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PAOLO E LE TRE G (Gender, Genealogy, Geography)
… (genere, genealogia e provenienza geografica): sono questi, secondo Bruce Malina e John Neyrey, i primi elementi identitari cui un individuo del I secolo poteva fare appello, per presentare e definire se stesso, fornendo le proprie “credenziali” di base.
Anche Paolo, nelle sue lettere, sembra richiamarsi a criteri di questo tipo. Scrivendo a Romani e Filippesi, ad esempio, egli parla di sé come di un «israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino» (Rm 11,1), «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di ebrei» (Fil 3,5).
Viene in mente la Tefillat Shachrit, la preghiera che ogni pio ebreo recitava al mattino, probabilmente già all’epoca di Paolo: «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro re dell’universo che non mi hai fatto gentile (goy). Benedetto sei tu, Signore Dio nostro re dell’universo che non mi hai fatto schiavo. Benedetto sei tu, Signore nostro re dell’universo che non mi hai fatto donna» (Tosefta Ber. 7,18).
Eppure, nella percezione dell’apostolo, c’è qualcosa che sospende, che mette tra parentesi, che giunge persino a scardinare tutti questi criteri, i quali vanno a comporre la «figura (in greco: schema) di questo mondo» (1Cor 7,29): è qualcosa che resiste ad essi, qualcosa con cui occorre fare i conti. È qualcosa, o per meglio dire qualcuno: «In Cristo – scrive infatti l’apostolo ai Galati – non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più maschio né femmina» (Gal 3,28: perfetto rovesciamento della preghiera rabbinica evocata poc’anzi).
Questo principio, che Paolo mantiene al fondo di tutta la propria esperienza missionaria, non obbedisce soltanto a una strategia di tipo retorico, ma implica una profonda ristrutturazione dell’identità. Lo si evince dal suo peculiare atteggiamento nei confronti di ciò che può essere definito come il “dramma delle differenze”:
«Infatti siamo stati tutti immersi in un solo Spirito, per formare un unico corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi, e tutti ci siamo abbeverati al medesimo Spirito» (1Cor 12,13);
«Infatti né la circoncisione né l’incirconcisione sono alcunché, ma la nuova creazione» (Gal 6,15);
«Non c’è distinzione di Giudei e di Greci: poiché lo stesso (Cristo) è il Signore di tutti» (Rm 10,12).
L’apostolo, in tutti questi casi, carica talmente di senso le opposizioni polari del proprio sistema culturale, da renderle “archetipali”. Il “giudeo” e il “greco”, in particolar modo, finiscono per rappresentare due disposizioni intellettuali, due “regimi del discorso”, come suggerisce di chiamarle, con piglio foucaultiano, il filosofo Alain Badiou: è di fronte a ciò che sfugge o resiste alla categorizzazione, alla “residualità” di questi due soggetti, quello “giudaico” che reclama segni e prodigi, e quello “greco” che ricerca la sapienza (1Cor 1,22), che si colloca il discorso della Croce.
Paolo, intuendo che l’intera esistenza umana è segnata dal dramma delle differenze, non tenta comunque di eliminarle: anzi, a ciascuno è consigliato di rimanere nello stato in cui si trova al momento della “chiamata” (1 Cor 7,20). Così, nel dire che non c’è più “giudeo” né “greco”, né “schiavo” né “libero”, né “maschio” né “femmina”, egli non abolisce i singoli termini dell’opposizione, ma propone un modello sociologico alternativo, che sospende ogni differenziazione subordinandola a un’idea di comunanza umana fondata su ciò che resta irriducibile in ciascun soggetto.
Il vangelo, quindi, non è proprietà esclusiva di alcuno, non è indirizzato esclusivamente a uomini o donne, a schiavi o liberi, a Giudei o Greci: perché tutto precede, tutto trascende, tutto trasforma. È destinato a calarsi nelle realtà di questo mondo, prendendole su di sé, per accompagnarle al loro compimento, orientandole verso ciò che le supera e che solo merita il nome di assoluto.
Tutto si fa segno, per così dire, di questo assoluto. Il rapporto fra uomo e donna non viene annullato, ma sussunto fino a diventare esso stesso incarnazione visibile del mistero più alto, quello dell’amore fra Dio e gli uomini, fra Cristo e la Chiesa. Il libero comprenderà che farsi servo non è umiliazione, ma riscatto d’altri e di sé, mentre lo schiavo capirà che c’è una libertà più profonda e radicale di quella vissuta dal “libero”. Giudei e Greci, infine, smetteranno di rincorrere ognuno la propria superiorità, in un fatale faccia a faccia, e si apriranno alla grazia e alla liberazione che Dio offre a ciascuno, a Paolo, alla Maddalena, al centurione e al cieco della piscina di Siloe: a te, singolarmente.