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SHAVUOT E PENTECOSTE

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SHAVUOT E PENTECOSTE

(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali. Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica.

Il periodo che va da Pesach a Shavuot è caratterizzato dalla mitzwà della sefirath ha-’omer = conta dell’Omer [1] (in questa circostanza dell’orzo), che è basata sulla considerazione che il fondamento dell’esistenza del popolo d’Israele risiede nella Torà. L’uscita dall’Egitto, che viene celebrata attraverso la festa di Pesach, chiamata nella Tefillà zeman cherutenu (tempo della nostra libertà), acquisisce significato solamente in relazione alla ricezione della Torà, che ricordiamo con la festa di Shavuot, zeman matan toratenu (tempo del dono della nostra Torà). [2] Nel libro di Shemot (3,12) troviamo un accenno a tale idea: « Io sarò con te, e la riprova che Io ti ho dato l’incarico, sarà che una volta avvenuta l’uscita del popolo dall’Egitto, questi adorerà il Signore su questo monte ».
L’uscita dall’Egitto, e tutti i miracoli che il Signore ha compiuto per liberare i figli d’Israele, non sono altro che un segno che deve portare al servizio del Signore. D.o mostra ai figli d’Israele lo scopo della redenzione dalla schiavitù egiziana prima ancora di liberarli.
Contiamo i giorni dell’Omer poiché da sola la liberazione dalla schiavitù ha un valore relativo, ed acquisisce veramente senso solamente se sfocia nell’accettazione della Torà, che costituisce il suo scopo reale. Il legame tra Pesach e Shavuot è talmente tanto stretto che la Torà, a differenza delle altre festività, non indica una data specifica per la festa di Shavout, che cade nel cinquantesimo giorno dall’inizio della conta dell’Omer.
Nel linguaggio dei maestri la festa di Shavuot è chiamata ‘atzeret (chiusura), termine che richiama immediatamente Sheminì ‘atzeret, il giorno successivo a quelli di mezza festa di Sukkot. Anche per questa festività la Torà non ci fornisce una data, ma la lega a Sukkot; Shavuot è per Pesach ciò che Sheminì ‘atzeret è per Sukkot, e tutti i giorni dell’Omer sono paragonabili ai giorni di mezza festa di Sukkot. La stessa idea del contare richiede una spiegazione: alcuni hanno sostenuto che si dovevano contare i giorni che vanno da Pesach a Shavuot poiché le persone erano occupate nel lavoro nei campi, e forse non sarebbe arrivata loro notizia dell’imminenza di Shavuot.
Se così fosse, la Torà avrebbe potuto ordinarci di comprarci un calendario e tenerlo con noi, e non sarebbe servito contare. In realtà la conta ha un significato diverso, e mostra la nostra insoddisfazione nei confronti della situazione attuale, ed in generale la precarietà del presente. Il conteggio dei giorni che separano un evento dall’altro è simile a quello dello schiavo che deve essere liberato.
Secondo un’altra bellissima immagine è come se si dicesse ad un carcerato che sarà liberato e sposerà la figlia del re. Il carcerato inizialmente è incredulo, ma quando vede che la prima insperata cosa si avvera, inizia a credere che si verificherà anche la seconda, e conta il tempo che lo separa dalla sua realizzazione. Quando viene detto ai figli di Israele che usciranno dall’Egitto e riceveranno la Torà, non ci credono; quando vedono realizzata la prima cosa, attendono con fervore anche la seconda, contando il tempo che li separa dal suo ottenimento. Troviamo un accenno a ciò proprio nel verso di Shemot citato sopra: la parola ta’avdun (adorerete) ha una nun di troppo. Il valore numerico di questa lettera è proprio 50, quanti sono i giorni che separano l’uscita dall’Egitto dal matan Torà.
Perché dal secondo giorno e non dal primo? Se la conta dell’Omer unisce concettualmente Pesach e Shavuot bisogna spiegare un’altra apparente stranezza: perchè si inizia a contare dal secondo giorno di Pesach e non dal primo? In base ad un principio generale, che a volte s’incontra nella Halachà, non si mescolano delle gioie fra loro.
Il primo giorno di Pesach è legato ad un certo tipo di gioia, quella dell’uscita dall’Egitto, che costituisce una prova « forte » della creazione del mondo da parte di D.o e della provvidenza che esercita nei confronti degli uomini. Avvenimenti come le dieci piaghe, l’apertura del Mar Rosso, la caduta della manna sono eventi che sconvolgono profondamente le leggi naturali. I figli di Israele che hanno assistito all’uscita dall’Egitto sono arrivati ad una fede completa nel Signore (prestò piena fede al Signore e a Mosè suo servo), determinata proprio da tali eventi miracolosi. Questo caposaldo della fede ebraica, che D.o abbia creato il mondo ed eserciti la propria provvidenza sulle creature, non può essere mescolato con nessun’altra cosa. Per questo la conta dell’Omer non inizia dal primo giorno di Pesach, ma dal secondo, che, quando c’era il Bet ha-Miqdash, era caratterizzato da una particolare offerta, chiamata appunto ‘Omer. [3]
Il midrash percepisce dietro quest’offerta un messaggio diverso da quello che ci viene dato dal primo giorno di Pesach, un altro tipo di fede: la mano di D.o è presente anche negli eventi che a noi sembrano perfettamente naturali.
Quando un uomo prepara una qualsiasi pietanza deve compiere diverse operazioni che gli comportano fatica. Se al contrario si tratta di operazioni agricole non è proprio così: anche quando il contadino sta a letto, D.o in qualche modo lavora per lui, facendo splendere il sole, scendere la pioggia, soffiare il vento, ecc.
Attraverso l’offerta dell’Omer gli uomini riconoscono questa « collaborazione » divina, e mostrano di avere una fede basata non solo sugli interventi divini più manifesti, ma anche su quelli apparentemente nascosti.
Nachmanide sostiene persino che un tipo di miracolo sia funzionale all’altro: lo scopo dei miracoli manifesti è mostrare che ci sono miracoli nascosti, ed il fondamento della fede è nei miracoli nascosti.
Nella penultima berachà della ‘amidà (modim anachnu) parliamo dei miracoli che il Signore quotidianamente compie per noi, in ogni momento della giornata. In questo caso non si tratta dei miracoli manifesti, dei quali molti di noi probabilmente non sono stati testimoni, ma di quelli nascosti, che dobbiamo scovare continuamente. Questa continua ricerca del nascosto costituisce una grossa prova per la nostra fede: tante e tante cose ci sussurrano continuamente che tutto quello che ci succede è completamente naturale, tutti gli eventi della nostra vita sembrano essere determinati dal caso, ogni nostro risultato sembra essere solo farina del nostro sacco. Non sempre è così. Basta solamente guardare le cose con un occhio diverso e cercare come si manifesta il continuo intervento di D.o nella natura, nella storia, nella nostra vita.

Shavuot e Pentecoste
Le radici ebraiche del cristianesimo sono riconoscibili anche nella strettissima corrispondenza tra la festa di Pentecoste ebraica (Shavuot), dove si ricorda il dono della Legge, e la Pentecoste cristiana, in cui – cinquanta giorni dopo la Pasqua – celebriamo la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa radunata nel cenacolo. Sì, perché possiamo dire che nella Pentecoste gli apostoli salgono con Maria al piano superiore, come Mosè sale sulle pendici del Sinai; Dio effonde lo Spirito sulla Chiesa, nuova Legge, lo Spirito del Signore Risorto, iscritta nei cuori dei credenti; così Mosè sulla cima del monte riceve le mizwot Adonai, i precetti della Torah. Lo Spirito con i suoi doni porta la Chiesa alla missione ed all’evangelizzazione, la voce di Dio sull’Horeb rinvigorisce la missione del profeta Elia e gli dona quello slancio definitivo contro l’idolatria dei falsi profeti. Mosè parla faccia a faccia con Dio, lo Spirito ci permette di invocare Dio nei nostri cuori con l’appellativo di Abbà, l’affettuoso “Papà” del fanciullo che si rivolge al proprio padre, perché l’incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro Signore, Gesù, ci ha introdotti nella « famiglia » del Padre.
Abramo non merita Eretz Israel fino a che non mette in pratica la mizvà dell’Omer; gli ebrei non entrano nella Terra Promessa se non nel momento in cui sostituiscono l’Omer di Manna con l’Omer del frumento di Eretz Israel. Noi non entriamo nella vita nuova della Risurrezione se non partecipiamo all’Eucaristia, che è il nuovo Pane disceso dal cielo… e se non ci lasciamo purificare e vivificare dal fuoco dello Spirito che ha raggiunto gli Apostoli nel Cenacolo il giorno di Pentecoste. Come gli Ebrei si riconoscono Popolo al momento dell’accoglimento della Torah, così i Cristiani divengono anch’essi Popolo dell’Alleanza e si riconoscono Chiesa proprio a partire da quella Pentecoste che si rinnova per ogni credente.
Anche noi quindi in questo periodo dell’anno contiamo i giorni della nostra gioia, perché «  »il periodo dell’Omer ha delle diverse e ben più profonde implicazioni. Si tratta del periodo che intercorre tra la festa di Pesach e quella che nella Torah si chiama Azeret, ossia conclusione (stupenda l’idea di compimento), che prende poi il nome di Shavuot o Settimane. Tale definizione è però parziale. Sarebbe corretta se la data di Shavuot fosse esplicitamente fissata. In realtà non è così. Il periodo dell’Omer non è un riempitivo per lo spazio che intercorre tra le due feste, ma è piuttosto una scala che piantata sulla festa di Pesach sale fino a Shavuot. La Torah non dà la data di Shavuot, la festa che commemora il dono della Torah perchè essa è subordinata al conteggio dei giorni/scalini che abbiamo effettuato in direzione della Torah.
Ed in effetti il percorso Pesach-Omer-Shavuot è un percorso che serve a rieducare sia sotto l’aspetto materiale sia sotto quello spirituale. Se è vero che gli ebrei erano prossimi ad oltrepassare la cinquantesima definitiva porta dell’impurità allorché Iddio li trasse fuori dall’Egitto, il periodo del conteggio dell’Omer deve far loro risalire queste cinquanta tappe fino a giungere alla Torah. La Torah non si riceve in eredità, ma la si conquista giorno per giorno. La festa del dono della Torah è quindi senza data, accessibile a coloro che quotidianamente contano i propri successi in direzione della Legge. »" [Tratto dalla Parashat Emor]
Così è anche per noi, che viviamo il « già e non ancora » del Regno e, ogni giorno, compiamo un passo verso la Risurrezione definitiva, il « mondo a venire » (‘olam ha-ba), che inizia già in questo mondo, per poi sfociare nella pienezza della gloria futura.
Anche la Pentecoste cristiana è connessa strettamente con la Rivelazione di Dio sul Sinai. La omonima festa ebraica, infatti, ricorda la teofania mosaica di nel roveto che arde senza bruciare. Esattamente come arde senza bruciare lo Spirito Santo, in forma di lingue di fuoco, disceso su Maria e gli Apostoli: lo stesso Spirito che feconda e edifica la Chiesa. Noi vediamo dunque il Sinai come evento storico tipologico dell’effusione dello Spirito dopo l’Ascensione.
Allora è possibile comprendere che la Promessa di Dio rimane immutata nel corso della Storia della Salvezza, perché la Sua Alleanza è irrevocabile: ciò vale tanto per i nostri fratelli ebrei, quanto per noi cristiani che ci diciamo figli della Nuova Alleanza, che non annulla la precedente, ma la porta a compimento.
(M.G.)
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(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali.
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica. Le tre feste « del pellegrinaggio » o « feste del raccolto » (Pesach, Shavuot e Sukkoth) associate all’esodo dell’Egitto e le due « feste penitenziali » (Rosh HaShanan e Yom Kippur). Pesach (Pasqua) è la festa più importante del calendario ebraico. Si celebra tra marzo e aprile e ricorda la liberazione dalla schiavitù egiziana. Shavuot (pentecoste) si celebra nel periodo della mietitura, cinquanta giorni dopo la Pasqua. Ricorda il dono della legge (Torah) sul monte Sinai, che trasformò gli schiavi fuggiti dall’Egitto in un vero « popolo ».
Altre occasioni come il Purim sono invece feste minori e non hanno una diretta origine biblica.
Lo scopo di un Yom Tov, cioè di un giorno buono è quello di gioire dei piaceri del mondo dati da Dio e di concentrarsi della preghiera e nello studio.

[1] L’ ‘omer è una unità di misura che, nella toràh e nel talmùd, viene utilizzata per quantità alimentari. Come primo significato indica un manipolo di spighe; come secondo significato indica una quantità di grano o cereali e, indirettamente, la farina che se ne può ricavare. In ogni caso è una misura di volume e non di peso. Tra queste diverse definizioni esiste una certa incoerenza: non tutte le spighe hanno lo stesso numero di chicchi; non tutti i chicchi hanno la stessa grandezza; la stessa quantità di farina può derivare da un diverso numero di spighe e di chicchi (cfr. M.Peàh 6:6). Vale a dire: l’ ‘omer è una unità di misura discontinua; inevitabilmente dalle spighe al grano, dal grano alla farina e dalla farina al pane esistono dei salti qualitativi e quantitativi, tanto sicuri quanto imprevedibili. In altri termini: i passaggi e le trasformazioni da frutto della terra a prodotto agricolo ed a manufatto alimentare contrappongono la qualità e la quantità; il lavoro umano modifica la sostanza e le misure del prodotto naturale; molte spighe immangiabili diventano poco pane mangiabile.

[2] La seconda sera di Pesach, la pasqua ebraica, secondo il dettato della Torah, si doveva fare un’offerta delle primizie del raccolto; offerta che doveva essere ripetuta sette settimane dopo, in relazione alla festa di Shavuot. I grani di orzo del nuovo raccolto, fino a che esisteva il Santuario, non potevano essere consumati se non dopo l’offerta; dopo la distruzione del Santuario è rimasto il precetto di contare i giorni che separano Pesach da Shavuot. Tale periodo si chiama “periodo dell’Omer”. È un periodo che viene considerato di lutto, durante il quale non si celebrano matrimoni. In origine la parola Omer indicava un covone, ma viene inteso come unità di misura.
Il trentatreesimo giorno del periodo viene festeggiato Lag Ba-Omer, una festa allegra, che spezza il lutto. Secondo un’interpretazione segna l’inizio in cui la manna iniziò a cadere nel deserto, secondo altri la fine di una epidemia che aveva colpito i discepoli di Rabbì Akiva o un successo durante la rivolta in epoca romana. A Lag Ba-Omer viene venerata la tomba di Shimon Bar Yochai, a cui fu attribuito lo Zohar, il più importante testo di mistica ebraica.
Il 5 del mese di Iyar, durante il periodo dell’Omer, si celebra la ricorrenza della fondazione dello Stato di Israele, in ebraico Yom Ha’hazmaut. In questo giorno nel 1948 fu firmata la dichiarazione d’Indipendenza. Dopo duemila anni di esilio, si è realizzata l’aspirazione degli ebrei di avere uno Stato proprio. È giorno di festa sia in Israele che nella Diaspora.

[3] Il testo dice semplicemente che all’indomani del primo giorno di Pesach (dal testo indicato come « Sabato ») va eseguito un sacrificio denominato « omer » (misura che equivale a circa 43,2 uova medie di farina di orzo), si devono poi contare sette settimane (49 giorni) ed il cinquantesimo si deve presentare l’offerta di due pani (fatti di farina di grano). Quel giorno è la festa di Shavuot. Fino all’offerta dell’omer è proibito usare il nuovo prodotto di uno dei cinque cereali. Nonostante ciò la prima offerta di farina di grano del nuovo prodotto sono i due pani di Shavuot. Risulta quindi che la seconda delle Tre Feste di pellegrinaggio viene fissata secondo l’offerta di due sacrifici farinacei.
Esiste una differenza sostanziale tra le due offerte: l’omer è un offerta di orzo laddove i due pani di Shavuot sono di grano. Il Talmud (TB Pesachim 3b) asserisce che l’orzo è per eccellenza il cibo degli animali mentre il grano è il cibo dell’uomo. L’offerta dell’omer, appena successiva all’uscita dall’Egitto sembrerebbe quindi legata ad un livello « animale » mentre il grano dei due pani di Shavuot andrebbe legato ad un livello umano.
Ed ecco che la differenza sostanziale tra l’uomo e l’animale è la capacità di parlare (cfr. Targum Onkelos su Genesi II,7). Questa capacità, dibbur in ebraico, è talmente caratteristica dell’uomo che soffre con esso per le sue esperienze. Lo Zoar (Parashat Bo 125b) sostiene che il dibbur, la capacità di parlare, in Egitto si trovava in esilio. In effetti fino a che Israele non raggiunge il Sinai e riceve la Torà Mosè stesso è balbuziente, quasi a testimoniare la precaria condizione della umana capacità di parlare in assoluto. La redenzione del « parlare » avviene quando il Signore dona la Torà ad Israele (il decalogo è preceduto da un verso introduttivo nel quale si dice che D-o « parlò tutte queste parole ») Da lì in poi anche Mosè impara a parlare. Rabbi Izchak sostiene nel Talmud (TB Chulin 89a) che il compito dell’uomo in questo mondo è di imparare ad essere muto. L’unica cosa di cui dovrebbe parlare sono « divrè Torah », parole di Torah.

Ognuno è potenzialmente creativo (2002)

http://www.friulicrea.it/itriflessioni/story$data=riflessioni&num=176&sec=3

Ognuno è potenzialmente creativo (2002)

Il termine « creatività » è tra i pù difficili da definire perché è una delle connotazioni più importanti dell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza divina. Il suo campo semantico comprende moltissimi concetti che la configurano, ma nessuno di essi, isolatamente, soddisfa il suo vero significato.
Possiamo evocarne qualcuno : spontaneità, novità rispetto al progetto, qualcosa di inatteso, una forma di realizzazione di una qualche intuizione, fermento interiore, scoperta, ricerca di tecniche nuove…
Si intuisce, comunque, che la creatività tende ad uscire dagli schemi e dai preconcetti in cui giornalmente la imprigioniamo e respira la libertà interiore.
Essa soggiace in ognuno di noi. E’ a livello profondo. Dal momento che esistiamo come persone, siamo tutti « potenzialmente » creativi. Nella nostra mente, ad esempio, affiorano pensieri, idee che possono mutare, prendere forma o svilupparsi in base alla nostra indole, agli eventi esteriori e alla nostra volontà.

Sbagliamo quando affermiamo perentoriamente : « io non so essere creativo ». Forse non abbiamo preso sufficiente coscienza di quello che siamo. Infatti la creatività si esprime meglio nell’autoconoscenza. Inizia dal pensiero e dalla percezione del sé. Sarebbe sufficiente soffermarci spesso sui nostri pensieri ed osservarli con coraggio. Non serve fare enormi sforzi per voler apparire « creativi ». Si tratta solo di convincerci che la creatività già esiste in noi. Si può esprimere in infiniti modi, proprio perché il pensiero tende a tradursi spesso in azione.

Sosteneva F.Varillon: « preferisco dire che nel creare Dio non fa nulla, ma esiste in modo contagioso. (L’umiltà di Dio) »
Si tratta di incanalare le nostre pulsioni in modo positivo, anche se spesso siamo insoddisfatti.
Qualcuno, ad esempio, si esprime nell’arte. Ho conosciuto persone che all’età pensionabile si sono votate all’arte e hanno prodotto delle opere incredibili che mai avrebbero immaginato in vita loro. Si sono buttate, hanno cercato di imparare con pazienza e costanza una certa tecnica, poi hanno inventato una loro tecnica personale e gradualmente hanno realizzato il loro sogno in opere che in qualche modo vogliono comunicare quel fermento interiore che vagamente chiamiamo « creatività ».

Ma stiamo attenti a non incapsulare il concetto di « creatività » con le sole idee di arte, letteratura, poesia o qualsiasi altra forma comunicativa, altrimenti si rischia di dividere l’umanità in due tipologie: i pochi eletti che conoscono tecniche espressive raffinate e la massa ritenuta incapace, priva di « creativita », la quale tende alla depressione perché è convinta di non potersi esprimere adeguatamente.

Creatività, quindi, non è solo tecnica o capacità espressiva. E’ qualcosa di molto più interiore in ogni persona e che viene trasmessa per contagio. Ecco perché alcuni grandi saggi dell’umanità non hanno prodotto opere d’arte o scritti, ma hanno trasmesso spontaneamente le loro incredibili scoperte interiori, come traspare, ad esempio, dallo stesso Cristo il quale affermava: « voi siete déi ».P

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 17 juin, 2012 |Pas de commentaires »

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna : L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

 dal sito:

http://www.cmc.milano.it/Archivio/2011/Articoli/090508RiesnerOsservatore.pdf

(da L’Osservatore Romano 8 maggio 2009)

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna

L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

Il Centro Culturale di Milano ha ospitato il 6 maggio una conferenza intitolata:  « Dalla terra alle Genti:  san Paolo fondatore del cristianesimo o apostolo di Gesù? ». Ne pubblichiamo un estratto.

di Rainer Riesner
Università di Dortmund (Germania)
Il Nuovo Testamento è caratterizzato dalla presenza di due grandi teologi, Giovanni e Paolo. Il pensiero teologico di Giovanni è meditativo, e ha influenzato profondamente fino a oggi le Chiese orientali. Paolo ha posto al servizio della fede anche un acuto conflitto di natura logica, ispirando lo stesso Agostino, in qualità di uno dei maggiori pensatori dell’antichità cristiana.
Paolo ricevette la propria formazione teologica presso la scuola del famoso rabbino Gamaliele il Vecchio (Atti, 22, 3). Nel i secolo i letterati ebrei prendevano parte apertamente ai dibattiti intellettuali del loro tempo. All’epoca del figlio di Gamaliele si dissertava non solo dell’Antico Testamento ma anche della « saggezza greca » (Talmud babilonese, Sota 49b; Baba Kama 83a).
Paolo, nella sua veste di cristiano, non dimenticò quanto aveva appreso da Gamaliele. Nelle sue lettere, l’apostolo si serviva delle tecniche logiche e retoriche all’epoca riconosciute e comunemente utilizzate.
I grandi teologi corrono sempre il rischio di soccombere al fascino del proprio pensiero o di un sistema di pensiero altrui. Il più grande studioso della Bibbia nell’ambito della chiesa antica, al contempo eminente filosofo, era Origene. Anche egli era soggetto al rischio, e in alcuni punti è effettivamente caduto in questa trappola, di privilegiare il proprio pensiero teologico rispetto alla tradizione della fede generalmente riconosciuta. Anche Paolo è stato spesso dipinto come un pensatore solitario, isolato dal cristianesimo originario, anche se il giudizio a tal proposito non è stato affatto unanime. Per alcuni, egli è il precursore dell’indipendenza del pensiero teologico nei confronti della tradizione ecclesiastica. Secondo l’opinione di altri, con la sua complicata teologia Paolo avrebbe invece deturpato il semplice insegnamento di Gesù, trasformandolo in un cristianesimo dogmatico. Anche oggi Gesù e Paolo vengono spesso contrapposti. Ma Paolo non credette solo a Gesù crocifisso e risorto. L’apostolo sapeva anche molte cose sulla predicazione di Gesù, e le espone in vari punti delle proprie lettere. E ciò lo si nota solo sapendo come gli scribi ebrei solitamente citano i testi sacri. Li conoscono perfettamente a memoria, e spesso è loro sufficiente una sola parola chiave per ricordarli. Quando Paolo parlava di « fede » che « muove le montagne » (1 Corinzi, 13, 2), si riferiva naturalmente alle parole pronunciate da Gesù (Matteo, 17, 20).
Ma per Paolo era anche estremamente importante essere in accordo con la tradizione di fede tramandata dalla comunità originaria di Gerusalemme. Quando alcuni nella comunità di Corinto palesarono pensieri errati in merito alla risurrezione dei morti, l’apostolo ricordò la formula di professione della fede che aveva insegnato loro. Questa formula non era frutto del suo pensiero, bensì della tradizione (1 Corinzi, 15, 1-5).
Risale con molta probabilità alla comunità originaria che si era raccolta intorno all’apostolo Pietro a Gerusalemme (cfr. 1 Corinzi, 15, 5-11). Da quando, sulla via per Damasco, Gesù risorto era apparso a Paolo nella sua magnificenza divina, all’apostolo parve chiaro che non si poteva più parlare di Gesù come di un semplice essere umano (2 Corinzi, 4, 1-6). Ma anche in questo caso, per Paolo era essenziale non propugnare da solo questa sostanziale convinzione cristologica. Nella lettera ai Filippesi citò un brano (Filippesi, 2, 6-11) la cui forma linguistica indica che originariamente era formulato in una lingua semitica. In questo punto si parla chiaramente della divinità di Gesù (Filippesi, 2, 6). Secondo fonti affidabili del patriarca Girolamo, i genitori di Paolo erano originari di Giscala (De viris illustribus, 5), una roccaforte degli zeloti nell’Alta Galilea (Giuseppe Flavio, Bellum Judaicum, ii, 585 e seguenti). Se un fariseo come Paolo e altri devoti ebrei palestinesi riconobbero in Gesù il vero Dio, questo fatto non può essere spiegato con l’antico sincretismo, ma solo con la realtà della risurrezione di Gesù.
Ai cristiani di Corinto, fin troppo affascinati dai doni carismatici, Paolo dovette ricordare il fondamento della tradizione di fede e l’importanza della ragione (1 Corinzi, 14, 19). Ma Paolo non riduce la fede cristiana alla ragione e alla tradizione. Proprio nei confronti dei Corinzi, Paolo lascia intravedere la propria esperienza spirituale, nella quale non mancavano né la preghiera in lingue straniere infusa dallo Spirito Santo (1 Corinzi, 14, 18), né le visioni celestiali (2 Corinzi, 12, 1-4). Paolo ha anche parlato apertamente del suo miracoloso dono apostolico (2 Corinzi, 12, 12). La storia intellettuale europea degli ultimi due secoli è caratterizzata da grandi mutazioni. In alcuni momenti le tradizioni erano prive di valore, mentre in altri rappresentavano tutto. A epoche caratterizzate dal razionalismo hanno fatto seguito epoche dominate da una grande irrazionalità. Il nostro tempo è segnato dal fatto che viviamo tutto contemporaneamente, e anche i cristiani e le Chiese non ne sono immuni. Paolo può insegnarci il giusto equilibrio fra tradizione di fede, pensiero razionale ed esperienza spirituale personale.
Quando Paolo giunse ad Atene si arrabbiò per l’antico sincretismo, dominato da un mondo di idoli imperscrutabili (Atti, 17, 16). Ma non inneggiò all’assalto dei templi pagani e nemmeno invitò a boicottarli. Piuttosto, propugnò la fede nell’unico Dio, rivelatosi in Gesù Cristo, servendosi esclusivamente della forza di convincimento delle parole, nella sinagoga, nelle discussioni con i filosofi e durante l’interrogatorio del consigliere ateniese Areopago (Atti, 17, 17). Si auspicherebbe che i cristiani seguissero sempre questo esempio dell’apostolo, invece di cedere alla tentazione di sostituire il convincimento con la coercizione. È anche evidente l’elevato valore attribuito da Paolo alla coscienza umana, pur se debole e ingannevole (Romani, 14; 1 Corinzi, 8-10).
Del resto, anche prima dell’illuminismo, singoli cristiani avevano fatto proprio l’impulso alla libertà di fede e di coscienza proclamata da Paolo. Nel 1610 il cristiano evangelico Thomas Helwys pubblicò uno scritto che non solo si faceva paladino della tolleranza nei confronti dei protestanti, ma che sostanzialmente richiedeva quanto segue:  « Il re non deve ergersi a giudice fra Dio e l’uomo. Che si tratti di eretici, turchi, ebrei o altro, non spetta al potere temporale comminare seppur minime pene per tale ragione » (A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, ristampa 1998). Pensieri di questo genere vennero portati in America dai profughi religiosi, contribuendo a far sì che la Costituzione degli Stati Uniti del 1787, quindi ancora prima della rivoluzione francese, proclamasse la libertà di fede e di coscienza. Uno dei nostri scopi precipui nell’Europa moderna consiste proprio nel difendere entrambi questi ideali, e nel far ciò dovremo tenere presente sempre più che la libertà di fede e di coscienza vale anche per i cristiani.
La nostra epoca presenta delle similitudini con quella dell’apostolo Paolo, nel senso che non è più considerato ovvio essere un cristiano. La fede cristiana viene percepita come una delle tante offerte proposte nel mercato delle religioni. Inoltre, notiamo una sempre maggiore ostilità nei confronti del cristianesimo. La rivendicazione della verità religiosa viene considerata arrogante e molti precetti etici sono ritenuti oppressivi. Tuttavia, il fatto che essere cristiani non sia più scontato, presenta anche dei vantaggi. I cristiani devono nuovamente concentrarsi sulla particolarità e unicità della loro fede. Pertanto, fra i cristiani appartenenti a Chiese molto diverse, che non vogliono semplicemente adeguarsi allo spirito del tempo, cresce la consapevolezza di condividere elementi in comune. Una tale comunanza di intenti, che fortunatamente viene continuamente sottolineata anche da Papa Benedetto, si fonda sulla consapevolezza che l’Europa necessita di una nuova evangelizzazione! L’apostolo Paolo può fungere da esempio in tal senso? Paolo è riuscito a ispirarci con la sua fede e il suo coraggio. La sfida che ha affrontato era estremamente più grande di quella che sta di fronte a noi. Cos’era una manciata di cristiani in confronto al potente impero romano e all’affascinante cultura pagana dell’ellenismo? Dal punto di vista umano, niente! Ma Paolo ha contrapposto a tale punto di vista la propria convinzione:  « Tutto posso in colui che mi dà la forza » (Filippesi, 4, 13). Questa frase non è stata scritta da Paolo in un momento qualsiasi, ma durante la sua prigionia. L’apostolo sperimentò allora la stessa situazione condivisa oggi dai cristiani in molti Paesi del mondo:  si può imprigionare chi annuncia il Vangelo, ma non il Vangelo (Filippesi, 1, 12-14).
Paolo si è affidato alla potenza di Dio e dello Spirito Santo, ma questo non gli ha impedito di operare nella sua missione in modo strategico e metodico. Solo due indicazioni a tale proposito. Paolo si è concentrato sulle città di provincia come Salonicco, Corinto ed Efeso. Credeva, a ragione, che in seguito alla costituzione di comunità in questi punti nevralgici per le comunicazioni il Vangelo potesse diffondersi nelle regioni limitrofe. Tuttavia, queste regioni erano molto distanti dal punto di vista geografico, cosicché sussisteva il rischio di uno sviluppo non omogeneo. L’apostolo lo scongiurò recandosi in visita in questi luoghi, inviando lettere e collaboratori. L’organizzazione di un collegamento fra così tanti collaboratori e gruppi era per l’epoca un enorme impegno dal punto di vista logistico. Uno studioso inglese definisce questo fenomeno come The Holy Internet (M. A. Thompson, in:  R. Bauckham, The Gospels for All Christians, 1998, 49-70). Questo ci fornisce un’importante indicazione. Non si tratta solo di emulare i metodi missionari di Paolo. Grazie alla radio, alla televisione e in particolare a internet, abbiamo a disposizione delle opportunità di comunicazione con le quali possiamo raggiungere anche le persone che vivono nei paesi più remoti. Paolo si complimenterebbe di cuore con noi per questa modernità, se concordiamo con lui su di un punto:  esiste solo « un Vangelo di Gesù Cristo » (Galati, 1, 8) ed « è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo e poi del Greco » (Romani, 1, 16). Anche oggi non sussiste alcun motivo per vergognarsi di questo Vangelo.

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO, Vaticano (dal |on 26 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

Gesù come ponte tra cielo e terra (OR 2008)

dal sito:

http://www.zammerumaskil.com/catechesi/evangelizzazione/gesu-come-ponte-tra-cielo-e-terra.html

Gesù come ponte tra cielo e terra

Domenica 04 Maggio 2008 

Per una religiosità olimpica, cioè nelle tradizioni omeriche ed esiodee dell’antica Grecia, c’è assoluta contrapposizione di natura e destini tra dèi e uomini. Gli dèi sono in alto e felici, gli uomini sono in basso e sofferenti. Gli uni sono immortali, gli altri sono destinati prima a morire, poi a una vaga sopravvivenza nell’Ade. Il Canto del destino di Iperione, di Friedrich Hölderlin, può servire come saggio esemplare di questo tipo di sensibilità religiosa. Il poeta esprime l’aspirazione dell’uomo a una vita beata e pacificata, dove gli dèi però restano lontani dal destino angoscioso delle creature mortali:  loro in alto, noi in basso. Il cristianesimo celebra un orizzonte completamente diverso:  Gesù è il Dio incarnato, Dio che si fa uomo, cioè scende dall’alto verso il basso, per consentire all’uomo l’ascesa. Colui che preesiste in eterno come Dio si abbassa fino a morire in croce, per poi venire ancora elevato alla dignità divina, sollevando con sé l’umanità caduta. Nell’arte cristiana è possibile esplorare questo doppio movimento di discesa e ascesa, in cui Gesù, il Figlio di Dio, è il protagonista. San Paolo ci suggerisce il percorso. Nella lettera ai Filippesi, l’apostolo delle genti celebra la discesa e l’ascesa di Gesù, il suo abbassamento e la sua esaltazione nella croce. Cristo – dice san Paolo – pur possedendo la natura divina, annientò sé stesso, diventando simile agli uomini, e si umiliò fino alla morte in croce. Ed è per questo che Dio lo ha esaltato al di sopra di qualsiasi cosa, in cielo, in terra e negli inferi. La morte in croce è il punto centrale di questo movimento di Gesù, che va dalla sua divinità verso l’uomo, ed è anche il culmine che lo esalta come Dio e gli consente di divinizzare l’umanità.
Anche se i Vangeli non offrono dettagli sui modi in cui Gesù fu inchiodato al patibolo, gli artisti hanno spesso rappresentato l’innalzamento della croce. La possibilità che Cristo sia stato sollevato mentre la croce era già stata innalzata, per esempio con una scala, per esservi inchiodato, fu generalmente esclusa, seguendo in questo l’indirizzo della pittura bizantina. Nel primo Rinascimento italiano si trova qualche raro esempio dove si vede il Salvatore salire su di una scala, oppure gli aguzzini inchiodarlo ai bracci della croce, già alta sul terreno. Altrimenti si è supposto che Gesù sia stato prima inchiodato sulla croce e poi, con essa, innalzato. L’elevazione della croce con il corpo di Cristo inchiodato è stata raffigurata soprattutto nella pittura nordeuropea tra Cinquecento e Settecento. In mezzo a una folla di spettatori, si vedono uomini robusti e muscolosi spingere in alto un’estremità della croce, mentre altri la sollevano per mezzo di corde. Si realizza così l’evento previsto dallo stesso Gesù, che un giorno, parlando con Nicodemo, aveva detto che il Figlio dell’Uomo doveva essere innalzato per poter donare agli uomini la vita eterna. Cristo sembra quasi parlare a Hölderlin, e a chiunque soffra la separazione tra umano e divino:  « Nessuno è mai salito al cielo » – dice Gesù a Nicodemo – « fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo ».
Altre opere d’arte descrivono la deposizione del corpo morto di Gesù dalla croce. L’episodio segue immediatamente la crocifissione. Giuseppe di Arimatea, ricco e rispettato membro del Sinedrio, e segretamente un discepolo di Gesù, ottenne da Pilato il permesso di prendere il corpo di Cristo dalla croce. Giuseppe, che aveva portato con sé un lenzuolo di lino, e Nicodemo, che aveva con sé mirra e aloe per conservare il corpo, deposero la salma di Gesù e la avvolsero nel sudario. I quadri mostrano i due mentre tolgono i chiodi dal corpo di Cristo o il momento in cui lo mettono giù dalla croce. I primi esempi nell’arte occidentale si ispiravano a composizioni bizantine tra X e XI secolo, e mostrano quattro figure principali:  Nicodemo che estrae con delle pinze il chiodo dalla mano sinistra, Giuseppe che afferra il corpo e ne sostiene il peso, la Vergine che tiene la mano destra già libera, e l’apostolo Giovanni che appare in piedi e sofferente a qualche distanza. Intorno al Tre-Quattrocento, si vedono di solito due scale, che poggiano sulle due estremità del lato trasversale della croce, e su di esse Giuseppe e Nicodemo. Sotto, ai piedi della croce, ci sono la Vergine con altre donne e san Giovanni. Nell’arte rinascimentale e barocca la composizione divenne più complessa e affollata di figure. Pensiamo alla grande fortuna di questo tema in manieristi come il Pontormo o Rosso Fiorentino. La croce può essere vista obliquamente, come per esempio nella versione di Rubens nella cattedrale di Anversa; ci sono spesso quattro scale, con due uomini che si appoggiano sul lato trasversale della croce per aiutare a deporre il corpo, passandolo a Giuseppe e Nicodemo.
Gesù, Dio fatto uomo, è sceso dall’alto verso il basso. Lui che è re, si è umiliato come un servo, lui che è il giudice si è fatto processare. Per questo è degno di essere innalzato sopra i cieli. Lui, che è il creatore della vita, ha accettato la morte in croce, ed è sceso nel buio del sepolcro, per essere inghiottito dalla morte. Nella Cappella degli Scrovegni di Padova Giotto ha dipinto il lutto degli angeli, mentre il Figlio di Dio viene deposto nella terra. Ma c’è nell’arte medievale un soggetto – che formava una delle scene nel ciclo della passione di Cristo – a indicare una discesa ulteriore:  quella di Cristo al Limbo, un tema che continuò a essere rappresentato per tutto il Rinascimento. Già nel II secolo vari scritti descrivevano la discesa di Cristo agli inferi, come cioè il Figlio di Dio sconfisse Satana, liberando le anime dei santi del Vecchio Testamento. La storia è narrata nel dettaglio in un vangelo apocrifo, probabilmente del V secolo:  i cancelli dell’inferno andarono in frantumi, i morti furono liberati dalle loro catene. I primi Padri conclusero che la zona dove si trovavano patriarchi, profeti e martiri pre-cristiani non era l’inferno, ma una regione ai suoi bordi, il Limbo, dal latino limbus, che vuol dire « bordo, margine ». Nei quadri vediamo Cristo che, tenendo lo stendardo della Resurrezione, croce rossa su campo bianco (o viceversa), attraversa una soglia. Le porte risultano scardinate e crollate a terra, schiacciando Satana sotto il loro peso. Mentre i demoni fuggono nell’oscurità, una folla di persone giunge da una caverna, per afferrare la mano di Cristo. Il primo è Adamo, vecchio e con la barba grigia. Dietro di lui viene Eva, poi Abele, con il bastone da pastore, a volte vestito di pelle d’animale. Seguono Mosè, il re Davide, il buon ladrone, cui Cristo promise il cielo, poi Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti. Più piccoli, seguono altri re e santi. Nel dipinto di Domenico Beccafumi conservato nella Pinacoteca Nazionale di Siena, la schiera di morti liberati sale dal fondo verso il Salvatore in primo piano. La discesa è completa, la missione è compiuta.
L’Ascensione del Signore, invece, rappresenta il movimento verso l’alto. Cristo ascende, nell’arte, spesso sul soffitto della cupola centrale delle chiese. La versione completa della Ascensione è divisa in due parti, superiore e inferiore, cielo e terra. In cielo la figura di Cristo è al centro, con il piede su una nuvola e circondato da cherubini disposti a forma di mandorla. A volte tiene lo stendardo della Resurrezione, e benedice con la mano destra. Ai due lati, per equilibrare la composizione, ci possono essere altri angeli, a suonare strumenti musicali. Sulla terra gli apostoli guardano con meraviglia e timore alla figura che sta allontanandosi, o sono inginocchiati a pregare. La Vergine è generalmente con loro, simbolo della Madre Chiesa che Cristo lascia sulla terra. Sui suoi due lati si possono vedere san Pietro, che tiene le chiavi, e san Paolo con la spada, simboli rispettivamente degli ebrei e dei Gentili a cui venne portato il messaggio cristiano.
Grazie a questo movimento di discesa e di ascesa, Gesù è divenuto la nostra via verso i cieli. Se Lui ascende, la Gerusalemme celeste discende sulla terra. Gesù che è disceso è lo stesso che è salito sopra tutti i cieli, per riempire di sé l’universo. Gesù, Dio e uomo, cade e si rialza, si umilia e si riveste di maestà, sprofonda negli abissi e si slancia nelle altezze. Ed è lo stesso Dio che fa rialzare chi è caduto, indebolisce i forti e riveste i deboli di forza, affama i sazi e sfama gli affamati, fa generare la sterile e rende sterile la feconda, rende i ricchi poveri e i poveri ricchi, pone in alto chi è in basso e in basso chi è in alto. Cristo innalzato sulla croce è l’asse che riunisce ciò che è in alto con ciò che è in basso, attraverso cui circola la vita nell’universo. Dio è disceso, l’uomo è asceso, in una provvidenziale coincidenza degli opposti.

Alessandro Scafi

(L’Osservatore Romano – 4 maggio 2008)

GEREMIA & DIETRICH BONHOEFFER GEMELLI IN CRISTO (la base paolina dello studio è notevole)

dal sito:

http://www.biblia.org/index.php/archivio/approfondimenti-culturali.html

APPROFONDIMENTI CULTURALI -XXXVII (ANNO XIX, N. 3)

GEREMIA & DIETRICH BONHOEFFER GEMELLI IN CRISTO

‘FRAMMENTI’ PER UNA RICERCA’

Riproduciamo il testo dell’intervento svolto da Marco Tommasino nel corso del seminario estivo dedicato a Geremia. Per ragioni di spazio abbiamo dovuto tagliare la suggestiva cornice narrativa del testo,salvandone però integralmente il messaggio. Ce ne scusiamo con l’autore e lo ringraziamo per le sue riflessioni. Tommasino si presenta come un fisico e un informatico e non come teologo e biblista: gli amanti della Bibbia auspicano il moltiplicarsi di questi fisici e informatici.

Ringraziamenti
Ho dedicato questa ricerca ad alcune persone che con la loro vicinanza e amicizia continuano ad aiutarmi a rinnovare l’uomo interiore di giorno in giorno, mentre quello esteriore si va disfacendo [cfr.2Cor 4,16]. Questa è donata ai nuovi amici di Biblia, alla mia maestra di Bibbia, Eugenia Verna che ha il dono di annunciare la Parola, alla comunità di Bose per la lunga amicizia, e a Paolo De Benedetti da parte di mia nipote Alice.

DB ha capito il libro di Geremia
Il libro di Geremia è croce e delizia di esegeti e semplici lettori per la sua ‘non linearità’. Ma ormai è canonico: e quindi deve avere un suo senso compiuto. Il testo di Geremia trova una definizione della sua unità in questo pensiero di Bonhoeffer. Nella lettera ad Eberhard Bethge del 23 febbraio 1944 scrive:

… la nostra esistenza spirituale resta incompiuta. Tutto dipende ormai dal fatto se sia possibile ancora scorgere, sulla base della frammentarietà della nostra vita, in che modo era progettato e pensato il tutto, e di quale materiale sia fatto. Ci sono poi frammenti che ormai fanno parte solo della spazzatura (per i quali sarebbe troppo anche un « inferno » decoroso) ed altri che restano significativi attraverso i secoli, perché il loro completamento può essere solo affare di Dio, cioè frammenti che devono essere frammenti -penso ad esempio all’Arte della fuga [di J.S. Bach]. Se la nostra vita rispecchia anche solo da lontano un frammento di questo tipo, nel quale i diversi temi che si aggiungono sempre più numerosi si armonizzano almeno per un breve istante, e nel quale il grande contrappunto viene mantenuto stabilmente dall’inizio alla fine, sicché poi, dopo l’interruzione, al massimo si può intonare ancora il corale « Così mi avanzo davanti al tuo trono » -allora non dobbiamo lamentarci neppure della nostra vita frammentaria, ma dovremo anzi esserne contenti. Non mi esce più dalla testa il capitolo 45 di Geremia. Forse ti ricordi ancora di quel sabato sera a Finkenwalde, quando l’ho commentato? Anche qui, un frammento di vita -necessariamente tale - »ma la tua anima te la darò come bottino ».

Geremia & DB gemelli
Con quali prove?
Due anni fa ho capito che Geremia aveva influenzato profondamente il pensiero di Bonhoeffer. Dal vicariato a Barcellona nel 1928 fino a Tegel, alle soglie della fine, egli riprende più e più volte il pensiero di Geremia con una passione fortissima. Allora ho pensato: forse si può dire che c’è tra i due un legame più forte di un semplice interesse? Si può arrivare a dire che Geremia ha gettato il suo mantello nella storia ed è finito addosso a Bonhoeffer? O che Geremia è risuscitato dai morti?

Santi e profeti
Geremia è santo canonizzato, e Bonhoeffer? Nel 1998 a seguito di un rifacimento del transetto
ovest dell’Abbazia di Westminster, sono state poste dieci statue di martiri cristiani di ogni confessione che, nel passato recente, hanno dato la loro vita per il Vangelo. Tra di loro ci sono Dietrich Bonhoeffer, Martin Luther King, Massimiliano Kolbe e Oscar Romero. Anche lui ora gode di un certo riconoscimento ufficiale. Geremia è profeta, riconosciuto da tutti, anche da chi lo aveva rifiutato. E Bonhoeffer? Ma chi è il profeta? Bonhoeffer, nel 1928, parla del profeta in una conferenza a Barcellona: profeta? Bonhoeffer, nel 1928, parla del profeta in una conferenza a Barcellona:
Un profeta è un uomo che si sa preso da Dio e chiamato in un momento determinato, sconvolgente della sua vita, ed ora non può più fare altro che andare in mezzo agli uomini e annunziare la volontà di Dio. La vocazione è diventata il punto di svolta della sua vita, e per lui c’è ancora soltanto una cosa, il seguire questa vocazione, ammesso pure che questa lo porti all’infelicità e alla morte. Così dice Amos (3,8): « Il Signore Iddio parla, chi può non profetare? ».

Profeti in un tempo di crisi
Qual è il tempo in cui hanno vissuto Geremia e DB? Un tempo di crisi. Un’epoca in cui Dio vaga
senza meta per il suo regno gridando: « Consolatemi, consolatemi, o mio popolo » perché il suo popolo va verso la Shoà. Egli è come Rachele, che « piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata perché non sono più » (Ger 31,15). È un tempo in cui il Signore dice ai suoi profeti: « Ecco, vi metto le mie parole sulla bocca./Ecco, oggi vi costituisco/sopra i popoli e sopra i regni/per sradicare e demolire,/per distruggere e abbattere,/per edificare e piantare » (Ger 1,10). Geremia e DB vivono nello stesso tempo storico, un tempo di Shoà: la prima e l’ultima.

Frammenti di storia
Uno sguardo alle biografie fa intravedere rassomiglianze e parallelismi.
Prima di tutto l’amico/discepolo/segretario. Tutti i due hanno un compagno di vita e di lotta e che si occupa di trasmettere pensieri e racconti di vita: Baruch e Eberhard Bethge. A entrambi viene lasciato un viatico: a te darò la vita come bottino (Ger 45,4). Geremia deve rinunciare a esercitare il sacerdozio, come avrebbe richiesto il suo stato di famiglia. Bonhoeffer non sarà mai pastore in una parrocchia tedesca. I contrasti con le autorità civili e religiose sono continui, i due tendono a isolarsi. Non in una torre d’avorio, ma perché devono annunciare una parola che non ammette sconti, nemmeno per loro stessi. Geremia è insidiato dalla sua stessa famiglia: gli uomini di Anatòt attentano alla sua vita dicendo: « Non profetare nel nome del Signore, se no morirai per mano nostra » (Ger 11,21). Il sacerdote e sovrintendente-capo del tempio Pascùr lo fa fustigare e lo imprigiona, dopo l’episodio della brocca spezzata (Ger 20,2). I sacerdoti e i profeti chiedono per lui una sentenza di morte, perché aveva osato predicare nel
tempio, ricordando la fine del santuario di Silo (Ger 26,1-11). È accusato di disfattismo e tradimento: « Tu passi ai Caldei! » (Ger 37,13). È imprigionato più volte (Ger 20,2; 32,2;37). A Bonhoeffer nel 1936 viene ritirata l’autorizzazione all’insegnamento universitario. Nel settembre del 1940 gli viene vietato di parlare in pubblico ed è obbligato a segnalare i propri movimenti alla polizia « a motivo della sua azione disgregatrice in mezzo al popolo ». Nel marzo
del 1941 riceve il divieto di stampare e pubblicare. Il 5 aprile 1943 è arrestato.

La vocazione
Dice Geremia:
Mi fu rivolta la parola del Signore:
« Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,/prima che tu uscissi alla luce,/ ti avevo consacrato;/ti ho stabilito profeta delle nazioni » (Ger 1,4-5). Bonhoeffer nutrì il desiderio di divenire pastore e teologo fin da bambino, e lo mantenne finché non l’ebbe realizzato. Ma quando capì che la sua vita al servizio diretto di Dio non sarebbe stata « un’esistenza silenziosa e quieta da pastore » come quella pensata da suo padre?
A 22 anni, mentre era vicario a Barcellona, così egli si dichiara:
Ogni parola deve esser detta dal presente per il presente, e se non sempre nella forma più esplicita, tuttavia in modo sufficientemente chiaro per l’osservatore dei nostri giorni. Siamo uomini del XX secolo e dobbiamo, ci piaccia o no, adattarci a questo fatto, o piuttosto dobbiamo avere tanto amore per questo nostro tempo, per questa nostra generazione, da esserle solidali nella miseria e nella speranza. È sufficiente questo per capire quale sarebbe stata la sua via. Ancora nella stessa conferenza dedica ampie parti al dramma di Geremia: Colui che era legato al suo popolo con amore bruciante, doveva sperimentare il carcere come un vigliacco o un disertore, poi la completa emarginazione con l’esser gettato in una profonda cisterna, finché accadde quello che egli aveva profetizzato: Gerusalemme cadde, in un attimo fu conquistata, il tempio distrutto, la famiglia del re giustiziata, e il popolo portato in prigionia, lontano dalla terra tanto celebrata, dal tempio, dalla patria che il Signore gli aveva dato. L’ultima parola che il vegliardo Geremia riceve da Dio, è sconsolata: « Ecco: ciò che ho costruito, Io lo demolisco, ciò che ho piantato, Io lo sbarbo… e tu pretendi grandi cose per te? » (Ger 45,4 s.). Dio stesso soffre: come può allora un uomo lamentarsi del dolore! … Si era alla fine, i profeti erano stati sconfitti, la tragedia della loro vita era compiuta, il sipario calava, il quinto atto era finito; eppure nella notte che aveva fatto irruzione, si annunciava già da lontano l’albeggiare di un giorno… Ancora torna la vita di Geremia nell’omelia Dolore della vocazione, a Londra nel ’34, in cui medita una confessione di Geremia (Ger 20,7: « Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza, ed hai vinto »). E Geremia era fatto della nostra carne e sangue, era un uomo come noi. Soffre delle continue umiliazioni, dello scherno, della violenza, della brutalità degli altri, e così infatti, dopo una tortura straziante, durata tutta una notte, si sfoga in questa preghiera: « Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto violenza, ed hai vinto ». Dio, tu hai voluto utilizzarmi per le tue azioni. Mi hai teso insidie, non mi hai più lasciato libero, all’improvviso, nei punti più impensabili, mi hai tagliato la strada, mi hai attirato e affascinato, ti sei reso docile e disponibile il mio cuore, mi hai parlato del tuo desiderio e del tuo amore eterno, della tua fedeltà e della tua forza; quando cercavo la forza, tu mi rafforzavi, quando cercavo un appiglio, tu mi sostenevi, quando cercavo il perdono, tu mi perdonavi la colpa. … Mi hai catturato come uno sprovveduto, ed ora non posso più liberarmi, ora mi trascini via, come tua preda, mi leghi insieme ad altri al tuo carro di trionfo e ci trascini al tuo seguito, perché partecipiamo al tuo trionfo, strapazzati e torturati. Potevamo saperlo che il tuo amore è così doloroso, la tua grazia così dura? … Migliaia di membri della chiesa e di pastori oggi nella chiesa del nostro paese corrono il pericolo della repressione e della persecuzione a causa della loro testimonianza per la verità. Non sono andati a cercarsi questa strada per ostinazione e arbitrio, ma vi sono stati portati, sono stati costretti a percorrerla. Spesso contro la loro volontà, contro la loro carne e sangue, perché Dio aveva loro fatto violenza, perché non riuscivano più a resistere a Dio, perché dietro di loro si era chiusa una porta, ed essi non potevano più tornare indietro rispetto alla parola di Dio, al suo appello, al suo comando. Frequentemente desideravano godere interiormente di pace, quiete e silenzio, di non esser più costretti ad ammonire, minacciare, protestare, o testimoniare la verità. Ma erano costretti: guai a noi se non predicassimo il Vangelo! « O Dio, perché ci sei così vicino? ». Il non potersi più liberare da Dio: ecco l’inquietudine angosciosa di ogni vita cristiana.

La grande rinuncia
Dio chiede ai suoi una rinuncia senza sconti.
Geremia Mi fu rivolta questa parola del Signore: Non prendere moglie, non aver figli né figlie in questo luogo … (Ger 16,1-2). A Geremia è richiesto il celibato. È la prima volta nell’AT. Ma non è una scelta semplice. Tre volte piange perché cesseranno nelle città di Giuda e nelle vie di Gerusalemme voci di giubilo e voci di gioia, la voce dello sposo e la voce della sposa (Ger 7,34; 16,9; 25,10). Sì, il profeta ha obbedito al comando del Signore, ma gli è rimasta una grande nostalgia. …/ Poiché il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo! …/A questo punto mi sono destato e ho guardato; il mio sonno mi parve soave (Ger 31,22.26). È forse uno dei semi del Cantico di Cantici? Ed ecco prorompere tra le profezie di salvezza il canto di gioia per quello che gli è negato. Dice il Signore: In questo luogo, di cui voi dite: Esso è desolato, senza uomini e senza bestiame; nelle città di Giuda e nelle strade di Gerusalemme, che sono desolate, senza uomini, senza abitanti e senza bestiame, si udranno ancora voci di giubilo e voci di gioia, la voce dello sposo e la voce della sposa … (Ger 33,10-11). La storia di DB è molto più triste. Nel 1941 scrive a Erwin Sutz un inno all’amore sponsale: Negli anni passati ho scritto parecchie lettere per le nozze di qualcuno dei fratelli … In tutti casi la caratteristica principale di questo avvenimento che era sempre dato dal fatto che uno si arrischi, in questi tempi ‘ultimi’ a fare un passo di questo genere, in cui si dice di sì alla terra e al suo futuro. In tutti questi casi mi era chiarissimo che si può fare questo passo da cristiani solo se realmente ci si fonda su una fede forte e sulla grazia. Poiché proprio in mezzo alla rovina si può costruire; proprio quando si vive ora per ora, giorno per giorno, si vuol costruire un futuro; proprio quando si è scacciati dalla terra, si vuol costruire uno spazio, che in mezzo alla generale miseria sia uno spazio di felicità. E ciò che è sbalorditivo è che Dio consente questa singolare aspirazione, che Dio consente al nostro volere, mentre dovrebbe essere piuttosto il contrario. Per cui il matrimonio diventa qualcosa di interamente nuovo, di forte, di splendido per noi che vogliamo essere cristiani in Germania. …
Ma soprattutto ha scoperto e vissuto l’amore per Maria, un amore forte, pieno di speranza. Non ben visto dalla famiglia di lei, riesce a superare anche questo ostacolo. Ecco quello che viene dal profondo del suo cuore, nell’agosto del ’43: Tu non puoi immaginare che cosa nella mia attuale situazione significhi l’avere te. Sono sicuro che qui c’è la guida speciale di Dio…Ogni giorno resto sorpreso per quanto immeritatamente io abbia ricevuto questa felicità, e ogni giorno sono profondamente commosso pensando a quale dura scuola Dio ti abbia condotto in questo ultimo anno. E ora il suo volere sembra sia che io debba arrecarti dolore e sofferenza… in modo tale che il nostro reciproco amore possa acquisire le giuste basi e la giusta capacità di resistenza (endurance). Quando dunque penso alla situazione del mondo, alla totale oscurità che circonda il nostro destino personale e alla mia attuale detenzione, allora credo che la nostra unione può essere solo un segno della grazia e della bontà di Dio, che ci chiama alla fede. Saremmo ciechi se non lo vedessimo. Nel momento del grande bisogno del suo popolo, Geremia dice: « In questo paese si debbono ancora comprare case e campi » (Ger 32,15), un segno della fiducia nel futuro. È qui che è in gioco la fede. Possa Dio donarcela ogni giorno … Ma, all’inizio di giugno, la verità si fa strada nella poesia Passato inviata a Maria, una delle sue confessioni: « Te ne sei andata, amata felicità e dolore duramente amato,/che nome ti darò?… ». Io credo che a questo punto Bonhoeffer abbia pensato anche lui: Mi hai ingannato, Signore, e io mi sono lasciato ingannare; mi hai fatto forza e hai prevalso (Ger 20,7). Però insiste e protesta: « Io voglio la mia vita, la mia vita esigo/di ritorno,/il mio passato,/te! ». La risposta che posso immaginare è dura: « Se, correndo con i pedoni, ti stanchi,/come potrai gareggiare con i cavalli?/Se non ti senti al sicuro in una regione pacifica,/che farai nella boscaglia del Giordano? (Ger 12,5) « Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò/e starai alla mia presenza; …/io sarò con te/per salvarti e per liberarti./Oracolo del Signore. Ti libererò dalle mani dei malvagi/e ti riscatterò dalle mani dei violenti » (Ger 15,19-21).
Ma l’esito finale è purtroppo un altro.

Il ‘riv’
Geremia: una protesta contro la sofferenza si intitola un bel commento di Henry Mottu. Sì, Geremia discute continuamente con Dio e lo chiama a testimone del male che lo circonda e del
dolore che gli provoca l’essergli fedele. Tu sei troppo giusto, Signore, / perché io possa discutere con te; / ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. / Perché le cose degli empi prosperano? (Ger 12,1) Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio? (Ger 15,11)
Non essere per me causa di spavento, / tu, mio solo rifugio nel giorno della sventura (Ger 17,17). Prestami ascolto, Signore, / e odi la voce dei miei avversari. / Si rende forse male per bene? / Poiché essi hanno scavato una fossa alla mia vita. / Ricordati quando mi presentavo a te, / per parlare in loro favore, / per stornare da loro la tua ira (Ger 18,19-20). Mi dicevo: « Non penserò più a lui, / non parlerò più in suo nome! ». / Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, / chiuso nelle mie ossa (Ger 20,9). In DB la protesta, mi sembra che abbia un altro taglio. È il carattere della persona che è diverso? O anche perché tra i due su cui il « verbum Domini factum est » (così più di 40 volte la Vulgata traduce ‘la parola del Signore fu rivolta a Geremia’) c’è stata, storicamente, la Parola di Dio fatta carne?

Ancora dalla poesia Passato:
…/È come se con tenaglie roventi mi si strappassero/ brani di carne,/ quando tu, mia vita passata, veloce ti allontani./ Dispetto ed ira mi assale, pongo domande furiose e vane./ Perché? perché? perché? ripeto./ Se i miei sensi non ti possono trattenere,/ vita che passi, che sei passata,/ io voglio pensare e ancora pensare,/ finché troverò ciò che ho perduto./ … Io voglio la mia vita, la mia vita esigo/ di ritorno,/il mio passato,/ te!/… Dalla poesia ‘Chi sono io? sempre del 8 luglio 1944: « Chi sono? Questo porre domande da soli è derisione./ Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo sono io, o Dio! »

Per edificare e piantare
Ecco, oggi vi costituisco sopra i popoli e sopra i regni … per edificare e piantare (cfr. Ger 1,10). Geremia ha lasciato profonde parole di speranza al suo popolo: per un futuro storico abbastanza vicino. Voglio soffermarmi in particolare sulla cosiddetta lettera agli esiliati (Ger 29): Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da
Gerusalemme a Babilonia: Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere (Ger 29,4-7). Anche Bonhoeffer ha lasciato molte tracce per il cammino della chiesa e dei singoli credenti. Mi soffermo su una delle sue ultime riflessioni dal carcere. Il giorno seguente al fallito attentato a Hitler, il 21 luglio 1944, egli scrive ad Eberhard Bethge queste sconvolgenti righe:

Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà [essere in questo mondo] della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi -un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiquà [essere in questo mondo], cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità -allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cfr. Geremia 45). Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita [nella vita di questo mondo] partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti.

Padre, è giunta l’ora
Resistenza e sottomissione.
Ecco il ‘sia fatta la tua volontà’ di Geremia. … Geremia rispose a tutti i capi e a tutto il popolo: « Il Signore mi ha mandato a profetizzare contro questo tempio e contro questa città le cose che avete ascoltate. Or dunque migliorate la vostra condotta e le vostre azioni e ascoltate la voce del Signore vostro Dio e il Signore ritratterà il male che ha annunziato contro di voi. Quanto a me, eccomi in mano vostra, fate di me come vi sembra bene e giusto … (Ger 26,12-14). Nella poesia La morte di Mosè del settembre 1944 DB aveva già ricapitolato tutta la sua vita. Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,/ Dio, questo popolo io l’ho amato./ Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi/e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta./ Reggimi, prendimi! Il mio bastone s’incurva,/ preparami la tomba, o fedele Iddio. Con la poesia Delle potenze benigne del 19 dicembre 1944, scritta alla fidanzata e ai famigliari, egli annuncia la sua sottomissione completa al Signore: …/oh, Signore, dona alle nostre anime impaurite/la salvezza per la quale ci hai creato./E tu ci porgi il pesante calice, amaro,/della sofferenza, ripieno fino all’orlo,/e così lo prendiamo grati, senza tremare/dalla tua buona e amata mano./E tuttavia ancora ci vuoi donare gioia,/per questo mondo e lo splendore del suo sole,/e allora vogliamo ricordare ciò che è passato/ e così appartiene a te la nostra intera vita./…
Ora DB aspetta solo di essere innalzato. La sua ultima parola è: « È la fine, per me l’inizio della vita ». Il richiamo immediato è a quello che Ignazio di Antiochia scrive ai Romani: « Io sono frumento di Dio e sono macinato dai denti delle fiere, per diventare pane puro di Cristo ».

La morte
La morte di Geremia e Bonhoeffer non è come quella di Mosè, che « morì sulla bocca del Signore » che poi lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor (cfr. Dt 34,6). Ma di tutti e due è chiara la scelta:/Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato … (Es 32,32). Geremia
Leggiamo nella Bibbia:
Così egli [Geremia liberato dai babilonesi] rimase in mezzo al popolo (Ger 39,14b). Allora Geremia andò in Mizpà da Godolia figlio di Achikàm, e si stabilì con lui in mezzo al popolo che era rimasto nel paese. (Ger 40,6). Giovanni figlio di Kàreca e tutti i capi delle bande armate e tutto il popolo non obbedirono all’invito del Signore di rimanere nel paese di Giuda… e andarono nel paese d’Egitto, non avendo dato ascolto alla voce del Signore, e giunsero fino a Tafni [portando con sé a forza Geremia] (Ger 43,4.7).
Come muore Geremia? La Bibbia non lo dice.
L’apocrifo Vite dei profeti racconta: Geremia era di Anatot e morì a Dafne in Egitto, lapidato dai suoi concittadini.
Dove è sepolto? Ancora leggiamo nelle Vite dei profeti:
[Geremia] Riposa nel perimetro del palazzo di Faraone, poiché gli Egiziani lo onorarono per aver ricevuto del bene da lui.
Bonhoeffer è portato a Flossenbürg. Il 5 aprile del 1945 Hitler aveva definito la lista dei congiurati che dovevano assolutamente essere eliminati: tra di essi il suo nome. L’esecuzione ha luogo lunedì 9 aprile, dopo la domenica in Albis, e se ne hanno solo testimonianze indirette. I condannati vengono appesi, nudi, a un gancio e strangolati. Anche lui muore sospeso tra cielo e terra, come il suo Signore. dove sono? Forse Geremia è nelle sabbie del deserto. E Bonhoeffer, insieme a tanti in quell’ora, forse « passati per un camino, ora sono nel vento ». Solidali fino in fondo con il loro popolo tanto amato, anche nella polvere.

Tu, Geremia, il profeta più solo
Prima di lasciare la conclusione a Geremia, tento di riassumere questi miei « frammenti » con
queste variazioni su una poesia di David Maria Turoldo: Tu, Geremia, il profeta più solo,/ sei dell’autentica chiesa la voce;/ annuncio di Cristo come nessuno,/ di quanti oggi puoi esser figura?/Certo, del nostro fratello più vero/ Dietrich Bonhoeffer il pastore,/ solidale con il suo popolo e con la/ chiesa per cambiarne il cuore./Chiesa, voi chiese, popoli tutti/godete e tremate:/è stato Dio, è tutto da Dio! …/O vocazioni assolute e terribili,/questi destini assurdi e terribili!/Tu -voce antica -già scelto dall’utero/ sedotto da quando eri un fanciullo/ e lui a te gemello in Cristo:/ più che dall’uomo uccisi da Dio.

l’ultimo « riv »
Parole di Geremia al suo Signore:
Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te;/ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla tua giustizia,/ vorrei fare un ultimo « riv »:/ci hai preso nelle tue mani,/ci hai plasmato nel ventre di nostra madre/ ci hai consacrato, benedetto,/ ci hai spezzato con prove
e dolori,/ ci hai dati agli uomini come profeti./Perché? perché? Lammah?/Dio, Dio nostro, perché ci hai abbandonati?/

Parole del Signore a Geremia e DB:
Mi chiedete questo proprio voi che/ invece di patire per le vostre sofferenze,/ avete preso parte alla mia sofferenza/nella vita del mondo?/A me che ho abbandonato la mia casa,/ho ripudiato la mia eredità;/ho consegnato ciò che ho di più caro/nelle mani dei suoi nemici?/A me, che ho consegnato il mio Figlio tanto amato,/ l’unigenito, che era tutta la mia gioia,/ nelle mani degli empi, voi domandate perché?/ Nel giorno dell’angoscia il Signore vi risponde,/ infatti così è stato detto:/ Mi invocherà e gli risponderò: con lui sono nell’angoscia./Mi sono caricato delle vostre sofferenze,/mi sono addossato i vostri dolori./Nella vostra angoscia sono anche io angosciato./Ma ora tutto il vostro passato io vi rendo/-oracolo del Signore -,/ bruciato nella fiamma del mio amore,/e vi farò dono della vita come bottino,/ la mia vita per i secoli dei secoli. Amen.

Marco Tommasino

Un cristianesimo senza Paolo?

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0809je/0809je84.htm

ANNO PAOLINO – LA DEBOLEZZA

Un cristianesimo senza Paolo?

di Andrea Riccardi 

Vari pensatori, a cominciare da Nietzsche, hanno cercato di separare Paolo da Gesù. Nell’apostolo delle genti, infatti, vedono « l’inventore » dell’universalismo cristiano, il predicatore globale di un Vangelo fondato sulla forza dei deboli e sulla speranza della resurrezione. Questo intervento del professor Andrea Riccardi anticipa, sul tema, il contenuto di un suo volume di prossima pubblicazione presso le Edizioni Paoline.
 

Paolo è l’apostolo di Gesù: «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione» – si legge nell’incipit della Lettera ai romani. Paolo grida: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse, la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?». Invece una lunga storia ha insistito per separare Paolo da Gesù, facendo di questi una nobile figura eterea. L’apostolo sarebbe l’abile manipolatore del messaggio del rabbi galileo, fondando una religione universale. Separare Paolo da Gesù è sembrato a taluni la via per andare all’autentica figura del Maestro, liberarlo dall’impalcatura di grande religione. Ma la Chiesa ha sempre reagito, fin dal canone delle Scritture, affermando che la testimonianza dell’apostolo Paolo è parte integrante della rivelazione cristiana. Separare Gesù da Paolo è separarlo, in parte, dalla Parola.

Colpire Paolo è un’operazione per svuotare il cristianesimo. Friedrich Nietzsche ha visto nell’apostolo «il tipo antitetico della buona novella, il genio dell’odio», animato da istinto di potenza ebraico: «L’invenzione di Paolo, il suo mezzo per realizzare la tirannide dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell’immortalità…». Con Paolo, il mondo dei deboli ha vinto, distruggendo il paganesimo, il dominio dei forti e dei saggi, le nazioni: «Divenne padrone il gran numero», scrive il filosofo tedesco, «la tendenza democratica degli istinti cristiani ebbe la vittoria… Il cristianesimo non era nazionale, non era condizionato dalla razza – si volgeva a ogni specie di diseredati della vita, trovava ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla sua base la rancune dei malati, l’istinto diretto contro i sani, contro la salute. Tutto quanto è ben fatto, fiero, tracotante, soprattutto la bellezza, offende a esso gli occhi e le orecchie. Ricordo ancora una volta l’inestimabile espressione di Paolo: « Quel che per il mondo è debole… Dio lo ha eletto »».

Questa lunga citazione è un po’ la summa delle ricorrenti critiche a Paolo. Vi si legge l’antipatia per un cristianesimo di deboli, che varca i confini della nazione e della razza. L’universalismo cristiano, fondato sulla forza dei deboli, sulla « bugia » della resurrezione di Gesù e sulla vita eterna, secondo Nietzsche, è la sciagura dell’umanità, in cui Paolo ha un ruolo decisivo. Per questo Paolo va colpito, perfino epurato dal cristianesimo. Alfred Rosenberg, ideologo nazista, si muoveva nello stesso senso: «Paolo ha raccolto in modo del tutto intenzionale i lebbrosi di tutte le nazioni e le culture in tutti i Paesi dell’orbe, per scatenare un’insurrezione dell’inferiore». Il nazismo si fece patrocinatore di un cristianesimo positivo, emancipato dall’ortodossia ecclesiastica e imbevuto della volontà di dominio razziale tedesco. Il « Gesù ariano », tipico della confusa mistica nazista, andava separato da Paolo, l’ebreo che aveva giudaizzato il cristianesimo.

San Paolo, rilievo nella cattedrale di Avila, in Spagna
(foto Periodici San Paolo).

La tragica vicenda del nazismo, sino all’epurazione dell’ebraismo dal cristianesimo e di Paolo l’ebreo, mostra come la grande battaglia per la difesa dell’ortodossia cristiana e per l’integrità delle Scritture abbia un valore che talvolta sfugge nelle polemiche quotidiane. Colpire Paolo è amputare il cristianesimo o per un vago culto di Gesù o per farne una religione della nazione o di una civiltà. Ma ben altro è stato ed è il cristianesimo, come si vede dall’avventura cristiana di Paolo, parte integrante delle Scritture cristiane.

La debolezza. Paolo, di fronte al mondo strutturato della sapienza greca, al messianismo ebraico così appassionante, innanzi al potere dominante di Roma, ha messo al centro la debolezza. Nietzsche aveva colto nel segno. Il suo non è un progetto di regno o di impero. Con pochi fratelli e sorelle, deboli e periferici, riceve la rivelazione di un Dio debole, il cui volto è Cristo crocifisso. Annuncia: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti». I deboli, costruendo una realtà debole come le comunità cristiane, predicando un crocifisso, hanno la missione di confondere i forti: le culture e le mentalità consolidate, le idolatrie, il potere in tutte le sue forme. Il primo capitolo della Prima lettera ai Corinti è chiaro: «Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini». La sfida cristiana fa emergere un’altra forza nella stoltezza e nella debolezza.

La debolezza pervade la stessa figura di Paolo, come scrive ai Corinti ricordando come si presentò: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione…». «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze», dice Paolo, «perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte».

San Paolo protegge santa Francesca Romana, monastero di Tor Tre Teste,
a Roma (foto A. Del Canale/Periodici San Paolo).

Paolo non fugge la debolezza o la nasconde. Ma, nel suo stesso porgersi, esprime la « forza debole » del cristianesimo, che non si fa arrogante per non essere povero e non si vergogna dei panni umili della debolezza comune a quasi tutti gli uomini. La coppia « debole forte », nel corpus paulinum, ha un rilievo decisivo nel mostrare la forza dei deboli e la debolezza dei potenti: il debole, il disprezzato dal mondo culturale e politico imperante, partecipano alla debolezza di Gesù, alla sua croce, rivestendosi della forza della sua resurrezione. L’apostolo, con il Vangelo, propone di fare un salto ancora più grande che far divenire ricco il povero o potente il debole. I deboli, forti della potenza di Gesù, sono già « beati »: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». Sì, questi deboli, in un modo particolare, diverso dagli imperi, possederanno la terra. Non è necessario omologarsi alle potenze del mondo, per comunicare il Vangelo. Non è necessario conquistare una terra, ma, pur nelle persecuzioni, nella debolezza, il Vangelo parla ai cuori. Attraverso discepoli deboli, si può comunicare Gesù agli uomini e, così, cambiare il mondo. Ha scritto giustamente il grande teologo ortodosso francese Olivier Clément: «Le sole rivoluzioni creatrici della storia sono nate dalla trasformazione dei cuori».

Paolo ha scelto di passare attraverso i cuori con la debolezza della parola: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione». Il cristianesimo nascente, preso dalla passione di dire il nome di Gesù al mondo intero, sceglie la parola, l’incontro, il viaggio, la lettera, lo scritto, la liturgia, l’amore. Così Paolo e i suoi discepoli incontrano uomo dopo uomo, gruppo dopo gruppo, città dopo città, per comunicare Gesù risorto. Questa non è solo una stagione iniziale di storia cristiana, ma è nei cromosomi dei cristiani di tutti i tempi. C’è una diversità con l’origine dell’islam e la vita di Muhammad. Quest’ultimo ha scelto di estendere l’islam al resto del mondo con un’avanzata di fede e di potere politico e militare. Non così si estende il regno del Kyrios crocifisso. Paolo, discepolo di Gesù, ha scelto di andare per il mondo senza cercare potere politico. Così è stato per vari secoli della storia cristiana e questa scelta fa parte dei cromosomi del cristianesimo.

Un uomo come noi. Molti studiosi hanno insistito sul livello culturale di Paolo. Tante indagini sulla sua cultura sembrano quasi innalzarlo dagli uomini del suo tempo. Paolo è uomo di più mondi: ebraico della diaspora con studi e legami a Gerusalemme, greco di Tarso, cittadino romano. Ma stiamo attenti a non fare di Paolo il prodotto della sua cultura particolare, quasi fosse naturale gettarsi nella missione: si deconsidera così l’immenso salto della sua esistenza.

Bisogna parlare della debolezza di Paolo, ma cogliere la forza che gli fa compiere un salto nel mondo per comunicare il Vangelo. Paolo, nonostante la grazia particolare dell’incontro con Gesù, non è staccato dalle comunità cristiane. Una comunità lo accoglie, lo libera, lo accompagna, lo conferma. È gente che sente la passione di comunicare il Vangelo all’altro, anche se non sa bene come. Prima c’è la comunità damascena: Anania sa che Paolo è un persecutore, ma docilmente va ad accoglierlo, percorrendo la Via Recta di Damasco. Penso sempre ai suoi sentimenti, mentre faceva quei metri per andare a visitare quel « nemico ». Barnaba, il cipriota, lo va a cercare mentre vive anni oscuri a Tarso. Paolo non si separa da Pietro, dagli apostoli e dalla comunità di Gerusalemme.

Il grande Giovanni Crisostomo, comunicatore appassionato della Parola di Dio ad Antiochia e a Costantinopoli, aveva colto il rischio di una mitizzazione di Paolo. Affermava invece che per tutti è possibile imitarlo: «…Sforziamoci di divenire come lui e non pensiamo che ciò sia impossibile… egli aveva un corpo come il nostro, si nutriva come noi, aveva la stessa anima, ma grande era la sua volontà, magnifico il suo impegno; è stato questo a renderlo così. Nessuno disperi, nessuno si tiri indietro…». Di stagione in stagione della storia, i cristiani si debbono misurare con la passione e la fede di Paolo: sono interpellati dal suo radicale «guai a me se non evangelizzo!». Lo si può completare con un macarismo, una beatitudine, dicendo che la felicità di Paolo è comunicare il Vangelo: beato chi comunica il Vangelo!

Un’icona di san Paolo nella chiesa di Santa Tecla, a Filippi (foto G. Mandel).

Muri e multiculturalità. Grandi sono gli abissi tra una cultura e un’altra. I mondi che Paolo affronta sono consolidati, forti e orgogliosi della loro tradizione, anche se vivono gli uni accanto agli altri. La storia dei viaggi di Paolo è rivelatrice della sua ambizione: vuole toccare la gente delle civiltà multiculturali del suo tempo, che convivono, più o meno in pace, sotto il potere di Roma. Egli mira alle grandi città e, finalmente, alla capitale, Roma. Pier Paolo Pasolini aveva colto l’enorme salto umano e culturale di Paolo, che lo porta tanto oltre il suo mondo. Lo si vede nella sceneggiatura del film su Paolo, mai realizzato, su cui lavorò tra gli anni Sessanta e Settanta. Colloca l’apostolo tra Parigi, Roma e New York. Questa metropoli, cuore dell’Occidente, è la Roma di Paolo, dove – secondo Pasolini – viene ucciso sul ballatoio di un alberghetto, con due colpi di fucile.

Paolo va lontano, in mondi diversi, perché sente di avere un tesoro da comunicare. L’espressione «gentili» poco rappresenta il complesso pluralismo mediterraneo, che aveva vissuto la globalizzazione di Roma. Globalizzazione è espressione usata per il mondo dopo il crollo dell’impero sovietico, l’apertura dei mercati. Ma non è la prima globalizzazione. Ogni impero è, a suo modo, una globalizzazione. Lo è stato quello romano, caratterizzato da un processo di unificazione politica ed economica, che lasciava in vita le diversità etniche, culturali, religiose. Era un mondo che tanto investiva sulle comunicazioni, soprattutto sulle strade. Roma non omogeneizzava al suo modello, lasciava vivere altre culture, anche se faceva sentire la sua presenza dominatrice. In quel tempo il Mediterraneo era abitato da tanti dei e dai loro luoghi sacri. L’autorità politica aveva una politica inclusivista verso i culti. Il ritualismo dei tanti culti fondava la pax deorum su una specie di patto un po’ impersonale e legale con gli dei. L’ebraismo, un monoteismo esclusivista, era però riconosciuto come religio licita.

Il pluralismo religioso sembra parlare di tolleranza. Si è molto insistito sulla carica di intolleranza portata dall’esclusivismo del monoteismo. Con quelle proiezioni tipiche sul passato, si è guardato con nostalgia al fenomeno del « paganesimo »: espressione di tolleranza e liberalismo a fronte delle rivendicazioni intolleranti dei monoteismi. Alain de Benoist, in un libro di qualche anno fa, Come si può essere pagani?, affermava che «il paganesimo, a dire il vero, non è mai morto», ma vive nel rifiuto della pretesa dell’unico Dio, nella possibilità di unirsi al divino, nel rigetto del peccato originale. Questa sarebbe la condizione ideale dell’uomo, forzato dall’esclusivismo giudeo-cristiano.

Il pluralismo tra tolleranza e radicalismo. Nelle città mediterranee di allora, come nelle nostre, non esistono più spazi omogenei: gente diversa vive l’una accanto all’altra. L’immigrazione ha portato genti diverse. Non ci sono più ambienti omogenei da un punto di vista etnico e religioso. La globalizzazione tutto avvicina, ma anche, avvicinando tutti, fa sentire minacciati nella propria identità. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla rinascita di tante identità etniche, religiose, culturali, talvolta assumendo atteggiamenti aggressivi e conflittuali.

I diversi mondi si ritrovano non solo nell’ambiente di Paolo, ma in lui stesso. Paolo aveva un’«anima di frontiera», venendo da Tarso, dove cultura semitica e cultura ellenistica si incontravano. Era un uomo della diaspora. La sua lingua materna era l’aramaico, ma aveva appreso a conoscere la Bibbia dei Settanta in greco. Il greco era la sua lingua, parlato come la koiné. Aveva vissuto a Tarso accanto a un centro di filosofia stoica e a un culto misterico fiorente e sensuale. Aveva ascoltato i predicatori ambulanti cinici. Paolo, romano nel nome, aveva frequentato tre mondi e tre culture: ebraica, greca e romana. Come tanti nell’élite ebraica, Paolo è poliglotta. Sono dati tante volte ricordati.

I santi Pietro e Paolo, opera del XV secolo, Biblioteca Braidense
(foto F. Tagliabue/Periodici San Paolo).

Uomo cosmopolita, figlio del mondo dell’ulivo, tipico prodotto della globalizzazione greco-romana, opera una scelta: è ebreo fervente. Il mondo plurale non crea solo relativismo, ma anche scelte che definiscono la propria identità. Paolo approfondisce ai piedi del grande Gamaliele la tradizione farisaica della sua famiglia, fondando una forte identità ebraica. Si può ipotizzare una reazione al cosmopolitismo e alla divaricazione delle interpretazioni dell’ebraismo. Nonostante gli studi presso Gamaliele, l’identità di Paolo, come si vede dalla lotta violenta anticristiana, approda al fanatismo. L’uomo è «fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore», come un fanatico integrista. La globalizzazione produce oggi non tanto il cosmopolitismo, ma spesso identità forti e talvolta aggressive; infatti, in un mondo esposto a tutti i venti, non si vive nudi e senza identità. Nella multiculturalità mediterranea, la conversione porta Paolo non a rinunciare al monoteismo, bensì ad approfondirlo in una fede fondata sull’unico salvatore, Gesù. Il cittadino romano crede che il Vangelo possa diventare la speranza dell’umanità.

Il Vangelo in un mondo al plurale. Ma non si affermava, con i cristiani, un gruppo in più in quel mondo di Roma dove, come scriveva Giovenale, «già da tempo l’Oronte si era riversato nel Tevere»? Era il mondo di Antiochia sull’Oronte, dove le barriere etniche venivano superate in una logica cosmopolita. Oggi, di fronte a un mondo al plurale, dopo tanto combatterci, sappiamo che la pace richiede il rispetto per la sua identità. La pace però non è l’ibernazione delle identità l’una accanto all’altra, come se il mondo fosse un grande Libano. Il messaggio, di cui Paolo è testimone, ci dice che la pace si fa dell’amore per l’altro, della comunicazione della fede, della presenza di una piccola comunità cristiana, anche minoritaria. È la pace che si fonda su quella fede di Paolo: «Egli infatti è la nostra pace». In un mondo pluralista, Paolo crede che Gesù è il Kyrios di ogni uomo e donna, destino di popoli diversi, seme di un regno di pace. Ha scritto giustamente Barbaglio: Paolo «si sente impegnato a superare le più profonde fratture che allora dividevano l’umanità, scissa nei campi contrapposti di greci e barbari, pagani e giudei. Secondo la sua convinzione, il Vangelo di Cristo costituiva il fattore decisivo dei popoli chiamati a formare una nuova comunità umana universale…».

Grundmann ricostruisce l’atteggiamento di Paolo: «Quando Paolo proclama in una città il nome del Signore Gesù, facendolo conoscere mediante la predicazione e l’annuncio del suo messaggio, egli prende possesso di questa città per il suo Kyrios, e se si tratta del capoluogo di una provincia prende possesso della provincia… È secondario che i diversi cittadini lo sappiano e lo riconoscano». In quella città, attraverso la predicazione del Vangelo e una comunità cristiana c’è il seme della pace. Non si tratta di migliaia di cristiani, ma probabilmente di centinaia di membri. Eppure sono comunità che Paolo prende sul serio, tanto da rivolgere loro testi tanto elaborati teologicamente e sofferti umanamente. Paolo non dimentica quelle piccole comunità, talvolta rissose e infedeli. Freme di affetto per esse.

Ma che può cambiare in una città con l’esistenza di un piccolo gruppo di cristiani? La missione porta i discepoli a un nuovo interesse per gli altri, a non fermarsi di fronte alla loro diversità, a non arrestarsi di fronte all’abisso profondo che divide. In questo senso Giovanni Paolo II ha insegnato che dialogo e missione appartengono allo stesso orizzonte di amore per l’altro. Paolo non si ferma davanti ai muri e agli abissi che dividono le culture. Bisognava passare a un’altra cultura. Questo non vuol dire appiattirsi sulla nuova cultura. Non è acquiescenza: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo…», scrive. La debolezza del predicatore chiede una grande fedeltà al Vangelo e una grande sensibilità alla cultura e alla mentalità della gente che incontra.

Paolo ha un solo strumento: la parola, facile da sopraffare, eppure rivelatrice di un’inaspettata energia. Ricordate l’episodio dei due apostoli, Pietro e Giovanni, di fronte all’uomo paralizzato, forse significativo di un’umanità paralizzata e mendicante: «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». E lo sollevò per la mano destra. È la forza della Parola. Forza debole di fronte alle potenze di controllo politico, economico, mercantile del mondo. Ma forza di Dio, capace di fare miracoli.

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 10 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

HO LAVORATO CON QUESTE MIE MANI (Atti 20,34)

dal sito:

http://www.piccoloeremodellequerce.it/Pagine_Bibliche/Ho_lavorato.doc

Contributo della Comunità
al sussidio per l’evangelizzazione dei giovani lavoratori
Le mani del giovane e il cuore del Cristo,
pubblicato dall’Ufficio Nazionale CEI e dall’Ufficio Regionale della Calabria
per i Problemi Sociali e il Lavoro,
Maggio 2000.

HO LAVORATO CON QUESTE MIE MANI

(Atti 20,34)

1. Il fatto

  »Sarebbe assurdo che, mentre tutti gli altri uomini provvedono a mantenere mogli e figli a costo di grandi fatiche e patimenti, ed inoltre pagano le tasse, offrono a Dio le primizie  e per quel che possono alleviano la miseria dei mendicanti; sarebbe assurdo, dicevo, che i monaci non debbano procurarsi il necessario con il loro lavoro… e debbano invece restarsene seduti, a braccia conserte, sfruttando il lavoro degli altri » .
 Sapete dove ho sentito queste ‘opinioni’? No, non in piazza, mentre passava il prete con la macchina sportiva e il cellulare in mano. Questi discorsi provengono da molto lontano nel tempo, quando, nei primi secoli del cristianesimo, si cominciavano a vedere uomini di chiesa che avevano fatto « dell’ozio un’arte di vivere » . E la gente ne era giustamente scandalizzata e indispettita.
 E sapete perché?
 In principio non era così. I primi cristiani sapevano bene quanto fosse necessario « mangiare il proprio pane », vivere cioè lavorando, e non alle spalle degli altri. E questo valeva non solo per i cristiani della domenica, ma anche per gli apostoli.

 Prendiamo il caso di san Paolo.
 Sulla via di Damasco fa un’esperienza travolgente: gli appare Gesù (At 9,1-19). Ne rimane folgorato e cambia vita: da persecutore dei cristiani diventa apostolo delle genti e fondatore di nuove comunità cristiane. Siamo intorno al 36 d.C. 
 Dal 46 comincia a viaggiare in lungo e in largo per tutto il Mediterraneo orientale. Obiettivo: dare testimonianza a Cristo e costruire la sua Chiesa. Si calcola che i suoi itinerari abbiano raggiunto gli oltre diecimila miglia (più di 15000 km: un’impresa, per quei tempi!), fra pericoli d’ogni genere, fatiche e persecuzioni. Ed è grazie a lui che noi occidentali siamo diventati cristiani!
 Ma cos’è che ci lascia stupiti di quest’uomo infaticabile che ha saputo trovare il tempo per pregare e predicare, fondare nuove comunità e seguire il loro cammino, scrivere lettere d’incoraggiamento e discutere questioni difficili con gli altri apostoli, affrontando persino la tensione di processi ingiusti, i trasferimenti da un carcere all’altro ed, infine, la condanna a morte?
 Che, pur facendo tutto questo, abbia voluto a tutti i costi guadagnarsi da vivere, lavorando con fatica e sforzo notte e giorno. Per non essere di peso a nessuno. E dare l’esempio. 
 Come hanno fatto Gesù e Giuseppe, in quell’umile bottega di Nazareth.

2. Il testo

 Molte volte san Paolo tira fuori la questione del lavoro nelle sue lettere. E lo fa per esortare chi già lavora, per mettere in guardia i cristiani dall’insidia dell’ozio e bacchettare i perditempo che vivevano disordinatamente. Ed ogni volta si pone sempre come esempio per far capire che l’apostolo non deve essere un professionista ‘pagato’ della religione, ma un uomo a servizio di tutti, che vive come tutti. E se questo lo deve fare un apostolo, che in fondo avrebbe anche il diritto di essere ‘sostenuto’ nel suo ministero, a maggior ragione il cristiano ‘semplice’…

 Da queste lettere abbiamo estratto alcune frasi per dare un’idea di questa sua insistenza sulla necessità del lavoro.

« Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. » (At 20,34)

« Ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. » (1Cor 4,12)

« Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. » (Ef 4,28)

« Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio. »(1Ts 2,9)

« Ma vi esortiamo, fratelli, …a farvi un punto di onore: vivere in pace, attendere alle cose vostre e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e di non aver bisogno di nessuno. » (1Ts 4,11.12)

« 7 …noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. 9 Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. 10 E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. 11 Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. 12 A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. 13 Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. » (2Ts 3,7-13)

« Sfòrzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavoratore che non ha di che vergognarsi,… » (2Tm 2,15)

3. La spiegazione

Come abbiamo visto da questi testi, l’apostolo Paolo ci tiene a far sapere alle sue comunità che egli non dipende da nessuno, ma che si sostiene con il lavoro delle sue mani:  » Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani » (At 20,34).
Dal libro degli Atti degli Apostoli sappiamo inoltre che il suo mestiere era quello di fabbricatore di tende. Anzi nel testo troviamo quest’altra notizia: a Corinto era stato ospitato in casa di Aquila e Priscilla e, « siccome faceva lo stesso mestiere, rimase con loro e li aiutava a fabbricare tende » (At 18,3). Erano, insomma, in sintonia l’uno con l’altro, nello stile dell’accoglienza reciproca e della condivisione, mettendo sulla stessa tavola il pane della cooperazione e il vino della solidarietà.

Fabbricatore di tende: un mestiere duro, che richiedeva abilità manuale. Non solo, bisognava maneggiare strumenti di lavoro pesanti. E le mani a sera erano così intorpidite che non riusciva neanche a scrivere. A quei tempi, poi, dato che di solito si scriveva sul papiro, mettere nero su bianco era così lento e faticoso che si impiegava un’ora per buttar giù 72 parole. E a quanto pare l’apostolo, non riuscendo per la stanchezza, dettava le sue lettere ai discepoli o agli amici e, alla fine, firmava di suo pugno, aggiungendo appena un saluto.
Quelle sue mani malferme, le dita stanche… secondo voi, poteva evitarseli certi fastidi, visto che già faceva molto per le sue comunità? Oppure faceva bene ad agire così, dato che quello era una specie di ingrediente educativo, indispensabile per poter dire con libertà e senza mezzi termini: « Chi non vuol lavorare, neppure mangi »?
In ogni caso, ciò che deve farci riflettere è che in diverse occasioni egli sottolinea l’aspetto lavorativo della sua vita e, pur avendo a disposizione alcuni fondi o contributi delle comunità, decide di farne a meno. Perché agisce così? Ce lo dice lui stesso: per non compromettere l’annuncio del vangelo, innanzi tutto (cfr. 1Ts 2,9); per essere d’esempio; perché è questo che dà decoro all’uomo, cioè dignità. Anzi, condivide il suo guadagno con i poveri, con la spontaneità del padre attento alle necessità dei figli e con la tenacia dell’uomo che ha fatto una scelta chiara di ben-essere e non di bene-stare, che vuol dire dare precedenza assoluta all’essere (dignità, solidarietà, sobrietà) e non all’avere (denaro, potere e piacere!).

Qual è allora il messaggio?
Semplice: « non mangiare gratuitamente il pane », ma vivere del lavoro delle proprie mani.
E per voi giovani vuol dire non dipendere dalla famiglia e cominciare a darsi da fare. Non continuare a chiedere a papà la paghetta settimanale né a far diventare lo studio una giustificazione perenne alla pigrizia.
In pratica, anche se state ancora sui libri, trovatevi, magari part-time (o d’estate, come fanno in molti), un lavoretto da fare per dare una mano a far quadrare i conti di casa. E se già lavorate, mettetevi nelle condizioni di poter fare del bene, condividendo ciò che guadagnate con chi non riesce ancora a spuntarla. Condividere è ciò che dà senso al vostro produrre. E non solo per una questione di solidarietà.  Nella logica della condivisione, infatti, sia pur a lungo termine, si finisce per produrre di più e quindi guadagnare di più, perché si crea una forza-lavoro più numerosa, compatta, solidale, unita e quindi più capace di proporsi efficacemente.
Ecco il senso del cooperare, che continuamente rimbalza in queste nostre riflessioni. Certo, bisogna credere che la « perseveranza nella carità non è ingenuità »; pagare di persona, buttarsi con gratuità, sognare con semplicità. Ma bisogna anche riconoscere i propri limiti, preventivare con lucidità e…, alla fine, azzardare il rischio di vie nuove, custodendo sempre la convinzione che la provvidenza aiuta gli audaci e che tutto quanto abbiamo seminato, anche se con qualche lacrima, tutto raccoglieremo nella gioia .
Non mancherà la fatica. E la fatica esige costanza. San Paolo ce lo ricorda, con la saggezza di chi l’ha già sperimentato in prima persona. Ecco perché dice con forza persuasiva: « Non stancatevi di fare del bene ».
Questa espressione – « Non stancatevi » – deriva da un verbo che, nella lingua originale greca, descrive l’atteggiamento del lottatore che si trova in palestra o sul ring. Non riuscendo più a sostenere la violenza dell’avversario, si lascia andare, rinuncia alla lotta, si rassegna a perdere. Nel nostro contesto, « non stancatevi » è in un invito a non mollare dinanzi ad un lavoro duro, a non rassegnarsi ad una occupazione precaria, ma allo stesso tempo suona come un ammonimento tagliente, senza peli sulla lingua: non lasciarti prendere dall’avidità dell’avere, ma tieni aperta la porta alle esigenze degli altri, perché ognuno possa sentirti amico lungo il cammino, e tu possa sperimentare l’amicizia di chi, nella vita, si è fatto già strada.

 Ascoltiamo Graziella, una giovane lavoratrice della cooperativa « Neilos » di Rossano (Cs). La sua esperienza è un esempio tipico di cooperazione, in cui il bene comune si sposa felicemente con quello individuale, e ognuno riesce a tirar fuori il meglio di sé, vincendo timidezze e paure.
« Insieme ai miei amici del gruppo parrocchiale abbiamo fatto una revisione di vita sulla nostra condizione di disoccupazione, è nata così l’idea di fare una cooperativa di servizi turistici per la nostra città.
Ci siamo preparati cercando di conoscere a fondo la storia della nostra città, ci siamo divisi i compiti e abbiamo iniziato le attività. Questo lavoro mi dà molte soddisfazioni. A volte non penso che il mio sia un lavoro, perché lo vivo così bene che non mi pesa. Le decisioni le prendiamo tutti insieme, mi sento sempre partecipe. A volte mi stupisco di me stessa; riesco a parlare davanti a tante persone quando faccio la guida turistica. E pensare che prima ero timida! Il lavoro sicuramente mi ha fatto crescere come persona. Mi sento realizzata. Sento che questa è la mia vocazione ».

4. È vero che…

«  Cosa si cerca di solito nel lavoro: guadagno, carriera, realizzazione personale, collaborazione…?

«  Quali sono per te gli aspetti più importanti del lavoro?

«  In che modo nel lavoro entrano in gioco i rapporti con gli altri? Come attraverso il lavoro possiamo costruire relazioni nuove con gli altri?

«  Attraverso l’esperienza di Paolo scopriamo che il lavoro non è una dimensione staccata dalla vita di fede. Che significato ha oggi la fede cristiana rispetto al lavoro ed ai problemi ad esso collegati (disoccupazione, giustizia, rispetto della dignità, costruzione di un mondo nuovo…)?

5. Impegni da prendere

Cerca, insieme con le persone che ti stanno accanto e che con te lavorano o come te cercano lavoro, spazi di dialogo, d’informazione e di formazione.
Dialogo: per entrare in sintonia l’uno con l’altro, accogliersi, acquisire insieme la capacità di analisi, imparare a programmare con responsabilità e verificarsi con schiettezza e ricerca sincera della verità.
Informazione: per diventare competenti in ciò che si fa, correggere il tiro se è il caso, e saper valorizzare opportunità e risorse.
Formazione: per dare un’anima a ciò che si fa e scoprire « le cose nuove per le quali il Signore ci chiama a operare in fedeltà » .

6. Preghiamo insieme

Signore, sono un giovane lavoratore;  da quando ho 16 anni sono operaio in una piccola azienda. Ti ringrazio, perché per me il lavoro è una cosa molto importante, perché mi sento utile e posso aiutare la mia famiglia ad andare avanti.
Nel lavoro condivido la mia vita con altri lavoratori, e in loro ho la possibilità di incontrarti. Ti ringrazio, perché attraverso l’ascolto della tua Parola ho imparato a scorgere i segni del Regno nella fatica quotidiana dei miei compagni. Da quando ho cominciato a lavorare ho la fortuna, con un gruppo di giovani del mio quartiere, di confrontare la mia esperienza con la Tua Parola, Questo mi aiuta a vivere la mia fede nella realtà del mondo del lavoro, dove sento di poter partecipare alla costruzione del Tuo progetto di vita piena e gioiosa per l’uomo. In questi anni ho scoperto che non per tutti il lavoro è un’esperienza positiva. Spesso, sperimentiamo la solitudine, e molti di noi, lavorando in piccole aziende dove il sindacato non può entrare, vivono situazioni pesanti, ritmi massacranti, costretti a fare tante ore dl straordinario che lasciano pochissimo tempo al riposo, all’incontro con gli amici e allo stare in famiglia. Dove lavoro io, siamo a contatto con acidi e vernici, ma i controlli sulla salute e sugli impianti sono inesistenti. Non sempre siamo solidali tra noi, anche perché abbiamo paura di pagare di persona e dì rimetterci del nostro. Signore, aiutaci a non cedere davanti alle difficoltà; aiutaci a capire che il lavoro, come il sabato, deve essere a servizio dell’uomo; aiutaci a continuare a lottare, seguendo il tuo esempio, perché queste situazioni di sofferenza e di ingiustizia trovino sempre più dei militanti credenti che se ne facciano carico in un progetto di liberazione e di costruzione del Regno.

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