IL SERVO SOFFERENTE (DEUTERO-ISAIA) – di Bruna Costacurta
IL SERVO SOFFERENTE (DEUTERO-ISAIA)
di Bruna Costacurta
Intendo fare delle riflessioni sulla figura del servo sofferente del Signore, quella misteriosa figura di servo di Dio, di cui parla il Deutero-Isaia e che viene presentato come colui che il Signore invia perché porti a compimento la sua missione di salvezza attraverso una vicenda di passione e di morte che apre alla luce e alla vita.
Dunque, il mistero pasquale è lì concentrato e il servo è icona di quel Signore Gesù che entra nella passione per entrare e portare tutti nella vita. Questa figura misteriosa di servo si trova delineata nella parte di Isaia chiamata Deutero-Isaia e sono stati identificati alcuni testi che possono rappresentare, di fatto, un punto di riferimento, i famosi quattro canti del servo: Isaia 42; 49; 50; 52 e 53.
Non prendo un testo in particolare, ma piuttosto vorrei con voi attraversare questi quattro canti, e quindi attraversare la storia di questo servo, vederne un poco i contorni, così da avere alcuni elementi di riflessione, che voi poi potete utilizzare per meditare sulla vicenda del Signore Gesù, la vicenda di Pasqua.
All’inizio dei canti, nel primo canto (42), viene presentato questo servo in cui il Signore Dio si compiace e riceve lo Spirito in vista della sua missione. Si delinea una missione di salvezza, di vita, di gioia. “Ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo”, dice Dio parlando al servo, “ti ho stabilito luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi, faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”. Dunque, una missione di salvezza, di gioia, di vita, di liberazione; una missione tutta positiva, che però si presenta come una missione difficile e inevitabilmente segnata dalla sofferenza e dalla morte. La missione che il servo riceve ci riguarda tutti come destinatari della missione; infatti siamo noi quei ciechi che devono tornare a vedere, quei prigionieri che sono da liberare, ma ci riguarda anche come parte attiva della missione, perché voi come sacerdoti nel modo più esplicito siete al servizio di questa missione. Direttamente ed esplicitamente e in modo assolutamente privilegiato voi siete al servizio della salvezza di Dio e dunque in modo assolutamente privilegiato siete questi servi che il Signore manda per compiere la sua missione. Una missione di vita che deve necessariamente passare attraverso la morte. Il servo è mandato fondamentalmente a combattere e a vincere il male, (“liberare i prigionieri, vincere la cecità”, metafore tipiche del peccato), utilizzando delle armi che non sono quelle del male e mettendosi su un piano che non è quello del male. “Non griderà e non alzerà il tono”, si dice del servo, “non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”. Il servo è mandato a risanare, a lottare, a vincere, ma senza violenza, senza gridare, senza spaccare tutto per ricominciare tutto da capo, ma invece, entrando dentro una realtà malata, andando a ricercare quel minimo di bene che è ancora rimasto per rispondere al male con il bene e vincere il male con i criteri del bene. Il male urla nelle piazze, il male è violento, il servo deve combatterlo senza urlare, senza violenza. Armi impari, perché tutta la forza aggressiva e violenta del male adesso deve essere affrontata da qualcuno che invece decisamente e positivamente rinuncia alla violenza e all’aggressività, e si presenta davanti al male disarmato. Disarmato delle armi del male e armato invece delle armi del bene, dell’amore, che sono le uniche armi che possono veramente costruire la salvezza, ma che però sembrano armi inadatte, apparentemente inefficaci. La potenza dell’amore del servo apparentemente è impotente davanti alla potenza violenta del male, e invece così comincia la rivelazione del servo che dice: la lotta è su un altro piano e l’unico modo per vincere è almeno apparentemente di perdere, cioè di affrontare il male con armi diverse, perché solo così si può davvero vincere, senza spegnere la fiamma che è lì mezza moribonda, senza spezzare la canna che ormai è incrinata. Ora però, se si affronta il male senza usare le stesse armi del male, è inevitabile che il male ad un certo livello sembri prendere il sopravvento. Se si vuole rispondere al male con il bene il male bisogna subirlo per poterlo trasformare in bene. Perché il modo per non subire il male sarebbe di farlo, sarebbe di rispondere al male con il male, allora apparentemente non lo si subisce; ma se si vuole rispondere al male con il bene, si diventa vittime del male e proprio perché vittime e dunque riassorbendolo nella propria capacità di amore, quel male può diventare bene. Dunque, il servo e voi siete destinati a combattere con armi diverse da quelle del male; siete destinati ad essere dei ricercatori del bene che si trovano in mezzo a canne incrinate e a fiamme smorte e non si rassegnano che sia finita e vanno in cerca di quello che è ancora rimasto di bene, a cui attaccarsi per poter da lì ripartire. La canna incrinata non la si spezza, dicendo: basta, ormai non serve più! Si va a cercare ancora quel pezzettino in cui è ancora attaccata la canna per trovare il modo di risanarla; si va a cercare ancora quella fiammella che ormai non si vede neanche più e si parte da lì, si soffia sopra pian piano perché la fiamma riprenda. Questa è la missione del servo che così facendo deve entrare nel male; apparentemente entra in questa dimensione di debolezza davanti al male, ma in realtà con la forza dell’amore riesce a sopportare il male senza lasciarsene contagiare.
Il testo di Isaia 42 dice che “spezzerà la canna incrinata e non spegnerà lo stoppino dalla fiamma smorta”, e subito dopo dice: “e non sarà smorto e non si incrinerà”. La traduzione della CEI dice: “non verrà meno e non si abbatterà”, ma in realtà quei due verbi sono gli stessi verbi che si utilizzano per la fiamma e per la canna; allora si dice: “non spezza la canna incrinata e lui non si incrinerà, non spegnerà la fiamma smorta e lui non diventerà smorto”. Eccolo il segreto: sopportare il male senza diventare male, senza farsene contagiare, per poterlo invece guarire; dico “sopportare”, che è l’atteggiamento di chi va in cerca del bene e di chi davanti al male ha la pazienza necessaria per vincerlo ed ha anche la dolcezza, la tolleranza che serve per vincerlo e che non è un lasciarsi contagiare, un lasciar correre, ma è mettere in opera quella forza grande che è quella della comprensione e dell’amore, quella pazienza che è la longanimità di Dio e che permette di vincere. L’inflessibilità di solito è dei deboli; la longanimità e la lungimiranza è dei forti e questo è il servo!
Però questa missione per forza fa male; combatte il male, ma entra nella sofferenza. Man mano che si va avanti nella vicenda del servo così come si ritrova nei canti di Isaia si vede sempre di più all’opera il male, la sofferenza che il servo deve patire. Nel secondo canto il servo entra in una dimensione di sofferenza che per adesso è solo interiore e che è la percezione dell’apparente inutilità della sua missione. Il Signore mi ha detto: il mio servo tu sei Israele sul quale io manifesterò la mia gloria, ma io ho risposto: invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze! Questa è la percezione che il servo ha del suo lavoro. Credo che nessuno di voi faccia fatica a riconoscersi in queste parole del servo e di Isaia 49. Invano, a vuoto, vanamente; l’idea di qualche cosa di inconsistente, di girare a vuoto, di girare intorno in modo insensato, di non arrivare da nessuna parte, come se si lavorasse tanto e poi questo non serve a niente, non ha senso e poi il male comunque sembra sempre tanto più grande; ma poi a che serve quello che facciamo? E ci si ritrova soli ; è la crisi del servo, la crisi di ogni servo della salvezza e quindi in particolare di voi sacerdoti. Ed è una crisi inevitabile, necessaria, perché se il servizio di questo servo e vostro è il servizio della salvezza di Dio è assolutamente costitutiva l’assoluta vostra inadeguatezza a compiere questo servizio e questa missione. Se voi foste perfettamente adeguati così da dire: perfetto! Questo è proprio quello che io so e posso fare! Tutto torna, va benissimo! Poi alla fine posso far quadrare i conti tra gli sforzi che ho fatto e i risultati, perché io ci so fare… se questo fosse, allora o voi siete dio e non mi pare o la missione che voi state portando avanti non è quella di Dio, ma è la vostra e di quella missione lì – vi garantisco – non sappiamo proprio che farcene, perché l’unica missione che salva è quella di Dio! E se la missione di Dio diventa vostra, non salva più nessuno!
D’altra parte se è la missione di Dio, è inevitabile, siete inadeguati! C’è questa sproporzione assoluta tra voi strumenti e ciò che il Signore con voi vuole compiere. Ed è questo che necessariamente deve portare a questa percezione che è tutto vano, non vano nel senso che non serve, ma vano nel senso che noi non abbiamo la possibilità di verificare quello che stiamo facendo, di verificare se ci sono dei risultati, perché noi ci stiamo muovendo a dei livelli che non sono i nostri e che non sono i livelli della possibile verifica e che siete servi di una salvezza che si gioca nel segreto dei cuori, che quindi non si può contare.
Sì, la si può vedere qua e là da alcuni segni, ma sono sempre segni ambigui. La mia chiesa è sempre piena la domenica! E questo è bello; ma è sempre piena perché vengono a cercare il Signore, perché gli state simpatici voi, ci sono le chitarre e allora è carino! Perché è un quartiere per bene dove è meglio farsi vedere a messa la domenica, perché se no che cosa pensano… non vengono più al mio negozio! E poi perché ho semplicemente bisogno di sentirmi a posto… I segni sono importanti, ma sono ambigui, allora uno è sempre lì che non può mai verificare; anche perché ciò che è verificabile non è quello che è importante nel Regno di Dio. In realtà cosa succede nel Regno di Dio? Il vero momento in cui la missione del servo ha successo, è stata realizzata è il momento in cui il Signore Gesù appeso ad una croce sembra maledetto da Dio, abbandonato, lasciato solo dai suoi senza apparentemente nessun futuro.
Che contava ancora Gesù sulla croce? Non c’era più nessuno; altro che chiese piene! E quelli che c’erano erano lì per dire: lo vedete? Dio lo ha abbandonato! E là la missione è finalmente compiuta! Lo spossesso della missione, l’obbedienza ai criteri di Dio, che sono diversi di quelli del mondo, mettono in questa fatica di credere nel senso della missione che ci è stata affidata e questa è la crisi morale, è la sofferenza spirituale del servo che poi si apre ad una sofferenza anche fisica.
Nel terzo e nel quarto canto c’è la vicenda di rifiuto del servo da parte degli uomini, della sua sofferenza e della sua morte. Gli uomini che rifiutano con l’umiliazione. “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strapparono la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti, agli sputi”: non è solo la violenza fisica, ma la violenza fisica che passa attraverso una violenza umiliante (la barba strappata, gli sputi, gli insulti); la violenza umiliante è violenta due volte, ti distrugge il fisico e la tua dignità di persona e così riesce a ucciderti due volte. Ed è la reazione tipica all’annuncio di salvezza: infatti se il compito del servo è di ridare la vista ai ciechi e di far uscire dal carcere i prigionieri, quando la cecità è quella del male e quando quel carcere è quello del peccato, avviene che si è davanti a della gente che è talmente prigioniera del peccato da non sapere neppure più di essere nel carcere, che è talmente accecata dal male da non essere più neanche consapevole di essere cieca. Quello che Gesù, il servo definitivo, fa per tutta la sua vita: è cercare di convincere gli uomini di peccato, perché finché non li convince, loro non si lasceranno mai salvare, finché questi non capiscono che sono ciechi non accetteranno mai che qualcuno gli apra gli occhi. Bisogna essere consapevoli di essere malati per accettare il medico. “Non sono i sani quelli che hanno bisogno del medico, ma i malati” – dice Gesù ! Ma se Gesù viene come medico, bisogna capire finalmente di essere malati per poterlo accettare come colui che ti guarisce. Aver finalmente capito di essere malati, ciechi e prigionieri, questo vuol dire che già ci vediamo, che già siamo sulla via della guarigione e che il carcere ha già aperto le porte. Per cui il servo è mandato a portare la luce a quelli che dicono di vederci e se qualcuno viene a dir loro che sono ciechi, allora si arrabbiano; questo servo, che continua a dirci che siamo ciechi e prigionieri, prima o poi bisogna farlo fuori. Dunque, il male reagisce in modo violento; inevitabilmente, quando il bene si presenta e il servo è talmente dedicato e identificato con la sua missione di salvezza e di bene che, quando il bene viene rifiutato, inevitabilmente anche il servo si ritrova ad essere rifiutato. La figura del servo a cui bisogna far riferimento nella nostra vita è quella di un servo che assume totalmente la sua missione, così da non avere spazi propri di riserva, da non avere spiagge su cui ritirarsi. Come dire: la missione di Dio l’accetto, però mi tengo una parte di me fuori, in salvo, mi tengo le mie vie di uscita. Assumo la missione, però… questo non è possibile, quando la missione è quella di Dio. O si assume tutta o non si assume! E se si assume tutta, quando rifiutano la salvezza che tu porti, non sperare di salvarti, rifiutano anche te! E se vogliono distruggere quel bene, perché lo percepiscono come un pericolo e come un’offesa, se distruggono quel bene non ti illudere, perché distruggono anche te.
Ecco allora il quarto canto del servo: la distruzione del servo, questa lunga vicenda di passione e di morte. Essa comincia con un paradosso che dà la chiave di interpretazione di questo quarto canto. Comincia con la presentazione che il Signore fa del servo (anche nel primo canto aveva detto: ecco il mio servo che io sostengo ), adesso nell’ultimo canto Dio dice la stessa cosa: “Ecco il mio servo che avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato e come molti si stupirono di lui, tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti. I re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato”. Questo dà la chiave: il servo è colui che è sfigurato, talmente sfigurato dal male che gli si è riversato addosso, da non sembrare neppure più un uomo; ebbene, questo servo così sfigurato è il servo onorato, glorificato, innalzato. E’ per questo sono tutti nello stupore, lo stupore di vedere che un uomo possa soffrire così tanto e ancora di più lo stupore di vedere che un uomo così sofferente, questo uomo dentro questa sofferenza sia innalzato ed esaltato, dentro quella sofferenza, non quando la sofferenza è passata. Questi primi versetti del quarto canto ci danno la chiave di interpretazione della vicenda di morte e di resurrezione del servo e quindi di Gesù come una vicenda in cui morte e risurrezione coincidono. Non c’è la passione e poi la morte e poi dopo la risurrezione, ma già dentro la passione, dentro la morte il servo è innalzato e glorificato e già dentro la morte che la morte è vinta e quindi si apre alla risurrezione. Questi primi versetti del quarto canto sono fortemente “giovannei”, perché Gesù è colui che nel momento che viene innalzato, è tirato su sulla croce, è innalzato alla destra del Padre; nel momento in cui viene attaccato al legno è intronizzato sul trono della gloria, nel momento in cui muore è risorto. Però sta tre giorni lì, dentro il sepolcro, perché non è una morte falsa, per modo di dire, una morte che è già risurrezione, ma è una morte vera! E proprio perché vera, è risurrezione. Questi primi versetti ci danno la chiave e poi si snoda pian piano questa vicenda del servo virgulto e radice (“è cresciuto come un virgulto davanti al Signore e come una radice in terra arida”), quest’idea del virgulto e della radice probabilmente evoca Isaia 11, che presenta il Messia come virgulto nel tronco di Iesse, forse un’allusione alla dinastia davidica, però anche un’allusione alla situazione di difficoltà in cui il servo nasce e vive. E’ un virgulto che nasce in una terra desertica, come se fin dalla sua origine il servo dovesse lottare per vivere, un virgulto sulla terra arida non ce la fa e se ce la fa vuol dire che ha un tale amore per la vita da essere più forte anche della morte del deserto. Questo virgulto nel deserto è una specie di miracolo, così come è un miracolo questo servo che dà la vita per il suo popolo. Si snoda la sua vicenda come vicenda di sofferenza e di morte, “uomo dei dolori, esperto nel patire, era talmente sfigurato il suo aspetto da non essere più riconoscibile come uomo”, e infatti non è riconoscibile come uomo, è uomo dei dolori, come se ormai la sofferenza l’avesse coperto radicalmente e lui fosse definitivamente identificato con la sua sofferenza e con la sua morte. Il cammino è proprio quello che contempliamo nella settimana santa, “maltrattato si lasciò umiliare, non aprì la sua bocca”, come Gesù durante il processo che tace per non accusare coloro che lo accusano, in modo che loro non debbano essere condannati, “era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai tosatori e non aprì la sua bocca”; l’immagine dell’agnello è così parlante per noi in riferimento alla passione di Gesù e questa immagine della pecora in mano ai tosatori è qualcosa dell’essere in balìa di chi ti prende e tu non puoi fare apparentemente più niente. L’immagine del servo come della pecora in mano ai tosatori è qualcosa di molto violento! La girano, la voltano, proprio questa è anche la condizione del servo, che è in mano a coloro che fanno di lui quello che vogliono. E questo però come “uno che si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato; è stato trafitto per i nostri delitti e poi noi tutti eravamo sperduti come un gregge e il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”, e poi maltrattato si lasciò umiliare. Il servo che entra nel dolore, ma senza che appaia la verità di ciò che sta avvenendo; ciò che sta avvenendo è che il servo sta assumendo su di sé le conseguenze del male per liberare gli uomini da quel male; ecco il discorso “ha fatto ricadere su di noi l’iniquità di noi tutti… Per le sue piaghe siamo stati guariti… Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui…”; E’ chiaro che non è nel senso che la punizione che doveva toccare a noi invece poi è toccata a lui, ma è che il male che noi abbiamo fatto con tutte le sue conseguenze viene affrontato dal servo che accetta che il male gli ricada addosso, per poterlo così prendere su di sé rispondendo con il bene. Il male ha questa sua forza terribile che è quella di riprodurre altro male. Se devo affrontare qualcuno che mi fa del male, io istintivamente sono portato a reagire, rispondendo con il male a lui: è inevitabile! Mi fanno un torto e io troverò il modo di rifarglielo parlano male di me e io parlerò male di loro; mi offendono e io li offendo e se non riesco a offendere loro andrò a cercare qualcun altro da offendere, perché da qualche parte bisogna che faccia uscire il male che ho accumulato e che mi hanno messo dentro. La forza terribile del male è che mette il male dentro all’altro mentre glielo fa. Ora, nella vicenda del servo, cioè del Signore Gesù, non c’è male dentro di lui, perché lui è il Figlio di Dio, lui è l’innocente, perché lui è uomo in tutto simile a noi, ma non nel peccato. E allora il male non gli mette il male dentro, il male gli si rovescia addosso, lo distrugge, ma non gli mette il male dentro così che lui risponde con il male. E allora è come se il male gli si rovesciasse addosso e non trovasse niente su cui impiantarsi per crescere; gli si rovescia addosso, ma non può riprodursi come altro male, perché trova solo bene e lì inevitabilmente finisce per scaricarsi. E’ il male che perde il suo veleno (“dov’è o morte il tuo pungiglione?), è il male che non può più riprodursi perché lì non trova risposte di male e che, ritrovando solo risposte di bene, si ritrova praticamente annientato. Questa è la: “E invece noi lo giudicavamo castigato da Dio e percosso da Dio e umiliato”.
E’ questa realtà della salvezza, del dono totale di sé del Signore Gesù che accetta di morire per poterci dare la vita; lui in realtà non muore, ma dà la vita per noi e la dà perché la vita sia pure possibile per noi. E’ la vicenda di colui che dona e che dona talmente tanto e in modo talmente gratuito che accetta perfino che non si veda che quello è dono. Gesù muore per amore e “noi lo giudicavamo castigato da Dio e umiliato”. E’ talmente tanto il dono, talmente puro il dono e gratuito che accetta anche che non si sappia; non perché vinca la menzogna, ma perché l’uomo possa accogliere un dono che è talmente dono da non chiedere nulla in cambio se non di essere accettato. Questa vita che Gesù dona non chiede nulla in cambio, chiede solo di essere accettata come vita di Gesù; il dono chiede solo di essere accettato come dono. Il perdono non chiede niente in cambio, chiede solo di essere accettato come perdono: è chiaro che poi questo cambia la vita della persona che l’accetta, ma non perché chi dà il dono e il perdono non glielo dà se non ha in cambio qualche altra cosa; non glielo dà se non c’è almeno la grande riconoscenza (sono pronto a dare la vita, ma che almeno lo sappiano! Così almeno muoio con questa gratificazione); no! Il dono e il perdono di Dio chiede solo di essere accolto, poi se l’accogli ti cambia. Questo è il mistero pasquale e allora è chiaro che la spirale del male in questo modo si interrompe e la morte diventa vita.
Per terminare vorrei ancora fermarmi solo per qualche minuto sull’ultimo versetto del nostro canto, in cui dopo aver mostrato il cammino di morte e perciò di risurrezione, di vita del servo, si conclude il tutto dicendo: “perché ha consegnato se stesso alla morte” (anche il canto del servo insiste su questa dimensione di libertà: è Gesù che si dona) “ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava (levava) il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Quest’ultima dimensione, quella dell’intercessione, mi pare importante anche per la vostra vita sacerdotale. Anzi questa è una dimensione tipicamente sacerdotale.
Il servo come intercessore del popolo, entrando nella linea delle grandi figure di intercessori. Abramo che lotta in qualche modo con Dio per strappargli la salvezza di Sodoma (Gen 18), Abramo che intercede per Sodoma. Come Mosè che intercede per il popolo (Es 32); Mosè era un uomo di preghiera, di intercessione; prega tanto, prega per tutti, persino per il faraone. Al cap. 32 dell’Esodo, dove c’è il racconto del vitello d’oro, lì c’è la grande preghiera di Mosè: il popolo ha peccato e Mosè intercede per i peccatori, proprio come dice la fine del canto del servo (“e intercede per il popolo”). Questo vuol dire che l’intercessore Abramo, Mosè, il Servo, il Signore Gesù, è colui che dà voce alla salvezza di Dio, al desiderio, alla volontà di salvezza di Dio. Ecco perché si dice che il servo mentre moriva e risorgeva stava intercedendo; lì si concretizza l’intercessione come forza salvifica. Perché cosa vuol dire intercedere? Non certamente mettersi davanti a Dio per convincerlo a fare il bene, perché Dio è già abbondantemente convinto di fare il bene, perché è bene e non ha nessun bisogno che noi lo convinciamo a farlo, ma nel senso che noi diventiamo quel suo desiderio di bene, quella sua volontà di bene, noi la trasformiamo in carne, noi diventiamo quel suo desiderio di bene. Colui che intercede è colui che fa diventare parole la decisione di Dio di salvare.
Quella volontà di salvare nella preghiera diventa parole e in colui che prega diventa carne e sangue. Allora, in realtà chi è l’intercessore? E’ colui che desidera il desiderio di Dio, è colui che vuole la volontà di Dio e la dice. Diventa questo coagulo nella carne e nel sangue, del desiderio di salvezza di Dio, così che adesso ciò che Dio vuole di bene per gli uomini si è incarnato ed è entrato dentro la storia e sta lì racchiuso in quella carne e in quel sangue dentro quella storia da salvare.
Per questo è molto importante che colui che intercede stia dentro il popolo. Mosè stava dentro il popolo; Abramo no; non stava dentro Sodoma e infatti la sua preghiera è: “Signore, vai a cercare i giusti che stanno dentro Sodoma!”; non può Abramo dire: “Sodoma ha peccato, ma siccome io sono tuo amico, sono giusto, tu guarda me e salva Sodoma!”.
Abramo deve dire: “Signore, guarda Sodoma e cerca lì dentro i giusti”, perché la salvezza non si può fare all’insaputa di coloro che devono essere salvati; la salvezza deve partire da quella dimensione di bene che sta lì per poter rispondere al male con il bene e salvare. La salvezza non è: io dovevo punire Sodoma, però per riguardo ad Abramo, io non ti punisco più! No, Sodoma deve essere salvata, cioè da cattiva che era deve diventare buona; da peccatrice che era deve diventare innocente. Allora bisogna partire da Sodoma; allora ecco perché il servo è dentro il popolo, ecco perché Dio si fa uomo, per essere dentro il popolo, dentro l’umanità sta il luogo di salvezza, di assoluto bene e di totale innocenza, che può allora rispondere al male con il bene e può allora trasformare il peccatore in innocente.
Bisogna andare in cerca dei giusti, cercarli a Sodoma e non ci sono, cercarli a Gerusalemme (Ger5: cercate un giusto dentro Gerusalemme che salva la città e non c’è), cercare il giusto dentro l’umanità e non c’è, allora il Giusto viene, si fa uomo e adesso il Giusto c’è dentro l’umanità: è il Signore Gesù! Lui nella sua innocenza diventa questo coagulo di carne e sangue che fa diventare carne il desiderio, la volontà, la decisione di salvezza di Dio.
Allora Gesù è l’innocente che muore per rendere innocenti i colpevoli; è il Giusto che risponde al male con il bene, perché la via del bene sia possibile per tutti; Gesù è colui che muore, non morendo, ma dando la vita così che sia possibile la vita per tutti e la morte dunque muoia; è l’intercessore che rende definitivamente possibile la salvezza per questa sua intercessione che incarna la decisione di salvezza di Dio. Adesso chiede a voi in modo particolare di essere questi intercessori che desiderano il desiderio di Dio, che con la loro voce rendono parola la volontà di salvezza di Dio e che, assumendo allora il cammino del servo, possono portare dentro il male il bene e così portare a compimento ilo cammino di passione, di morte e di risurrezione del Signore Gesù e portare a compimento per coloro che vi sono affidati il mistero pasquale.
(La meditazione del Ritiro di Quaresima è stata tenuta dalla prof. Bruna Costacurta ai sacerdoti del triennio il 10 aprile 2000 alla casa “Bonus Pastor”. Il testo non è stato rivisto dalla relatrice).