo.
1. IL VISSUTO DI GESÙ
Una grande parte della tradizione sottolinea la particolarità che Gesù ha vissuto nella consapevolezza di avere ricevuto da Dio una missione da compiere.
che gli uomini smarriti non vadano perduti
Un esempio si ha nella parabola della pecora smarrita che troviamo nella versione di Luca 15 e in quella di Matteo 18. Il racconto di Gesù è incentrato sul pastore che è protagonista. Il pastore ha cento pecore e una di queste si è smarrita. La narrazione è costruita anzitutto sul contrasto fra una e novantanove, su quanto poco conta oggettivamente una pecora su cento, e poi sul contrasto del pastore che lascia le novantanove e va alla ricerca dell’una, non perché sia più preziosa delle altre, ma perché è smarrita. Psicologicamente è più importante uno rispetto a novantanove a causa della situazione concreta. Nella versione del Vangelo apocrifo di Tommaso, un vangelo molto antico di poco successivo a quello di Giovanni, il significato è capovolto rispetto al racconto di Gesù perché si dice che la pecora era la più grassa e quindi aveva un valore oggettivo. Invece nel racconto di Gesù ciò che conta non è il valore, ma la situazione della pecora: il pastore non vuole che lo smarrimento sia una perdita definitiva.
Nelle parabole che racconta, molto spesso Gesù riflette se stesso. Infatti nella versione di Luca si precisa che Gesù era circondato da peccatori e pubblicani e che i ben pensanti mormoravano contro di lui. Dunque la parabola è la giustificazione del suo comportamento, del suo modo di vivere, di come vive la missione. Gesù non può sopportare (e neppure il suo Dio lo sopporta), che la pecora smarrita vada perduta. Noi usiamo indistintamente perdersi e smarrirsi invece nella versione di Matteo si evidenzia la differenza: la pecora si è smarrita, quindi si tratta di una perdita momentanea. Dio non vuole che la perdita diventi definitiva e Gesù nel suo comportamento manifesta questa volontà di Dio: Gesù è impegnato affinché gli uomini smarriti non vadano perduti.
eunuco a causa della sua missione
Sul tema di come Gesù abbia vissuto la sua missione c’è un particolare significativo in Matteo 19,12. Gesù enuncia tre categorie di eunuchi: ci sono gli eunuchi per nascita, gli eunuchi che vengono castrati dagli uomini (presso le corti orientali erano coloro che vivevano a contatto con il gineceo) e ci sono gli eunuchi per la causa del regno di Dio. Queste parole di Gesù suppongono un vissuto preciso, e cioè che Gesù non era sposato. Nel mondo ebraico di allora era una cosa sorprendente pur con eccezioni, come a Qumran. Probabilmente gli avversari di Gesù dicevano in modo spregiativo che fosse un castrato. Nella tradizione ebraica gli eunuchi erano sottoposti a delle limitazioni, per esempio non potevano entrare nel tempio. Di fronte ad un motteggio di cui era la vittima, Gesù precisa di essere un eunuco a causa della sua missione. Per la sua situazione di predicatore itinerante Gesù non ha formato una famiglia, anzi è entrato in un rapporto di rottura con la sua famiglia di origine. Gesù ha vissuto la missione come esperienza di svincolamento dai legami umani più sacri e genuini. Nel racconto di Marco, il più vicino alla realtà (in Luca e Matteo vi fu un processo di autocensura) Gesù appare così dedito alla sua missione, era talmente assorbito dalla sua disponibilità all’incontro con le persone, da non mangiare, da saltare i pasti. I suoi famigliari, preoccupatissimi, dicevano che era matto, che era uscito di senno. Marco 3,20-21: « Allora i suoi, udito questo (che non mangiava) uscirono per catturarlo perché dicevano: è fuori di sé ».
la nuova famiglia di Gesù
Marco, Matteo e Luca concordano invece nell’altro momento della missione: mentre Gesù stava in casa vengono i suoi famigliari (Marco 3,31-34) che non riescono ad entrare. Saputo della loro presenza Gesù ha una risposta impressionante: « chi è mia madre, chi sono i miei fratelli e le mie sorelle? » E rivolto a coloro che stavano accanto a lui: « questi sono mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle ». Gesù ha troncato i rapporti con la sua famiglia ed ha costituito una nuova famiglia. Non ha vissuto solo e disincarnato, senza rapporti, ma ha rotto con la famiglia naturale e ne ha creata una nuova; non è più un rapporto costruito sui vincoli del sangue, della parentela, ma sui vincoli spirituali di chi fa la volontà del Padre.
Questa rottura appare ancora più chiara in Marco 6,1-4 quando Gesù, che aveva abbandonato il paese di origine, Nazareth, ritorna ormai ripudiato dalla patria, dal parentado nel senso allargato di villaggio e dalla famiglia che comprende la madre, i fratelli e le sorelle. Nel verso 6,4 Gesù dice: un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, dai suoi parenti e dalla sua famiglia. Si tratta di un vissuto di Gesù molto impressionante a tal punto che già Matteo e Luca, che pure avevano come fonte Marco, hanno tolto la prima parte quella relativa al matto da sequestrare ed hanno edulcorato quest’altro passo tralasciando la famiglia. Gesù si è sganciato dalla famiglia ed ha costituito nuovi legami su base spirituale per entrare nell’orizzonte del fare la volontà del Padre.
Gesù è consapevole di essere chiamato all’annuncio
Un’altra caratteristica, la terza, della missione di Gesù si può cogliere al vivo in una pagina di Marco che è il più vicino alla fonte e il più fedele e genuino, in 1,35 ss. ove si narra una giornata tipo di Gesù: « Gesù si alzò quando era ancora buio ed uscì in un luogo appartato e là si metteva a pregare »; questa annotazione non è frequente nella tradizione evangelica, poi si svegliano Simone e gli altri e dopo averlo cercato lo trovano e gli dicono: « Tutti ti cercano » e Gesù risponde: « Andiamo ovunque nei villaggi affinché anche là io possa fare il proclama perché per questo io sono uscito da Dio ». Qui cogliamo la coscienza del vissuto di Gesù. Gesù è l’araldo, colui che proclama con voce forte e sottolinea che per questo vive, esiste. Noi non possiamo stabilire come e quando Gesù ha maturato questa coscienza della missione perché le fonti non sono abbastanza ricche. Lo cogliamo dove emerge, anche se purtroppo non possiamo averne la genesi. « Venne a proclamare nelle loro sinagoghe in tutta la Galilea ». C’è la coscienza chiara di essere chiamato e Gesù dedica la sua vita a questo. La giornata va avanti fino alla sera.
messo alla prova
Sulla missione possiamo cogliere altri elementi: in Luca, in Matteo e anche in Marco c’è il motivo di Gesù tentato. In Marco c’è solo l’annotazione: dopo il battesimo, lo Spirito Santo sospinge Gesù nel deserto e là viene tentato da Satana dopo aver digiunato quaranta giorni e notti (sono simbolismi del Vecchio Testamento). Matteo e Luca hanno un’altra tradizione che ha elaborato, in modo narrativo, le tre tentazioni. Resta, dal punto di vista storico, che Gesù è stato messo alla prova; Satana è un nome funzionale, è il tentatore. Nell’espletamento della sua missione non tutto era semplice e liscio, non è vero che il suo cammino sia avvenuto senza tentennamenti e crisi. Il fatto che Gesù è stato tentato vuol dire che sentiva un’attrazione per percorrere una via diversa, cioè di compiere la missione in termini trionfalistici, con esibizione di potenza di Dio. La tentazione non è stata di non compiere la missione, ma di compierla dimostrandosi un vero figlio di Dio forte, vincente. Gesù era diviso dentro di sé. C’era una parte interna che lo spingeva a realizzare la missione in questo modo.
Al tempo di Gesù esisteva il movimento zelota che proclamava che solo Dio era re, che la dominazione romana era illegittima e che bisognava ribellarsi al potere romano. Più tardi nel 66 gli zeloti scatenarono la guerra contro Roma con conseguenze tragiche. Tra i dodici c’era anche uno zelota, Giacomo e questo dimostra che Gesù era a contatto con questa visione molto ideologica, massimalistica dell’annuncio del regno di Dio, cioè con una interpretazione di tipo politico trionfalista. La tentazione era aderire alla parte di sé che inclinava in questa direzione. I tentatori erano coloro che gli stavano attorno e lo spingevano in questo senso, erano le attese popolari, la sensibilità del tempo. Gesù ha resistito faticosamente capendo che questa era una tentazione diabolica. Non si è accorto subito dell’errore: la diffusa mentalità propendeva per l’attesa di un profeta forte, di un Messia politico trionfatore dotato della potenza di Dio, una potenza che ridonda a beneficio del popolo di Dio.
Sono congetture quelle che noi possiamo fare sul vissuto di Gesù, sul suo tormento interiore per giungere alla consapevolezza della propria missione in chiave di un Messia povero di potenza divina, di un Messia uomo qualunque, di un Messia debole. E’ una missione e una fedeltà verso Dio da decifrare, che comporta una scelta controcorrente. Da questo punto di vista c’è un testo presente in Luca 4,18; Gesù inaugura la sua missione nella sinagoga e si ricollega alla figura del profeta di Isaia 61 la cui missione era di essere l’evangelista dei poveri, di portare la lieta notizia ai diseredati, a quelli che hanno il cuore affranto, che sono nei ceppi, agli indebitati. Gesù ha scoperto il significato del suo vivere, il suo senso profondo, alla luce delle Scritture del suo popolo. Gesù va nella sinagoga, prende il testo e lo legge  » »lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare la liberazione a quelli che stanno nei ceppi, a proclamare il ritorno alla vista per i ciechi, per rimettere in libertà gli oppressi e proclamare un anno di grazia del Signore »??. L’anno sabbatico era l’anno della remissione dei debiti, della reintegrazione nella proprietà. Gesù assume questo testo e capisce per suo tramite la propria missione. Dio non ha spiattellato davanti a Gesù la sua missione, ma è stato Gesù che ha cercato il senso della sua vita. Gesù ha scoperto che la sua esistenza doveva essere messa a servizio del progetto di Dio e per questa missione ha speso la sua vita.
Un altro elemento significativo, anche se più esterno, di costume, si trova in Marco 2,16 ss. quando Gesù chiama alla sequela un certo Levi. Levi era un pubblicano, un esattore delle tasse, categoria odiatissima, perché essi agivano da strozzini, frodatori. Gesù non solo chiama questo disprezzato, ma quando costui fa una grande festa con la sua combriccola, va a mangiare a casa sua, un gesto che veniva considerato di totale solidarietà. Era uno scandalo per i farisei, una minoranza costituita in piccole fraternità. E’ un aspetto del costume di Gesù che non è estrinseco alla sua missione di andare alla ricerca dello smarrito perché non si perda. E’ un costume che lo conduce anche ad assumere atteggiamenti sociali controcorrente.
confronto col Battista
Gesù si differenziava nel modo di vivere dal Battista. Il Battista si era separato dalla società, viveva sulle rive del fiume Giordano, lontano dagli abitati e la gente per incontrarlo doveva andare da lui; inoltre mangiava solo miele selvatico, cavallette, vestiva con pelli ed era perciò un disadattato. Gesù all’inizio è stato un discepolo del Battista e ha ricevuto il battesimo di penitenza, ma poi si è staccato, ha preso una sua strada. Il Battista ed altri come lui, ad esempio i qumraniti, stanchi della corruzione dell’ambiente religioso di Gerusalemme si ritiravano ai margini e vivevano una vita di grande tensione morale. Gesù è stato molto attratto da questa esperienza ed è entrato nei movimenti di riforma spirituale del suo tempo però poi si è staccato ed ha vissuto tra la gente. Un elemento di differenza è che Gesù mangiava e beveva normalmente, al punto da venire motteggiato come mangione e beone. Rientra tutto questo nel suo modo di intendere l’esistenza come missione al servizio di Dio e degli altri.
araldo in dimensioni umane
Un altro elemento interessante si rileva da due reazioni; una è raccontata da Luca: durante il viaggio dalla Galilea a Gerusalemme per la festa della Pasqua si doveva transitare per la Transgiordania nella regione dei samaritani con cui vi erano rapporti di odio. Gesù con la sua compagnia è entrato in un villaggio samaritano chiedendo ospitalità. Allora per i pellegrini che si recavano a Gerusalemme l’ospitalità era sacra. In Luca 9,54¬-55 si legge che l’ospitalità venne loro rifiutata; due focosi del gruppo detti infatti « figli del tuono » dicono a Gesù: « Vuoi che invochiamo dal cielo il fuoco distruttore contro questi? ». Gesù li rimproverò duramente e disse « andiamo in un altro villaggio a pernottare ». E’ una reazione molto significativa di Gesù che non si sente un inviato potente di Dio, ma intende la sua missione come araldo del Dio altissimo, ma in dimensioni umane.
L’altra reazione significativa è nella tradizione di Giovanni al cap. 8,1-11 nell’episodio dell’adultera. Mentre tutti sono pronti a lapidare la donna trovata in flagrante adulterio, Gesù reagisce dicendo « chi è senza colpa scagli la prima pietra » e poi resta solo con la donna. Gesù domanda « nessuno ti ha condannato? » « nessuno » « e neanch’io ti condanno, va e non peccare più ». E’ una reazione di umanità e di speranza: tu hai capacità nuove, puoi riscattarti, non sei chiusa dentro la tua colpa, puoi cambiare, ricostruirti un’altra vita.
Nel cap. 8 di Matteo, Gesù, rifacendosi alle scritture dell’Antico Testamento parla del servo di Dio che non grida nella piazza; la sua missione non è quella di spegnere il lucignolo incerto, ma di ravvivarlo.
rifiutato dai potenti e accolto dai piccoli
Un altro elemento interessante è l’emozione che Gesù prova; Matteo 11,25 (testo parallelo di Luca 9,54-55) riporta una delle preghiere formali di Gesù « ti benedico Padre perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli; così è piaciuto a te ». Il testo di Luca aggiunge che Gesù ha avuto un sussulto di gioia. Gesù, probabilmente dopo lunga riflessione, rilegge la sua vicenda alla luce di Isaia; Isaia non veniva ascoltato ed era in preda al dubbio di non essere il profeta di Dio, perché non è possibile che la parola di Dio venga rifiutata. Però meditando lungamente, Isaia capì che la sua missione era proprio di dire una parola di Dio che poteva non essere ascoltata, a causa del rifiuto dell’uomo.
Gesù ha fatto un’esperienza analoga con una variante. Il giudaismo ufficiale nei suoi rappresentanti lo aveva rifiutato. In Giovanni si dice al cap. 7 che uno dei motivi per cui i capi del giudaismo negavano che Gesù fosse profeta, il Messia, è che nessuno dei capi ha creduto in lui. Il secondo motivo è che ha creduto in lui soltanto la gentaglia che non conosce la legge. Gesù, a differenza di Isaia, ha avuto un settore che ha creduto in lui ed erano gli analfabeti che non conoscevano le prescrizioni. La grande scoperta di Gesù è stata che il fallimento presso gli esponenti ufficiali ed il successo presso i piccoli era la prova dell’essere l’inviato di Dio. Ha capito che nella sua vicenda contrastata, la contraddittorietà significava che era il profeta di questo Dio misterioso che si rivela, fa l’apocalisse, agli esclusi.
uno di noi
L’altra emozione molto forte di Gesù è descritta in Giovanni 11,38 quando viene a sapere che l’amico Lazzaro è morto: « fu profondamente commosso in se stesso ».
Quando ci accostiamo alla figura di Gesù dobbiamo prestare attenzione alle sue parole, alla sua morte e resurrezione, ma anche allo spessore del suo vissuto umano. Il suo vissuto è per certi versi anche il nostro vissuto; le sue difficoltà, i suoi dubbi, la sua ricerca dicono l’originalità e l’individualità del suo vissuto che noi dobbiamo meditare perché ha grandi somiglianze col nostro vissuto; cogliamo una persona viva, uno di questo mondo che è nato, vissuto, fa il suo cammino e dà un senso alla sua vita.
nessun anelito al martirio
Nella vita di Gesù, come in quella di ognuno, c’è il momento topico, quello in cui il cammino storico si conclude. Anche in questo momento vi sono elementi molto interessanti presenti nella tradizione evangelica.
Il momento della verità in cui si confronta con la morte tragica, violenta è da lui vissuto psicologicamente nel suo apice nella scena del Getzemani, Marco 14,32 ss., e i paralleli. Vi è un elemento impressionante riportato da Marco, attenuato in Matteo e Luca: Gesù in compagnia di Giacomo, Giovanni e Pietro cominciò ad essere preso dal panico; è una esperienza di un vivere drammatico. La parola di Gesù ai suoi accompagnatori è quasi identica in tutti: « la mia anima è avvolta dalla tristezza », sono assediato dalla tristezza « fino a morire ». In Gesù non c’è un anelito al martirio, elemento che apparirà più tardi nel cristianesimo; ad esempio Ignazio, vescovo di Antiochia nel 110, quando fu condotto prigioniero a Roma per essere dato in pasto alle belve, scriveva durante il viaggio lettere alle comunità presso cui passava, esprimendo l’anelito al martirio, diceva che la sua esistenza è come il grano che deve essere triturato per poter formare il pane. Gesù invece é preso dal panico e dice ai suoi: rimanete qui e vegliate con me. Prosegue il testo « andato leggermente avanti cadde con la faccia a terra e pregava: se è possibile passi da me quest’ora »; Gesù desidera non avere l’incontro con questa morte tragica e prega Dio che lo liberi, e diceva: « Abbà, tutto a te è possibile, passi da me questo calice, ma non quello che voglio io, bensì quello che vuoi tu ». Gesù prega Dio che lo liberi però gli viene il sospetto che Dio non è colui che gli risparmia la morte. E’ un momento di verità per lui, una scoperta; da un lato c’è la credenza tradizionale della potenza di Dio che lo libererà e dall’altra parte questa sensibilità nuova nell’avvertire che probabilmente questo Dio non gli risparmia la morte tragica. E’ per Gesù una verità crudele perché vuol dire che è lasciato a se stesso, che gli manca la protezione, nel momento cruciale, di questo Dio protettore che la tradizione ebraica celebrava con l’immagine della roccia, della rupe, il fondamento sicuro. Gesù scopre che Dio non risparmia nulla al suo inviato, al suo araldo. Poi c’è anche l’amarezza per i suoi che si addormentano « i loro occhi erano appesantiti dal sonno ». Matteo nella sua versione dice « io potrei invocare la legione degli angeli a combattere » era il sogno coltivato attraverso i secoli della guerra santa, di un Dio battagliero che interviene a liberare i suoi contro i nemici. Gesù arriva a scoprire che Dio non ha le legioni celesti, non interviene nella storia sia pure a liberare suo figlio.
l’araldo di Dio come maledetto
Il secondo elemento che riguarda il modo in cui Gesù si rapporta al suo morire tragico si trova più avanti, quando è messo in croce. Gesù era figlio del suo tempo, con le credenze di allora, con le evidenze culturali e religioniste e vede venir meno tutte le attese del Dio che interviene a salvare in extremis il suo inviato. La croce era pena terribile non solo dal punto di vista sociale essendo riservata agli schiavi e ai terroristi, ma anche dal punto di vista religioso perché si diceva che chi pende cadavere dal legno è un maledetto da Dio. Gesù, l’araldo, l’evangelista di Dio, finisce come il maledetto. I suoi avversari lo motteggiano mentre è sulla croce; Marco 15,27-32 « se sei figlio di Dio scendi dalla croce » gli chiedono la prova e Gesù non riesce a dare questa prova. « Ha salvato gli altri, ma non può salvare se stesso ». Gesù a questo punto deve convincersi di essere impotente a salvare se stesso e che neppure Dio può farlo. Il terzo elemento è in Marco 15,34, ripetuto poi da Matteo ove c’è la preghiera del Salmo 22, una delle voci più desolate del salterio. Il protagonista di questo salmo che si confronta con una tragedia sua di oppressione e di odio da parte dei nemici, nonostante tutto conserva la fiducia in Dio. « Eli, Eli, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », c’è l’abbandono da parte di Dio, però questa preghiera è intessuta di fiducia. Gesù si sente un abbandonato dal Dio forte, interventista, però non è un abbandono totale: l’ha lasciato un certo Dio che era il Dio della sua tradizione ed educazione, della sua sensibilità e cultura. Con sé ha un Dio che sale anche lui sulle croce. Il quarto elemento è in Marco 15,37, con cui concorda Matteo « e lui gridò con voce forte e spirò ». Invece nella tradizione lucana c’è un elemento molto bello, forse non storicamente del tutto fedele però è importante per cogliere come l’esperienza di Gesù è stata rivissuta nella fede, nel ricordo. In Luca 23,46 c’è un’altra preghiera di Gesù « nelle tue mani deposito la mia vita »; Gesù non è passivo, la vita gli è strappata dai nemici, ma egli prende questa sua vita e la affida a Dio. C’è da notare che in questo non vi è la certezza della risurrezione, i testi in cui Gesù dice che il terzo giorno risusciterà sono stati riconosciuti dalla critica evangelica come testi successivi. Se Gesù avesse avuto la certezza di risorgere, la sua morte, per quanto drammatica, sarebbe stata temporanea, molto circoscritta. Gesù non è morto nella coscienza dello sfacelo generale, definitivo, ma ha un gesto di fiducia in Dio, vedrà Dio cosa fare della sua vita.
Nella nostra tradizione catechistica abbiamo sempre avuto l’immagine di Gesù come di un superuomo, invece da queste testimonianze emerge come Gesù ha sentito il peso dell’esistere ed ha avvertito il dramma di un morire tragico. L’esistere ed il morire di Gesù è molto vicino a noi, agli uomini che fanno esperienze drammatiche in questo mondo.

2. COME GESÙ HA PERCEPITO IL VIVERE UMANO IN GENERALE.
Gesù è stato dentro la società del suo tempo, si rapportava agli altri e perciò sappiamo, dalle testimonianze, come sentiva il vivere umano in generale.
un mondo governato bene dal Creatore
C’è un testo di Matteo 6,25, ripreso da Luca « non affannatevi per la vostra vita, che cosa mangiare, che cosa bere, come vestirsi, forse che la vostra vita non è di più del cibo e il vostro corpo non è di più del vestito che si mette addosso? Guardate gli uccelli del cielo, essi non seminano e non mietono e non raccolgono nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Ora voi non siete di più di loro? Chi di voi affannandosi può aggiungere un giorno all’età o uno spazio alla sua statura? E del vestito perché affannarsi? Guardate i gigli del campo come crescono e non si affaticano nel lavoro né filano, eppure vi dico che neppure Salomone in tutto il suo splendore si è avvolto di vestiti come uno di questi. Se l’erba del campo che oggi è e domani viene tagliata e buttata nel fuoco, Dio così la riveste, quanto più voi, gente di poca fiducia. Dunque non affannatevi dicendo che cosa mangeremo, che cosa berremo, di che cosa ci vestiremo? Tutte queste cose le ricercano i pagani, sa infatti il Padre vostro celeste che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate innanzi tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto questo vi sarà dato ». E’ un testo citato dalla storiografia marxista. Ad esempio Kautsky nel suo scritto del 1911 « Le origini del cristianesimo » dice: ecco come Gesù era un « comunista di consumo » nel senso di consumare tutti insieme quello che c’è, contro il lavoro duro.
In particolare in queste espressioni si rileva la sensibilità che Gesù ha del Dio creatore; Gesù vede l’esistenza umana in un mondo governato bene dal creatore. Noi oggi abbiamo la sensibilità di un mondo crudele, scisso, in cui una minoranza ha rapinato i beni a discapito della maggioranza. Gesù mostra una sorta di romanticismo, di semplicità; è uno squarcio di vita al di fuori del dramma di situazioni mondane di frattura enorme, di ingiustizia violenta.
Il secondo testo è in Matteo 10,39 e 16,25, Marco 8, 35, un testo dove Gesù gioca al paradosso sul significato della vita; si rivolge ai suoi discepoli, ma lo sguardo è molto più universale sull’esistere umano. « Infatti se uno vuole salvare la propria vita la perderà » sottointendendo che la vita che si perde è diversa da quella che si salva, c’è una vita che va perduta per poter salvare un’altra vita. L’uomo è chiamato a scegliere fra due tipi di vita. Anche nella cultura del tempo c’era distinzione tra il vivere « bios » come dato oggettivo e la vita alta, piena. Anche gli stoici, i filosofi hanno fatto distinzione tra una vita autentica, che noi chiamiamo la qualità della vita, e una vita fatta solo di conforts, di comodità. Per Gesù l’applicazione è sulla vita autentica che si realizza nella fede con l’adesione a lui e al Vangelo. Per arrivare alla vita autentica ci sono prezzi di vita da pagare.
alla ricerca di ciò che vale nella vita
Un altro testo è la parabola di Gesù in Matteo 13,44-45, in cui si dice che un contadino ha in affitto un podere e arandolo trova un tesoro sepolto. Il contadino vende tutto quello che ha, compra il campo e acquisisce il tesoro. L’altra parabola narra di uno che commercia in pietre preziose e, girando per i mercati, scopre una perla di valore inestimabile, allora vende tutto quello che ha per poterla acquistare. Gesù intende dire che si deve essere disposti a dare tutto per il tesoro, che c’è qualcosa di grande nella vita per cui vale la pena di perdere tutto il resto. Per raggiungere il tesoro bisogna fare delle scelte, non pretendere di avere tutto, quello che vale e in più la « pleonexia ». La vita è ricerca di ciò che vale ed una volta scoperto si deve perdere tutto il resto.
bene e male sgorgano dal cuore dell’uomo
Gesù vede minacciata l’esistenza umana; nel testo degli uccelli e dei gigli del campo ha uno sguardo di freschezza sulla creazione, ma non per questo si è nascosto la drammaticità dell’esistenza umana. Nella cultura del tempo di Gesù l’esistenza umana era percepita come un campo di lotta tra le forze della vita e quelle della morte. Le forze della morte poi erano, in un certo senso, cosificate, pensate in cose esterne. Ad esempio gli ebrei non volevano avere rapporti con i cadaveri perché ritenevano che il contatto con le forze della morte racchiuse nei cadaveri contaminasse e si rimanesse da queste investiti. Anche la carne di porco, il sangue mestruale erano ritenuti sede delle forze della morte. Per contrastare queste forze sono sorti i riti di purificazione e la religione aveva la funzione di liberare gli uomini dall’assalto delle forze della morte. Il rito conduceva l’uomo nella sfera dove agiscono le forze della vita. Gesù si confronta con questo problema in Marco 7,15 ss. « non sono le cose che entrano in noi a gettarci nelle braccia delle forze della morte »: la percezione nuova di Gesù è che le forze della morte che contaminano l’uomo non provengono dall’esterno, ma dall’interno. Gesù interpreta il dentro come ciò che viene dal cuore, cioè dal centro decisionale dell’uomo. In questo senso la concezione di Gesù è molto più drammatica e dice: dal cuore dell’uomo escono le malvagità. L’esistere nostro per Gesù è confrontato con le forze della morte e le forze della vita e la sede di entrambe è dentro il cuore. Gli accampamenti del nemico sono dentro di noi. L’esistere autentico, dice Gesù, è fare emergere da noi le forze della vita e non le forze della morte.
il problema della ricchezza
Un altro tema che Gesù ha affrontato diverse volte riguardo il vivere è il problema della ricchezza, degli averi, delle cose. In Matteo 19,24 vi è il detto che il cammello non può entrare nella cruna di un ago, e così un ricco non può entrare nel regno di Dio. In Luca 12,15 Gesù ha un diverbio con i farisei e c’è un’annotazione assolutamente originale in quanto i farisei vengono detti ‘filarguroi’, amanti del denaro: « Disse loro: guardatevi da ogni pleonexia, volontà di accumulamento ». Un terzo detto – Luca 16,1 ss. – si trova nella parabola di Gesù sull’amministratore dei beni che viene destituito e questi astutamente si reca dai debitori e pratica decurtazioni agli importi. Quando deve lasciare l’incarico fa valere le sue benemerenze e coloro cui ha condonato parte del dovuto lo accolgono in casa loro e lo mantengono. La parabola di Gesù sottolinea questo comportamento come avveduto perché l’amministratore ha saputo assicurarsi il futuro. L’applicazione circa il vivere è che le ricchezze vengano date in elemosina. La stranezza della parabola consiste nel fatto che Gesù loda un truffatore, però l’accento non è posto sul comportamento truffaldino, ma sulla avvedutezza. Altro testo importante sull’argomento si trova nel Discorso della montagna « non potete servire a due padroni, Dio e Mammona, Dio e il denaro ». Gesù contrappone un altro tipo di vita rispetto a quello dominato dalla ricchezza, percepita come una realtà capace di fare da padrone nella vita. La saggezza del vivere è sfuggire al padronato dell’accumulo.
Un tema importante è la fiducia, un altro è quello del vecchio e del nuovo, ove Gesù dice che non possiamo vivere il nuovo come una riedizione del vecchio; e parla di toppa nel vestito, degli otri; in Marco 2,27 parla del sabato e in Luca 11,28 dice « Beati coloro che ascoltano la parola ». Il tema dell’esistenza minacciata si trova in Luca 12,4-5 « Non temete quelli che possono uccidere il corpo, ma quelli che mandano tutto l’uomo nella Geenna ».
Un testo sul nascere è in Giovanni nel dialogo a Nicodemo; tutta la concezione di Giovanni è dualistica, vi è la realtà dell’alto (anà) e del basso (katà), la realtà di Dio e del mondo. Distingue il nascere dal basso ed il nascere dall’alto. « Rinascere » non rende l’idea qualitativa, Giovanni invece parla di « nascere dall’alto » e dice: nascere dall’acqua (che sarebbe il battesimo) e dallo spirito. Per Giovanni la qualità della vita dipende dal principio e quindi nascere nel segno dello spirito. E’ una panoramica sia del vivere come Gesù ha vissuto, sia del vivere umano come Gesù l’ha percepito entrando in contatto con gli uomini.
Precisazioni e approfondimenti nel dibattito
A proposto dell’accumulo dei beni in Gesù c’è la percezione dell’accumulo della ricchezza come ingiusto. Analizzando la parabola dobbiamo chiederci cosa Gesù vuol dire, il suo scopo è sottolineare l’avvedutezza del ricco che consiste nei disfarsi dei beni. La parabola non analizza il comportamento truffaldino, ma come l’amministratore è riuscito a salvarsi in una situazione disperata. Chi è nella ricchezza è in una situazione disperata e vi è un’unica possibilità di salvarsi. Non ogni elemento della parabola è importante, vi è una « punta » ed in questo caso è che un uomo, preso alla gola, è riuscito a salvarsi. Il ricco è preso alla gola dalla rovina eterna. La metodologia richiede che non si prenda la parabola come se fosse un’allegoria: è un racconto fatto per dire una cosa sola.
Gesù dicendo « beati i poveri » si riferisce ai beneficiari della giustizia. Per la comunità cristiana primitiva i poveri sono i cristiani; per Luca sono i poveri cristiani oppressi in questa vita; per Matteo sono gli umili. Gesù vuol dire che Dio viene a liberare i poveri in senso molto vasto. Non c’è un valore morale o teologico del povero. Il povero è beato perché beneficiario della liberazione del Dio re che è il simbolo della giustizia.
Gesù abbina il non affannarsi al guardare al Padre celeste, non condanna il darsi da fare ma lo colloca nella fiducia. La contrapposizione è con i gentili, quelli che non conoscono Dio: é un situarsi nel mondo e affrontare il problema elementare del vivere in una prospettiva di radicale fiducia nel Dio creatore. In questa pagina non emerge il dramma della fame, dello sfruttamento, ma vi è uno sguardo esistenziale, non certo di valenza sociale, dell’uomo come si colloca nel mondo, o in una fondamentale fiducia nel Dio creatore oppure nell’affanno perché non ha prospettive. C’è un vissuto molto religioso, di tipo francescano, che in altri testi non appare. Dietro l’affanno c’è la mancanza di qualsiasi prospettiva di speranza nell’esistere. Gesù distingue tra vivere il mondo nella consapevolezza della creatura di Dio o come una realtà in sé sussistente. La prospettiva del Dio creatore impegna con una fondamentale fiducia. Chi non l’ha è preso dall’affanno e si aggrappa all’avere, ma sentendo di non avere mai abbastanza. Se vi è rapporto di fede si vive il mondo in una conciliazione con Dio, se si vive in modo avulso, si vive nell’insicurezza per cui si accaparra, però l’accaparramento non estingue l’affanno. Il rapporto di ogni persona con il mondo dipende dal rapporto che si ha con Dio. Gesù non manifesta coscienza del dramma della fame e si rifà all’esperienza personale della sua vita peregrinante, di chi non ha un’occupazione lavorativa; questo dimostra come la sensibilità dipenda dallo stato sociale che uno ha scelto. Gesù ha scelto uno stato sociale del tipo « figli dei fiori » in cui giocava un ruolo fondamentale la dimensione del sentirsi figlio di Dio.
Nella parabola dei vignaioli il comportamento del padrone è certo antisindacale. Infatti il padrone dice all’amministratore di incominciare a pagare quelli che avevano lavorato tutto il giorno, i quali pigliano il loro denaro pattuito; poi quelli che hanno lavorato meno pigliano la stessa paga e così via fino a quelli che hanno lavorato soltanto un’ora e ricevono anch’essi un denaro. Scatta l’accusa dei primi: tu sei ingiusto perché ci hai equiparati a questi. Il padrone replica: voi avete l’occhio cattivo cioé siete invidiosi. L’invidia è un sentimento distruttivo perché non tollera che l’altro abbia del bene. La parabola di Gesù vuole dire che questo Dio di grazia ha mandato il figlio suo in un mondo che è tanto diviso: vi sono i buoni, moralmente ineccepibili, poi ci sono i ladroni, gli atei, i pagani. Si pensava a Dio come a un buon ragioniere che dà a ognuno secondo i meriti, invece Dio dà grazia a tutti, ai buoni e ai cattivi. Non si può esigere da Dio che la grazia sia un possesso esclusivo. Nell’Antico Testamento Dio era giudice giusto, imparziale. Paolo, che è un teologo straordinario, sposta il tema del giudizio e dice: Dio è imparziale di grazia. Uno degli schemi fondamentali proiettati in Dio è il Dio giudice. Il giudice dà « unicuique suum », a ciascuno il suo. E’ uno schema meritocratico, invece Dio è diverso, sfugge, dà indiscriminatamente a tutti, fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sul campo del giusto e dell’ingiusto. All’interno di un condizionamento culturale molto forte è un’acquisizione straordinaria che vi sia e nell’Antico Testamento e nel Nuovo il filone che cerca di uscire dall’immagine di Dio catturata dentro agli schemi nostri.

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