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IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

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IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

sintesi della relazione di Giannino Piana

Verbania Pallanza, 10 marzo 2001

Irradiare la bellezza di Dio significa rendere testimonianza con la vita e proclamarla con la parola sia da parte dei singoli credenti che delle comunità cristiane. Questo doppio movimento risponde alla logica che Gesù ha fatto propria: compiere gesti di liberazione e spiegarne il senso.
Si tratta di irradiare non la bellezza di una dottrina, per quanto sublime, ma la bellezza di una persona. Irradiare la bellezza di Dio vuol dire rendere trasparente il suo volto di misericordia e di amore, l’amore che Dio è.

la bellezza di Dio
Oltre alle definizioni già date nei precedenti incontri è possibile intendere la bellezza come la dimensione di profondità della realtà. La bellezza non va cercata in superficie, ma andando alla radice delle cose, oltre il livello della pura funzionalità, visione oggi dominante. Oggi conta sempre più il risultato, ciò a cui serve una certa cosa, ciò a cui è funzionale. La logica prevalente è quella funzionale e utilitaristica, anche nella valutazione etica.
La bellezza sfugge a queste logiche, per collegarsi alla logica del gratuito e dell’imprevedibile. E’ la bellezza del gesto gratuito, dello « spreco » da parte della donna che versa l’unguento sui piedi di Gesù.
Chi guarda la realtà in termini di funzionalità e utilità non è in grado di percepirne la bellezza, l’al di dentro, mai dominabile. La bellezza, la profondità è percepibile solo con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza, come sa fare il poeta e il profeta, atteggiamento che apre all’al di là delle cose. Tanto più penetro al di dentro, tanto più sono rinviato al mistero insondabile che è dentro le cose e le trascende.
La percezione della bellezza delle cose, della loro dimensione più profonda apre alla bellezza di Dio, fonte sorgiva di ogni realtà.
la manifestazione di Dio nella storia del popolo di Israele e in Gesù Cristo
La rivelazione biblica di Dio ci mostra un Dio che afferma la sua assoluta trascendenza, la sua alterità, la sua non raffigurabilità, la sua innominabilità (primi comandamenti). Di Dio è sempre più quello che non conosciamo di quello che conosciamo. Rivelare significa per un verso manifestare e per altro verso velare di nuovo (ri-velare), coprire di nuovo. Il Dio della bibbia è un Dio presente e assente, vicino e lontano, alleato dell’uomo, ma insieme mai catturabile dentro a nessun concetto o immagine.
La preoccupazione di salvaguardare la trascendenza è espressa anche dal fatto che il volto di Dio non può essere guardato se non attraverso mediazioni (fenomeni naturali, angelo, sogno).
Ci sono però molte tracce che ci aiutano a scoprire, sempre solo analogicamente, il volto nascosto di Dio.
Innanzitutto la creazione porta su di sé l’impronta del creatore (« e Dio vide che tutto quello che aveva fatto era buono e bello »). La bellezza di Dio si rivela nelle sue opere e nel settimo giorno Dio si riposa contemplando la bellezza di ciò che ha fatto, svelandone così il senso ultimo, più profondo. « I cieli narrano la gloria di Dio ». La creazione è gratuità: Dio crea le cose perché è bello che siano.
Nel creato è l’uomo che rende maggiormente trasparente la bellezza di Dio, l’uomo creato a sua immagine e somiglianza. Anzi « a sua immagine li creò », quindi l’essere umano in quanto relazione, in quanto unità che si realizza in una differenza (maschio e femmina). L’immagine di Dio è nella realzione.
Il Nuovo Testamento poi ci dice che Dio non è un solitario, ma vive in una comunione di persone, che è un Dio relazione (Dio trinitario). In questo senso Dio è amore, è carità, come dice Giovanni. L’amore è la comunione tra persone.
In questa prospettiva la bellezza di Dio può essere annunciata solo dall’uomo, laddove sviluppa relazione autentiche. Bellezza e amore sono grandezze perfettamente omogenee.
Anche il mistero pasquale mette in luce questa dimensione. Il mistero pasquale comprende la croce, realtà in sé abbrutente. Ma la croce mostra la sua bellezza nell’essere un gesto d’amore estremo. O meglio la croce in sé non è bella, bello è l’amore senza riserve e misura che esprime.
Inoltre la croce è solo la penultima parola, l’ultima è la risurrezione, la nuova vita, la trasfigurazione. Il gesto di amore smisurato trasfigura, trasforma, è sorgente di novità di vita, di bellezza: è il Cristo risorto, primizia di tutti i risorti.
La bellezza di Dio è coglibile solo « come attraverso uno specchio », cioè solo attraverso la mediazione, ed « enigmaticamente », cioè attraverso la ineliminabile ambivalenza della bellezza umana, che non può mai essere assoluta gratuità. La bellezza che ci annuncia la presenza di Dio, denuncia anche la sua assenza.
La logica del mistero cristiano, della bellezza di Dio non è la logica formale della non contraddizione, ma quella dei doppi pensieri (Dostoevski), che mette insieme il diverso, l’opposto (Gesù perfetta immagine di Dio e piena immagine dell’uomo).
luoghi e modi di irradiazione della bellezza di Dio

Saranno indicati solo alcune modalità di espressione della bellezza di Dio
testimonianza della santità
Non si tratta della santità eroica, straordinaria, ma della santità a cui tutti i credenti sono chiamati. Tutti i credenti sono chiamati ad essere perfetti come il Padre, secondo modalità e forme legate alla propria vocazione.
E’ una santità che non è frutto anzitutto dello sforzo umano, dell’impegno ascetico, ma dono Dio, dello Spirito che plasma l’essere e l’agire dell’uomo. Non siamo noi per primi che amiamo Dio, ma è Dio che per primo ci ama. L’attitudine fondamentale, quanto mai impegnativa, non è quella del fare, ma del lasciarsi fare, del ricevere, dell’accogliere il dono. L’accoglienza implica una profonda attività. Ci vuole più forza nel riconoscere umilmente i propri limiti che non nel dare.
Il contenuto di questa testimonianza è espresso dall’adesione ai valori del regno, condensati nel discorso della montagna e nelle beatitudini. Nel vivere le beatitudini si rende trasparente la bellezza di Dio. Le beatitudini richiamano ad atteggiamenti di fondo che vanno poi tradotti in scelte quotidiane, ispirate a valori che sono controcorrente rispetto al modo di pensare e di vivere tutto incentrato sul potere, sul successo, sul denaro, sulla potenza. Le beatitudini proclamano la bellezza della mitezza, della povertà, della misericordia, dell’essere pacificatori…
Tutti questi valori sono riassumibili attorno al valore dell’amore, del dono di sé, indicando la necessità di una passaggio dalla ricerca di sé ad una perdita di sé (chi cerca la vita la perde, chi perde la vita la trova). E’ la bellezza del perdersi, del donarsi.
La santità come bellezza si esprime anche nel vivere secondo la logica dell’ « io vi dico »: non insultare il fratello (equiparato al non ucciderlo), al non opporsi al male con il male, all’amore per il nemico.
Una comunità cristiana che rendesse testimonianza a questi valori, che si impegnasse una migliore qualità dei rapporti, che reagisse al male con il bene, che fosse in grado di far cadere le barriere tra prossimo e nemico, considerando ogni uomo prossimo, sarebbe un elemento di feconda provocazione e darebbe concretezza e respiro al desiderio diffuso di un modo diverso di vivere le relazioni.

il linguaggio simbolico
Anche l’annuncio deve essere sempre più momento di trasparenza della bellezza di Dio.
L’annuncio della bellezza ha bisogno di un proprio linguaggio, diverso da quello deduttivo. Alla bellezza pervengo per intuizione e induzione, non per deduzione.
Il linguaggio della bellezza cioè non può essere quella della razionalità dominante, cioè della razionalità ideologica, che tende a creare un sistema totalizzante in cui includere tutto, e della razionalità strumentale di matrice tecnico-scientifica, volta al perseguimento del potere o del dominio sulla realtà, avendo come metro di misura la funzionalità.
La tentazione di fronte a questa razionalità occidentale che tende a dominare tutto a ridurre tutto a strumento è quella di fuggire nell’irrazionale.
Nella bellezza entrano anche le emozioni, i sentimenti, ma non in alternativa alla ragione, ma come elementi che qualificano un’altra forma di ragione, una ragione, per dirla con Lévinas che non mira alla totalità, a rinchiudere tutto in un sistema, ma all’infinito, che apre, che accosta la realtà rinviando sempre oltre verso qualcosa di mai totalmente definibile, verso l’infinito.
Questa ragione nuova è la ragione simbolica. Il simbolo descrive la realtà, ma rinvia sempre oltre. Mette insieme anche il diverso, ma evocando qualcosa che va oltre, che non può mai essere del tutto definito.
La razionalità simbolica è evocativa, allusiva, che piuttosto che dimostrare, mostra, indica, apre al mistero, alla trascendenza all’alterità, mentre la forma totalizzante di ragione esclude la possibilità del riconoscimento della vera alterità.
1. Questo concetto di razionalità dovrebbe essere applicato ai momenti dell’annuncio, innanzitutto nelle omelie durante le assemblee liturgiche.
Occorre accostarsi alla Parola lasciandola parlare, senza sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili ideologismi. Anche la parola di Dio può essere strumentalmente ridotta alle nostre tesi. In passato la tentazione era quella di leggere la Parola facendo l’applicazione immediata in senso moralistico, soprattutto nella sfera della sessualità. Oggi può esserci la tentazione dell’ideologismo, piegando la parola a precostituite letture della realtà sociale. Ma il giudizio, anche necessario su eventi sociali, deve sgorgare dalla forza evocativa originaria della Parola stessa.
C’è troppo spesso la tendenza a dimostrare, a fare applicazioni immediate e non a sollecitare nelle coscienze dei singoli assunzioni di responsabilità e applicazioni in forza della Parola.
I pastori delle chiese protestanti sanno predicare molto meglio dei preti, anche perché si rivolgono a persone aduse all’accostamento alla Parola e in grado di percepire più facilmente il senso dei testi, e quindi possono limitarsi a offrire chiavi di lettura molto generali…
2. Anche i segni liturgici hanno una grande importanza. Quando i segni hanno bisogno di essere spiegati non sono più segni. Il segno deve parlare immediatamente, seppure in modo allusivo, della realtà altra a cui si riferisce.
La riforma liturgica ha operato un grande sforzo di semplificazione di molti segni, molti dei quali però sono ancora troppo lontani dalla cultura dell’uomo di oggi. C’è ancora troppo didascalismo.
Si è passati da una sacralità magico-superstiziosa, che avvolgeva di mistero il non conosciuto e il non capito (il latino, ecc.), ad una fredda razionalità che tutto spiega. Non si è passati dal sacro al santo, ad un linguaggio che evochi il mistero che sta nelle profondità delle cose e che rinvia all’alterità.Non si è passati dal sacro al mistico, che spinge nella direzione della apertura al non spiegabile.
Il linguaggio evocativo è proprio delle parabole. Gesù parla in parabole « perché vedendo non vedano e udendo non odano », C’è un percepire la profondità della realtà che va oltre il vedere. E l’udire non è ascoltare. L’ascoltare come il credere è andare in profondità, significa sintonizzarsi con l’interiorità dell’altro e non il rimanere in superficie
Gli stessi sacramenti sono l’assunzione di realtà materiali e umane già di per sé significative , che rinviano ad un senso ulteriore.
Il bello, in quanto dimensione della profondità delle cose, trascende il bene e il vero, dà al bene e al vero una nuova carica. La bellezza è ciò che impedisce al vero di diventare verità dogmatica, verità che si chiude su se stessa, che definisce.
E la bellezza impedisce al bene di cadere nel moralismo, di assolutizzarsi in norme e valori trascurando la creatività personale: Soltanto la carità è un valore assoluto, al servizio del quale devono essere posti tutti gli altri valori.

la preghiera come paradigma
La preghiera, non il recitare preghiere, ma l’attitudine del pregare, è il luogo in cui si rende trasparente la bellezza di Dio. E’ il pregare come modo di essere-al-mondo, caratterizzato dallo stare davanti a Dio e dal sentirsi abitati da lui.
Lo stare davanti a Dio significa riconoscere un’alterità che mi trascende, a cui mi riferisco costantemente.
L’essere abitati da Dio significa riconoscere che Dio è più intimo dell’intimo di me stesso, che Dio è dentro di me.
E’ la bellezza come profondità delle cose e dell’essere personale. Vuol dire sentire Dio come compagni di viaggio, ma anche come colui che non si sostituisce alle mie responsabilità nel mondo e mi rinvia al mio impegno intramondano.
Il senso del pregare è fare esperienza di Dio nella storia (il Dio cristiano è nella storia) e fare esperienza della storia in Dio, riconoscendo che la storia è una storia aperta, dentro cui si manifestano i segni di liberazione, segni del Regno che viene.
La preghiera non è tanto un atto dell’uomo che tende a dialogare con Dio quanto un atto di Dio che tende a dialogare con l’uomo. « Ascolta Israele » è l’invito che emerge da tutta la tradizione ebraica. E’ l’invito all’ascolto, all’accoglienza, alla povertà, alla gratuità, al vivere e irradiare la bellezza di Dio.

« QUESTO SIA FATTO CON DOLCEZZA E RISPETTO » (1Pt 3,16)

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« QUESTO SIA FATTO CON DOLCEZZA E RISPETTO » (1Pt 3,16)

La liturgia prosegue nel racconto delle primissime comunità cristiane fondate dai discepoli di Gesù. Il brano degli Atti degli Apostoli narra della missione di Filippo, il diacono citato per le opere di carità alle vedove ellenistiche, che si dirige verso la Samaria, la terra ostile a Gerusalemme e ribelle al popolo ebraico. Nello schema caratteristico della missione, Filippo compie prodigi, battezza e predica in  nome di Gesù. La missione viene confermata dagli apostoli Pietro e Giovanni che vengono da Gerusalemme e impongono le mani ai neo battezzati. La seconda lettura è il percorso che Pietro suggerisce ai convertiti al cristianesimo quando qualcuno chiede ragione della loro fede. Le indicazioni suggerite sono particolarissime: Pietro indica di rispondere con  “dolcezza e rispetto, con una retta coscienza”. Le parole fanno risuonare quelle di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. (Mt 11, 29) Il brano di Giovanni contiene la celebre frase: “Non vi lascerò orfani”. La presenza di Dio nei cristiani sarà costante perché Dio non abbandona le sue creature. Già nella visione del sogno di Giacobbe, risuonano le parole rassicuratrici di Dio: “Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto”. (Gn 28,15) Riorneranno spesso nella scrittura.

1. Vi fu grande gioia in quella città

Negli Atti degli Apostoli vengono narrate le missioni che, da subito, gli apostoli iniziano a partire dai luoghi vicini a Gerusalemme. Sarà l’Apostolo Paolo che allargherà l’orizzonte e inizierà i suoi viaggi nel mediterraneo raccontati nelle sue lettere. La spinta missionaria è forte fin dall’inizio: il desiderio di diffondere la buona novella lasciata dal Signore. Questa spinta presuppone una fortissima fede. Chi ha scoperto la verità non può fermarsi per tenerla per sé. Ha il desiderio e la volontà di diffonderla. La Chiesa è stata da sempre missionaria. Questa missione, nella storia, si lega a grandi personaggi, a cominciare dagli Apostoli. Chi ha qualcosa di prezioso da comunicare non può tenerlo per se: ha il forte desiderio di comunicare la “conoscenza” di Gesù, Figlio di Dio. Non si tratta solo di un Messia, ma di colui che ha rivelato il volto del Padre. I missionari affronteranno disagi, persecuzioni; per alcuni addirittura la donazione della vita. Lo faranno con gioia perché coscienti di essere dalla parte di Dio. Il testo degli Atti degli Apostoli, contiene anche la distinzione tra il battesimo e l’imposizione delle mani per la venuta dello Spirito. La teologia occidentale vede nell’imposizione delle mani, a cui si aggiunge l’unzione del crisma, i fondamenti per la dottrina della confermazione (cresima).

2. Questo sia fatto con dolcezza e rispetto

“Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.” Il brano indica come deve essere fatta la testimonianza della propria fede. Con due passaggi fondamentali. Il primo è comunicare il Vangelo di Cristo con dolcezza, rispetto e retta coscienza”. La dolcezza richiama la proposta del Signore. Il Vangelo non può essere predicato con aggressività e senza rispetto delle persone. Ciò significa che siamo chiamati ad essere testimoni offrendo la possibilità di essere cristiani e non l’obbligo di esserlo. Sono state molte le disobbedienze a queste indicazioni. Si è arrivati al punto di “convertire” con la forza e con le armi. Il rispetto indica che con ogni fede diversa dal cristianesimo è possibile dialogare, senza pretendere di essere creduti, ricorrendo ad atteggiamenti, a giudizi e paure che “costringono” l’altro a diventare cristiano. Ancora oggi – anche se in maniera meno aggressiva – c’è la tentazione di costringere qualcuno, approfittando delle situazioni, soprattutto alla vigilia dell’amministrazione di un sacramento. Non è possibile agire così nello spirito del cristianesimo. La lettera di San Pietro dà la spiegazione: anche Cristo, venuto a salvare, a pagato con una morte ingiusta. La proclamazione della verità è un percorso faticoso e spesso doloroso. La seconda raccomandazione, molto raffinata, ma anche molto infida, è comunicare il Vangelo con retta coscienza. Significa non mettere nel messaggio nulla di proprio, distinguendo ciò che è opera di Dio, dalle parole e dagli strumenti che sono umani. La conversione del cuore è opera di Dio. Per noi è possibile solo essere strumento, ma non causa di conversione.

3. Non vi lascerò orfani: verrò da voi Il Signore prepara i suoi alla sua morte e soprattutto alla sua risurrezione. I discepoli sono smarriti dalle parole del Signore che predice loro che egli morirà. Per questo Gesù li rassicura. Non con promesse impossibili, ma con la fede in Dio che unisce lui stesso al Padre insieme a coloro che lo seguiranno: vedranno la luce al momento finale, quando tutti saranno radunati nel regno della lode. E’ una prospettiva che ha il primo passaggio nella risurrezione del Signore, come segno della vittoria della vita sulla morte; il secondo passaggio nella visione finale della gloria. Con queste parole viene pronunciata la parola fine sulle vicende umane. Il senso della vita, per il cristiano, è Dio stesso. Da lui siamo nati, a lui ritorneremo, ricordando le parole di San Paolo: “Egli [Cristo] metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio.” (1 Cor 4,5). E’ una visione che non vuole incutere tristezza, ma sicurezza del prosieguo della nostra vita, nella dimensione piena della gioia della lode di Dio.

25 Maggio 2014 – Anno A VI Domenica di Pasqua (1ª lettura: At 8, 5-8. 14-17 – 2ª lettura: 1 Pt 3, 15-18 – Vangelo: Gv 14, 15-21) 

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 30 juin, 2015 |Pas de commentaires »

LA TREGUA DI NATALE 1914 -GRANDE GUERRA

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LA TREGUA DI NATALE 1914 -GRANDE GUERRA

La notte di Natale 1914, nelle trincee del fronte occidentale (Francia e Belgio) ci fu una tregua. Si trattò di una eccezionale circostanza dettata dalla spontaneità di un sentimento di fratellanza universale, più forte persino del rombo dei cannoni. Non la ordinarono i comandi supremi che, di contro, fecero di tutto per condannarla ed accertarsi che mai più si ripetesse in futuro.
I soldati di entrambe le fazioni uscirono allo scoperto, si abbracciarono, fumarono, cantarono insieme, si scambiarono doni e organizzarono persino delle estemporanee partite di calcio. Gli Stati Maggiori coinvolti nel conflitto fecero di tutto anche per nascondere l’accaduto e cancellarne ogni traccia o memoria – recentemente però sono emerse dagli archivi militari di tutta Europa, lettere, diari e persino fotografie che sanciscono inequivocabilmente che la tregua, anche se non ufficiale, avvenne realmente e si protrasse addirittura per più giorni, nel periodo Natalizio del 1914.
Di recente sono apparsi anche alcuni saggi sull’argomento ed è stato anche realizzato un lugometraggio dal titolo « Joeux Noel » (« Merry Christmas » nella versione Internazionale), che ha vinto il Leone d’Oro al Festival del cinema di Berlino.

Una preziosa testimonianza di un soldato inglese
che ebbe modo di assistere di persona a questo evento.
« Janet, sorella cara, sono le due del mattino e la maggior parte degli uomini dormono nelle loro buche, ma io non posso addormentarmi se prima non ti scrivo dei meravigliosi avvenimenti della vigilia di Natale. In verità, ciò che è avvenuto è quasi una fiaba, e se non l’avessi visto coi miei occhi non ci crederei. Prova a immaginare: mentre tu e la famiglia cantavate gli inni davanti al focolare a Londra, io ho fatto lo stesso con i soldati nemici qui nei campi di battaglia di Francia! « Le prime battaglie hanno fatto tanti morti, che entrambe le parti si sono trincerate, in attesa dei rincalzi. Sicché per lo più siamo rimasti nelle trincee ad aspettare.
Ma che attesa tremenda! Ci aspettiamo ogni momento che un obice d’artiglieria ci cada addosso, ammazzando e mutilando uomini. E di giorno non osiamo alzare la testa fuori dalla terra, per paura del cecchino. E poi la pioggia: cade quasi ogni giorno. Naturalmente si raccoglie proprio nelle trincee, da cui dobbiamo aggottarla con pentole e padelle.
E con la pioggia è venuto il fango, profondo un piede e più. S’appiccica e sporca tutto, e ci risucchia gli scarponi. Una recluta ha avuto i piedi bloccati nel fango, e poi anche le mani quando ha cercato di liberarsi…» «Con tutto questo, non potevamo fare a meno di provare curiosità per i soldati tedeschi di fronte noi. Dopo tutto affrontano gli stessi nostri pericoli, e anche loro sciaguattano nello stesso fango. E la loro trincea è solo cinquanta metri davanti a noi. » « Tra noi c’è la terra di nessuno, orlata da entrambe le parti di filo spinato, ma sono così vicini che ne sentiamo le voci. Ovviamente li odiamo quando uccidono i nostri compagni.
Ma altre volte scherziamo su di loro e sentiamo di avere qualcosa in comune. E ora risulta che loro hanno gli stessi sentimenti. Ieri mattina, la vigilia, abbiamo avuto la nostra prima gelata. Benché infreddoliti l’abbiamo salutata con gioia, perché almeno ha indurito il fango. » « Durante la giornata ci sono stati scambi di fucileria.
Soldati che fraternizzano durante la tregua di Natale 1914Ma quando la sera è scesa sulla vigilia, la sparatoria ha smesso interamente. Il nostro primo silenzio totale da mesi! Speravamo che promettesse una festa tranquilla, ma non ci contavamo. » soldati che fraternizzano fuori dalle trincee « Di colpo un camerata mi scuote e mi grida: ?Vieni a vedere! Vieni a vedere cosa fanno i tedeschi! Ho preso il fucile, sono andato alla trincea e, con cautela, ho alzato la testa sopra i sacchetti di sabbia». «Non ho mai creduto di poter vedere una cosa più strana e più commovente. Grappoli di piccole luci brillavano lungo tutta la linea tedesca, a destra e a sinistra, a perdita d’occhio. Che cos’è?, ho chiesto al compagno, e John ha risposto: ‘alberi di Natale!’. Era vero. I tedeschi avevano disposto degli alberi di Natale di fronte alla loro trincea, illuminati con candele e lumini. » « E poi abbiamo sentito le loro voci che si levavano in una canzone: ‘ stille nacht, heilige nacht…’. Il canto in Inghilterra non lo conosciamo, ma John lo conosce e l’ha tradotto: ‘notte silente, notte santa’.
Non ho mai sentito un canto più bello e più significativo in quella notte chiara e silenziosa. Quando il canto è finito, gli uomini nella nostra trincea hanno applaudito. Sì, soldati inglesi che applaudivano i tedeschi! Poi uno di noi ha cominciato a cantare, e ci siamo tutti uniti a lui: ‘the first nowell (1) the angel did say…’. Per la verità non eravamo bravi a cantare come i tedeschi, con le loro belle armonie. Ma hanno risposto con applausi entusiasti, e poi ne hanno attaccato un’altra: ‘o tannenbaum, o tannenbaum…’. A cui noi abbiamo risposto: ‘o come all ye faithful…’. (2) E questa volta si sono uniti al nostro coro, cantando la stessa canzone, ma in latino: ‘adeste fideles…’». «Inglesi e tedeschi che s’intonano in coro attraverso la terra di nessuno! » « Non potevo pensare niente di più stupefacente, ma quello che è avvenuto dopo lo è stato di più. ‘Inglesi, uscite fuori!’, li abbiamo sentiti gridare, ‘voi non spara, noi non spara!’.
Nella trincea ci siamo guardati non sapendo che fare. Poi uno ha gridato per scherzo: ‘venite fuori voi!’. Con nostro stupore, abbiamo visto due figure levarsi dalla trincea di fronte, scavalcare il filo spinato e avanzare allo scoperto. » « Uno di loro ha detto: ‘Manda ufficiale per parlamentare’. Ho visto uno dei nostri con il fucile puntato, e senza dubbio anche altri l’hanno fatto – ma il capitano ha gridato ‘non sparate!’. Poi s’è arrampicato fuori dalla trincea ed è andato incontro ai tedeschi a mezza strada. Li abbiamo sentiti parlare e pochi minuti dopo il capitano è tornato, con un sigaro tedesco in bocca! » « Nel frattempo gruppi di due o tre uomini uscivano dalle trincee e venivano verso di noi.
Alcuni di noi sono usciti anch’essi e in pochi minuti eravamo nella terra di nessuno, stringendo le mani a uomini che avevamo cercato di ammazzate poche ore prima». «Abbiamo acceso un gran falò, e noi tutti attorno, inglesi in kaki e tedeschi in grigio. Devo dire che i tedeschi erano vestiti meglio, con le divise pulite per la festa. Solo un paio di noi parlano il tedesco, ma molti tedeschi sapevano l’inglese. Ad uno di loro ho chiesto come mai. ‘Molti di noi hanno lavorato in Inghilterra’, ha risposto. ‘Prima di questo sono stato cameriere all’Hotel Cecil. » « Forse ho servito alla tua tavola!’ ‘Forse!’, ho risposto ridendo. Mi ha raccontato che aveva la ragazza a Londra e che la guerra ha interrotto il loro progetto di matrimonio. E io gli ho detto: ‘non ti preoccupare, prima di Pasqua vi avremo battuti e tu puoi tornare a sposarla’. Si è messo a ridere, poi mi ha chiesto se potevo mandare una cartolina alla ragazza, ed io ho promesso. Un altro tedesco è stato portabagagli alla Victoria Station.
Mi ha fatto vedere le foto della sua famiglia che sta a Monaco. Anche quelli che non riuscivano a parlare si scambiavano doni, i loro sigari con le nostre sigarette, noi il tè e loro il caffè, noi la carne in scatola e loro le salsicce. Ci siamo scambiati mostrine e bottoni, e uno dei nostri se n’è uscito con il tremendo elmetto col chiodo! Anch’io ho cambiato un coltello pieghevole con un cinturame di cuoio, un bel ricordo che ti mostrerò quando torno a casa. » « Ci hanno dato per certo che la Francia è alle corde e la Russia quasi disfatta.
Noi gli abbiamo ribattuto che non era vero, e loro. ‘Va bene, voi credete ai vostri giornali e noi ai nostri’». «E’ chiaro che gli raccontano delle balle, ma dopo averli incontrati anch’io mi chiedo fino a che punto i nostri giornali dicano la verità. Questi non sono i ‘barbari selvaggi’ di cui abbiamo tanto letto. Sono uomini con case e famiglie, paure e speranze e, sì, amor di patria. Insomma sono uomini come noi. Come hanno potuto indurci a credere altrimenti? Siccome si faceva tardi abbiamo cantato insieme qualche altra canzone attorno al falò, e abbiamo finito per intonare insieme – non ti dico una bugia – ‘Auld Lang Syne’. Poi ci siamo separati con la promessa di rincontraci l’indomani, e magari organizzare una partita di calcio.
E insomma, sorella mia, c’è mai stata una vigilia di Natale come questa nella storia? Per i combattimenti qui, naturalmente, significa poco purtroppo. Questi soldati sono simpatici, ma eseguono gli ordini e noi facciamo lo stesso. A parte che siamo qui per fermare il loro esercito e rimandarlo a casa, e non verremo meno a questo compito. » « Eppure non si può fare a meno di immaginare cosa accadrebbe se lo spirito che si è rivelato qui fosse colto dalle nazioni del mondo. » « Ovviamente, conflitti devono sempre sorgere. Ma che succederebbe se i nostri governanti si scambiassero auguri invece di ultimatum? Canzoni invece di insulti? Doni al posto di rappresaglie? Non finirebbero tutte le guerre?

Il tuo caro fratello Tom. »"

I LUOGHI DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI DI ROMA.

http://www.gliscritti.it/approf/shoa/sh_pic/mostra.htm

VICINO A NOI

I LUOGHI DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI DI ROMA.

Mostra fotografica di Francesco Rosa e Luca Servo

(foto sul sito, il testo si legge bene)

La mostra fotografica Vicino a noi. I luoghi della deportazione degli ebrei di Roma, ripercorre la storia di questo evento avvenuto sotto gli occhi della città.
La rassegna, nata all’interno del Centro culturale Due Pini, continuata dalla Commissione per il dialogo con l’ebraismo della Diocesi di Roma e dal Centro culturale L’Areopago ed, infine, dal Centro culturale Gli scritti, presso il quale sono oggi depositati i materiali fotografici, presenta immagini odierne dei luoghi che hanno visto la deportazione degli ebrei di Roma. Le foto sono state scattate dai fotografi Francesco Rosa e Luca Servo. I testi che accompagnano le foto sono tratti dal volume di Fausto Coen, 16 ottobre 1943.La grande razzia degli ebrei di Roma, Giuntina, Firenze, 1993.
La targa del Collegio Militare sul Lungotevere che ricorda le due notti passate dagli ebrei romani in quel luogo prima della partenza per Auschwitz
Kappler prese in modo autonomo l’iniziativa della estorsione dei 50 chili d’oro agli ebrei romani.
Il progetto si rivela astuto e infame e agisce in varie direzioni. Prima di tutto Kappler farà credere agli ebrei romani che da loro non si vuole di più e lasciandoli in questa illusione tragica consentirà di fatto che si realizzi quel blitz di sorpresa che Himmler avrebbe voluto per il 1° ottobre ma che il rifiuto di un appoggio militare da parte di Kesselring aveva reso impossibile per quella data. In secondo luogo Kappler darà all’esecutore materiale del piano (che sarà Dannecker) tutto il tempo necessario per organizzare la grande retata con metodo e garanzie di riuscita… Domenica 26 settembre alle 10 del mattino il dottor Gennaro Cappa, Capo del Servizio Razza della Questura di Roma, informava il dottor Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, e l’avvocato Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma, che alle ore 18 di quella stessa Domenica dovevano recarsi a Villa Volkonsky dove li aspettava nel suo Ufficio di “Sicurezza Politica” il tenente colonnello Herbert Kappler per importanti comunicazioni… Così Foà racconta l’incontro con Kappler : “Cambiando improvvisamente tono ed accento, mentre il suo sguardo diveniva tagliente e duro, fece ai suoi interlocutori il seguente discorso: Voi ed i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato, dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. E’ il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro Paese. Entro 36 ore dovrete versarmene 50 chilogrammi. Se lo verserete non vi verrà fatto alcun male. In caso diverso duecento fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui…”
Trentasei ore: la consegna dunque doveva avvenire entro le 12 del 28 settembre.
Nella lunga fila che per 36 ore si snodò sul marciapiede che costeggia il Lungotevere Cenci, dove, accanto alla Sinagoga principale, si trovano gli uffici comunitari, c’erano ricchi e poveri, intellettuali e commercianti, artigiani e venditori ambulanti, gente colta e sprovveduta, ben vestita o dismessa. Alcuni recavano con sé pacchetti di una certa consistenza, altri involtini assai più piccoli. La rinuncia a un esile anello, a un paio di orecchini consunti, a una vecchia spilla o a un modesto braccialetto, esibiti al Tempio solo nelle feste solenni di Rosh Hashanà (il Capodanno) o di Kippur (il giorno dell’espiazione), è stata per i più poveri una ferita dolorosa. Erano oggetti che ricordavano miniàn, nozze, milot, nascite, persone scomparse. Quegli oggetti avevano scandito alcuni momenti felici. Quel mucchietto di oro era stato un muto testimone della propria storia di famiglia… In quella lunga fila non c’erano solo ebrei. C’erano persone alle quali Kappler non aveva chiesto nulla ma che avevano voluto esprimere la loro solidarietà a una minoranza offesa e in pericolo. Erano quegli stessi “uomini giusti” che cinque anni prima, nel 1938, avevano mostrato la loro solidarietà agli ebrei colpiti dalle inique leggi razziali e che la propaganda fascista aveva indicato al disprezzo generale come “pietisti”. E tra costoro non mancarono in quelle 36 ore nella lunga fila anche alcuni sacerdoti… La S. Sede faceva sapere in via ufficiosa al Presidente della Comunità che ove non fosse stato possibile raggiungere i 50 chili nel termine fissato avrebbe coperto la quantità mancante. La Comunità l’avrebbe restituita “quando – ricorda Foà – fosse stato in grado di farlo…”. Era un prestito, non un dono, al quale però non fu necessario ricorrere, perché col passare delle ore cresceva sorprendentemente il numero degli offerenti. In ogni caso la disponibilità vaticana sollevò la Comunità dall’incubo di non raggiungere la taglia imposta da Kappler.
Lungotevere Cenci, davanti la Sinagoga Maggiore Di Roma
La consegna dell’oro doveva avvenire non già a Villa Volkonsky ma a Via Tasso, nella palazzina n. 155 che non era ancora il luogo sinistro delle torture e del terrore, ma almeno formalmente “l’Ufficio di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania”… Alle ore 16 in Via Tasso Kappler non si presentò. Non aveva voluto abbassarsi alla meschina formalità di ricevere quell’oro che aveva estorto. Si era fatto sostituire da un ufficiale di grado inferiore, il capitano Kurt Schutz, che rivelò subito modi arroganti e diffidenti. Lo Schutz si era fatto assistere da un orafo romano, di cui non si è mai saputo il nome, e da un altro ufficiale delle SS inviato da Berlino con un corriere speciale. La pesatura fu eseguita con una bilancia della portata di 5 chili. Ogni pesata veniva registrata contemporaneamente da Dante Almansi e da un ufficiale tedesco, che si trovavano alle due estremità del tavolo. Alla fine dell’operazione, mentre Almansi aveva segnato dieci pesate, il capitano Schutz dichiarava risentito che le pesate erano nove. Le proteste di tutti gli ebrei presenti irritarono ancor di più il capitano che si opponeva anche a quella che era la via più semplice per sciogliere ogni dubbio: cioè ripetere l’operazione. Finalmente, di fronte alle vive insistenze da parte ebraica, il capitano Schutz diede ordine di ripetere le pesate. Dovette arrendersi alla realtà: i chili erano proprio 50 e gli ebrei non erano imbroglioni.
La palazzina al n.155 di via Tasso, nei pressi di S.Giovanni in Laterano, carcere delle SS, con le caratteristiche finestre a bocca di lupo che impedivano di vedere dall’esterno. Oggi è sede del Museo della Resistenza Romana
(Alcuni giorni dopo) tutto il complesso degli edifici che comprendono il Tempio Maggiore e gli uffici comunitari fu circondato da un cordone di SS. Ogni uscita fu bloccata e agli impiegati fu intimato di non muoversi dai loro posti. Subito dopo un gruppo di ufficiali e sottoufficiali tedeschi dei quali alcuni esperti in lingua ebraica “… cominciarono una minuziosa perquisizione di tutto l’edificio dalla cupola della Sinagoga fino al sottostante Oratorio di rito spagnolo e alle cantine”… Nonostante la perquisizione non avesse portato alla scoperta di “documenti segreti”, una grande quantità di carte venne ugualmente prelevata forzando armadi e cassetti quando non venivano subito reperite le chiavi.
Tra le carte vennero prelevati anche i ruoli dei contribuenti che saranno, a guerra finita, al centro di discussioni e polemiche. Mentre gli schedari anagrafici di stato civile e i fogli di famiglia erano stati prudentemente messi al sicuro, quei ruoli considerati solo documenti tributari erano rimasti negli uffici senza tener conto che anch’essi recavano le generalità e gli indirizzi dei contribuenti… La mattina del 30 settembre, Capodanno secondo il calendario ebraico, due ufficiali tedeschi tornavano a Lungotevere Cenci questa volta per ispezionare le biblioteche del secondo e del terzo piano. Erano due orientalisti, uno dei quali col grado di capitano si era qualificato professore di lingua ebraica in un Istituto superiore di Berlino. Il giorno successivo, il 1° ottobre, i due tornavano per esaminare con più attenzione i volumi esprimendo spesso meraviglia e ammirazione e prendendo numerosi appunti.
Eichmann decideva allora di inviare a Roma per la “Judenrazzia” Theo Dannecker, un esperto di sua fiducia, relatore per gli affari ebraici “che aveva dato il via ai rastrellamenti di ebrei a Parigi…”. Dannecker, per non dare nell’occhio, fissava il suo quartier generale non in via Tasso ma in una modesta pensione in via Po. Dopo pochi giorni arrivava anche il suo reparto speciale, formato da quattordici ufficiali e sottoufficiali e trenta militi delle SS che in parte provenivano dalle formazione specializzate nella “bonifica antiebraica” sul fronte orientale, le famigerate “ Einsatzgruppen”.
Alle ore 23 di venerdì 15 i coniugi Sternberg – Monteldi, entrambi ebrei che provenivano da Trieste e avevano preso alloggio a Roma all’albergo Vittoria, pur essendo muniti di passaporto svizzero vennero arrestati dalle SS e sottoposti ad interrogatorio. Da nessun documento risultava che fossero ebrei, nè i loro nomi figuravano su nessuno degli elenchi di Dannecker. E’ impossibile stabilire come la loro presenza fosse stata segnalata alle SS… La grande razzia cominciò attorno alle 5,30. Vi presero parte un centinaio circa di quei 365 uomini (di cui 9 ufficiali e 30 sottoufficiali) che erano il totale delle forze impiegate per la “Judenoperation”… I tedeschi tentarono di dare alla brutale operazione il carattere di un “trasferimento”. Volevano un gregge inconsapevole e cercavano di evitare possibili gesti inconsulti, atteggiamenti ostili, disordini. Cercavano di evitare intoppi e contrattempi che potevano rallentare l’operazione. Volevano soprattutto fare presto.
A questo fine avevano consegnato a ciascuno un ordine bilingue:
Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.
Bisogna portare con sè viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri.
Si può portare via una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, eccetto., danaro e gioielli.
Chiudere a chiave l’appartamento e prendere la chiave con sè.
Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.
Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.
Si voleva far credere alle vittime ad una destinazione non definitiva. “Chiudere a chiave l’appartamento e prendere la chiave con sé” faceva supporre un possibile ritorno. “Tessere annonarie e di identità” implicavano una destinazione nella quale questi documenti avrebbero potuto servire. Ma perché allora “ammalati anche gravissimi non possono restare indietro”?
Via del Portico d’Ottavia, il cuore del quartiere ebraico, che fu circondato alle 5.30 del mattino
Le SS entrarono di casa in casa arrestando le intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. Quando le porte non vennero subito aperte le abbatterono col calcio dei fucili o le forzarono con leve di ferro. Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco al di là dello storico Portico d’Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione né per persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bimbi al seno. Per nessuno.
Il prato davanti al teatro di Marcello, dove furono radunati gli ebrei, prima di essere condotti con i camion al Collegio Militare
Nessun quartiere della città fu risparmiato. In quelli di Trastevere, Monteverde e Testaccio, i più prossimi all’ex Ghetto, si ebbe il maggior numero di arresti.
Così come nelle dimesse case di Portico d’Ottavia anche in quelle borghesi e signorili di Roma si consumò la grande tragedia. Vennero versate lacrime, si diffuse la disperazione, si tentarono fughe disperate. In via Brescia al n.29 i tedeschi si erano avvicinati al letto dove giaceva la signora Sofia Soria vedova Tabet puntandole un’arma per sollecitarla ad alzarsi. La signora Sofia, che aveva 92 anni, morì per lo spavento. Era la suocera del prof. Vittorio Calò, generale medico. Le SS tornarono due giorni dopo al funerale della poveretta sperando di arrestare i famigliari. La mancanza di pietà verso i vegliardi, gli infermi, i bambini appariva incomprensibile per i testimoni di quella giornata. Giulio Anau ricorda che un parente, Beniamino Philipson, fu prelevato nella sua abitazione di via Flavia 84 sulla sedia a rotelle di invalido, perché da molti anni colpito da morbo di Parkinson, “tra la indignazione dei presenti impotenti tuttavia di fronte ai mitra spianati….”.
In via Adalberto, non lontano da piazza Bologna, le SS non trovarono nessuno: solo un bimbo di quattro anni – Ennio Lanternari – che dormiva nel letto dei nonni in quel momento assenti. Le SS lo presero, il bambino si svegliò spaventato e cominciò a piangere. Intanto rientrava la nonna che era scesa un momento per comprare qualcosa. Presero lei e il nipotino.
Un’altra immagine del Portico d’Ottavia oggi. La deportazione non si limitò alla zona del ghetto ebraico, ma abbracciò l’intera città
Settimio Calò si salvò. Anche lui era uscito di casa per fare la fila per le sigarette. ma quando tornò nella sua casa, non trovò più nessuno. Né la moglie né i dieci figli, il più grande dei quali aveva 21 anni e il più piccolo, Samuele, ancora lattante, 4 mesi. “Mi gettai contro le porte, volevo unirmi agli altri, non capivo più niente… poi mi sedetti a terra e cominciai a piangere. Ho vissuto solo perché ho sempre sperato di riaverne almeno uno, magari Samuele. Rimasi vivo io solo e vorrei essere morto“.
L’isola Tiberina, con l’ospedale Fatebenefratelli, dove molti ebrei furono salvati dalla popolazione. Furono travestiti da medici o da pazienti ed ebbero salva la vita
La Chiesa dell’Istituto Gesù e Maria, sulla via Flaminia alla collina Fleming. Qui, come in tante altre case religiose, trovarono rifugio ebrei, che scamparono alla cattura
Alle ore 14 la grande razzia era terminata. I catturati erano 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini. Sia gli ebrei del vecchio quartiere sia gli altri furono tutti provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare, il vasto e massiccio edificio in Via della Lungara, dominato dal Gianicolo. Gli uomini furono separati dalle donne e dai bambini. Divisi in gruppi, furono distribuiti nelle aule, nei corridoi, nelle palestre e in altri locali di fortuna. Quando questi spazi furono riempiti, gli uomini più benportanti furono disposti sotto il porticato di ingresso. Tutte le imposte delle aule erano state sbarrate con assi di legno inchiodate.
Il pianto incessante delle donne e dei bambini, gli incomprensibili ordini urlati in continuazione dalle sentinelle, la semioscurità, l’inadeguatezza dei servizi igienici crearono molta tensione e grande confusione… All’alba di domenica, dopo un esame minuzioso delle carte di identità e di altri documenti, furono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento della retata si trovavano nelle case dei ricercati. In tutto 237 persone. A Wachsberger fu ordinato sul posto di assumere le funzioni di interprete e di tradurre l’ordine dell’ufficiale:
… coloro che non sono ebrei si mettano da una parte. Se trovo un ebreo che abbia dichiarato di non esserlo, appena la bugia sarà scoperta quello sarà fucilato immediatamente…
Nonostante la gravissima minaccia, sette ebrei riuscirono a inserirsi nel gruppo di coloro che vennero liberati. Sono Giuseppe Durghello con la moglie Bettina Perugia e il figlio Angelo ; Enrico Mariani, Angelo Dina, Bianca Ravenna Levi e la figlia Piera… Dei 1022 infelici, una sola persona non era ebrea. Era una donna cattolica che per non abbandonare un orfanello ebreo malfermo in salute affidato alle sue cure non aveva avuto l’animo di dichiararsi non ebrea e aveva voluto seguire la sua sorte. Nè il bimbo nè la sua generosa protettrice sono più tornati… Nella notte Marcella Perugia Di Veroli, al nono mese di gravidanza, cominciò ad avere le doglie. I tedeschi non permisero di trasferirla all’Ospedale, acconsentirono solo che venisse chiamato un medico. La partoriente fu isolata nel porticato del Collegio Militare e diede alla luce una bimba. Marcella Perugia aveva 23 anni e con lei erano stati arrestati anche i suoi due figli di 5 e 6 anni. Il marito Cesare Di Veroli era riuscito a sfuggire alla retata.
Il Collegio Militare, sul Lungotevere, vicino al carcere di Regina Coeli ed a S.Pietro, dove gli ebrei furono costretti a trascorrere le due notti fra la cattura e la partenza per Auschwitz
Nessun cenno della grande razzia è ovviamente reperibile nei giornali dell’epoca. Essa può essere desunta solo da una notiziola dall’apparenza innocente, quasi una “burocratica informazione di servizio”, sui giornali romani del 18 ottobre. I quali informavano i lettori che “la partenza degli ufficiali per il Nord, fissata oggi alle 9, non può effettuarsi dalla Stazione Tiburtina. Si parte domani da Termini”. La ragione era evidente. Un ben diverso convoglio sarebbe partito quella mattina dallo scalo periferico romano e nessun occhio indiscreto doveva essere testimone di quel crimine.
All’alba di lunedì 18 ottobre gli oltre mille prigionieri furono trasferiti su autocarri dal Collegio Militare allo scalo merci della stazione ferroviaria. Su un binario morto si trovava da alcuni giorni un convoglio composto da 18 carri bestiame. Gli arrestati furono tutti stipati nei vagoni: 50 o 60 su ogni carro, in uno spazio insufficiente. La penosa attesa degli arrestati durò sei ore… In fondo alla rampa su un binario morto rettilineo- scrive Elsa Morante – stazionava un treno che pareva a Ida di lunghezza sterminata. Il vocìo veniva di là dentro. Erano forse una ventina di carri bestiame… Non avevano nessuna finestra se non una minuscola apertura a grata in alto. A qualcuna di quelle grate si sporgevano due mani aggrappate o un paio d’occhi fissi.
La stazione Tiburtina, da cui gli ebrei romani partirono per Auschwitz
Su questa sosta (a Padova), l’ultima in terra italiana, c’è la annotazione sul suo diario giornaliero della ispettrice della Croce Rossa Lucia De Marchi, quel giorno di servizio.
… alle ore 12, non preannunciato, sosta alla nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente da Roma. Dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso. Alle 13 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! In ogni vagone stanno ammassate una cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi. Mai spettacolo più raccapricciante s’è offerto ai nostri occhi. E’ la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata. Ci sentiamo disarmate e insufficienti per tutti i loro bisogni, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime, personale ferroviarie, spettatori, popolo…
Alle ore 23 di venerdì 22 ottobre, dopo un viaggio allucinante di 6 giorni e 6 notti, il treno arrivò ad Auschwitz-Birkenau. Nessuno fu fatto scendere fino al giorno successivo. Il convoglio rimase ancora sigillato e vigilato per tutta la notte… Formatosi, sotto gli ordini urlati dalle SS, un allineamento casuale, arrivò il dottor Josef Mengele, la cui fama sinistra è oggi consegnata alla storia ma allora era un personaggio del tutto ignoto ai nuovi arrivati. Sotto la sua direzione cominciò la selezione: i bambini, i vecchi, i vecchi, i malati e coloro che avevano un aspetto gracile o malaticcio (e anche uomini non vecchi ma coi capelli bianchi) vennero allineati alla destra di Mengele e dei suoi aiutanti. Erano circa cinquecento.
Alla sua sinistra gli uomini e le donne giudicati adatti al lavoro.
Intanto era giunto sul posto il Comandante del campo, Rudolf Hoess. Normalmente Hoess non assisteva alla selezione dei prigionieri ma nei giorni precedenti c’era stata una grande curiosità per l’annunciato arrivo degli ebrei italiani. Gli stessi dirigenti del campo ne erano stati contagiati e vollero assistervi. Era il primo convoglio di italiani che giungeva ad Auschwitz… Il Comandante Hoess ordinò a Wachsberger di tradurre l’annuncio che donne, bambini, ammalati sarebbero stati trasferiti sui camion nei campi “di permanenza” che distavano circa 10 chilometri. Però anche gli abili al lavoro, che si sentivano stanchi e volevano salire su quegli autocarri, potevano farlo.
Duecento uomini e cinquanta donne abbandonarono le file dei “validi” per unirsi agli altri che erano già sugli automezzi.
Il viaggio invece fu brevissimo, meno di un chilometro, percorso in pochi minuti.
Gli autocarri si fermarono davanti alle camere a gas. L’eliminazione fu immediata… Wachsberger racconta che stava per salire anche lui sul camion ma Mengele glielo impedì perché aveva ancora bisogno di un interprete. Più tardi Wachsberger chiese al “dottore” (Mengele amava spesso chiacchierare con lui e si mostrava curioso dell’Italia e soprattutto di Mussolini) perché avevano lasciato salire sui camion anche uomini e donne validi. “Chi non è in grado di fare a piedi dieci chilometri – fu la risposta – non è adatto a fare il lavoro che si deve fare in questo campo”. Ma i più erano saliti sui camion per altre ragioni. Sergio Pace, ad esempio, era stato messo nella fila di quelli destinati al lavoro. Volle salire sull’autocarro per stare assieme al padre e alla madre. Non lo tradì né la “pigrizia” né la stanchezza, ma un sentimento che non era stato mai così forte come in quel momento. E come lui fecero molti altri.
Ci si può chiedere perché i tedeschi comunque in questo modo rinunciavano ad una parte di uomini validi. La ragione vera è che in quei giorni imperversava ad Auschwitz una epidemia di tifo. La immissione di un numero eccessivo di prigionieri aumentava le probabilità che il contagio si estendesse. Questo spiega perché nel convoglio del 23 ottobre la percentuale di coloro che finirono subito nelle camere a gas fu dell’82% (839 su 1022), la più alta in assoluto di tutti i successivi trasporti di deportati dall’Italia.
Delle cinquanta donne destinate al lavoro una sola sopravvisse: Settimia Spizzichino. Allora aveva 22 anni ed era stata presa con la madre e due sorelle in via della Reginella. Solo il padre si era salvato dalla retata. Sulla sorte delle 49 compagne che non sono più tornate la Spizzichino pensa che “… la neve, i lavori pesanti, la cattiva alimentazione, tutto ha contribuito alla decimazione”. Settimia si è salvata perché era stata avviata ad un “blocco di esperimenti” e “… fu aiutata da una infermiera di buon cuore…”. Quando venne liberata aveva 24 anni e pesava 30 chili. E’ persuasa che quello che l’ha aiutata a resistere è stato soprattutto il pensiero che doveva tornare per raccontare…

 

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7 OTTOBRE: FESTA DEL ROSARIO – LA BATTAGLIA DI LEPANTO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/devozione/08-10/06-Festa-del-Rosario.html

7 OTTOBRE: FESTA DEL ROSARIO

LA BATTAGLIA DI LEPANTO

La Basilica di Maria Ausiliatrice è una specie di “libro di storia ad immagini”. Infatti, attraverso statue e quadri, racconta diversi episodi della bimillenaria storia della Chiesa e della santità cristiana. Proviamo a sfogliare questo libro per vedere che cosa ci riserva. Scopriremo pagine veramente interessanti, persino sorprendenti. Un capitolo più volte approfondito in questo “libro di storia” è la battaglia di Lepanto. È così chiamata dal nome di una cittadina greca presso la quale si svolse uno scontro navale tra due imponenti flotte, la prima cristiana e la seconda turco-musulmana, avvenuto nel lontano 1571. Chi si avvicina alla Basilica dalla piazza, alzando lo sguardo, vede, a sinistra della grande statua dorata della Madonna collocata sulla cupola, la statua di un angelo. Rappresenta l’Arcangelo Michele che sventola una bandiera con la scritta “Lepanto”.
Tra le colonne laterali della facciata un bel bassorilievo illustra il Papa San Pio V che annuncia la vittoria della flotta cristiana, riportata in quella memorabile battaglia. Appena si entra in Basilica, volgendosi indietro, si può ammirare un rosone policromo rappresentante il monogramma di Maria con i simboli della sua regalità che sovrastano un sole radioso sulle acque: sono proprio le acque del mare dove si svolse la battaglia di Lepanto.
Raggiunta la zona centrale della chiesa, il pellegrino è portato spontaneamente a sollevare la vista attratto dagli affreschi della cupola maggiore. Nella parte della cupola che è di fronte al trono dell’Ausiliatrice vi è un gruppo di angeli che sostengono un arazzo: esso rappresenta la battaglia di Lepanto, accanto al quale stanno, a destra, il Papa dell’epoca, il già ricordato Pio V, e i valorosi capitani delle armate cristiane. A San Pio V sono dedicati pure un altare dietro quello maggiore ed una cappella a sinistra del presbiterio. Insomma, tanta ricchezza iconografica lascia intendere che la battaglia di Lepanto fu un avvenimento di capitale importanza e che Pio V vi giocò un ruolo fondamentale.

Che cosa accadde?
Era una giornata autunnale del 1571, la domenica 7 ottobre, quando due giganti militari si fronteggiarono. Da una parte l’intera flotta turca, la grande “superpotenza” dell’epoca, disposta a forma di mezzaluna, al centro della quale si trovava la nave “sultana”, agli ordini del temibile ammiraglio Alì Pascia, adornata da uno stendardo tutto verde, venuto dalla Mecca e su cui era stato ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah; dall’altra, allineate come una croce, stavano più di duecento navi, chiamate galee, dotate di cannoni e su cui erano ospitati più di 80 mila persone: tutti cattolici, ciurma ed ufficiali, avevano recitato il Rosario e molti di loro si erano confessati e comunicati dai cappellani che li accompagnavano, pronti a seguire gli ordini del loro comandante supremo, il fratello dell’imperatore Filippo II di Spagna, un giovane di 24 anni, generoso e coraggioso, Giovanni d’Austria.
Era un fervente cristiano: non permise che a bordo salissero donne, con cui i marinai potessero commettere azioni immorali. Per quei tempi era una novità assoluta.
Tutti gli scontri militari, purtroppo, producono distruzione e vittime. Anche quella sera, dopo cinque ore di battaglia, quando si contarono morti e feriti, le perdite furono ingenti, da una parte e dall’altra. Eppure, i cristiani esultarono perché la flotta turca, nonostante la superiorità numerica e la fama di invincibilità, era stata sbaragliata: sulla nave ammiraglia dei turchi era stata ammainata la mezzaluna ed issato il vessillo cristiano, un enorme stendardo blu con la raffigurazione di Cristo in Croce. La vittoria militare che annientò l’armata navale turca fu ottenuta anche grazie all’eroismo dei soldati cristiani, come Sebastiano Venier che combatté a capo scoperto e in pantofole.
A chi gli domandava il motivo, rispondeva: “Perché le pantofole fanno migliore presa sulla coperta” ed intanto, nonostante i suoi 75 anni, continuava ad imbracciare e a caricare la balestra. Agostino Barbarigo, veneziano, per meglio dirigere le operazioni si scoprì il capo, fino a quando una freccia nemica non gli si inflisse nell’occhio sinistro, provocandone, il giorno dopo, la morte. Tra gli spagnoli, un soldato riportò serie ferite ma sopravvisse. Ricordò quel giorno come “il più glorioso di tutto il secolo”. Divenne uno scrittore famoso: Cervantes, autore del celeberrimo Don Quijote.

La “Lega Santa”
Le navi cristiane appartenevano a diversi stati dell’Europa del tempo: la Spagna, la Repubblica di Venezia, lo Stato Pontificio ed altri piccoli principati italiani. La coalizione si chiamava “Lega Santa” ed era stata promossa e benedetta da Pio V, un santo Papa che dormiva su un pagliericcio e digiunava frequentemente. Pregava con grande fervore e non sopportava i favoritismi: quando seppe che un suo parente, arruolato nelle milizie pontificie, frequentava le prostitute, lo fece subito cacciare. Mentre gli Stati europei sembravano superficialmente insensibili al pericolo che li minacciava e continuavano a litigare tra loro, Pio V fu lungimirante: senza la “Lega Santa”, l’Europa sarebbe caduta sotto il giogo dei Turchi che, da più di un secolo, ottenevano vittorie su vittorie a scapito degli stati cristiani ed imponevano la dura legge dell’Islam. Dopo aver conquistato Costantinopoli nel 1453, erano avanzati nell’Europa orientale, giungendo fino alle porte di Vienna nel 1529. Dall’una e dall’altra parte del Mediterraneo, insidiavano con le loro navi e con i pirati loro alleati: ovunque arrivavano, erano razzie, saccheggi, catture di schiavi, massacri, come quello perpetuato ad Otranto in Puglia, 90 anni prima di Lepanto, e dove ancora oggi si conservano le ossa di 800 martiri a cui fu tagliata la testa. Di che cosa fossero capaci i Turchi, desiderosi di sottomettere tutto il mondo cristiano, lo avevano fatto capire, pochi mesi prima di Lepanto, a Farmagosta, una cittadina dell’isola di Cipro: al comandante veneziano che difendeva la fortezza, furono tagliati naso ed orecchie, poi fu scorticato vivo, la sua pelle divenne l’involucro di un fantoccio, esibito poi come un trofeo. Dopo Lepanto, però, iniziò inesorabilmente il declino dell’Impero ottomano, che alla fine della prima guerra mondiale scomparve dalla carta geopolitica del mondo.

Auxilium Christianorum
A quei tempi le comunicazioni non erano rapidissime come oggi. La notizia della vittoria della flotta cristiana fu annunciata al Papa due settimane dopo. Il corriere veneziano arrivò di notte: il Papa fu svegliato e disse: Nunc dimitte servum tuum in pace. Si trattò di una conferma di quanto il santo Papa era già venuto a conoscenza, in modo soprannaturale. Infatti, nel pomeriggio del 7 ottobre, era in riunione con alcuni prelati. D’improvviso si alzò, si avvicinò alla finestra, fissò lo sguardo in estasi, vide la Madonna e poi, tornando al suo posto, disse: “Non occupiamoci più di questi affari, andiamo a ringraziare Dio. La flotta cristiana ha ottenuto la vittoria”.
Non ebbe dubbi: l’esito felice di quell’evento che permise la salvezza dell’Europa cristiana era stato ottenuto grazie all’intercessione della Vergine. Aveva mobilitato monasteri maschili e femminili, indetto speciali preghiere e processioni, soprattutto aveva ordinato la recita del Rosario per ottenere questa grazia: puntualmente arrivò.
Volle pertanto che nelle Litanie lauretane si aggiungesse il titolo “Maria Auxilium Christianorum” ed istituì la festa della “Madonna delle Vittorie”, che, poi, per decisione dei suoi successori, è diventata la memoria liturgica della “Beata Vergine del Rosario” celebrata la prima domenica di ottobre.
Sì, a Lepanto, in modo a noi misteriosamente ignoto, intervenne realmente ed efficacemente la Madonna. Ne erano convinti anche i senatori della Serenissima, la Repubblica di Venezia, che sul quadro affisso nella sala delle loro adunanze, fecero scrivere queste parole: Non virtus, non arma, non duces, sed Virgo Rosarii victores nos fecit.

Roberto SPATARO sdb

Publié dans:ROSARIO (IL), STUDI DI VARIO TIPO |on 7 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=114

ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 18 gennaio 1997

In una prima parte sarà presentato un itinerario fenomenologico (dai sapori alla sapienza). In un secondo momento saranno indicate alcune figure della sapienza. Più che di radici si parlerà di ambientazioni, di contestualizzazioni della sapienza.

un itinerario fenomenologico: dai sapori alla sapienza
il sapore
« Sapienza » come « sapore » viene dal latino sàpere, che corrisponde al nostro « aver sapore ». La prima accezione di sàpere è dalla parte dell’oggetto, dei sapori.
In italiano c’è un verbo che fa da ponte tra oggetto e soggetto ed è « gustare » (oltre al raffinato « assaporare »), che indica sia il sapore (il gusto) che il sentire il sapore.
Questa facilità a migrare dal soggetto all’oggetto sta ad indicare una forma di conoscenza in cui soggetto e oggetto sono profondamente uniti, una forma di conoscenza diversa da quella più comunemente intesa, quella cioè del soggetto « di fronte » all’oggetto. La prima riguarda il dato originario, il campo sorgivo del conoscere, rispetto al quale la seconda (quella che si rifà al senso del vedere) è un momento successivo.
Il gustare, l’avere buon gusto, riguarda non solo i sapori, ma tutto ciò che è bello e buono, come le tinte, i suoni, ecc.. Il gusto, nella sua accezione più generale, è il senso più soggettivo (non si può gustare a distanza, mentre si può vedere e sentire) ed è il meno strumentale, il cui valore è fine a se stesso.
Mentre la maggior parte dei sensi ha un valore strumentale, il gusto ha sempre una dimensione fruitiva, ha il massimo di carattere fruitivo. Ecco perché il gusto indica quella forma di conoscenza in cui il cuore delle cose e il cuore del soggetto sono più vicini.
il gusto del bello (la connaturalità estetica)
Il « buongustaio » non è semplicemente « chi gusta », ma chi sa valutare i gusti, chi sa riconoscere come buone, belle, valide le cose che lo sono davvero.
Si tratta qui di un sapere veritativo, in grado di dare dei giudizi di valore, non solo di fatto.
Tutto il mondo dell’estetica rientra in questo sapere veritativo. Quando dico di un qualche cosa che « è bello », intendo dire che è come deve essere, che è conforme ad un canone ideale, al tipo ideale di quella cosa. Chi ha buon gusto va oltre la superficie delle cose, per coglierne la forma, l’essenza.
Se è vero che qui abbiamo a che fare con giudizi di valore che presumono di dire ciò che è bello, buono, ecc., è anche vero che questi giudizi sono indimostrabili. Non esiste la dimostrazione scientifica del bello, del buono, del valido. Possiamo solo affidarci alla capacità di mettersi in sintonia tra soggetto e oggetto, alla quale uno può essere maggiormente predisposto e che comunque deve coltivare.
Questa disposizione di base e la successiva acclimatazione sono la connaturalità.
la sapienza
Oltre alla connaturalità estetica (che riguarda gli oggetti da contemplare) esiste anche una connaturalità operativa (che riguarda il saper fare), che, come la precedente, necessita sia di predisposizioni naturali che di apprendimento.
La sapienza è la convergenza di queste due connaturalità, è l’intelligenza insieme contemplativa e operativa, è la capacità di vedere che cosa è giusto fare.
È la prudentia dei latini, che indica non solo ciò che è bene evitare, ma che cosa è giusto fare.
« Giusto » è qui inteso non in senso strumentale, né nel senso estetico (la misura giusta), ma come il giusto della giustizia, che riguarda l’azione vista dal di dentro. È il giusto come canone dell’agire umano, che qualifica il soggetto umano come persona. La persona è vista come giusta o non giusta a seconda di ciò che fa. È la dimensione più profonda della persona ed è l’istanza ultima.
Non è la qualità dell’altro (di bellezza, di intelligenza, di giustizia) a definire l’esigenza dell’agire giusto, che mi definisce come persona giusta. Proprio il cogliere che devo comportarmi giustamente con l’altro mi fa percepire il suo valore incommensurabile, il suo carattere « sacro », il mio essere sempre in una posizione di debito.
È questo sapere indimostrabile ad indicare ciò che è la sapienza: il cogliere, al di dentro dell’esigenza di agire giustamente, il valore dell’altro in quanto colui nei confronti del quale devo agire giustamente indipendentemente da quello che ha o è.

alcune figure della sapienza
il cosmo umano
Il cosmo umano è quell’ordine globale, all’interno del quale i singoli tipi di azione e di comportamento si qualificano come giusti, proprio in quanto parti del tutto ordinato.
Se la sapienza è l’intelligenza che coglie ciò che è giusto, in questa figura lo coglie come parte di un « cosmo ordinato ».
Nelle religioni naturalistiche il cosmo umano è visto come inserito nel cosmo naturale. Le leggi del cosmo diventano le leggi della condotta umana.
Nell’ebraismo classico il cosmo umano è visto come comunità con cui Dio fa alleanza, a cui Dio dà la legge. Non è più il cosmo naturale, sdivinizzato, fonte di valore per l’agire umano.
Nel pensiero cristiano convergeranno la visione ebraica della comunità a cui Dio dà la legge e la riflessione della filosofia greca secondo cui la legge umana tende ad essere inserita nella legge cosmica. Le leggi della comunità umana acquistano un carattere ambiguo di « leggi naturali ».
Le tre sottofigure esposte si muovono all’interno del « principio-tradizione ». La sapienza, come modo giusto di guardare il mondo, è trasmessa di generazione in generazione ed è fatta risalire agli dei a Dio, come nell’ebraismo. La trasmissione, e l’origine divina, legittima ciò che viene trasmesso.
La modernità rompe con questo sapere sapienziale tramandato. « Sàpere aude! » Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
La fonte di legittimazione non è più la tradizione, ma la ragione adulta o il futuro, l’utopia. L’ideale del mondo giusto di domani diventa fonte di legittimazione di ciò che è giusto fare nel presente (es.: il marxismo).
Ma oggi anche il « principio-ragione » è entrato in crisi e si cerca di recuperare un sapere sapienziale
o rifacendosi alle tradizioni del passato (fondamentalismi);
o creando tradizioni nuove (New Age);
o affermando una « nuova laicità », la consapevolezza cioè che esiste, diffusa in tutta l’umanità in quanto dotata di coscienza etica, una sapienza, che può essere terreno comune tra uomini religiosi e non religiosi e che può favorire la nascita dell’uomo planetario (Balducci), consapevole insieme della propria universalità (« io sono soltanto un uomo ») e della propria parzialità (appartenenza ad una precisa tradizione e fede).
la sapienza celeste
È una figura che fa parte della tradizione cristiana cattolica. La costruzione di un mondo buono e giusto, la sapienza del cosmo umano, è vista come piattaforma per muoversi sin da ora in direzione della patria celeste (la sapienza celeste). Questa visione è rintracciabile nella teologia monastica.
cogliere i « segni dei tempi »
I segni dei tempi, il « kairòs », sono, in una prima accezione, i segni di un certo periodo storico, che bisogna cogliere per poter intervenire. Il profeta ha questo fiuto di saper cogliere dove sta andando la storia per potervi operare. I segni dei tempi sono qui visti nel loro risvolto culturale e storico.
Il fiuto dei processi storico-culturali, unito alla luce o fede a cui uno aderisce, è una forma di sapienza come capacità di leggere i segni dei tempi, che possiamo chiamare profezia.
la sapienza del tempo escatologico come sapienza dell’istante
Il « kairòs » è qui visto non in relazione ai fatti storici, ma all’istante, all’oggi continuo.
Con Gesù sono giunti i tempi ultimi, perché tutto il tempo, in ogni suo istante, è tempo di decisione come se fosse l’ultima. Ogni istante è un « kairòs » come senso che Dio ci dona e che ci sollecita ad una risposta. Ogni istante è una occasione irripetibile di diventare un po’ noi stessi, un’occasione quindi non semplicemente in base ai nostri interessi o gusti.
Nella parabola del fattore disonesto e scaltro (Lc 16,1-9), Gesù ci invita ad avere l’intelligenza (la scaltrezza) di capire che si è nel tempo escatologico, nel tempo che va sfruttato per diventare ciò che dobbiamo essere, non in base ai nostri progetti, opzioni o desideri, ma in base al progetto che Dio ha inscritto dentro di noi e per noi.
Il progetto che Dio ha su di noi è ultimativamente la disposizione ad amare, a farci amici i poveri diavoli che ci ospiteranno « nelle dimore eterne ».
L’ultima parola della sapienza evangelica è la sapienza dell’amore.

RISORGEREMO, MA COME? DAL NOTO ALL’IGNOTO (1COR 15,35-53)

http://www.paroledivita.it/upload/2002/articolo4_17.asp

RISORGEREMO, MA COME? DAL NOTO ALL’IGNOTO (1COR 15,35-53)

Marcheselli Casale C.

L’interrogativo attraversa la storia umana, da sempre appassiona, tormenta da sempre. Una domanda posta in due momenti, il che è prova di una procedura editoriale indicativa di un dilemma che inquieta il cuore dell’uomo: cosa c’è dopo la morte? Cosa ci attende? Risorgeremo, sì, ma come?[1] Il grande quesito-inchiesta circola a Corinto: «Come risuscitano i morti? Con quale corpo essi ritorneranno?» (v. 35). L’attenzione è posta sul «corpo-persona: sôma» nel momento in cui, risorto, si presenta nella sua nuova vita. L’Apostolo non si appoggia al dualismo ellenistico (anima e corpo), piuttosto al monismo semitico (totalità della persona).[2]Sôma indica così la totalità della persona vista come «corpo vivente» in marcia verso il proprio compimento: se cioè Cristo è vincitore della morte, anche noi parteciperemo alla sua vittoria con la totalità del nostro «io». Prospettiva storico-teologica, come si vede, e non pragmatico-empirica. Ma seguiamo l’Apostolo nella sua meditata argomentazione, ben cinque momenti articolati in una progressione retorica, ancor sempre motivo di studio.[3]

1. La dinamica della seminagione (vv. 36b-38)
Per rendere efficace la sua catechesi, Paolo si avvale di analogie. La prima è tolta dal mondo vegetale: a) il chicco di grano seminato (v. 36b) non è ancora vivo (zôopoieitai) e non prende sviluppo se prima non muore (cf. Gv 12,24); b) quel chicco poi non è ancora il corpo che ne verrà fuori,ma un semplice granello di una qualunque possibile futura realtà (v. 37); c) è Dio a dare poi a questo seme il corpo che ha stabilito, il corpo che è suo, il suo profilo (v. 38).
Quale il senso di questa analogia? Essa ci disvela che, se per Paolo è chiaro affermare che Cristo è risorto, quindi anche noi risorgeremo, non è altrettanto chiaro il modo in cui un tale risveglio-risurrezione avvenga. Di qui l’uso dell’analogia, strumento per comunicare un dato che egli avverte nella sua dimensione soteriologico-escatologica, ma che ancora non gusta, perché appesantito dalla carne e dal sangue (v. 50). Solo «l’uomo pneumatico» se ne approprierà in pienezza. Intanto, la novità e la ricchezza di quel «fatto» e la non immediata percepibilità del suo contenuto rendono necessario il ricorso all’analogia.
L’Apostolo svolge l’analogia sul chicco di grano seminato nel modo magistrale che gli è proprio: spiega che la nostra risurrezione trova un primo momento di oggettiva verità nella morte; è attraverso di essa che si risorge a una vita più ampia e perfetta (v. 36).[4] Perché nella morte vi è già il germe della vita; nel suo stesso marcire, il seme «si vivifica» e germoglia in un’incantevole efflorescenza; meglio, «è vivificato» da Dio (15,38) e passa da un primo tipo di vita a un secondo del tutto diverso; così sarà per ogni creatura di Dio. Si tratta di cogliere non tanto il normale e naturale sviluppo del seme in albero, quanto il processo di radicale trasformazione che il seme subisce. L’immagine del seme è sorta nello spirito dell’Apostolo, sollecitata dal loghion di tradizione giovannea (Gv 12,24) e da lui riformulato in 1Cor 15,36. Più che essere una semplice immagine, quella del seme è dunque una parabola, di forte eco evangelica.
Paolo fornisce poi un secondo elemento di risposta che è anche nuova indicazione ermeneutica: è attraverso la morte che si risorge (v. 36); il Dio della storia, autore libero in ogni sua determinazione, dà a ogni seme il suo proprio corpo (v. 38). Si ascolta qui una preziosa non trascurabile allusione a Gn 1,11: i corinzi osservino il «seme che si trasforma» in un nuovo essere vivente, totalmente altro, e colgano l’assoluta garanzia di una tale possibilità nel Dio creatore. Questi è sempre all’opera e rinnova nel credente quanto ha già compiuto per la prima volta in Gesù Cristo: in lui anche «noi saremo vivificati» (v. 22b).
«Quel che tu semini non è il corpo che poi dovrà nascere, ma un nudo granello» (v. 37). L’immagine-parabola focalizza la completa disponibilità del granello a divenire quello che deve essere per normale evoluzione del suo marcimento. Dal seme non si riconosce quel che esso diventerà. Esso è nudo, virtualmente ricco di vitalità, ma quella ricchezza è nascosta. Quello che sarà poi, è un vero miracolo, un’esplosione di vita nuova.[5]
Così è per chi si addormenta nella morte: nudo come un seme, quegli è totalmente disponibile per l’operatività vitale e vivificante di Dio, è pronto a essere creato di nuovo, a ricevere una nuova vita, a essere rivivificato, trasformato, rifinalizzato nella totalità del suo «io», in una «situazione» nuova, interlocutore di Dio che ora può vedere così come egli è (1Gv 3,2b).
Che questa sia la lettura dei vv. 36b-38 è suggerito ancora dal loro già rilevato genere letterario di parabola. Questa enfatizza il pensiero di Paolo, il quale non sta spiegando un fatto adducendone uno parallelo. Il suo discorso per metafora guida ad accogliere la risurrezione dei corpi come un miracolo della potenza vivificatrice di Dio.
Annuncio solo kerygmatico? Che la risurrezione corporale debba essere capita solo come uno skandalon non meno forte di quello della croce (seguita appunto dalla risurrezione del Crocifisso), dunque accettabile solo sul piano della fede e della speranza? La cosa è ben detta, ma una pura possibile possibilità di quella risurrezione corporale è davvero riduttiva.[6] Quel kêrygma viene infatti dalla storia. E non è forse quest’ultima che permette di dire che il Cristo del kêrygma ha senso e peso solo se agganciato al Gesù della storia? Dunque, se lui è risorto, e non solo nella fede, ma nella realtà della storia della salvezza, anche noi risorgeremo. Come? Come lui!(1Ts 4,14).

2. La diversità delle realtà create (vv. 39-41)
Una seconda analogia è presentata da Paolo con ricchezza di paranomia e allitterazione, il che documenta bene la familiarità dell’Apostolo con gli strumenti della comunicazione, la lingua greca e le sue tecniche.[7] Scrive: «Non ogni carne(sárx)è la stessa carne, ma altra (állê)è quella degli uomini, altra la carne degli animali, altra la carne dei volatili, altra quella dei pesci» (v. 39).
Propone, poi, una terza analogia desumendola dal mondo degli astri: «E ci sono corpi (sômata)celesti e corpi terrestri; diverso però è lo splendore(dóxa)dei corpi celesti, diverso quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro è lo splendore della luna, altro è lo splendore delle stelle: una stella, infatti, differisce da un’altra stella per splendore» (vv. 40-41). Svariati tipi non tanto di corpi, quanto di corporeità. È il senso di sômata: i molti corpi si diversificano già in natura per il loro modo diverso di essere, cioè per la loro corporeità. Essi descrivono le infinite possibilità che Dio ha di realizzare la trasformazione finale del nostro «io»: dalla personalità psichica (materiale) a quella pneumatica, spiritualizzata.[8] Dal corpo alla corporeità,[9] da ciò che è sempre visibile (ha-olam hazzeh) a ciò che è sempre nascosto (ha-olam habba).
Paolo coglie così un’inarrestabile dinamica della storia protesa nel suo insieme e in ogni sua creatura verso il «corpo glorioso (sôma tês dóxês)» (Fil 3,21), quello trasfigurato e glorificato del Risorto al quale ogni realtà sarà conformata, in una progressiva trasformazione della personalità umana e della creaturalità globale da psichica in pneumatica. È opera dello Spirito;[10] la risurrezione per trasformazione è, infatti, già in corso. La stessa molteplicità creaturale è promessa e prefigurazione della realtà risurrezionale:[11] se Dio è capace di creare le cose in qualità svariate, è anche capace di ricrearle trasformate.[12] Meglio: egli presiede giorno per giorno il processo di trasformazione in atto nelle realtà vegetali, animali e cosmo-astrologiche. L’Apostolo ne coglie i fanalini spia, segni significanti, e punta l’occhio nel mistero dell’aldilà del tempo e della storia, inaugurato e disvelato dalla «primizia di coloro che si sono addormentati» (Fil 2,6): Gesù il Cristo.
Dunque, i corinzi siano attenti osservatori dell’ordinamento naturale e vi sappiano cogliere il lavoro di Dio creatore e trasformatore. Quel lavoro è sotto gli occhi di tutti. Ebbene: «Così sarà anche la risurrezione dei corpi» (v. 42a).

3. Trasformazione: una personalità pneumatica (vv. 42-44a)
«Così è anche la risurrezione dei corpi: si semina nella corruzione, risorge nella incorruzione; si semina nell’ignominia, risorge nella gloria; si semina nella debolezza, risorge nella forza; si semina un corpo materiale, risorge un corpo spirituale» (vv. 42-44a).
È chiara la centralità del v. 42a: «Così è anche la risurrezione dei corpi». Esso presiede il potenziale delle quattro antitesi, sforzo dell’Apostolo di dipingere il corpo trasformato, avvalendosi una volta ancora dei buoni uffici dell’analogia: tutti noi abbiamo esperienza di una cosa che si corrompe.[13] Ebbene, il corpo risorto lo sarà nell’incorruttibilità: da corpo psichico (materiale) a corpo pneumatico (spiritualizzato, glorificato). Ecco il risultato della trasformazione (metaschêmasis: Fil 3,21) che investe la totalità di quel corpo e lo trasforma in una realtà nuova, glorificata, spiritualizzata.
Si osservi la tensione escatologica in cui Paolo inserisce la sua discussione sul modo della risurrezione dei corpi: solo oltre la morte, dunque attraverso il «sacramento» della morte, ogni realtà creaturale raggiungerà il suo vero profilo, nel tempo di Dio, oltre il tempo. Infatti – e continua la serie delle antitesi analogiche – ciò che in qualità terrestre porta in sé il seme dell’ignominia, risorgerà corpo pneumatico avente in sé il seme della gloria, altro termine escatologico (v. 43); il corpo terrestre, che ha in sé il seme della debolezza, nella risurrezione, trasformato, porta in sé il seme della forza (v. 43). E ciò che porta in sé il germe dell’animalità, nella risurrezione sarà trasformato e porterà in sé il seme della spiritualità perché è certo che in ogni corpo animale è irreprimibile la tensione al suo vero profilo di corpo spirituale. Ignominia, corruzione, debolezza, animalità e materialità in genere, sono state superate nella morte, risolvendosi, al di là di essa, nelle qualità loro contrarie: la personalità psichico-somatica si trasforma in quella pneumatica, spiritualizzata.
Se, dunque, Dio può creare tanti corpi-persone materiali (vv. 38-41), come mai non potrebbe dar vita anche a corpi-persone risorte e spiritualizzate? (vv. 42-44). Tanto più che ne ha già dato la prova storica: Gesù Cristo risorto e trasfigurato, glorioso. La prova non è apologetica, bensì analogica.

4. Il primo Adamo e l’ultimo Adamo (vv. 45-49.53)
L’esposizione incalza, epidittica e parenetica a un tempo. Se il primo Adamo divenne persona vivente (Gn 2,7), l’ultimo Adamo è persona vivificante (v. 45b): egli porta in sé i semi dell’incorruzione (v. 42), della gloria, della forza (v. 43), dell’immaterialità (v. 44) e, come tale, «è divenuto spirito vivificante» (v. 45), datore di vita, perché ha in sé il germe esplosivo della vita nuova: lo Spirito del Padre, Dio della vita.
Con antitesi ritmiche, Paolo conduce il suo pensiero ai vv. 45-49. Esse sono riducibili a una fondamentale: il primo Adamo e l’ultimo Adamo, ad ambedue i quali ogni uomo è legato; essi sono personalità corporative, rispettivamente sul piano terrestre e celeste. Ma è sul secondo Adamo che l’Apostolo punta il suo focus: ogni uomo gli è legato ed è destinato a livelli più alti. Egli infatti è spirito vivificante, capace di operare la trasformazione di ciò che è terrestre in una realtà nuova, che è quella sua propria: glorificata, trasformata, spiritualizzata. Uno spirito vivificante è, infatti, di qualità nuova e superiore a un essere vivente. Quest’ultimo è infatti vivo per aver ricevuto la vita (Gn 2,7b); il primo invece porta in sé il germe della vita.Il primo Adamo è «essere vivente» e quanti gli appartengono, a lui incorporati, lo saranno come lui; il secondo Adamo è «spirito vivificante» e quanti gli appartengono, a lui incorporati, saranno vivificati in tutta la loro umanità, risorgendo dai morti per la potenza dello Spirito di Dio (cf. Rm 1,11). Come il primo Adamo ha vissuto una vita terrena, attivando in essa il suo seme, il secondo Adamo vive una vita celeste, partecipandola ai suoi, una vita animata dallo Spirito, opera dello Spirito: «Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito» (2Cor 3,18b); quel nuovo Adamo è persona in situazione nuova: pneumatica, spiritualizzata, secondo il profilo del Risorto-trasfigurato: non più corpo materiale, ma corporeità spiritualizzata. Paolo non è interessato a fornire una risposta diretta alla domanda dei corinzi (v. 34), piuttosto è impegnato a creare una mentalità di risurrezione per trasformazione-glorifificazione-spiritualizzazione: da realtà (eikôna) terrestri a realtà celesti (v. 49). Allo scopo, ci si rivesta di lui (v. 53).

5. Spirito vivificante (vv. 45-49)
Ma chi è costui? Di certo lo Spirito di Dio che ha reso vivente Gesù Cristo morto, immettendolo nella sua nuova definitiva situazione: nuovo Adamo, risorto e glorificato. Così è dei suoi: ogni creatura dovrà aver parte, con il Risorto, della sua vera nuova situazione. Ma ancor prima, nella fase terrena, ogni «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26) viva uno stile di vita ispirato al Risorto, da creatura nuova; ancora nel tempo, essa è già oltre il tempo (eschaton), testimone di una vita che dona lo Spirito. Siamo al cuore della pneumatologia paolina.[14]
Quando Paolo pensa alla trasformazione, gli interessa la totalità biologica e spirituale della creatura. La risurrezione della creatura umana avviene così per trasformazione di tutta la sua realtà, del suo «io». Tutto l’uomo cioè (antropologia monista) viene trasformato (v. 51b: «Saremo trasformati, allaghêsómetha»). E tale trasformazione della totalità creaturale è imprescindibile, se si vuole essere ammessi al possesso integrale del regno di Dio (v. 50). Un corpo solo «psichico», cioè corpo e sangue, non potrà mai entrare nel regno di Dio, essendo corruttibilità. E il corruttibile non potrà mai abitare nel mondo dell’incorruttibilità.
In quel mondo incorruttibile è già entrato lui, la vivente primizia di coloro che si sono addormentati (Fil 2,6). Come può essere dunque ancora possibile che i corinzi pongano quella domanda? (v. 35). «Stolto! Ciò che tu semini, non prende vita se prima non muore» (v. 36).
Nell’uomo pneumatico, spiritualizzato nella sua totalità, la nudità del granello ha ora il suo pieno rivestimento: l’uomo nuovo, anch’egli nuovo Adamo, è ora rivestito della sua personalità celeste (2Cor 5,2b). Guai però a essere trovati ignudi (v. 3), sarebbe ascrivibile solo alla propria negligenza.
Tutti, in verità, viventi e non al momento della parusia, saremo trasformati (vv. 51-52), risorgendo nell’incorruzione. Da rivestiti di corruzione, i rivivificati rivestiranno l’incorruttibilità; da mortali, l’immortalità. Più di questo, Paolo non riesce a dire. Ma ha già detto davvero tanto, e ha dato solido fondamento a un ben motivato ottimismo antropologico.[15] Aiutati dalla loro cultura ellenistica, i corinzi continuino a sondare tanto nuovo annuncio; nella fede storica del Gesù di Nazareth, morto e risorto e trasfigurato, meditino la loro morte e risurrezione per trasfigurazione-trasformazione: creature nuove, dalla personalità spiritualizzata. In questa speranza, ognuno gestisca il proprio cammino nella fede, «saldo e irremovibile» (v. 58), consapevole di muoversi su un fondamento solido: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (v. 55). In lui (v. 57), la morte è stata ingoiata dalla vita (cf. v. 54b). Ebbene, come per lui, anche per noi.
———————————–

[1] Esamino la questione nella religiosità giudaico-ellenistica, dal II sec. a.C. al II sec. d.C., nel mio volume Risorgeremo, ma come?, EDB, Bologna 1988. Che Paolo in 1Cor 15 risenta della testimonianza religiosa documentata in questa fascia letteraria, lo prova H.C.C. Cavallin, Life after Death. Paul’s Argument for the Resurrection of the Dead in 1Cor 15. Part I: Enquiry into the Jewish Background, Brill, Leiden 1974. Gli ho riservato l’attenzione dovuta nella mia monografia appena menzionata.
[2] Che se «corpo-carne» da un lato e «vita-anima» dall’altro (v. 35) dovessero rispondere alla concezione dualistica, ebbene di essa Paolo non fa più parola in tutto il c. 15. Preziosa indicazione ermeneutica.
[3] Di recente se ne occupa K.J. O’Mahony, «The Rhetoric of Resurrection (1Cor 15): an Illustration of a Rhetorical Method», in Milltown Studies 43 (1999) 112-144.
[4] Non si tratta di una progressione da vita a vita, quasi un evoluzionismo, ma di una discontinuità in radice: da morte a vita. Cf. G. Barbaglio, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1996, p. 840.
[5] Segnalo J. Kremer, «La risurrezione di Gesù, causa e modello della nostra risurrezione», in Concilium 6 (1970) 102-116. Di recente lo stesso J. Kremer riprende l’argomento in Geist und Leben 71/6 (1998) 406-410.
[6] Si legga W. Marxen, La risurrezione di Gesù di Nazareth, EDB, Bologna 1970, p. 141. Ma quella pura possibilità è una restrizione indebita del pensiero dell’Apostolo la cui argomentazione per induzione dal noto all’ignoto prova sufficientemente che ci si trova ben al di là della pura possibilità. Così G. Barbaglio, La Prima Lettera ai Corinzi, cit., pp. 838-856 nella sua dettagliata analisi di 1Cor 15,35-58. Già S. Cipriani, «La risurrezione di Cristo e la nostra nella prospettiva di 1Cor 15», in Asprenas 2 (1976) 112-135.
[7]Paranomia e allitterazione documentano bene l’andamento retorico dell’argomentazione.
[8] Con «trasformazione spiritualizzata» intendo dare atto a tutto il periodo ellenistico intertestamentario da me esaminato nella monografia citata in nota 1: Risorgeremo, ma come? Le si oppone una risurrezione materializzata, tendente a ridare al corpo risorto i connotati che già gli furono propri. Questa linea perde in attendibilità critica ed è del tutto scalzata dal Nuovo Testamento che indica nel Gesù trasfigurato sull’alto monte (Tabor) il suo vero profilo di risorto. Cf. Mc 9,2-9 parr.
[9] Dal corpo psichico-materiale, a quello pneumatico-spiritualizzato. Corporeità esprime bene la nuova situazione del risorto. Così già R. Fabris, Le Lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, vol. I, pp. 533-541.
[10] Espone ampiamente la questione S. Reyero, «”estin kai (sôma) pneumatikon” (1Cor 15,44b)», in StMad 15 (1975) 151-187.
[11] Si veda E. Pfammatter, «Risurrezione del Cristo, risurrezione dei cristiani e compimento della storia della salvezza nella concezione paolina», in E. Rückstühl – J. Pfammatter (edd.), La risurrezione di Gesù Cristo, AVE, Roma 1971, pp. 135-149, qui p. 143.
[12] Così già Giovanni Crisostomo, Tommaso d’Aquino. Per l’interesse dei Padri alla questione, segnalo la monografia di F. Altermath, Du corps psychique au corps spirituel. Interprétation de 1Cor 15,35-49 par les auteurs chrétiens des quatre premiers siècles (jusqu’au Concile de Calcedonie), Mohr-Siebeck, Tübingen 1977.
[13] Ne ha ben descritta la dinamica G.M. Hensell, Antithesis and Transformation. A Study of 1Cor 15,50-54, S. Louis University 1975.
[14] Originale inversione della formula «Spirito vivificante» (v. 45). Se ne occupa R.B. Gaffin, «Life giving Spirit: Probing the Center of Paul’s Pneumatology (1Cor 15,45)», in Journal of the Evangelical Theological Society 41/4 (1998) 573-589.
[15] Ma a riguardo, si legga R. Penna, «Cristologia adamica e ottimismo antropologico in 1Cor 15,45-49», in AA.VV., L’uomo nella bibbia e nelle culture ad essa contemporanee. Atti del Simposio per il XXV Simposio ABI, Paideia, Brescia 1975, pp. 181-208.

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