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AGOSTINO D’IPPONA: SANGUE SPARSO
Vittorino Grossi, osa
(Vittorino Grossi è stato mio professore, non è molto importante, ma mi fa piacere presentarvi qualcosa di suo)
SOMMARIO
1. La morte di Cristo.
2. « Il sangue sparso » e i sacramenti.
3. « Sangue sparso-remissione dei peccati » (La II Penitenza).
4. Il « sangue sparso » e la celebrazione eucaristica.
5. Conclusioni.
Note
Bibliografia
Il tema del « sangue sparso » era molto comune nell’antichità cristiana fin dai tempi subapostolici. Lo esaminiamo soprattutto nel Commento di s. Agostino al Vangelo di Giovanni. Esso rappresenta, nell’opera agostiniana, un ampio arco di tempo (dal 406 al 418), e riflette perciò le linee del pensiero di Agostino relativo sia alla polemica donatista che a quella pelagiana. La polemica donatista approfondì la natura essenziale circa le questioni sacramentarie. Un sacramento, ne fu la conclusione, è della Chiesa, ne è essa il ministro, perciò a nessuna persona singola è concesso sia di monopolizzarlo che di manipolarlo. La polemica pelagiana approfondì l’universalità della redenzione. Cristo, cioè, ha sparso il suo sangue per tutti e non solo per una classe di uomini, gli adulti, che sarebbero in possesso di una supposta coscienza sviluppata e perciò responsabili del loro agire, escludendo di conseguenza i menomati psichici e in particolare i bambini.
Nella questione del « sangue di Gesù » si ha quindi, nel Commento a Giovanni, l’intreccio della questione sacramentaria con quella più generale della « morte di Cristo », cioè le ragioni soteriologiche. Il « sangue sparso » era già, ai tempi di Agostino, un’espressione tecnica per significare la morte. Questa riceve significato dal come e dal perché la si accetta. Cristo poteva dare e diede significato alla sua morte, constatata come quella di tutti che avvenne, tra l’altro, con una grande dispersione di sangue. Morire perciò fu per lui anche uno « spargere sangue » fisicamente, sino a non averne più, morì
cioè anche lui. Agostino, d’altra parte, visse in un momento storico in cui le città romane, sottoposte ad assedi e occupazioni da parte di popoli invasori, venivano spesso lasciate intrise di tanto sangue umano. Il sangue sparso degli uomini ritrovava allora nella riflessione di Agostino un suo significato nel « sangue sparso » di Cristo. Egli perciò nel Tractatus in lohannem (cfr 119, 4) parla della morte che, in Cristo, riceve significato dall’umiltà di accettarla (cfr 119, 4); ne parla come vita perché in Cristo si tratta della morte del re delle genti (cfr 117, 5). Morendo lui vivono gli altri, perché Cristo rappresenta l’uomo che, pur morendo, non muore; l’uomo che, se muore lui, muoiono tutti. Parlando della morte di Cristo si parla perciò della « potenza della sua morte » e non della sua disfatta a causa della morte, così come abitualmente si dice della morte di tutti (cfr 31, 6).
1. LA MORTE DI CRISTO
La morte di Cristo è vista da Agostino come espressione di somma libertà per lui e di speranza per l’umanità di non sottostare più alla condanna di dover morire. La morte del Signore non fu cioè frutto di un destino segnato, da capire all’interno del fatum pagano, ma frutto ed espressione di una libertà somma. Cristo infatti, per Agostino, non subì la morte, ma l’aspettò come aveva atteso il tempo della sua nascita tra gli uomini (cfr Gv 7,30). Al concetto « agostiniano » di redenzione è perciò non solo necessaria, ma inerente la componente libertà. Il valore degli atti umani si misura sulla dimensione della libertà che in Cristo fu somma. Il sangue versato da Cristo non va valutato sul piano meramente fisiologico, quasi esso abbia valore in quanto tale, bensì quale sangue versato, cioè di vita donata. È questo un primo elemento per comprendere il sangue legato a una redenzione, anzi la semantica stessa del « sangue sparso » di Cristo include in Agostino tale nozione. La morte cruenta del Figlio di Dio è pertanto da leggersi nella sua vita non come un epilogo di nascita-crescita-morte, bensì nell’ambito della missione che doveva compiere.
Da tale base Agostino fa derivare la speranza umana di non disperare più di dover vagare lontano da Dio, anche per coloro stessi che lo uccisero. Cristo infatti cancellò sulla croce la sentenza di morte che gravava sull’umanità: morrete nel vostro peccato (Gv 8, 24). Egli, facendone un’applicazione alla comunione eucaristica, si esprime così: (Cristo) non considerava che riceveva la morte da loro, ma che moriva per loro. È così grande il favore ad essi accordato con la morte di Cristo, da loro inflitta e per loro accettata, che nessuno deve disperare per la remissione dei propri peccati… Continuarono (coloro che l’uccisero) a disperare nella loro salvezza, finché non bevvero il sangue che avevano versato (In Johannis Evangelium tractatus, 32, 9)… (Cristo) li richiamò alla speranza… Ridonò la speranza a chi l’aveva perduta… perfino a chi aveva ucciso Cristo… molti credettero, ricevettero il sangue di Cristo come dono affinchè, bevendolo, ottenessero la liberazione invece che essere condannati per la colpa di averlo versato: chi potrà dunque disperare? (Ib., 38, 7). La speranza è per tutti perché Cristo è morto per tutti, come venne indicato nel titolo di re appeso sul legno della croce. Se non si può alterare – si chiede Agostino – ciò che Pilato ha scritto, si potrà alterare ciò che la Verità ha detto? E poi Cristo è re soltanto dei Giudei o anche di tutte le genti? È certamente re di tutte le genti… Cristo dunque è il re dei Giudei, ma dei Giudei circoncisi nel cuore, secondo lo spirito e non secondo la lettera; è il re di coloro che traggono la loro gloria non dagli uomini ma da Dio, che appartengono alla Gerusalemme che è libera, che è la nostra madre celeste (Ih., 117, 5; vedi anche sul significato di Cristo « Re dei Giudei »: ib., 51, 4 e 9; Enarra-tiones in psalmos, 59, 9).
2. « IL SANGUE SPARSO » E I SACRAMENTI
Il rapporto tra il sangue versato sulla croce, in particolare quello uscito dal costato di Cristo secondo il racconto di Gv 19, 34, e i sacramenti, è preso in considerazione da Agostino nella sua omelia 120 del Commento a Giovanni, da datarsi dopo il 416. Al centro della riflessione di Agostino vi è Cristo redentore in primo luogo, e quindi, in secondo luogo, la Chiesa e i sacramenti. Il sangue di Cristo, uscito dal suo costato, ferito dalla lancia del soldato romano, costituisce ora il punto di partenza per decifrare sia la Chiesa che i suoi sacramenti.
Nell’ottica antidonatista Agostino articolava così il suo discorso soteriologico: i sacramenti della Chiesa operano ciò che significano e indipendentemente da chi li pone. Essi infatti non sono dei segni falsi e hanno valore perché Cristo è presente nel ministero di chi li pone. Emerge in questo modo di ragionare la centralità della Chiesa e quella di Cristo attraverso la mediazione dei segni sacri della Chiesa, vale a dire dei sacramenti. Ora invece, nell’omelia 120 del Commento a Giovanni, emerge sovrana la centralità del sangue di Cristo, dal quale traggono valore e comprensione la Chiesa e i suoi sacramenti. Agostino vuol rilevare l’universalità di Cristo redentore e come ogni efficacia di tale redenzione trae origine dal sangue versato sulla croce.
Ascoltiamone prima il testo principale e quindi daremo qualche rilievo di natura ecclesiologica e sacramentaria. Nel costato di Cristo, scrive Agostino, fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa… Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati; quell’acqua tempera il calice della salvezza e e insieme bevanda e lavacro… Il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l’acqua che sgorgarono dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c’è di più puro di questo sangue? Che cosa c’è di più salutare di questa ferita? (In lohannis, o. e., 120, 2)1.
La Chiesa, secondo questo testo, nasce dal costato aperto di Cristo come da una porta, simile a Eva uscita dal fianco di Adamo assopito. L’immagine di Chiesa che ne risulta non è quella di una società già formata che vive della redenzione e dei sacramenti datile da Cristo, perché giunga alla vita eterna. La Chiesa sono gli uomini che, toccati dal Cristo redentore, escono dal suo fianco. Quel fiotto di sangue, che fluisce dal costato di Cristo, è la Chiesa, cioè gli uomini che, passando attraverso quel fiotto di sangue e acqua, la costituiscono. I redenti perciò non dicono riferimento immediato alla Chiesa ma a Cristo e, passando attraverso di lui, la sua passione, il suo sangue, formano e generano la Chiesa. È lui il primo, la Chiesa nasce da lui2. La porta di salvezza degli uomini e quindi della stessa Chiesa è primieramente il costato di Cristo e non i sacramenti, che sono invece la mediazione nata da quel sangue.
Agostino, nella medesima omelia, indica anche la dimensione di comprensione di tale realtà. Essa è la fede rivelataci dalle Scritture che, in Cristo, trovano il loro compimento (cfr ìb., 120, 3). L’approfondimento della fede egli lo sviluppa in modo particolare relazionandolo al battesimo. La stessa acqua battesimale deriva la sua virtus di purificazione dalla parola della fede e ciò sia per il bambino che per l’adulto3.
3. « SANGUE SPARSO-REMISSIONE DEI PECCATI »
(LA II PENITENZA)
Quanto a un esame in Agostino del binomio « sangue sparso-remissione dei peccati », considerato non a sé ma quale testimonianza della vita ecclesiale della fine del sec. IV e la prima metà del sec. V, va anzitutto rilevato come lui, in questioni riguardanti i misteri cristiani, avesse un istinto teologico tale che gli consentiva di non isolare per settori gli aspetti più diversi, percepiva i « frammenti cristiani » sempre all’interno di un tutto, che decifrava nel Cristo redentore, unico mediatore (la filigrana delle Confessioni e della Città di Dio). Tutto ciò fu in lui particolarmente vero a proposito della remissione dei peccati che, al suo tempo, conosceva un triplice modo di perdono: il battesimo (dato semel), la preghiera del Padre nostro considerata battesimo quotidiano, la « seconda penitenza » che, nella linea battesimale, veniva data una sola volta in vita. Agostino, pur attestandosi sulla prassi tradizionale del semel, immise in essa elementi che consentirono di superare i limiti connaturali alla regola di poterne usufruire una sola volta4.
Agostino pone la fondazione teologica del perdono nella Chiesa in una triade di natura sua non separabile: « sangue di Cristo, Spirito Santo e Chiesa ».
Il « sangue di Cristo », formula equivalente di quella tradizionale « sangue sparso », costituisce la radice del tutto; lo Spirito Santo mette in atto il perdono, cioè, come si esprimeva già Clemente Alessandrino, il sangue di Cristo diviene sangue spirituale per gli uomini. Il perdono, in altri termini, è il frutto che gli uomini colgono dall’albero della redenzione. Ciò viene reso possibile nella Chiesa, « luogo dello Spirito » secondo la tradizione asiatica accolta da quella africana, ma anche mediazione ministeriale perché a lei, a tale scopo, sono state date le chiavi del regno dei deli5.
Nel sermone sulla trasmissione del simbolo (il 214, datato nella quaresima del 391), Agostino, prete da poco tempo, spiega l’articolo « credo nella remissione dei peccati », sintetizzando la questione nel modo seguente: La Chiesa del Dio vivo… ha ricevuto le chiavi del regno dei deli, affinchè in essa, per mezzo del sangue di Cristo, operante lo Spirito Santo, ci sia la remissione dei peccati (Sermones, 214,11). È questo un principio teologico che tiene presente l’insieme degli elementi riguardanti la remissione dei peccati. Agostino infatti colloca il perdono nella terza parte del simbolo, rispettandone l’articolazione, che era costruita sullo Spirito Santo; il quale nella Chiesa opera la remissione dei peccati, ma lo riannoda al sangue di Cristo che ne è la radice. A proposito di alcuni che facevano una catechesi parziale al riguardo, egli si chiede: Niente sullo Spirito Santo, niente sulla santa Chiesa, niente sulla remissione dei peccati? (De fide et operibus, 9,14).
Una questione connessa con la remissione dei peccati, oggi molto sentita pastoralmente, e che anche teologicamente inizia a essere sottoposta a una più attenta riflessione, riguarda l’ampiezza concreta accordata ai cristiani nell’antichità in occasione di gravi fallimenti spirituali. Già al tempo di Cipria-nò correnti rigoriste all’interno della « Cattolica » non accordavano la pace agli adulteri impedendo loro, di conseguenza, di accedere alla penitenza. Si adduceva la ragione che il perdono non costituisse motivo d’incitamento al crimine piuttosto che di allontanamento. Tertulliano montanista aveva formulato la regola nel modo seguente: La Chiesa può condonare un delitto, ma io (il Paraclito) non lo farò, affinchè altri non pecchino ulteriormente (De pudicitia, 21).
Al tempo di Agostino, verso il 396, esistevano ancora alcuni che negavano alla Chiesa il potere di remissione di ogni peccato (cfr De agone christiano, 31, 33). Quanto all’estensione di tale perdono egli ne indica la fonte nel Cristo morente sulla croce il cui sangue versato per la remissione dei peccati… è insieme bevanda e lavacro (In lohannis, o. c., 120, 2), e nel donarsi dello Spirito Santo che opera ogni remissione6.
Il vescovo d’Ippona ebbe chiara l’idea che la causa della riconciliazione è sempre la medesima in ogni modalità penitenziale 7; sul piano pratico, tuttavia, non si nascondeva la difficoltà che paragonava all’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi.
Scrivendo all’amico Paolino di Noia si confidava: Che dire, Paolino, del problema se si debba punire o meno… occorre tener presente non solo la natura e il numero delle colpe, ma anche la forza d’animo con cui uno sopporta o rifiuta il castigo, affinchè ne ritragga vantaggio o almeno non ne ricavi uno svantaggio. Quanto è misterioso tutto ciò… Quanto a me ti confesso che mi succede di sbagliare ogni giorno. Anche quando pare doveroso giudicare, quale ansia, quale angoscia (Epistulae, 95, 3)!
Nei testi penitenziali agostiniani possiamo cogliere alcune linee fondamentali che trovano la loro giustificazione nell’unica causa della riconciliazione: « il sangue versato sulla croce ». Tali linee sono:
1. Nessun crimine è sottratto al perdono della Chiesa. Egli scrive: L’impudicizia, l’idolatria e l’omicidio vengono puniti con scomuniche finché si risanino per mezzo della penitenza la più umile (De fide et operibus, 19,34). Certamente quella penitenza sa di lutto. C’è una ferita grave: forse un adulterio, forse un omicidio, forse un sacrilegio. È una cosa grave, c’è una ferita grave, letale, mortifera, ma (c’è) anche un medico che può tutto (Sermones, 352, 2, 8).
2. La scomunica che s’infligge per determinati crimini non riveste un significato strettamente penale ma medicinale, essa è quindi tesa al ravvedimento e perciò può essere inflitta solo per un determinato tempo (cfr Sermones, 331): si ha pertanto sempre un legame tra la scomunica e la riconciliazione (cfr Epistulae, 265, 7).
3. Si tollera, anche se a malincuore, la situazione di chi non accetta la scomunica, che si comporta come se nulla fosse successo8; e di chi sia almeno disposto ad accettare una correzione alternativa a quella penitenziale pubblica (cfr Sermones, 82,3-7; Epistulae, 73,9; De fide et operibus, 26,48: quibusdam correptionum medicamentis).
Tale orientamento Agostino lo derivava da tre elementi presi nel loro insieme: a) l’autorità della Chiesa che ha sempre una finalità medicinale: la sua funzione è aiutare gli uomini a recuperarsi dai loro fallimenti; b) la misericordia di Dio verso l’uomo non conosce defettibilità, essa pertanto è nella Chiesa un elemento prioritario a ogni considerazione disciplinare (cfr Epistulae, 153, 3, 7), in modo particolare di fronte all’angoscia umana sotto l’impero del peccato; c) il cammino penitenziale di un credente coincide col suo cammino di fede, e questo si esperimenta come recupero della propria libertà perduta (cfr In lohannis, o. c., 41,10).
Agostino mise in pratica tali principi direttivi portando nell’ambito di una penitenza privata peccati che, secondo la tradizione, rientravano nell’iter penitenziale pubblico. In tal modo egli tenne fede alla prassi penitenziale pubblica che veniva contemplata semel, cioè una volta, ma mise anche le basi per essere perdonati e quindi non emarginati dalla comunità cristiana a motivo di nessun peccato, anche se ripetuto. La prassi della Chiesa raggiungeva così, di fatto, nel suo quotidiano, di godere del prezzo infinito del « sangue sparso » del Redentore. Se nei testi penitenziali a disposizione, per le ragioni che abbiamo visto, il binomio linguistico « sangue sparso-remissione dei peccati » non è presente in essi, sul piano della prassi esso, grazie anche all’azione pastorale e alla riflessione teologica di Agostino, ritrovava la sua unità inscin-dibile e originaria.
4. IL « SANGUE SPARSO » E LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA
Nel Commento di Agostino al Vangelo di Giovanni c’è tutto un blocco di testi che legano insieme, nella figura unificatrice dell’agnello pasquale e di agnello di Dio, la Pasqua degli Ebrei, la Pasqua del Signore, la Pasqua dei cristiani, la celebrazione eucaristica come Pasqua, nel significato di redenzione degli uomini.
Ci si trova dinanzi a termini ed espressioni come « morte, spargere il sangue, redimere, mangiare la carne, bere il sangue, divenire membra di Cristo », che costituiscono un insie
me semantico difficilmente separabile perché conglobano, allo stesso tempo, il dato storico del sangue di Cristo versato sulla croce e quello della celebrazione della Pasqua ebraica, il dato misterico di partecipazione alla Pasqua del sangue versato da Cristo e il dato soteriologico per coloro che credendo vi partecipano.
L’agnello pasquale che viene immolato costituisce il legame tra i vari momenti e modalità di una comune azione redentrice: come anticipazione e figura di Cristo immolato sulla croce (il vero agnello pasquale) nell’agnello della Pasqua ebraica; come partecipazione all’immolazione del vero agnello pasquale nella celebrazione eucaristica dei cristiani. Prima di avvicinare un po’ più da vicino i testi che ci interessano, riteniamo necessario precisare la sintesi operata da Agostino nella comprensione della Pasqua. Egli venne a trovarsi alla fine di un dissidio tra gli asiani e gli occidentali nel celebrare la Pasqua. Ce ne parla Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, V, 23-25. Le comunità cristiane dell’Asia minore erano di tradizione giovannea e di estrazione giudaica, legate perciò alla continuità del giudaismo col cristianesimo. Ciò si espresse in modo particolare nel celebrare la data della Pasqua il 14 di Nisan, il venerdì dell’immolazione dell’agnello pasquale, tanto che tali comunità vennero chiamate comunità della Pasqua quartodecimana. Il significato della Pasqua ebraica, ritualizzato nell’immolazione e nella manducazione dell’agnello, era nell’aspettativa del passaggio di Jahveh in mezzo al popolo mentre celebrava la Pasqua, del realizzarsi di una notte di luce divenuta armai giorno perenne. I cristiani di estrazione giudaica videro il realizzarsi di tale aspettativa nella morte di Gesù, lui il vero agnello pasquale che, con la sua passione, celebrò la Pasqua. La sua morte è luce e vita per tutti, così come era la dimensione della Pasqua ebraica.
Per associarsi a tale mistero di vita e di luce bisognava celebrare la Pasqua del Signore, e questa era la celebrazione eucaristica dei cristiani. Il venerdì di Passione era pertanto, per le comunità asiane, la celebrazione del giorno di Pasqua, che è vita e luce per l’umanità. Papa Vittore interdisse agli asiani la celebrazione di Pasqua il 14 Nisan. I motivi non sono ancora del tutto chiari. Il vescovo di Roma impose la data della do
menica dopo il plenilunio di primavera. Questa era la tradizione ancorata ai sinottici, che pongono di domenica il giorno della risurrezione del Signore, visto appunto come vita e luce. Era la Pasqua vista come « passaggio » secondo l’etimologia ebraica della parola Pasqua; quella quartodecimana derivava invece il suo significato dal greco « paskein » (patire). Nella Pasqua, ancorata ai sinottici, è un « passaggio » che crea la vita, la novità cristiana; nella Pasqua quartodecimana è invece il soffrire stesso del Signore, la sua morte, il suo spargimento di sangue, la sua sofferenza che si traduce in vita per tutti gli uomini che sono, secondo la visione dello Pseudo-Barnaba, « una terra che soffre » (Pseudo-Barnaba, 6, 2)9.
Agostino mise insieme i due grandi filoni di comprensione della Pasqua nelle comunità cristiane antiche. Tale fusione l’abbiamo nel suo Commento al Vangelo di Giovanni. Essa, tenuta presente, getta molta luce nella comprensione del suo pensiero soteriologico che si articola nel legame tra la Pasqua del Signore e quella dei cristiani. La Pasqua del Signore è il suo immolarsi, simile all’agnello pasquale degli Ebrei, la sua morte, il « sangue sparso » del Signore; la Pasqua dei cristiani è la celebrazione della loro eucaristia dove si beve il sangue del Signore. Bere il sangue del Signore è, per Agostino, « sperare, non essere più lontano, è vivere ». Ascoltiamo direttamente qualche testo.
Quello più esteso e comprensivo si ha nell’omelia 55: Pasqua, fratelli, – egli spiega – non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice ‘paskein’, per cui si è creduto che Pasqua volesse dire passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua lingua, l’ebraico, Pasqua vuoi dire ‘passaggio’, per la ragione che il popolo di Dio celebrò la Pasqua per la prima volta allorché, fuggendo dall’Egitto, passò il mar Rosso. Ora, però, quella figura profetica ha trovato il suo reale compimento quando il Cristo come pecora viene immolato, e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla schiavitù e dall’eccidio in Egitto; e celebriamo un passaggio sommamente salutare, quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall’instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno… Ecco la Pasqua, ecco il passaggio (In lohannis, o. c., 55,1)10.
Agostino, nel sottolineare il significato sacrificale redentivo della morte del Signore, in contesto di comprensione pasquale, usa il termine « immolare ». Nella linea della 1 Cor 5, 7 (Pascha nostrum immolatus est Christus) e nel contesto pasquale quartodecimano, traduce il pronuntiasse sententiam ‘Reus est mortis’ di Mt 26, 66 con pronuntiasse immolationem Domini Ofc.,117,2).
Il rapporto del sangue di Cristo con la Pasqua e con l’eucaristia Agostino lo sviluppa espressamente quando fa la trattazione sullo Ecce Agnus Dei di Gv 1, 35-36 nell’omelia settima. Egli, rilevata la singolarità dell’Agnello di Dio perché col suo sangue redime il mondo, ci dà il riferimento eucaristico oltre che nell’uso delle espressioni come « bere sangue », etc, nel racconto di un rito pagano, da lui riportatoci, che si celebrava in onore di Attis e di Cibele in coincidenza con l’equinozio di primavera conosciuto come « il giorno del sangue ». Tale rito consisteva nello strappare gli orecchini dai lobi auricolari di un donna. Lo strappo provocava un’uscita di sangue che, impregnando gli orecchini, li faceva aumentare di peso e quindi di prezzo. Al rito vi partecipavano, come è facile supporre, molte donne anche cristiane che, per l’occasione, disertavano la celebrazione eucaristica. Agostino, nella linea di un’antica tradizione apologetica, che vedeva i riti pagani come una scimmiottatura di quelli cristiani, giudica anche tale rito pagano un plagio della liturgia eucaristica durante la quale si offre il sangue dell’Agnello, il solo sangue versato capace di redenzione. E perché non si ponga il rito cristiano sulla medesima linea dei riti pagani, magici e superstiziosi, egli spiega il significato di fede del sangue versato dal Signore. Non è credere a un puro versare sangue, è cercare lui, è porre solo in lui le speranze del proprio destino. Ascoltiamo direttamente A-gostino (Ib.)\ Solo Cristo è l’agnello per eccellenza, è l’agnello di Dio perché in modo del tutto singolare solo col sangue di questo agnello gli uomini hanno potuto essere redenti (7,5)… Fratelli miei, se riconosciamo che il prezzo della nostra redenzione è il sangue dell’agnello, che dire di coloro che oggi celebrano la festa del sangue di non so quale donna?.. Se il sangue di una donna ha pesato tanto da inclinare il piatto della bilancia su cui stava l’oro, quale peso non avrà, per far pendere la bilancia dalla parte del mondo, il sangue dell’agnello per mezzo del quale il mondo è stato creato? … Quando venne il tempo della misericordia di Dio, venne l’Agnello… È davvero un grande spettacolo quello che si offre ai vostri occhi per tutta la terra… Ha cercato di scimmiottare questo rito quello spirito diabolico, il quale voleva che la sua immagine fosse acquistata a prezzo di sangue, perché sapeva che in definitiva il genere umano doveva essere redento col sangue prezioso (7, 6)… Non cercate dunque il Cristo in altro luogo, se non dove il Cristo ha voluto essere a voi annunziato; e proprio come ha voluto essere a voi annunziato, così ritenetelo e così incidetelo nel vostro cuore… Non ricorriamo agli stregoni, agli indovini, a rimedi inutili quando abbiamo mal di testa. Come volete, o fratelli, che non pianga per voi? Ogni giorno vedo queste cose; e che devo fare? Non sono dunque ancora riuscito a convincere i cristiani che bisogna riporre in Cristo ogni speranza? E se poi uno, al quale è stato applicato un rimedio superstizioso, muore (…), con quale coraggio si presenterà la sua anima davanti a Dio? … Riconosciamo dunque l’Agnello, o fratelli, e rendiamoci conto del prezzo che ha pagato per noi (7, 7).
In Agostino l’espressione « sangue versato » è spesso legata al verbo bere, per cui si ha « bere il sangue versato ». Egli intende tale espressione nell’accezione di partecipare alla redenzione di Cristo, ma l’immagine è presa dal rito eucaristico di bere al calice11. In Africa era anche comune dare da bere il sangue eucaristico perfino ai neonati, dopo il loro battesimo. Ciò lo si faceva per esprimere il diritto del battezzato (il fidelis) di ricevere l’eucaristia (cfr De peccatorum meritis et remissione, 1,24,34).
5. CONCLUSIONI
A conclusione sulla comprensione della voce « sangue » in Agostino, in particolare nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, possiamo dire:
1. Tale voce era comune già prima di lui sotto l’espressione « il sangue versato », sanguis effusus, per indicare la redenzione venuta all’umanità dalla morte di Gesù Cristo.
2. Agostino, accanto a tale espressione, usa spesso l’altra: « bere il sangue versato », indicando con ciò la partecipazione dell’umanità alla redenzione di Cristo. Tale espressione riflette l’uso di partecipare all’eucaristia bevendo al calice oltre che mangiando il pane eucaristico.
3. La terminologia di « sangue versato » e di « bere il sangue » non vanno intesi in sé come dei riti recepiti nella loro materialità, essi sono legati all’intelligenza della fede.
Riguardo a Cristo che versò il sangue sulla croce, l’espressione va unita alla nozione di libertà, nell’accezione di libera donazione della sua vita per l’umanità; quanto agli uomini, « bere il sangue versato » ha il significato espresso dalla comprensione della Pasqua quartodecimana recepita da Agostino nella celebrazione eucaristica, come partecipazione al mistero di vita e di luce di Cristo e quindi di salvezza e di liberazione, dalle tenebre della disperazione di vivere e di morire, in cui si dibatte l’oscurità umana. Per evitare ogni equivoco di partecipare a un rito solo materialmente, alla maniera dei sacrifici pagani, fatto al più solo d’impressione psicologica, Agostino scrive al riguardo: Questo è quanto il Signore ci ha detto del suo corpo e del suo sangue. Ci ha promesso la vita eterna attraverso la partecipazione a questo dono. Perciò ha voluto farci intendere che davvero mangiano la sua carne e bevono il suo sangue coloro che rimangono in lui e nei quali egli rimane. Questo non capirono coloro che non credettero in lui e che, intendendo in senso carnale le cose spirituali, si scandalizzarono… Tutto ciò dunque, o dilettissimi, ci serva di lezione, affinchè non abbiamo a mangiare la carne e a bere il sangue di Cristo solo sacramentalmente, come fanno anche tanti cattivi cristiani; ma affinchè lo mangiamo e lo beviamo in modo da giungere alla partecipazione del suo Spirito e da rimanere nel corpo, senza scandalizzarci se molti di coloro che con noi mangiano la carne e bevono il sangue, ma solo esteriormente, saranno alla fine condannati (Ib., 27,11).
NOTE -l La purificazione, che deriva dal sangue versato sulla croce, viene sviluppata da Agostino nella categoria dell’umiltà. Questa esprime la totalità dell’accettazione della vita umana: vedi In lohannis Evangelium tractatus, 55, 7: Tutta la sua passione è la nostra purificazione… Tanto importante è per l’uomo l’umiltà, che la divina maestà ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio (= la lavanda dei piedi, Gv 13, 2-5). L’uomo superbo si sarebbe perduto per sempre, se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi… L’uomo si era perduto per aver seguito la superbia del tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l’umiltà del redentore; In lohannis Evangelium, 119, 4: Noi siamo purificati dall’umiltà di Cristo: se egli non si fosse umiliato facendosi obbediente fino alla morte di croce, il suo sangue non sarebbe stato versato per la remissione dei peccati, cioè per la nostra purificazione. Sul sangue di Cristo che da all’acqua battesimale la virtus di generare i cristiani, vedi Sermones, 352, 3. – 2 La natura universale della Chiesa, sia perché diffusa su tutta la terra, sia perché la grazia circola in essa tutt’intera, è considerata da Agostino nel commento al c. 19, 23-24 di Giovanni sulle vesti divise in quattro parti e la tunica tirata a sorte (cfr In lohannis, o. e., 118,1-4). – 3 II battesimo è definito da Agostino nella linea della Lettera di Paolo agli Efesini 5, 18: Lavacrum aquae in verbo (cfr In lohannis, o. e., 15, 4; 80, 3). Nell’omelia 124, 5 abbiamo poi una delle sue migliori sintesi antipelagiane: Mediante la fede in lui, unita al lavacro di rigenerazione, siamo prosciolti da tutti i peccati, cioè dal peccato originale contratto mediante la generazione (soprattutto per liberarci da esso è stato istituito il sacramento di rigenerazione) e da tutti gli altri peccati che si commettono vivendo male. – 4 Epistulae, 153, 3, 7: Semel in Ecclesia concedatur; vedi anche C. Vogel, Le péché et la pénitence, Parigi 1961. – 5 Sermones, 214, 11: Inoltre onorate, amate, predicate ‘la santa Chiesa’… A beneficio del suo frumento… essa ha ricevuto le chiavi del regno dei deli, e così in lei, per mezzo del sangue di Cristo, ad opera dello Spirito Santo, si ha ‘la remissione dei peccati’; Sermones, 295,2; Io. ep., 10,10. – 6 Agostino sviluppò molto l’azione dello Spirito Santo per la remissione dei peccati e non evitò la difficoltà « sul peccato irremissibile contro lo Spirito Santo » di cui parla Le 12, 10 (cfr Ad Romanos inchoata expositio, 21; Enchiridion ad Laurentium, 22, 83; Sermones, 71). – 7 De adulterinis coniu-giis, 1, 28, 35: La causa della riconciliazione di un penitente è la medesima di quella del battesimo qualora un penitente venga a trovarsi in pericolo di vita. -Sermones, 4, 32, 35: Non accade forse nella Chiesa che a uomini che la vogliono turbare, per necessità di pace, si tollera che siano ammessi dentro e ricevano i sacramenti comuni a tutti? E talvolta si sa che sono cattivi ma non possono essere riconosciuti tali, vale a dire non possono essere riconosciuti di doversi emendare, di venir degradati, esclusi, scomunicati. E se qualcuno insiste si corre il rischio che la Chiesa si laceri. A tanto viene costretto chi della Chiesa è pastore; Sermones, 351, 7: A questo altare… alla celebrazione dei misteri divini, possono accedere anche molti scellerati: Dio pazienta in questo tempo presente perché in quello futuro si stemperi la sua severità. – 9 Per un’informazione sull’argomento, vedi Ch. Mohrmann, « Pascha, Passio, Transitus », EL 66 (1952), 37-52; V. Grossi, « La Pasqua quartodeci mana e il significato della croce nel II secolo », Aug 16 (1976), 557-571; R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, Torino 1978. – 10 Vedi anche In lohannis, o. e., 120, 3 al commento di Gv 19, 36-37: Non gli sarà spezzato un solo osso.. Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto. -11 Ad esempio In lohannis, o. e., 31, 9: bevvero il sangue (di Cristo) da loro versato; nel n. 11 si parla della carne di Cristo che si mangia, divenendo membra di Cristo: Noi lo abbiamo conosciuto nella carne e tuttavia ci è stato concesso di mangiare la sua carne e di essere membra del suo corpo. Nell’omelia 26, 13-18 commenta Gv 6, 50-57 (« mangiare la sua carne, bere il suo sangue »), e ci viene riferito come l’uso di bere anche al calice, oltre che ricevere il corpo del Signore, era in alcuni luoghi quotidiano, in altri a tempi distanziati: // sacramento di questa realtà, cioè dell’unità del corpo e del sangue di Cristo, viene apparecchiato sulla mensa del Signore, in alcuni luoghi tutti i giorni, in altri con qualche giorno d’intervallo, e si riceve dalla mensa del Signore (ib., 15). La conclusione è nel tractatus 27, 11: sui manducatores et potatores carnis et sanguinis sui (= Domini).