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COME LEGGERE LA LETTERA AI ROMANI di Romano Penna
(docente di studi paolini alla Pontificia Università Lateranense)
C’è un doppio, fondamentale consiglio da dare a chi si accinge alla lettura di questo scritto: prepararsi a qualcosa di impegnativo e poi non scoraggiarsi! Se questo vale in generale per tutte le lettere di Paolo, tanto più è vero per questa lettera in particolare. Ma una cosa è certa: la pazienza sarà abbondantemente premiata, perché ci si accorgerà che ne valeva davvero la pena. Infatti, siamo davanti allo scritto più importante dell’Apostolo, quello in cui egli impegna maggiormente se stesso nell’interpretazione di ciò che significa l’evangelo per l’uomo, per ogni uomo.
D’altronde, la lettera ai Romani ha avuto nella storia della Chiesa e della teologia cristiana un influsso non minore di quello che hanno avuto, poniamo, Platone o Aristotele sulla filosofia occidentale. Quindi, chi non si stancherà di misurarsi con l’argomentazione qui dispiegata da Paolo meriterà la promessa che leggiamo nell’Apocalisse: «Al vincitore che persevera fino alla fine… darò autorità sopra le nazioni» (Ap 2,26); oppure, il che è lo stesso, verificherà di persona quanto siano vere le parole di Lutero nel suo commento: «Fu come se per me si aprissero le porte del paradiso»; o ancora, se la cosa non appare troppo banale, ci si accorgerà quanto abbia un reale riscontro concreto, almeno in questo caso, il motto dello spot pubblicitario «Gratta e Vinci!».
Le circostanze della composizione
Se la lettera ai Romani è importante per noi, bisogna dire che prima lo è stata già per Paolo stesso. Infatti, quando egli la scrive si trova in un momento significativo e delicato della sua biografia apostolica. È ormai verso la fine del suo terzo viaggio missionario e sta soggiornando a Corinto (probabilmente al termine dell’anno 54 o all’inizio del 55), appena a un quarto di secolo dopo la morte di Gesù e dopo aver scritto già un certo blocco di lettere, cioè: almeno una ai cristiani di Tessalonica, due a quelli di Corinto, una a quelli di Filippi, una a Filemone (un cristiano della città di Colosse, nell’entroterra di Efeso), e una ai cristiani della Galazia.
Soprattutto ciò che si verificò nelle Chiese di quest’ultima regione aveva rappresentato per lui un’esperienza drammatica: l’infiltrazione di alcuni predicatori cristiani ma giudaizzanti aveva rischiato di imporre ai Galati un’ermeneutica dell’evangelo assai diversa, se non contraria a quella da lui predicata. Essi infatti pretendevano di coniugare l’adesione a Cristo con la necessità di osservare la legge mosaica, sicché per essere giusti davanti a Dio non sarebbe bastata la fede ma si doveva contare anche sulle opere religiose e morali compiute dall’uomo. Nella lettera indirizzata appunto a quelle Chiese, Paolo aveva affrontato di petto la questione trattandola in termini molto forti, energici nei toni e radicali nella sostanza. Egli vi aveva difeso a spada tratta «la verità dell’evangelo» (Gal 2,14), cioè la libertà del cristiano da ogni vincolo esterno che non sia la pura grazia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo e accolta con nient’altro che non sia la fede.
Inoltre, quando scrive ai romani, Paolo si trova di fronte a un’altra sfida, che questa volta egli fa a se stesso. Le regioni e le città fino ad allora interessate dalla sua attività evangelizzatrice, tenendo conto anche del racconto fattoci da Luca negli Atti, erano state davvero molte: in Siria, la città di Antiochia; a Cipro, quelle di Salamina e Pafo; in Anatolia, alcune città delle zone centro-meridionali della Panfilia (Perge), della Pisidia (Antiochia, Iconio) e della Licaonia (Listra, Derbe), e in più la zona anatolica centro-settentrionale della Galazia; in Asia, la costa dell’Egeo (Efeso, Colosse); in Grecia, la Macedonia (Filippi, Tessalonica) e l’Acaia (Atene, Corinto). In ciascuna di queste località aveva suscitato delle Chiese, cioè dei gruppi (anche se piccoli) di credenti in Cristo provenienti sia dal giudaismo sia dal paganesimo.
Detto all’ingrosso e con le sue parole, egli ha ormai predicato l’evangelo «da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria» (Rm 15,19), e a questo punto pensa di non avere più un sufficiente campo d’azione in quelle regioni (cf. Rm 15,23a). Da tempo egli coltivava già l’idea di recarsi finalmente a Roma (cf. Rm 1,13; 15,23b), capitale dell’impero; e poiché questa per un uomo dell’Oriente è comunque una città occidentale, Paolo progetta addirittura di spingersi fino all’estremo Occidente dell’area mediterranea, puntando verso la Spagna (cf. Rm 15,24.28).
Sappiamo, dunque, che verso la metà degli anni ’50 Paolo non era ancora stato di persona a Roma; quindi la Chiesa romana in quanto tale non aveva ancora avuto contatti concreti con lui. Resta però il fatto che egli, non solo aveva notizia della fede dei romani (cf. Rm 1,8; 16,19a), ma in più doveva avere tra loro qualche punto d’appoggio, come risulta da almeno un paio di indizi: uno è l’interessante serie di ben 24 persone salutate per nome al termine dello scritto (cf. Rm 16,3-15: un lungo elenco non riscontrabile in nessun’altra lettera); un altro è l’accorata richiesta di un sostegno nella preghiera in vista del suo imminente viaggio verso Gerusalemme, dove egli prevede che le cose non sarebbero andate bene per lui (cf. Rm 15,30-32), come effettivamente avvenne (cf. At 21,17-39).
Certo non sappiamo se la Chiesa di Roma da parte sua avesse il desiderio che egli vi si recasse a farle visita. Comunque, i cristiani della capitale dovevano non solo aver sentito parlare di lui, ma anche essere venuti a conoscenza di qualche sua tesi audace, come quella dell’assoluta preminenza della grazia di Dio nei confronti di ogni comportamento morale dell’uomo: mentre in alcuni ciò aveva suscitato un’adesione fin troppo entusiasta spinta fino al travisamento (cf. Rm 3,8), nella maggior parte dei romani aveva suscitato un’opposizione molto netta (cf. Rm 16,17-18).
L’intento formale dello scritto
In ogni caso, la nostra lettera secondo le intenzioni del mittente avrebbe dovuto fungere da auto-presentazione e da credenziale. L’estensione e il contenuto del testo epistolare pongono però un problema di rilievo. Infatti, sapendo che la lettera è composta di ben 7.100 parole[1][1], è inevitabile dedurne che non abbiamo a che fare con un elaborato qualsiasi. Se già il breve biglietto a Filemone (di sole 335 parole) coniuga il caso personale dello schiavo Onesimo con la questione più generale della schiavitù dal punto di vista cristiano, tanto più una lettera così ampia come la nostra non è assolutamente riducibile a questioni di basso profilo.
In effetti, Paolo non ha scritto né soltanto per presentare la propria carta d’identità, né soltanto per rintuzzare eventuali accuse, né soltanto per raccomandarsi al supporto dei romani e tanto meno soltanto per condividere con loro un patrimonio ideale dato già per scontato. Nella lettera, infatti, i toni amichevoli si trovano solo nella sua cornice (cioè: all’inizio in Rm 1,1-14; e alla fine in Rm 15,14-16,27); d’altra parte, l’allocuzione diretta ai destinatari con il «voi» della seconda persona plurale, dagli effetti coinvolgenti, si trova raramente nel corpo del testo (cf. Rm 1,8-15; 6,1-7,6; 8,9-11.13; 11,13); è invece più frequente nei capitoli dedicati all’esortazione morale (Rm 12,1-15,13), di cui perciò intere sezioni molto importanti sono prive (cf. Rm 1,18-5,21; 7,7-8,8.14-39; quasi interamente i cc. 9-11); la stessa interpellazione diretta dei destinatari con l’appellativo di «fratelli», tenuto conto dell’estensione del discorso, è ancora più rara (cf. Rm 7,1; 10,1; 11,25; 12,1; 15,14; 16,17).
Evidentemente Paolo ha intenzione di trattare delle questioni che vanno molto al di là della situazione propria dei suoi lettori immediati e che investono le componenti fondamentali dell’identità cristiana in quanto tale. La lettera perciò si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in giro per il mondo: si tratta di spiegare non tanto il contenuto dell’evangelo, che è già chiaro per tutti (cioè: l’identità personale di Cristo come figlio di Dio e la sua morte-risurrezione per i nostri peccati), quanto piuttosto come vada concepito l’impatto antropologico di questo annuncio (cioè: che cosa significhi per l’uomo un evento del genere).
Questo, finora, non lo aveva ancora fatto; o meglio, lo aveva fatto solo parzialmente nella lettera ai Galati. Ma là, come abbiamo accennato, il tono del discorso era molto polemico, motivato com’era sia dall’attacco frontale infertogli da alcuni intrusi giudaizzanti, sia dal fatto che i destinatari della lettera erano cristiani suscitati e quasi generati da lui (cf. Gal 4,19), il che gli permetteva di esprimersi con una certa libertà di linguaggio (cf. Gal 1,6; 3,1; 5,12). La nostra lettera, invece, è indirizzata a dei lettori che Paolo per lo più non conosce personalmente e con i quali perciò è – per così dire – obbligato a impiegare toni di maggiore urbanità e comunque pacati, pur senza rinunciare per nulla ai capisaldi del suo pensiero.
È questo dato contingente, insieme alle circostanze accennate più sopra, che gli offre l’occasione di ripensare, ma anche lo induce a farlo, quale sia la portata dell’evangelo a proposito di ciò che esso stimola e produce nell’uomo. Non che egli offra una sistematizzazione del proprio pensiero. Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore, e altrettanto egli non sa costruire la propria argomentazione sulla base della ferrea logica aristotelica, benché provenga dalla diaspora di lingua greca e non sia affatto digiuno delle regole che presiedono alla composizione di un discorso.
Anche dopo l’evento della strada di Damasco, la sua matrice semitico-ebraica è rimasta intatta, e soprattutto è rimasto intatto il suo temperamento generoso e passionale, che lo portano all’accumulazione dei concetti, all’iperbole, all’antitesi, e persino all’anacoluto, con cui una frase viene interrotta per passare senza preavviso a un altro soggetto grammaticale (cf. Rm 2,18-20.21; 5,12; 8,3). D’altra parte, l’annuncio evangelico non è rinchiudibile negli schemi della logica umana; esso non è dimostrabile, ma semmai persuasibile, e ciò del resto è conforme all’antica arte retorica dei discorsi, che appunto tendeva non tanto a dimostrare quanto a convincere[2][2]; e ciò avviene servendosi di tecniche retorico-espositive particolari[3][3].
In effetti, si vede bene che il linguaggio di cui Paolo dispone dal L’intento formale dello scritto
In ogni caso, la nostra lettera secondo le intenzioni del mittente avrebbe dovuto fungere da auto-presentazione e da credenziale. L’estensione e il contenuto del testo epistolare pongono però un problema di rilievo. Infatti, sapendo che la lettera è composta di ben 7.100 parole[4][1], è inevitabile dedurne che non abbiamo a che fare con un elaborato qualsiasi. Se già il breve biglietto a Filemone (di sole 335 parole) coniuga il caso personale dello schiavo Onesimo con la questione più generale della schiavitù dal punto di vista cristiano, tanto più una lettera così ampia come la nostra non è assolutamente riducibile a questioni di basso profilo.
In effetti, Paolo non ha scritto né soltanto per presentare la propria carta d’identità, né soltanto per rintuzzare eventuali accuse, né soltanto per raccomandarsi al supporto dei romani e tanto meno soltanto per condividere con loro un patrimonio ideale dato già per scontato. Nella lettera, infatti, i toni amichevoli si trovano solo nella sua cornice (cioè: all’inizio in Rm 1,1-14; e alla fine in Rm 15,14-16,27); d’altra parte, l’allocuzione diretta ai destinatari con il «voi» della seconda persona plurale, dagli effetti coinvolgenti, si trova raramente nel corpo del testo (cf. Rm 1,8-15; 6,1-7,6; 8,9-11.13; 11,13); è invece più frequente nei capitoli dedicati all’esortazione morale (Rm 12,1-15,13), di cui perciò intere sezioni molto importanti sono prive (cf. Rm 1,18-5,21; 7,7-8,8.14-39; quasi interamente i cc. 9-11); la stessa interpellazione diretta dei destinatari con l’appellativo di «fratelli», tenuto conto dell’estensione del discorso, è ancora più rara (cf. Rm 7,1; 10,1; 11,25; 12,1; 15,14; 16,17).
Evidentemente Paolo ha intenzione di trattare delle questioni che vanno molto al di là della situazione propria dei suoi lettori immediati e che investono le componenti fondamentali dell’identità cristiana in quanto tale. La lettera perciò si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in giro per il mondo: si tratta di spiegare non tanto il contenuto dell’evangelo, che è già chiaro per tutti (cioè: l’identità personale di Cristo come figlio di Dio e la sua morte-risurrezione per i nostri peccati), quanto piuttosto come vada concepito l’impatto antropologico di questo annuncio (cioè: che cosa significhi per l’uomo un evento del genere).
Questo, finora, non lo aveva ancora fatto; o meglio, lo aveva fatto solo parzialmente nella lettera ai Galati. Ma là, come abbiamo accennato, il tono del discorso era molto polemico, motivato com’era sia dall’attacco frontale infertogli da alcuni intrusi giudaizzanti, sia dal fatto che i destinatari della lettera erano cristiani suscitati e quasi generati da lui (cf. Gal 4,19), il che gli permetteva di esprimersi con una certa libertà di linguaggio (cf. Gal 1,6; 3,1; 5,12). La nostra lettera, invece, è indirizzata a dei lettori che Paolo per lo più non conosce personalmente e con i quali perciò è – per così dire – obbligato a impiegare toni di maggiore urbanità e comunque pacati, pur senza rinunciare per nulla ai capisaldi del suo pensiero.
È questo dato contingente, insieme alle circostanze accennate più sopra, che gli offre l’occasione di ripensare, ma anche lo induce a farlo, quale sia la portata dell’evangelo a proposito di ciò che esso stimola e produce nell’uomo. Non che egli offra una sistematizzazione del proprio pensiero. Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore, e altrettanto egli non sa costruire la propria argomentazione sulla base della ferrea logica aristotelica, benché provenga dalla diaspora di lingua greca e non sia affatto digiuno delle regole che presiedono alla composizione di un discorso.
Anche dopo l’evento della strada di Damasco, la sua matrice semitico-ebraica è rimasta intatta, e soprattutto è rimasto intatto il suo temperamento generoso e passionale, che lo portano all’accumulazione dei concetti, all’iperbole, all’antitesi, e persino all’anacoluto, con cui una frase viene interrotta per passare senza preavviso a un altro soggetto grammaticale (cf. Rm 2,18-20.21; 5,12; 8,3). D’altra parte, l’annuncio evangelico non è rinchiudibile negli schemi della logica umana; esso non è dimostrabile, ma semmai persuasibile, e ciò del resto è conforme all’antica arte retorica dei discorsi, che appunto tendeva non tanto a dimostrare quanto a convincere[5][2]; e ciò avviene servendosi di tecniche retorico-espositive particolari[6][3].
In effetti, si vede bene che il linguaggio di cui Paolo dispone dal punto di vista lessicale e sintattico non è sufficiente a contenere il messaggio che deve trasmettere, e, viceversa, si percepisce altrettanto bene che in ultima analisi l’annuncio evangelico e la riflessione su di esso eccedono enormemente le possibilità di quel che è possibile dirne. C’è una sfasatura tra la parola e il concetto e, se si eccettua il codice linguistico proprio dell’Apocalisse di Giovanni, solo Paolo (o almeno Paolo più di altri) all’interno delle origini cristiane dimostra quanto sproporzionato sia il rapporto tra il messaggio e il linguaggio. Il pensiero deborda lo scritto, il quale non è un argine bastevole per incanalarne la forza straripante.
Il fatto è che Paolo non espone le cose didatticamente, come potrebbe fare un freddo cattedratico, che separa la propria scienza dalla propria umanità. È ben diverso dire che due più due fanno quattro e dire che in Gesù Cristo Dio ha amato tutti gli uomini, me compreso, fino a definirlo un «Dio per noi» (Rm 8,31). Ecco, Paolo è coinvolto in ciò che dice e scrive, perché ne va della vita e del senso che ad essa può derivarne dall’evangelo, sicché in gioco non c’è solo una visione oggettiva delle cose, ma una profonda compromissione soggettiva ed esistenziale.
punto di vista lessicale e sintattico non è sufficiente a contenere il messaggio che deve trasmettere, e, viceversa, si percepisce altrettanto bene che in ultima analisi l’annuncio evangelico e la riflessione su di esso eccedono enormemente le possibilità di quel che è possibile dirne. C’è una sfasatura tra la parola e il concetto e, se si eccettua il codice linguistico proprio dell’Apocalisse di Giovanni, solo Paolo (o almeno Paolo più di altri) all’interno delle origini cristiane dimostra quanto sproporzionato sia il rapporto tra il messaggio e il linguaggio. Il pensiero deborda lo scritto, il quale non è un argine bastevole per incanalarne la forza straripante.
Il fatto è che Paolo non espone le cose didatticamente, come potrebbe fare un freddo cattedratico, che separa la propria scienza dalla propria umanità. È ben diverso dire che due più due fanno quattro e dire che in Gesù Cristo Dio ha amato tutti gli uomini, me compreso, fino a definirlo un «Dio per noi» (Rm 8,31). Ecco, Paolo è coinvolto in ciò che dice e scrive, perché ne va della vita e del senso che ad essa può derivarne dall’evangelo, sicché in gioco non c’è solo una visione oggettiva delle cose, ma una profonda compromissione soggettiva ed esistenziale.
L’effettiva posta in gioco
Prima di incontrare personalmente i cristiani di Roma, dunque, Paolo espone loro il proprio pensiero sulla natura e sulle implicanze dell’evangelo, così che essi sappiano bene che cosa pensa colui del quale avrebbero dovuto poi fare la conoscenza. L’Apostolo però sa che a Roma la fede cristiana è vissuta secondo un’interpretazione che non è la sua.
Ciò sarà significativamente confermato nel sec. IV dal primo commentatore romano della lettera paolina, noto sotto lo pseudonimo di Ambrosiaster (vissuto al tempo di papa Damaso, 366-384):
I romani… pur non vedendo né segni né miracoli né alcuno degli apostoli, avevano accolto la fede in Cristo sebbene in un senso falsato: infatti non avevano sentito annunciare il mistero della croce di Cristo… L’Apostolo impiega tutte le sue energie per toglierli dalla legge, perché «la legge e i profeti vanno fino a Giovanni», e per fissarli nella sola fede in Cristo (in sola fide Christi), e quasi contro la legge difende il vangelo, non distruggendo la legge, ma anteponendo il cristianesimo (Prologo al suo commento).
Come si vede da questa testimonianza, che esprime l’autocoscienza propria della stessa Chiesa romana, sono in gioco i grandi concetti di legge e di fede, tra i quali la croce di Cristo fa da relais e nello stesso tempo da spartiacque. I cristiani di Roma, infatti, erano in realtà pressoché tutti giudeo-cristiani, cioè facevano coesistere l’adesione a Cristo con l’osservanza della Torà, sicché la morte di Cristo poteva significare al massimo l’abolizione dei sacrifici templari (cf. Rm 3,25) ma non l’accantonamento dei vari precetti legali (classificati successivamente dai rabbini in numero di 613)[7][4].
Da parte sua, invece, Paolo distingue nettamente i due termini: come accennato, egli aveva già fatto questa operazione nella lettera ai Galati, ma ora riprende quella tematica e la sviluppa più ampiamente. Perciò è assolutamente importante rendersi conto di come proceda l’esposizione del suo pensiero e come esso vada a strutturare il quadro generale della lettera e segnatamente il suo corpo centrale (cioè Rm 1,16-15,13)[8][5].
L’articolazione della lettera
La prima, fondamentale osservazione riguarda l’organizzazione bipartita dell’intera argomentazione. L’indizio più importante del passaggio da una parte espositiva a un’altra è l’uso del verbo «esortare» in Rm 12,1, mai impiegato nelle pagine precedenti: con esso Paolo passa decisamente a un discorso di genere morale, cioè alla richiesta di una condotta etica che viene dettagliata fino a Rm 15,13 con ammonimenti vari, di carattere sia generale (incentrati comunque tutti sulla necessità dell’agàpe/amore vicendevole) sia particolari (come il rapporto all’esterno con le autorità politiche [Rm 13,1-7] e all’interno con coloro che, essendo deboli nella fede, praticano astinenze da cibi e bevande [Rm 14,1-15,13]).
A questo indizio se ne aggiunge un altro complementare, quello della dossologia con cui si conclude la sezione precedente in Rm 11,33-36: abbiamo qui una sorta di inno, che canta l’insondabilità della sapienza di Dio e che per le sue movenze celebrative rappresenta l’apice di quanto esposto prima. Perciò l’ultima sezione epistolare, che si apre con uno stacco ben marcato (Rm 12,1: «Vi esorto, dunque, fratelli»), si presenta come una deduzione di comportamenti vissuti da intendersi come conseguenza di tutto ciò che l’Apostolo ha precedentemente esposto da Rm 1,16 fino a Rm 11,36. Ciò che appare sorprendente è il patente sbilanciamento quantitativo tra le due parti: ai 71 versetti di quest’ultimo segmento epistolare si oppongono i ben 300 del segmento precedente!
Se dunque la lettera si divide in due parti, risulta evidente che la prima è la più importante, poiché è qui che si trovano i princìpi e le basi della condotta cristiana. Appare quindi chiaro che a Paolo interessa di più (e non solo prima) fare un discorso sui fondamenti che non sulle sue sovrastrutture, sulle radici che non sull’albero, sull’essere che non sull’agire, in una parola sulle componenti pre-morali della condotta cristiana. Ecco, la lettera ai Romani ci insegna proprio questo: a non anteporre il dover fare al dover essere. Paolo sa che, se si chiariscono bene gli elementi portanti, allora la vita cristiana crescerà da sola producendo naturalmente frutti omogenei alle sue premesse costitutive.
Ebbene, detto in breve, la sezione Rm 1,16-11,36 si può strutturare nel modo seguente.
Tutto si apre con un’enunciazione di principio, che definisce l’annuncio cristiano nei suoi elementi formali (Rm 1,16-17).
Seguono tre ampie sotto-sezioni, che ricamano su questo tema e trattano rispettivamente:
a) della situazione di tutti gli uomini, giudei e gentili, accomunati davanti a Dio sia nel peccato (Rm 1,18-3,20) sia nella giustificazione per fede (Rm 3,21-5,21);
b) della nuova esistenza dei battezzati in Cristo e nello Spirito; qui alle categorie giuridiche della sezione precedente (giustizia, assoluzione) subentrano altre di tipo mistico (comunione, filiazione): Rm 6,1-8,39; c) dell’incredulità di Israele di fronte all’evangelo e della persistente fedeltà di Dio alla propria promessa di salvezza: Rm 9,1-11,36.
Come si vede, il quadro è ampio e ricco. Non resta che immergervisi, sapendo che limitarsi a guardarlo ne pregiudica l’esatta comprensione, poiché ciascuno di noi ne fa comunque parte integrante.
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[9][1] Negli epistolari antichi, solo la lettera settima di Platone è più estesa della nostra (con ca. 8.000 parole), mentre la più lunga tra quelle di Seneca a Lucilio (la n° 95) non arriva a 5.000 parole; cf. in merito R. Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», in Biblica 84 (2003) 61-88.
[10][2] Questi sono già i termini esplicitamente impiegati da Platone nella sua definizione (cf. Gorgia).
[11][3] Cf. R. Penna, Lettera ai Romani - I. Rm 1-5. Introduzione, versione, commento, EDB, Bologna 2004, 39-43, 60-65.
[12][4] Cf., per esempio, il Talmud babilonese, Makkôt 24a.
[13][5] A questo proposito tralasciamo di mettere in evidenza le sezioni cosiddette «di cornice» della lettera, cioè: il prescritto o protocollo (Rm 1,1-7), a cui corrispondono, al termine, come escatocollo, i saluti finali (Rm 16,1-27); e il ringraziamento post-protocollare (Rm 1,8-15), a cui corrisponde, al termine, una sezione di tono altrettanto colloquiale (Rm 15,14-32).