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SAN GIOVANNI DELLA CROCE: SALITA DEL MONTE CARMELO (selezione)

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SAN GIOVANNI DELLA CROCE (1542-1591) Dottore della Chiesa,

(citazioni da San Paolo)

SALITA DEL MONTE CARMELO, alcune selezioni del secondo libro

Al buio uscii e sicura, per la segreta scala, travestita, - oh felice ventura! -al buio e ben celata, stando già la mia casa addormentata.

1- In questa seconda strofa l’anima canta la sorte felice che ha avuto di liberare lo spirito da ogni imperfezione e da ogni desiderio di possedere beni spirituali. Ella stima questa sorte migliore della precedente, perché maggiore è stata la difficoltà per addormentare la casa della parte spirituale ed entrare in questa oscurità interiore, che consiste nello spogliarsi spiritualmente di tutti i beni, sensibili e spirituali, appoggiandosi unicamente sulla pura fede e salendo per essa a Dio. Questa virtù viene chiamata scala segreta perché tutti i gradi e gli articoli che essa comprende sono segreti e nascosti al senso e all’intelletto. L’anima dunque, resta all’oscuro completamente, abbandonando ogni lume della natura e della ragione perché vuole salire per questa divina scala della fede che ascende e penetra fino alla profondità di Dio. Perciò dice che camminava travestita perché, salendo per mezzo della fede, ella ha cambiato in divino l’abito e il portamento umano. A causa di questo travestimento ella non fu riconosciuta e trattenuta né dai beni temporali, né da quelli razionali, né dal demonio perché nessuno di questi ostacoli può arrecar danno a colui che cammina in fede.
Ma c’è qualcosa di più, poiché l’anima procede tanto coperta, nascosta ed esente dagli inganni del demonio da camminare veramente, secondo quanto ella dice in questo luogo, al buio e di nascosto, perché per il maligno la luce della fede è più che tenebre. Possiamo dunque conchiudere che l’anima, la quale procede per questa via, procede al buio e di nascosto al demonio, come si vedrà più chiaramente in seguito.
2 – Essa afferma di essere uscita al buio e sicura; colui infatti che ha la bella sorte di poter camminare in mezzo all’oscurità della fede, prendendola per guida come un cieco, liberandosi da tutti i fantasmi naturali e da tutti i ragionamenti spirituali, procede con molta sicurezza. L’anima aggiunge di essere uscita per questa notte dello spirito allorché la sua casa, eioè la parte spirituale e razionale, era già addormentata poiché, quando giunge all’unione con Dio, ella ha già posto in riposo le sue potenze naturali e gli impèti e le ansie del senso nella parte spirituale. Perciò qui ella non dice che uscì con ansia, come nella prima notte del senso; infatti per entrare in questa e spogliarsi una buona volta di ciò che appartiene al senso, le erano necessarie ansie di amore sensibile; mentre per addormentare la casa dello spirito si richiede solo la mortificazione in pura fede di tutte le potenze, di tutti i gusti e di tutti gli appetiti spirituali. Compiuto questo lavoro, l’anima si congiunge con l’Amato in unione di semplicità, di purezza, di amore e di somiglianza.
3 – Bisogna notare che nella prima strofa, parlando della parte sensitiva, si dice che l’anima uscì nella notte oscura; qui invece, dove si tratta della parte spirituale, si afferma che ella uscì nel buio. Invero le tenebre dello spirito sono maggiori di quelle del senso, come il buio è più tenebroso della notte, perché di notte, per quanto fonda essa sia, si può sempre vedere qualche cosa, mentre se è buio non si scorge niente. Nella notte del senso resta un po’ di luce perché rimangono, senza essere accecati, l’intelletto e la ragione, mentre la notte dello spirito, cioè la fede, priva di tutto, sia nell’intelletto che nel senso. Per questa ragione l’anima in questa notte, cosa che non faceva nell’altra, afferma di camminare al buio e sicura poiché quanto meno opera usando delle sue facoltà naturali tanto più cammina sicura, perché procede in fede. Di ciò parlerò per esteso in questo secondo libro; ma bisogna che il devoto lettore mi segua con attenzione perché dirò cose molto importanti per chi possiede il vero spirito. E, sebbene alcune di esse siano un po’ oscure, tuttavia sono certo che la conoscenza di una aprirà la via alla comprensione delle altre e in tal maniera egli capirà tutto.
CAPLTOLO 11
Si parla dell’impedimento e del danno che vi possono essere nelle percezioni dell’intelletto per mezzo di ciò che soprannaturalmente si rappresenta ai sensi esterni e si tratta del modo in cui l’anima deve comportarsi.
I – Al primo gruppo di notizie, di cui ho trattato nel capitolo precedente, appartengono quelle che l’intelletto riceve per via naturale. Poiché ne ho parlato nel primo libro, dove indirizzavo l’anima nella notte del senso, ora non ne farò parola, avendo là esposta una dottrina conveniente intorno ad esse. Perciò in questo capitolo mi occuperò soltanto delle apprensioni soprannaturali che l’intelletto riceve attraverso i sensi esterni, vista udito odorato gusto e tatto, intorno ai quali possono e sogliono nascere nelle persone spirituali immagini e oggetti soprannaturali. Circa la vista sogliono presentarsi loro figure e personaggi dell’altra vita, sembianti di santi e di angeli, buoni e cattivi, luci e splendori straordinari. Con l’udito possono percepire parole strane, ora pronunziate dalle figure loro apparse, ora senza vedere chi le proferisce. Con l’odorato avvertono talvolta odori soavissimi, senza sapere di dove provengano. Accade che anche con il gusto possono percepire qualche sapore molto piacevole e con il tatto un diletto che talvolta è cosi grande da sembrare che tutte le midolla e le ossa esultino e fioriscano e nuotino nel piacere. Tale è la così detta unzione dello spirito che da questo si diffonde nelle membra delle anime pure. Nelle persone spirituali è molto comune questo gusto sensibile il quale deriva in loro dall’affetto e dalla devozione sensibile dello spirito, in maggiore o minore abbondanza, a seconda della capacità di ciascuna di esse.
2 – Si deve dunque ricordare che, sebbene tutti questi fenomeni possano accadere nei sensi per opera divina, l’anima non deve mai ritenersi sicura ed ammetterli; deve anzi assolutamente rifuggire da essi senza volere esaminarli se siano buoni o cattivi, poiché quanto più sono esteriori e corporei, tanto maggiore è il dubbio che essi provengano da Dio. Questo infatti ordinariamente e con maggior convenienza preferisce manifestarsi allo spirito, in cui v’è più sicurezza e più profitto per l’anima, che al senso, nel quale v’è in generale grande pericolo d’inganno, in quanto che il senso corporeo si fa giudice ed estimatore delle cose spirituali, pensando che esse siano così come egli le percepisce, mentre sono tanto diverse come lo sono il corpo dall’anima e la sensibibità dalla ragione. L’ignoranza del senso nei confronti delle cose della spirito è uguale e anche superiore a quella di un giumenta circa le cose razionali.
3 – Colui dunque che fa stima di queste cose erra molto e si espone al grande pericolo di essere ingannato o per lo meno, troverà in sé un grave impedimento a passare nella via dello spirito, perché tutte queste notizie corporee, come ho detto, non hanno alcuna proporzione con quelle spirituali. Perciò si deve sempre ritenere come cosa più probabile che tali notizie più che da Dio provengano dal demonio, il quale ha maggiore possibilità di agire e di tessere inganni in ciò che è esterno e corporeo che in quello che è interno e spirituale.
4 – Questi oggetti e queste forme corporee quanto più sono in sé esteriori, tanto meno giovano all’interiore e allo spirito, a causa della grande differenza e della sproporzione che vi è fra lo spirituale e il corporeo. Infatti, quantunque da queste immagini sensibili venga camunicata qualche cosa di spirituale, come sempre avviene quando esse provengono da Dio, tuttavia ciò è molto inferiore a quella che sarebbe se le stesse cose fossero più spirituali e interiori. In tal modo sono causa di errore, presunzione e vanità nell’anima poiché, essendo tanto palpabili e materiali, muovono molto il senso e così, proprio perché più sensibili, sembrano a quella qualcosa di grande. Perciò l’anima va dietro a loro, abbandonando la fede e credendo che quella luce sia la guida e il mezzo per raggiungere la mèta, cioè l’unione con Dio; invece quanto più ella fa conto di tali cose, tanto più smarrisce la vera via e il mezzo sicuro, che è la fede.
5 – Inoltre l’anima, appena si accorge che le accadono tali fenomeni straordinari, sente spesso nascere segretamente una certa opinione di sé credendo di esser qualcosa davanti a Dio, il che è contrario all’umiltà. Il demonio poi, da parte sua, riesce a far sorgere in essa un’occulta soddisfazione di sé, che talvolta diventa assai manifesta. A tale scopo egli presenta frequenternente ai sensi questi aggetti, mostrando alla vista figure di santi e bellissimi splendori, facendo risonare all’udito parole ingannatrici, presentando all’olfatto odori molto soavi, facendo assaporare al gusto dolcezze e diletto al tatto: con questi mezzi adesca i sensi per indurli al male. E dunque necessario rigettare sempre queste immagini e questi sentimenti poiché, dato il caso che qualcuna di esse provenga da Dio, agendo così non si fa oltraggio a Lui né si lascia di conseguire l’effetto e il frutto che per mezzo di tali fenomeni Egli vuole produrre nelle anime, anche se queste li disprezzano e non li cercano.
6 La ragione di ciò va ricercata nel fatto che la visione corporea e la percezione di ogni altro senso, come del resto ogni altra comunicazione fra le più interne, se provengono da Dio, producono il loro effetto nello spirito nello stesso tempo in cui avvengono, senza dar possibiltà all’anima di deliberare se volerle o no. Dio infatti, come le concede quei favori in maniera soprannaturale, senza che ella ponga in atto la propria capacità e diligenza, allo stesso modo produce l’effetto che Egli vuole operare con tali grazie poiché queste avvengono e si compiono passivamente nello spirito. Perciò non giova per niente alla loro realizzazione o meno, desiderare o no tali cose, come per nulla gioverebbe il desiderio di non bruciarsi alla persona nuda contro la quale fosse stato gettato del fuoco che necessariamente produrrebbe il suo effetto. Lo stesso accade con le visioni e le appariziani buone, le quali prima di tutto e in modo speciale non produrranno il loro effetto nel corpo, ma nell’anima, sebbene questa non ne voglia. Anche quelle che provengono dal demonio, senza che l’anima le desideri, producono in lei turbamento o aridità, vanità o presunzione di spirito. Esse però non hanno tanta efficacia nel male, come quelle divine l’hanno nel bene, poiché possono generare nella volontà i primi movimenti, ma non muoverla ulteriormente se ella vi si oppone. Possono inoltre causare un po’ di inquietudine che però non dura molto se il poco coraggio e la poca prudenza dell’anima non ne facciano aumentare la durata. Al contrario, le visioni e le rivelaziani che vengono da Dio penetrano nell’anima, spingono la volontà ad amare e producono il loro effetto a cui l’anima, pur volendolo, non può resistere più di quanto una vetrata non possa opporsi al raggio di sole dal quale è colpita.
7- Pertanto l’anima non si azzardi ad ammettere tali favori, quantunque siano divini, perche, se li accetta, va incontro a sei inconvenienti. In primo luogo le va diminuendo la fede, perché ciò che si sperimenta con i sensi toglie forza a quella virtù poiché, come ho già detto, essa è al di sopra di ogni senso. Perciò l’anima, non chiudendo gli occhi a tutte queste cose sensibili, si allontana dall’unico mezzo dell’unione con Dio. Il secondo inconveniente consiste nel fatto che tali favori, se non si rifiutano, sono d’impedimento allo spirito, perché l’anima si indugia in essi e quello non vola verso l’invisibile. Questa fu una delle cause per cui Gesù disse ai discepoli essere necessario che Egli se ne andasse perche potesse venire lo Spirito Santo; per lo stesso motivo, cioè perché ella si fondasse sulla fede, o lo stesso Nostro Signore, dopo la Resurrezione, non permise che Maria Maddalena gli toccasse i piedi. Il terzo è che l’anima va nutrendo lo spirito di proprietà in tali manifestaziani soprannaturali e non si incammina verso la vera rinuncia e nudità di spirito. Il quarto sta in ciò che a poco a poco ella perde per l’effetto prodotto da questi fenomeni e la devozione che essi producono nell’intimo, perché pone gli occhi su quanto vi è di sensibile in loro, cioè sull’elemento meno importante. E così ella non riceve in tanta copia di spirito che essi producono, il quale tanto più si imprime e si conserva se rinneghiamo tutto ciò che vi è di sensibile, che è molto diverso dal puro spirito. Il quinto è quello di perdere insensibilmente le grazie di Dio, perché l’anima le riceve con spirito di possesso e non sa trarne profitto. E prenderle con spirito di possesso e non trarne profitto, equivale a desiderare di riceverle, poiché Dio non le dà all’anima affinché ella desideri di averle; ella anzi non si deve risolvere a credere che esse provengano da Dio. Il sesto inconveniente è che l’anima, volendo ammetterle, apre la porta al demonio perché la inganni con altre simili che egli sa mascherare e camuffare così bene da farle sembrare buone poiché, come dice l’Apostolo, quello può trasformarsi in angelo di luce (2 Cor. II, 4). Col favore di Dio, parlerò di ciò nel bibro III, nel capitolo dedicato alla gola spirituale. 8 – Pertanto è necessario che l’anima rigetti a occhi chiusi tutti questi fenomeni, da qualunque parte essi provengano. Se non facesse così, ella porgerebbe l’occasione al demonio di ingannarla e lo aiuterebbe in maniera tale da ricevere insieme con i favori divini, anche le illusioni diabobiche, le quali anzi si moltiplicherebbero mentre gli altri diminuirebbero; così ella giungerebbe al punto in cui avrebbe tutto del diavolo e niente di Dio. Così accadde a un gran numero di anime imprudenti e poco sagge, le quali, ricevendo tali grazie, Si credettero tanto sicure che molte di esse dovettero impiegare grande fatica per ritornare a Dio in purità di fede e parecchie non poterono ritornarvi perché ormai il demonio aveva gettato in esse molte radici. Perciò è necessario chiudere loro il cuore e rifiutarle tutte; ciò facendo, nelle cattive si eludono gli inganni del demonio, nelle buone si evita l’impedimento alla fede e lo spirito ne coglie il frutto. Come se si accettano volentieri, Dio toglie tali grazie, perché l’anima nutre dell’attacco per queste, senza ricavarne generalrnente alcun vantaggio, mentre il demonio insinua e aumenta le sue, perché trova luogo e libero accesso per esse, così, se l’anima è umile e contraria a questi favori, il demonio, accorgendosi di non arrecarle danno, desiste dalla sua opera. Dio invece moltiplica e accresce le sue grazie in quell’anima umile e spoglia di tutto, facendola padrona di molti beni, come avvenne al servo rimasto fedele nel poco (Mt. 25, 21-23).
9 – Se in questi favori l’anima continuerà ad essere fedele e distaccata, Dio nan si arresterà finché di grado in grado non l’avrà elevata sino all’unione e trasformazione divina. Infatti Nostro Signore prova e innalza l’anima in modo tale che prima le concede grazie molto esteriori e ordinarie, conforme alla di lei poca capacità, poi, se essa si comporta come deve prendendo quei primi bocconi con sobrietà per rinforzarsi e sostenersi, Egli la eleva ad un cibo più abbondante e più sostanzioso. In tal mado l’anima, qualora vinca il demonio nel primo grado, passerà al secondo; se riuscirà vittoriosa anche in questo, passerà al terzo e così via per tutte e sette le mansioni che sono i sette gradi di amore, fino a che lo Sposo non la introdurrà nella cella vinaria (Cant. 2, 4) della sua perfetta carità.
10- Felice l’anima che saprà lottare contro la bestia dell’Apocalisse (12, 3) che ha sette teste, contrarie ai sette gradi di amore, con le quali fa guerra a ciascuno di questi e combatte con l’anima in ognuna delle sette mansioni in cui ella si esercita guadagnando progressivamente tutti i gradi dell’amore di Dio. Se in ogni dimora ella combatterà fedelmente restandone vittoriosa, senza dubbio meriterà di passare di grado in grado e di mansione in mansione fino all’ultima, dopo avere mozzato le sette teste con le quali la bestia le faceva una guerra tanto spietata da far dire a San Giovanni nel luogo citato (Apoc. 13. 7) che le fu concesso di lottare centro i Santi e di poterli vincere in ognuno di questi gradi di amore, adoperando contro ciascuno armi e munizioni sufficienti. Perciò è cosa assai dolorosa che molti, i quali entrano in queste battaglie spirituali contro la bestia, non abbiano neppure il coraggio di tagliare la prima testa, rinunziando ai beni sensibili del mondo. Alcuni poi, sebbene si decidano finalmente a tagliare la prima testa, non mozzano la seconda, non rigettano cioè le percezioni del senso di cui sto parlando. Ma ciò che addolora maggiormente è il constatare come altri, dopo avere tagliata non solo la prima e la seconda, ma anche la terza testa, in cui sono simboleggiate le percezioni dei sensi interni, oltrepassando lo stato di meditazione e spingendosi molto più avanti, al momento di entrare nel puro dello spirito, si lasciano vincere da questa bestia spirituale, che torna a levarsi contro di loro e fa risuscitare perfino la prima testa. E poiché essa prende seco sette spiriti peggiori di lei, lo stato dell’anima, a causa della ricaduta, sarà peggiore di quella precedente.
11 – L’anima dunque deve rinnegare tutte le apprensioni e tutti i diletti temporali dei sensi esterni, se vuole troncare la prima e la seconda testa alla bestia, entrando nella prima stanza dell’amore e nella seconda della viva fede, senza volersi legare e imbarazzare con ciò che si presenta ai sensi, perché ciò nuoce più di ogni altra cosa alla fede.
12 – Dunque e chiaro che tali visioni e perceziani sensibii non possono essere mezzo per l’unione, perché non hanno alcuna proporzione con Dio. Questa era una delle cause per cui Gesù Cristo non volle che la Maddabena e S. Tommaso (Gv. 20, 17-29) lo toccassero. Perciò il demonio è molto soddisfatto allorché un’anima desidera ricevere rivelazioni o sente inclinazione per esse, poiché in tal caso gli si offrono molte accasioni e possibilità di insinuare errori e di distruggere in lei la fede. Infatti, come ho detto, grande grossolanità nei confronti di questa virtù e talvolta pesanti pastoie e terribili tentazioni sorgono nell’anima che desidera tali favori.

LIBRO 2 – CAPITOLO 16
2 – E da notare che con il termine di visioni immaginarie intendo indicare tutto quanto può rappresentarsi soprannaturalmente all’immaginazione, rivestito di immagini, di forme, di figure e di specie. Infatti tutte le apprensioni e le specie che, per via naturale, i cinque sensi corporei producono nell’anima, in cui trovano la loro sede, possono essere generate e trovare il loro posto in essa anche per via soprannaturale, senza cioè che i sensi esterni vi concorrano. Infatti la fantasia, congiunta alla memoria, è come un archivio e ricettacolo dell’intelletto in cui vengono accolte tutte le forme e immagini intelligibili. Essa inoltre, come uno specchio, le conserva dopo averle avute per mezzo dei sensi esterni o con un processo soprannaturale, per presentarle poi all’intelletto che riflette su di esse e di esse giudica. La fantasia poi può fare ancora di più, perché può elaborare e formare altre immagini simili a quelle che già conosce.
3 – È bene ricordare che come i cinque sensi esterni presentano le immagini e le specie dei propri oggetti a quelli interni, cosi Dio e il demonio, secondo quanto è stato detto, possono presentare loro soprannaturalmente, cioè senza l’aiuto dei sensi esterni, queste stesse immagini e specie e altre molto più belle e più perfette. Perciò Dio, servendosi di esse, spesso presenta all’anima molte verità e le comunica molta sapienza, come si legge in ogni pagina della Sacra Scrittura. Così Isaia vide il Signore in trono circondato dal fumo che copriva il tempio e dai Serafini i quali si nascondevano il volto e i piedi con le ali (6, 2); Geremia vide la verga che vegliava (1,11) e Daniele ebbe molte altre visioni (7, 10).
Anche il demonio cerca di ingannare le anime con le sue manifestazioni apparentemente buone, come si può vedere nel libro terzo dei Re (22, I I-23), dove si legge che egli trasse in inganno tutti di profeti di Acab, mostrando alla loro immaginazione le corna con cui volle far credere. ma era una menzogna, che gli Assiri sarebbero stati distrutti. Si possono aggiungere le visioni avute dalla moglie di Pilato (Mt. 27, 19) per impedire la condanna del Cristo e molte altre apparizioni dalle quali risulta come, nello specchio della fantasia, ai proficienti, quelle immaginarie si verifichino con maggiore frequenza di quelle corporee esterne. Sotto l’aspetto di immagini e specie le visioni immaginarie non si differenziano da quelle che provengono dai sensi esterni; ma sono invece molto diverse per l’effetto che producono e per la perfezione di cui sono dotate, essendo più sottili e più interne delle altre perché soprannaturali e più intime di quelle soprannaturali esterne. Tuttavia con ciò non si vuol negare che qualche visione corporea esterna possa produrre un effetto maggiore, ché, in fondo, l’intensità della comunicazione dipende dalla volontà di Dio; voglio soltanto dire che le interne, prese in se stesse, producono effetti maggiori perché più spirituali.
4 – Verso l’immaginazione e la fantasia ordinariamente si dirige il demonio con i suoi inganni, naturali e soprannaturali, perchè esse sono la porta d’ingresso dell’anima e ad esse, secondo quanto ho detto, come ad un porto o ad un mercato, ricorre l’intelletto per fare le sue provviste. Per questo Dio e anche il demonio si affrettano verso di loro, per offrire all’intelletto le pietre preziose delle loro immagini e forme soprannaturali, quantunque Nostro Signore per ammaestrare l’anima non usi soltanto questo mezzo ma, dimorando sostanzialmente in lei, può far ciò da sé o servendosi di altri mezzi.
5 – Non v’è ragione che io mi dilunghi ora a parlare dei segni necessari per distinguere le visioni che provengono da Dio da quelle che provengono dal demonio e i modi diversi in cui esse avvengono. Mio unico scopo è quello di ammaestrare l’intelletto, affinché, nelle buone, non trovi un impedimento e un ostacolo all’unione con la Sapienza divina e, nelle cattive, qualche inganno.
6 – Dico dunque che l’intelletto non deve ingombrarsi e nutrirsi con tutte queste apprensioni e visioni immaginarie e con altre forme e specie, di qualunque genere siano, allorché esse gli si offrono sotto l’aspetto di forme, di immagini o di qualche conoscenza particolare, siano false perché da parte del demonio, sia che si riconoscano vere perché da parte di Dio. L’anima poi non le ammetta né le ritenga, onde possa rimanere distaccata e nuda, pura e semplice, senza modo alcuno di percezione, come si richiede per l’unione.
7 – La ragione di ciò va ricercata nel fatto che tutte queste forme, secondo quanto è stato detto, nel momento in cui vengono apprese si rappresentano sempre sotto qualche maniera e modo limitato, mentre la sapienza divina, alla quale l’intelletto deve unirsi, non ha modo e maniera, né cade sotto il dominio del limite e della cognizione distinta e particolare, perché è completamente pura e semplice. Se è necessario che due estremi, quali sono l’anima e la sapienza increata, perché si possano unire, debbano avere in comune qualche mezzo di somiglianza, è chiaro che l’anima, nel caso presente, deve essere pura e semplice, non limitata e attaccata a nessuna conoscenza particolare, né modificata da alcuna circoscrizione di forma, di specie e di immagine. Dio non cade sotto il dominio di una una immagine o di una forma, né è contenuto da una cognizione particolare; perciò l’anima, per unirsi a Lui, non deve cadere sotto una forma o una conoscenza distinta.
8 – Che in Dio non vi sia forma né somiglianza alcuna lo fa ben capire lo Spirito Santo, quando dice nel Deuteronomio (4, 12): Vocem verborum eius audistis, et formam penitus non vidistis – Udiste il suono delle sue parole, ma non vedeste per niente alcuna forma in Dio. Soggiunge poi che sul monte Oreb vi erano tenebre, nubi e oscurità, simbolo della notizia confusa e oscura della quale ho parlato, in cui l’anima si unisce con Dio. Più avanti ancora dice Non vidistis aliquam similitudinem in die, qua locutus est vobis Dominus in Horeb de medio ignis (4, 15), che, tradotto, vuol dire: Voi non vedeste in Dio nessuna somiglianza il giorno in cui Egli vi parlò, di mezzo al fuoco, sul monte Horeb.
9 – Inoltre, volendo affermare che l’anima, servendosi di forme e figure, non può pervenire alle altezze di Dio, per quanto è possibile sulla terra, nel libro dei Numeri (12, 6-8) lo Spirito Santo dice che l’Altissimo rimproverò Aronne e Maria perché avevano mormorato contro il fratello Mosè, per far loro capire a qual grado di unione e di amicizia con Lui egli era stato elevato: Si quis inter vos fuerit pro pheta Domini, in visione apparebo ez, vei per somnzum loquar ad ilium. At non taiis servus meus Moyses, qui in omni dome mea fidelissimus est: ore enim ad os loquar ei, et palam et non per aenigmata et figuras Dominum videt, cioè: Se vi sarà fra voi un profeta del Signore, io gli apparirò in qualche visione o immagine e gli parlerò in sogno; ma non così con il mio servo Mosè, che in tutta la mia casa è fedelissimo: a lui parlerò faccia a faccia, ed egli mi vedrà apertamente e non per mezzo di comparazioni, di analogie e di figure. In questo passo il Signore fa chiaramente intendere come, nel sublime stato dell’unione di cui stiamo parlando, Egli Si comunica all’anima non sotto i veli di visioni immaginarie, di somiglianze o di figure, ma apertamente, cioè nella nuda e pura sua essenza, che è la faccia di Dio, unendosi per amore con la vuota e pura essenza dell’anima, che è la faccia dell’anima in amore divino.
13 – Ma ora nasce un dubbio: se è vero che Dio concede all’anima le visioni soprannaturali non perché ella le desideri, vi si attacchi o le stimi, per quale altro motivo gliele elargisce, dal momento che nei loro confronti essa può andare incontro a molti errori e pericoli o, per lo meno, agli inconvenienti già descritti che le impediscono di progredire, tanto più che il Signore potrebbe comunicarle spiritualmente e in sostanza ciò che le dà per mezzo dei sensi nelle visioni e forme suddette?
14 – Risponderò a questo dubbio nel capitolo seguente con una dottrina ricca e, a mio parere, molto necessaria alle persone spirituali e a coloro che le dirigono, poiché vi si insegna il modo con cui Dio si comporta e il fine che in esse si prefigge, per la cui ignoranza molti non si sanno governare e non sanno dirigere né se stessi né altri all’unione. Costoro credono che sia sufficiente il semplice fatto di conoscere che tali visioni siano vere e provengano da Dio, per ammetterle e rassicurarsi in esse, dimenticando che l’anima potrà trovarvi spirito di proprietà, attaccamento e impaccio, come in quelle del mondo, se anche in questo caso non sa rinunciarvi. Allo stesso modo sembra loro che sia bene ammetterne alcune e rifiutarne altre, gettando se stessi e le anime in preda ad una grande angustia e ad un grande pericolo quando si tratta di discernere quali siano vere e quali false. Dio invece non comanda loro di mettersi in tale impaccio e di esporre le anime umili e semplici a pericoli e incertezze. Possiedono una dottrina sana e sicura, quella della fede; camminino per questa via.
15 – Ma non è possibile procedere su questa via, se non si chiudono gli occhi a tutto ciò che appartiene al senso e che è cognizione chiara e particolare. Per questo S. Pietro, pur essendo certo della visione della gloria di Gesù Cristo avuta sul Tabor, dopo aver narrato l’episodio nella sua seconda lettera canonica, vuole che i fedeli non la prendano come argomento principale di certezza nella fede, ma per incamminarli sulla via di questa virtù, scrive: Et ha be-mus firmiorem pro pheticum sermonem, cui benefacitis at ten-dentes, quasi lucernae ardenti in caliginoso bce, donec dies elucescat (2 Pietro. I, 19). Abbiamo un argomento più solido di questa visione del Tabor, cioè i detti e le parole dei profeti, che rendono testimonianza a Cristo, ai quali fate bene a prestare attenzione come a lucerna che risplende in luogo oscuro. Se esaminiamo questa comparazione, vi troviamo tutta la dottrina che andiamo spiegando. Invitandoci a guardare alla fede, di cui parlano i profeti, come a lucerna che arde in luogo oscuro, S. Pietro vuole indicarci che dobbiamo rimanere al buio, chiudendo gli occhi a ogni altra luce, e che solo la fede, in queste tenebre, deve essere il lume a cui dobbiamo affidarci. Se preferiremo appoggiarci a gualche altra luce di conoscenze distinte, ci allontaneremo da quella oscura della fede, la quale cesserà di illuminarci nel luogo oscuro di cui parla l’Apostolo. Questo luogo poi, che è simbolo dell’intelletto, il quale è il candelabro su cui viene collocata la lucerna della fede, deve restare all’oscuro fino al momento in cui non albeggi per lei nell’altra vita il giorno della chiara visione di Dio e, in questa, quello della trasformaziane ed unione divina.

CAPITOLO 17
Si parla dello scopo che Dio si prefigge e del modo che tiene nel comunicare all’anima i beni spirituali per mezzo del senso, dottrina con la quale si risponde al dubbio proposto nel capitolo precedente.
5 – In questo modo dunque Dio istruisce e rende spirituale l’anima, incominciando a comunicarle lo spirituale delle cose esteriori, palpabili e accomodate al senso, secondo la piccolezza e la poca capacità di essa, affinché, mediante la corteccia di quelle cose sensibili, che sono buone di suo, lo spirito faccia a poco a poco atti particolari e riceva successivamente tante piccole comunicazioni spirituali da farsene un abito e giungere all’attuale sostanza dello spirito, che è aliena da ogni senso; a questa l’anina non può arrivare che progressivamente e secondo il suo modo di agire, cioè per il senso, a cui è stata sempre attaccata. E così a mano a mano che si avvicina allo spirito circa il tratto con Dio, l’anima si spoglia e si vuota delle vie del senso, che sono quelle del discorso e della meditazione immaginanria. Perciò quando ella giungerà a intrattenersi con Dio in modo perfetto, si sarà spogliata necessariamente di tutto ciò che intorno a Lui può cadere sotto il dominio dei sensi. Infatti quanto più una cosa si avvicina ad un estremo, tanto più si allontana da quello opposto; anzi la sua vicinanza assoluta all’uno, comporta la sua lontananza ugualmente assoluta dall’altra, secondo il proverbio spirtuale molto diffuso: Gustato spiritu, desipit omnis caro, che vuel dire: assaporato lo spirito, tutto ciò che è carne diventa insipido, cioè, tutte le vie della carne, che simboleggiano ogni tipo di relazione del senso con lo spirito, non giovano e non producono alcun diletto. Ciò è chiaro perché se è spirito, non cade sotto il senso, e se è tale da essere cempreso dal senso, non è più puro spirito. Infatti quanto più il senso e l’apprensione naturale possono conoscere di questo, tanto meno spirito soprannaturale esso pessiede.
6 – Pertanto la persona spirituale che ha raggiunto la perfezione non fa caso del senso né riceve alcuna cosa per mezzo di esso; inoltre nelle sue relazioni con Dio non si serve né ha bisogno di servirsi precipuamente di esso come faceva prima, quando ancora non era perfetta. È quanto vuole insegnare S. Paolo nel seguente brano della lettera ai Corinti (1 Cor. 13,11): Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus. Quando autem factus sum vir, evacuavi quae erant parvuli – Quando ero fanciullo parlavo come un fanciullo, conoscevo come un fanciullo, pensavo come un fanciullo; ma quando diventai uomo mi liberai dalle cose proprie di un fanciullo.
Ho già dimostrato come le cose del senso e la conoscenza che lo spirito può raggiungere per mezzo di esse, siano esercizio da fanciulli; perciò se l’anima vorrà rimanervi sempre attaccata senza mai distogliersene, non cesserà mai di essere un fanciullo e quindi parlerà sempre di Dio come un fanciullo, conoscerà Dio come un fanciullo e penserà a Dio came un fanciullo. Infatti attaccandosi alla corteccia del senso, che è il fanciullo, mai parverrà alla sostanza della spirito, che è l’uomo perfetto. L’anima, dunque, se vuole progredire non deve ammettere le rivelazioni, quantunque le siano offerte da Dio, simile al bimbo il quale per assuefare il palato a cibo più sostanzioso e più solido, ha bisogno di staccarsi dal petto materno.
7- Mi domanderete ora: non sarà necessario che l’anima, finché è piccola, desideri di ricevere tali favori e li abbandoni solo quando sarà cresciuta, com’è necessario che un bambino prenda il latte per nutrirsi, finché non sia divenuto grande e possa farne a meno? Per quanto riguarda la meditazione e il discorso naturale in cui l’anima incomincia a cercare Dio, rispondo dicendo che in verità ella non deve abbandonare il petto materno del senso per nutrirsi e sostentarsi altrimenti fino al momento in cui possa staccarsene, cioè sino a quando il Signore la porrà nello stato più perfetto della contemplazione, di cui ho parlato al capitolo undecimo di questo libro. Affermo invece che l’anima non deve ammettere visioni immaginarie e altre apprensioni soprannaturali, che possono cadere nel senso, indipendentemente dalla libertà dell’uomo, in qualunque tempo e stato esse avvengano, sia in quello perfetto che in quello imperfetto, anche se provengono da Dio. Le ragioni sono due. La prima è perché Egli produce il suo effetto nell’anima senza che costei riesca ad impedirglielo, anche se, come spesso avviene, ostacoli o possa ostacolare la visione. In conseguenza di ciò l’effetto che tale visione dovrebbe produrre nell’anima viene causato in essa molto più sostanzialmente, quantunque in maniera diversa. Ella infatti non può né è capace di allontanare quei beni che Dio le vuol cemunicare, se non a causa di qualche imperfezione e spirito di proprietà, il che non si verifica quando ella rinuncia a tali cose con umiltá e diffidenza di sé. La seconda è quella di liberarsi dal pericolo e dalla difficoltà che_vi_è_nel discernere le cattive dalle buone e nel conoscere se sono prodotte dall’angelo della luce o da quello delle tenebre. In questo lavoro non vi è alcun giovamento, ma vi si perde tempo, vi si imbarazza lo spirito e, non collocando l’anima in ciò che le gioverebbe liberandola dalle piccolezze di apprensioni e di conescenze particolari, secondo quanto è stato detto a proposito delle visioni corporee e quanto si dirà relativamente a queste immaginarie, ci si pone nell’occasione di commettere molte imperfezioni e di non fare un passo avanti.
8 – Ci si convinca che se Nostro Signore non dovesse condurre l’anima a seconda della natura di essa, non le comunicherebbe mai l’abbondanza del suo spirito mediante questi canali così angusti di forme, figure e cognizioni particolari, dei quali Egli si serve per darle il nutrimento a briciole. Per questo David afferma: Mittit crystallum suam sicut buccellas (Sal. 147, 17), come se volesse dire: Comunica alle anime la sua sapienza quasi a bocconi. È cosa veramente dolorosa di dover constatare come l’anima, dotata di capacità infinita, venga nutrita con i bocconi del senso a causa del suo poco spirito e della sua poca sensibilità. Anche S. Paolo si mostra addolorato da questa meschinità e inettitudine dell’aniina a ricevere lo spirito, quando scrive ai Corinti (1 Cor. 3, 1-2): Et ego, fratres, non potui vobis loqui quasi spiritualibus, sed quasi carnalibus. Tanquam parvulis in Christo, lac vobis potum dedi, non escam: nondum enim poteratis; sed et nunc quidem non potestis. Adhuc enim carnales estis – Fratelli miei, quando venni da voi, non potei parlare come a spirituali, ma come a gente carnale. Come a bambini in Cristo vi detti del latte da bere e non del cibo solido.
9 – È bene dunque ricordare che l’anima non deve porre attenzione su quella corteccia di figure e di oggetti che le vengono posti dinanzi soprannaturalmente e che riguardano i sensi esterni, come sono per esempio, locuzioni e parole che risuonano all’udito, visioni di santi e splendori luminosi che si presentano agli occhi, odori che vengono percepiti dall’olfatto, gusti e soavità del palato e altri diletti del tatto, cose che precedono in generale dallo spirito e che ordinariamente accadono alle persone spirituali. Inoltre non deve posare lo sguardo su qualsiasi visione dei sensi interni, come sono quelle immaginative, ma deve rinunciare a tutte.

CAPITOLO 21
Si dichiara come, pur rispondendo talvolta a quanto Gli si domanda, Dio non è contento e si dimostra che, sebbene Egli qualche volta accondiscenda e risponda, spesso però si sdegna.
1- Alcune persone spiritali ritengono tranquillamente per buone le curiosità di cui talvolta usano onde sapere qualche cosa per via soprannaturale, credendo che questo loro modo di fare sia buono e piaccia a Dio, perché questi risponde qualche volta alla loro domanda. Invece è vero che, quantunque il Signore li esaudisca, questo modo di procedere non è buono ed Egli non è contento; anzi è vero il contrario, cioé che Dio spesso se ne sdegna e se ne offende molto. Ciò accade perché a nessuna creatura è lecito evadere dai termini che Dio le ha naturalmente imposto per sua norma. L’uomo, per governarsi, ha ricevuto dal Signore dei mezzi naturali e razionali: non gli è quindi permesso di volersene liberare; indagare e raggiungere alcunché per via soprannatunale è pretendere sottrarsi ad essi. Dunque non è cosa lecita e non può piacere a Dio, giacché si offende di tutto ciò che è illecito. Conosceva bene questa verità il re Acaz il quale, sebbene Isaia da parte di Dio lo spingesse a chiedere qualche segno, se ne schernì dicendo: Non petam et non tentabo Daminum (Is. 7, 12) – Non io chiederò, né tenterò il Signore, perché pretendere di trattare con Dio per vie straordinarie come sono quelle soprannaturali è tentare il Signore.
2 – Mi direte: se Dio non ha piacere di tali richieste, perché qualche volta risponde? Dico che spesso è il diavolo che risponde; quando è Dio, questo si accomoda alla debolezza dell’anima che vuole andare per questa via. Perché dunque ella non si lasci vincere dallo sconforto e non torni indietro e perché non soffra in modo eccessivo pensando che il Signore sia irritato con lei, o per qualche altro fine a Lui noto e fondato sulla debolezza di quell’anima, Dio crede opportuno risponderle e accondiscendere per tale via. È questo il metodo che Egli adopera anche con numerose anime fiacche e delicate concedendo loro, secondo quanto è stato detto sopra, gusti e soavità sensibli quando esse trattano con Lui. Avviene così non perché Egli voglia e provi piacere che si adoperi questo mezzo e questa via nel trattare con Lui, ma perché dà a diascuno secondo la propria natura. Dio infatti è come una fonte, dalla quale ciascuno attinge a seconda della capacità del proprio vaso. Talvolta Egli permette che l’acqua sia raccolta usando di quei canali straordinari, ma da ciò non segue che sia lecito attingerla per mezzo di essi se non a Dio stesso, il quale la può concedere quando, come e a chi vuole e per il fine da Lui inteso, senza che l’uomo possa avanzare alcuna pretesa. Perciò, come ho detto, alcune volte viene incontro al desiderio e alle preghiere di alcune anime che Egli intende esaudire, non perché si compiaccia delle lore richieste, ma perché sone buone e semplici.
3 – Tale affermazione si comprenderà meglio per mezzo della seguente cemparaziene. Un padre di famiglia ha sulla tavola numerosi e diversi cibi, alcuni dei quali sono più delicati che altri. Un suo bimbo, gli chiede, non la pietanza migliore, ma quella contenuta nel piatto a lui più vicino e gliela chiede perché mangia più volentieri quella che un’altra. E poiché il padre vede che il figlio non prenderà il cibo più delicato, che vorrebbe dargli, ma quello di cui ha fatto richiesta, il solo che sia di suo gusto, affinché non si affligga e non resti senza mangiare, glielo concede sebbene contro voglia. Così vediamo che Dio fece con i figli di Israele quando gli chiesero un re; lo concesse ma a malincuore, perché per loro non era un bene. Disse perciò a Samuele: Audi vocem populi in omnibus quae loquuntur tibi: non anim te abiacerunt, sed me (I Re 8, 7) – Ascolta la voce di questo popolo e concedi lore il re che chiedono, poiché me, non te hanno rigettato, affinché non io regni su di loro. Allo stesso modo Dio accondiscende ai desideri di alcune anime, accordando loro ciò che non è più utile, non volendo esse o non sapendo camminare per altra via. E così alcune ottengono persino dolcezze e soavità dello spirito a del senso, che Dio accorda loro perché non saprebbero mangiare il cibo più forte e più solido della croce di suo Figlio, verso la quale più che verso altro oggetto vorrebbe che tendessero la mano.
4 – Tuttavia io ritengo sia molto peggio voler saper qualche cosa per via soprannaturale che cercare altri gusti spirituali del senso, poiché non vedo come l’anima che lo pretende possa essere esente da peccato almeno veniale, per quanto siano buoni gli scopi che ella si propone, e grande la perfezione a cui è giunta. Lo stesso vale per chi glielo comandasse o vi acconsentisse. Infatti non v’é alcuna necessità di ciò, perchè abbiamo la ragione naturale e la legge e la dottrina evangelica con cui ci possiamo sufficientemente regolare e non v’é difficoltà che non possa essere risolta e necessità a cui non si possa rimediare in maniera molto gradita a Dio e vantaggiosa per le anime. Dobbiamo anzi servirci della ragione e della dottrina evangelica in modo tale che se, volendo o no, ci fossero rivelate soprannaturalmente alcune cose, dovremmo accettare solo quelle conformi alla ragione e alla legge evangelica. Però anche in tal caso le dovremmo ricevere, non perché rivelate, ma perché razionali, lasciando da parte ogni senso di rivelazione. Anzi allora conviene guardare ed esaminare quella ragione molto di più che se non vi fosse intessuta qualche rivelaziane perché il demonio per ingannare dice molte cose che sono vere, che accadranno e che sono conformi a ragione.
5- Deriva da ciò che in tutte le nostre necessità e difficoltà e in tutti i nostri travagli noi non abbiamo altro aiuto migliore e più sicuro della preghiera e della speranza che il Signore provvederà con quei mezzi che a Lui piaceranno. Tale consiglio ci viene dato dalla Sacra Scrittura in cui si legge che il santo Re Giosaffatte, molto afflitto perché circondato dai nemici, si mise in orazione e disse a Dio: Cum ignoramus quid facere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te (2 Cron. 20, 12), come se dicesse: Quando mancano i mezzi e la ragione nan arriva a provvedere nelle necessità, ci resta solo di elevare i nostri occhi a te, perché tu provveda come meglio ti piace.
6 – Quantunque ne sia già stato parlato, sarà bene provare con testimonianze desunte dalla Sacra Scrittura come, pur venendo incontro a tali ingiuste richieste, il Signore qualche volta si sdegna. Nel primo libro dei Re (28, 15) Si narra come la richiesta che Saul fece di parlare con Samuele ormai morto fu esaudita con l’apparizione del profeta; Dio però si adirò perché Samuele poi rimproverò il re di averlo costretto a ciò: Quare inquietasti me ut suscitarer? – Perché mi hai disturbato facendomi risuscitare? Sappiamo inoltre che Dio, anche se concesse ai figli di Israele le carni da essi richieste, si sdegnò molto con loro; infatti, li punì immediatamente, inviando fuoco dal cielo, secondo quanto si legge nel Pentateuco e viene narrato da David con le parole: Adhuc escae eorum erant in ore ipsorum et ira Dei descendit super eos (Sal. 77, 30-31), che vuol dire: Avevano ancora il boccone in bocca quando l’ira divina discese su di loro. Nei Numeri infine (22, 32) è scritto che Dio si adirò molto contro il profeta Balaam perché si recò dai Madianiti, chiamato dal loro re Balac: eppure il Signore stesso gli aveva detto di andare, allorché il profeta, avendone un gran desiderio, glielo aveva chiesto. E durante il cammino gli apparve l’angelo del Signore che, con la spada in mano, minacciandolo di morte gli disse: Perversa est via tua mihique contraria – Perversa è la tua via e a me contraria, ragione per cui gli voleva togliere la vita.
7- In questa e in molte altre maniere Dio, sebbene corrucciato, asseconda i desideri delle anime. Senza contare i numerosi esempi, abbiamo di ciò molte testimonianze nella Scrittura, delle quali però non c’è bisogno data la grande chiarezza della cosa. Affermo soltanto che è estremamente pericoloso, più di quanto io non sappia dire, voler trattare con Dio per tali vie. Colui che vi sarà attaccato, non sarà esente da gravi errori e si troverà spesso confuso; chi poi ne ha fatto caso, cenoscerà per esperienza quello che dico. Infatti oltre alla difficoltà che si trova nell’evitare di ingannarsi riguardo alle locuzioni e visioni che provengono da Dio, c’è da notare che ve ne sono ordinariamente molte da parte del demonio. Questi in generale si comporta con l’anima nella stessa maniera di Dio per introdursi in lei come il lupo nel gregge con la pelle di pecora, proponendole verità tanto verosimili che a stento si possono distinguere da quelle comunicatele dal Signore. Dicendo infatti cose vere o che poi risultano tali e conformi a ragione, le anime si possono ingannare facilmente; quando poi vedono che quelle cose si avverano e che egli predice il futuro, pensano che siano da parte di Dio. Non sanno che è facilissimo per chi possiede lume naturale limpido conoscere nelle loro cause tutte le cose o molte di esse che sono state o che saranno. Poiché il demonio ha sempre questo lume naturale molto vivo, può con somma facilità dedurre un certo effetto da una certa causa, anche se poi non sempre accade così perché tutte le cause dipendono dalla volontà divina.
8 – Facciamo un esempio. Il demonio conosce come lo stato della terra, dell’aria e del sole è tale ed è disposto in tale grado che, giunto un tempo determinato, proprio in forza della loro disposizione questi elementi diventeranno contaminati e comunicheranno il contagio alle persone con la peste, dicendo anche in quali luoghi essa avrà maggiore o minore intensità. Ecco prevista la peste nelle sue cause. C’è dunque da meravigliarsi se il demonio in una rivelazione dirà ad un’anima che entro un anno o sei mesi ci sarà una pestilenza e che la sua parola risulti vera? Ed è profezia del demonio! Similmente egli, notando che le viscere della terra si riempiono di aria, può conoscere le cause dei terremoti e predire che in un tempo determinato se ne avrà qualcuno. Questa però è conoscenza naturale, per il cui conseguimento basta avere lo spirito libero dalle passioni dell’anima, secondo quanto afferma Boezio: Si vis claro lumine cernere verum, gaudia pelle, timorem spemque fugato, nec dolor adsit – Se vuoi conoscere la verità con chiarazza naturale, rigetta da te il gaudio, il timore, la sparanza e il dolore.
9 – Inoltre si possono conoscere fatti a avvenimenti, soprannaturali nelle loro cause, che seguono l’ordine della Provvidenza divina la quale interviene con grande giustizia e certezza secondo quanta esigono le cause buone o cattive poste dai figli degli uomini. È possibile infatti conoscere naturalmente che una determinata persona, città e cosa giungerà a tale estremo e necessità da costringere Dio provvidente e giusto a intervenire con punizione, con premio o in qualche altro modo adeguato, a seconda delle esigenze della causa e in conformità alla natura di essa. Allora sarà facile affermane che in un determinato tempo Dio darà o farà qualche cosa o che ne accadrà certamente qualche altra. Santa Giuditta fece intendere questa verità ad Oloferne quando, onde persuaderlo che i figli di Israele dovevano essere inesorabimente distrutti, prima gli parlò delle molte miserie e dei gravi peccati che essi commettevano e poi soggiunse: Et quoniam haec faciunt, certum est qoad in perditionem dabuntur (Giudit. 11, 12), che si spiega: Poiché fanno queste cose, saranno certamente distrutti. Parlare così è conoscere il castigo nella causa ed equivale ad affermare che tali peccati causano tali castighi da parte di Dio, il quale è giustissimo, come del resto afferma anche la Sapienza divina: Per quae quis peccat, per haec et torquetur (11, 17) -In quello e con quelle cose con cui uno pecca, sarà punito.
10 – Il demonio può conoscere questi fatti non solo per natura, ma anche per l’esperienza che ne ha, avendo veduto Dio comportarsi in modo simile; può quindi annunziarli prima e indovinarli. Anche il santo Tobia conobbe nella causa la punizione riservata alla città di Ninive e poté avvertirne il figlio dicendo: Stai attento, figlio, quando io e tua madre saremo morti lascia subito questa terra, perché essa non continuerà ad esistere – Video enim quia iniquitas eius finem dabit ei – Poiché vedo bene che la sua stessa iniquità sarà causa del suo castigo, che consisterà nella sua rovina e distruzione totale (14, 13). Il demonio e Tobia potevano conoscere tale punizione non solo a causa dell’iniquità dei cittadini, ma anche per esperienza, vedendo che i Niniviti commettevano peccati simili a quelli degli uomini per i quali Dio distrusse il mondo con il diluvio, e a quelli dei Sodomiti, che perirono per mezzo del fuoco. Tobia però la conosceva anche per ispirazione divina.
11 – Il demonio può conoscere e predire che Pietro secondo natura non può vivere più di quei dati anni. Lo stesso vale per tante altre cose in molte altre maniere intorno alle quali non si potrebbe mai finire né incominciare a parlare perché intricatissime. Egli poi è sottilissimo nell’insinuare menzogne, da cui ci si può liberare soltanto fuggendo da ogni rivelazione, visione e locuzione soprannaturale. Dio si sdegna giustamente con chi le ammette perché sa che esporsi a tale pericolo è temerità, presunzione, curiosità, principio di superbia, radice e fondamento di vanagloria, disprezzo delle cose di Dio a causa di numerosi mali a cui molti andarono incontro. Costoro irritarono Dio così tanto che lasciò di proposito che errassero e si ingannassero e permise che oscurassero il proprio spirito e abbandonasserò le vie ordinate della vita per dar luogo alle loro vanità e fantasie, compiendo così il detto di Isaia: Dominus miscuit in medio eius spiritum vertiginis (19, 14) – Il Signore diffuse in mezzo lo spirito di rivolta e di confusione o, per dirlo in parole semplici, lo spirito di intendere a rovescio. Queste parole del profeta fanno al proposito nostro, perché egli le disse per coloro che volevano conoscere il futuro per via soprannaturale. È questo il motivo per cui afferma che Dio diffuse in mezzo a loro lo spirito di intendere a rovescio: non perché Egli volesse che quelle persone cadessero in errore o desse loro di fatto lo spirito di errare, ma perché volevano intromettersi in cose alle quali naturalmente non petevano pervenire. Irritato di questo, il Signore permise che si ingannassero non concedendo loro il lume necessario a conoscere ciò in cui voleva che non si intromettessero. Il profeta afferma che Dio mescolò quello spirito in senso privativo in quanto che, non dando loro la sua luce e la sua grazia onde potessero evitare di cadere in errore, fu causa privativa di quel danno.
12 – In tal mado il Signore permette al demonio di accecare ed ingannare molte anime, perché esse lo meritano a causa dei loro peccati e della loro presunzione. Il maligno lo può e ottiene il suo effetto perché esse lo ritengono per spirito buono e quantunque si sia fatto molto per persuaderle del contrario, non si riuscirà a disingannarle perché, per permissione divina, sono ormai imbevute dello spirito di intendere a rovescio. Sappiamo che accadde così anche ai profeti di Acab: Dio permise che fossero ingannati dallo spirito di menzogna e dette perciò licenza al demonio, dicendogli: Decipies et praevalebis; egredere et fac ita (3 Re 22, 22) – Con le tue menzogne prevarrai su di loro e li ingannerai: esci pure a fa così. La sua potenza ingannatrice sul re e sui profeti fu tanta che non vollero credere a Michea allorché questi predisse loro le verità contrarie del tutto a quanto era stato profetizzato dagli altri. Avvenne ciò perché Dio lasciò che si ingannassero a causa dello spirito di proprietà che nutrivano bramando che le cose accadessero secondo il loro desiderio e che Dio rispondesse conforme ai loro appetiti, il che costituiva un mezzo e una disposizione certissima perché il Signere permettesse di proposito il loro inganno e il loro accecamento.
13 – Così in nome di Dio profetizzò Ezechiele parlando contro chi vuol sapere le cose per via soprannaturale, secondo la curiosità e vanità del suo spirito: Allorché il tale uomo verrà dal profeta onde interrogarmi per suo mezzo, io, il Signore, gli risponderò da me stesso, gli mostrerò la mia faccia irritata, e se il profeta avesse sbagliato nel rispondere a ciò che gli era stato domandato: Ego, Daminus, decepi prophetam illum: Io, il Signore, ho tratto in inganno quel profeta (Ez. 14, 7-9). Queste ultime parole si devono intendere nel senso che Dio non concorse con la sua gnazia per impedire che il profeta fosse ingannato, come risulta anche dall’altra espressiene: Io, il Signore, gli risponderò da me, irritato, vale a dire, togliendogli la sua grazia e il suo favore. Conseguenza necessaria di ciò è che questi cada subito in errore a causa dell’abbandono divino. Allora il demonio si affretta a rispondere secondo il gusto e l’appetito di quell’uomo il quale, provandone piacere e vedendo che le risposte e le comunicazioni sono conformi alla sua volontà, si lascia grandemente ingannare.

CAPITOLO 22
4 — Tale è il senso del testo mediante il quale S. Paolo vuole indurre gli Ebrei ad abbandonare i modi primitivi di trattare con Dio permessi dalla legge mosaica per fissare gli occhi unicamente in Cristo: Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis: novissime autem diebus istis locutus est nobis in Filio (Ebr. 1, 1-2), come se dicesse: Quel che Dio in molti modi e in più riprese disse in antico ai nostri padri per mezzo dei profeti, l’ha detto in questi giorni in una volta a noi per mezzo del Figlio suo. Con queste parole l’Apostolo vuol far capire che Dio è rimasto quasi come muto non avendo altro da dire poiché, dandoci il Tutto, cioè suo Figlio, ha detto ormai in Lui tutto ciò che in parte aveva manifestato in antico ai profeti.
5 — Perciò chi oggi volesse interrogare il Signore e chiedergli qualche visione o rivelazione non solo commetterebbe una sciocchezza, ma arrecherebbe un’offesa a Dio, non fissando i suoi occhi interamente in Cristo per andare in cerca di qualche altra cosa o novità. Invero il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: Se Io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non ho altro da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale io ti ho detto e rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri. Tu infatti domandi locuzioni e rivelazioni che sono soltanto una parte, ma se guarderai Lui, vi troverai il tutto, poiché Egli è ogni mia locuzione e risposta, ogni mia visione e rivelazione in quanto che io vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato ogni cosa dandovelo per fratello, compagno, maestro, prezzo e premio. Dal giorno in cui sul Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui dicendo: Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, ipsum audite (Mt. 17, 5).- Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo, cessai di istruire e rispondere in queste maniere e commisi tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da manifestare. Prima parlavo ma unicamente per promettere Cristo e gli uomini mi consultavano solo per chiedere e aspettare Lui nel quale dovevano trovare ogni bene, come ora tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli fa capire. Colui che ora mi consultasse in quel modo e desiderasse che io gli dicessi e rivelassi alcunché, sotto un certo aspetto mi chiederebbe di nuovo Cristo e altre verità della fede, in cui però sarebbe debole perché tutto è già stato dato in Lui. In tal modo farebbe un grave oltraggio al mio amato Figlio poiché non solo in ciò mancherebbe alla fede, ma perché lo obbligherebbe ad incarnarsi di nuovo e ad affrontare ancora una volta la vita e la morte qui in terra. Tu dunque non desidererai né chiederai nessuna rivelazione o visione da parte mia: guarda bene il Cristo e in Lui troverai già fatto e detto molto più di quanto tu vorresti.
6 — Se vuoi che Io ti dica qualche parola di conforto, guarda mio Figlio, obbediente a me e per amor mio sottomesso ed afflitto, e sentirai quante cose ti risponderà. Se desideri che io ti sveli alcune cose o avvenimenti occulti, fissa in Lui i tuoi occhi e vi troverai dei misteri molto profondi, la sapienza e le meraviglie di Dio le quali, secondo quanto afferma il mio Apostolo, sono in Lui contenute: in quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei absconditi (Col. 2, 3), cioè: Nel quale Figlio di Dio sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, tesori di sapienza che saranno per te profondi, saporosi e utili più di tutte le cose che vorresti sapere. Per questo lo stesso Apostolo si gloriava dicendo di aver fatto intendere che egli non conosceva se non Gesù Cristo e questo crocifisso (1 Cor. 2, 2). Inoltre se tu desideri altre visioni e rivelazioni divine o corporee, mira il Cristo umanato e vi troverai più di quanto pensi, poiché S. Paolo afferma a tale proposito: In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter (Col. 2, 9) – In Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità.

CAPITOLO 24
7 — Anche il demonio può causare nell’anima tali visioni usando di qualche luce naturale in cui, per suggestione spirituale, lo spirito conosce cose o presenti o assenti. Perciò, riguardo al testo di S. Matteo dove si legge che il demonio mostrò al Cristo omnia regna mundi et gloriam eorum (Mt. 4, 8) cioè tutti i regni della terra e il loro splendore, alcuni dotti interpreti affermano che il maligno si servì della suggestione spirituale perché non era possibile far vedere a Gesù con gli occhi del corpo tante cose, cioè tutti i regni del mondo e la loro gloria. Tuttavia grande è la differenza fra le visioni del demonio e quelle di Dio: gli effetti prodotti nell’anima dalle prime non sono come quelli causati dalle seconde, poiché le diaboliche non solo non producono per niente dolcezza di umiltà e di amore divino, ma generano aridità di spirito nella conversazione con Dio, e inclinazione ad inorgoglirsi e ad ammetterle e a dare loro qualche importanza. Inoltre le loro immagini non restano impresse nell’anima con la stessa soave chiarezza delle altre e non durano a lungo, ma si cancellano presto, a meno che ella non le apprezzi molto, nel qual caso la stima farà si che ella se ne ricordi naturalmente. Tale ricordo però sarà molto arido e non produrrà l’effetto di amore e di umiltà causato dalle visioni buone quando l’anima le ricorda.
8 — Queste visioni non possono servire all’intelletto come mezzo prossimo per l’unione con Dio, perché hanno per oggetto le creature con le quali il Signore non ha alcuna proporzione e convenienza essenziale. È quindi necessario che nei loro confronti l’anima si comporti in maniera puramente negativa, come ho già detto che si deve regolare con le altre, affinché possa andare avanti usando del mezzo prossimo, che è la fede. In conseguenza di ciò, ella non deve conservare quasi come in un archivio o in uno scrigno le forme di quelle visioni che le restano impresse, né deve appoggiarsi ad esse perché rimarrebbe imbarazzata da quelle figure, immagini e persone che risiedono nel suo intimo, e non camminerebbe verso Dio attraverso la negazione di tutte le cose. Ammesso il caso che tali immagini si rappresentino continuamente nel suo interno, non le arrecheranno alcun impedimento se essa non ne farà caso. Infatti se è vero che il loro ricordo spinge l’anima a qualche grado di amore di Dio e di contemplazione, molto di più ve la spingeranno e innalzeranno la fede pura e la nudità oscura di tutte quelle cose, senza che ella sappia come né da dove le vengano. Accade cosi che l’anima sia infiammata da ansie di puro amore divino senza sapere da dove le vengano e quale fondamento abbiano avuto. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che insieme con la fede, la quale si è radicata ed è penetrata molto a fondo a causa del vuoto, delle tenebre e della nudità di tutte le cose, o povertà di spirito [cose tutte che potrebbero essere chiamate con uno stesso nome] si è molto di più approfondita e abbarbicata nell’anima la carità di Dio. Da ciò segue che quanto più ella si sforza di ottenebrarsi e annientarsi circa tutte le cose esteriori e interiori che può ricevere, tanto più fede e quindi amore e speranza le vengono infuse poiché queste tre virtù teologali progrediscono insieme.
18 — Tutte queste conoscenze, vengano o no da Dio, possono servire ben poco al cammino dell’anima verso di Lui, qualora ella intenda attaccarvisi; al contrario, se non si prenderà cura di rinnegarle, esse non solo le saranno d’inpedimento, ma le arrecheranno grave danno e la faranno cadere in molti errori. In esse infatti possono essere, in misura uguale e anche maggiore, tutti i pericoli e gli inconvenienti che si possono verificare nelle apprensioni soprannaturali di cui si è parlato fino a questo momento. Avendone quindi già dato una dottrina sufficiente quando parlavo di queste, non mi dilungo a trattarne ora, limitandomi solo a dire che l’anima deve avere una gran cura di rifiutarle sempre desiderando di andare a Dio non sapendo e di parlarne ogni volta al confessore o al maestro spirituale, alle cui decisioni deve sottostare in modo assoluto. Questi poi cerchi di far passare l’anima al di sopra di esse negando loro ogni importanza per il cammino verso l’unione, poiché di queste cose che le vengono date passivamente, rimarrà in lei l’effetto voluto da Dio senza che ella vi ponga alcuna diligenza. Non mi sembra dunque necessario parlare dell’effetto che le vere e le false producono, poiché mi stancherei senza esaurire l’argomento. Infatti i loro effetti non possono essere compresi nel giro di una breve trattazione, visto che sono molteplici e vari, come molte e varie sone le notizie, poiché le buone producono quelli buoni, le cattive quelli cattivi. Consigliando di rifiutarle tutte, è detto a sufficienza quanto basta per non cadere in errore.

CAPITOLO 27
3 — Il demonio può intromettersi molto nei confronti di questa specie di rivelazioni. Poiché esse ordinariamente avvengono per mezzo di parole, di figure, di somiglianze ecc., egli può fingere qualche cosa di simile con più facilità di quando sono puramente spirituali. Pertanto, se nell’una o nell’altra delle due maniere suddette ci fosse rivelato alcunché di nuovo o di diverso nel campo della fede, non dobbiamo acconsentirvi in nessun modo, neppure se fossimo certi che colui il quale ce lo manifesta è un angelo del cielo. Così afferma S. Paolo: Licet nos, aut angelus de coelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit (Gal. 1, 8), che vuol dire: Anche se noi stessi o un angelo del cielo vi annunziasse o vi predicasse cose diverse da quelle che vi abbiamo annunziato noi, sia anatema.
4 — Non essendovi quindi da rivelare, circa la sostanza della fede, altri articoli, all’infuori di quelli già manifestati dalla Chiesa, ne segue che non solo è necessario per l’anima rigettare quanto di nuovo le venga rivelato in rapporto a quella virtù, ma le conviene, per cautela, non ammettere altre verietà involute. A causa poi della purezza che deve avere nella fede, ella, anche se le vengono rivelate di nuovo verità già di fede, non deve credere ad esse per la semplice ragione che le sono nuovamente manifestate, ma perché sono già sufficientemente rivelate alla Chiesa; anzi, chiudendo loro gli occhi dell’intelletto, si appoggi con semplicità alla dottrina e alla fede di lei, la quale, come dice S. Paolo, entra attraverso l’udito (Rom. 10, 17). Infine, se non vuole essere ingannata, non presti credito né attenzione a queste verità di fede nuovamente rivelate, quantunque le sembrino conformi e vere. Il demonio infatti, per ingannare e per insinuare menzogne, alimenta in primo luogo con verità o con cose verosimili, onde genenare sicurezza e subito dopo trarre in inganno. Si comporta come la setola che si usa per cucire il cuoio: prima entra la setola rigida, poi il filo floscio, il quale non potrebbe entrare se quella non gli facesse da guida.
5 — L’anima dunque stia bene attenta a ciò poiché, ammesso il caso che non vi sia da temere di essere ingannata in tal modo, sarà conveniente che ella non desideri di intendere chiaramente le verità riguardanti la fede, onde conservarne puro e intero il merito e giungere per questa notte dell’intelletto alla divina luce dell’unione con Dio. In qualsiasi nuova rivelazione importa molto attenersi alle profezie passate; ce ne dà una dimostraziene l’Apostolo S. Pietro il quale pur avendo veduto in qualche modo sul Tabor la gloria del Figlio di Dio, nella sua lettera canonica scrive queste parole: Et habemus firmiorem pro pheticum sermonem, cui bene facitis attendentes (2 Piet. I, 19), come se dicesse: sebbene sia vera la visione del Cristo da me avuta sul Tabor più ferma e certa è la parola della profezia che ci è stata annunziata, a cui fate bene ad appoggiare la vostra anima.
6 — Se è vero che, per le cause suddette, è conveniente chiudere gli occhi alle rivelazioni che hanno per oggetto le proposizioni di fede, quanto più sarà necessanio non ammettere e non dare importanza alle altre cencernenti cose diverse dalla fede, nelle quali ordinariamente il demonio si intromette in modo da farmi ritenere impossibile che eviti di essere ingannato colui il quale non si sforza di rifiutarle, tanto è grande l’apparenza di verità e la certezza che il maligno vi pone. Questi infatti, perché vi si creda, unisce loro tante verosimiglianze e convenienze e le stabilisce nel senso e nell’immaginazione così fermamente da far sembrare all’anima che esse avverranno proprio in quel mado. La spinge inoltre ad attaccarvisi con ostinazione e se essa non sarà umile, sarà molto difficile distaccarla e farle credere il contrario. Pertanto l’anima pura, prudente, semplice e umile deve resistere con grande forza e cura alle rivelazieni e alle visioni come se fossero tentazioni pericolose, poiché non è necessario desidrarle, anzi si devono rifiutare per progredine verso l’unione di amore. A ciò vuole alludere Salomone quando disse: Qual necessità ha l’uomo di volere e di cercare le cose che sono al di sopra della sua capacità? (Eccle. 7, 1), come se dicesse: per essere perfetto l’uomo non ha bisogno alcuno di volere cose soprannaturali per via soprannaturale, il che è al di sopra delle sue capacità.
7 — Poiché alle obiezioni possibli contro tale dottrina è già stato risposto ai capitoli diciannovesimo e ventesimo del presente libro, rimandando ad essi, dico solo che l’anima, per camminare puramente e senza errore nella notte della fede verso l’unione, deve guardarsi da tutti quei favori.

9 NOVEMBRE: DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE (f), UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/solenfeste/1109letPage.htm

9 NOVEMBRE: DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE (f)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla prima lettera di san Pietro, apostolo 2, 1-17

L’edificio spirituale fatto di pietre vive
Carissimi, deposta ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie, e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore (Sal 33, 9). Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso (Is 28,16).
Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo (Sal 117, 22; Is 8, 14).
Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati, Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce (Es 19, 6; Is 43, 20.21); voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (Os 1,9.6).
Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima. La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio.
State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio.
Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Cesario di Arles, vescovo
(Disc. 229, 1-3; CCL 104,905-908)

Con il battesimo siamo tutti diventati tempio di Dio
Con gioia e letizia celebriamo oggi, fratelli carissimi, il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo e vero di Dio dobbiamo esserlo noi. Questo è vero senza dubbio. Tuttavia i popoli cristiani usano celebrare la solennità della chiesa matrice, poiché sanno che è proprio in essa che sono rinati spiritualmente.
Per la prima nascita noi eravamo coppe dell’ira di Dio; la seconda nascita ci ha resi calici del suo amore misericordioso. La prima nascita ci ha portati alla morte; la seconda ci ha richiamati alla vita. Prima del battesimo tutti noi eravamo, o carissimi, tempio del diavolo. Dopo il battesimo abbiamo meritato di diventare tempio di Cristo. Se rifletteremo un po’ più attentamente sulla salvezza della nostra anima, non avremo difficoltà a comprendere che siamo il vero e vivo tempio di Dio. «Dio non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo» (At 17, 24), o in case fatte di legno e di pietra, ma soprattutto nell’anima creata a sua immagine per mano dello stesso Autore delle cose. Il grande apostolo Paolo ha detto: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3, 17). Poiché Cristo con la sua venuta ha cacciato il diavolo dal nostro cuore per prepararsi un tempio dentro di noi, cerchiamo di fare, col suo aiuto, quanto è in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Chiunque si comporta male, fa ingiuria a Cristo. Prima che Cristo ci redimesse, come ho già detto, noi eravamo abitazione del diavolo. In seguito abbiamo meritato di diventare la casa di Dio, solo perché egli si è degnato di fare di noi la sua dimora.
Se dunque, o carissimi, vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Parlerò in modo che tutti mi possano comprendere: tutte le volte che veniamo in chiesa, riordiniamo le nostre anime così come vorremmo trovare il tempio di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che, anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa’ piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce, delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima. Lo ha affermato egli stesso quando ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò (cfr. Lv 26, 11.12).

15 OTTOBRE : SANTA TERESA D’AVILA – MEDITAZIONI

http://www.unavox.it/m21.htm

15 OTTOBRE : SANTA TERESA D’AVILA

[SANTA TERESA D'AVILA, Opere, Esclamazioni dell'anima a Dio, Postulazione Generale O. C. D., Roma, 1981.]

MEDITAZIONI

6.
1 – Delizia mia, Signore del creato e Dio mio, fino a quando dovrò aspettare per vedervi di presenza? Che rimedio offrite a chi quaggiú ne ha cosí poco per avere un po’ di sollievo fuor di Voi? Oh, vita lunga! vita amara! vita che non si vive! Oh, desolata solitudine che non ha rimedio! Quando, dunque, Signore? Quando? quando?… 
Che farò io; mio Bene, che farò? Desidererò forse di non piú desiderarvi? Ah, mio Dio e creator mio! Voi ferite e non date il rimedio; piagate e le piaghe non si vedono; uccidete per lasciare piú vivi! In una parola, Signore, fate quello che vi piace, dimostrandovi onnipotente. E insieme volete, o mio Dio, che un verme cosí spregevole provi in sé stesso tanti contrari sentimenti!… 
Sia cosí, Signore, perché Voi lo volete. Io non voglio altro che amarvi.
2 – Ahi, ahi, Creator mio! Il mio immenso dolore mi fa uscire in lamenti e mi óbbliga a riconoscere che sarà senza rimedio fino a quando non piacerà a Voi di porvi fine. Dal suo stretto carcere l’ánima mia desidera la libertà ma sempre a patto di non allontanarsi in nulla da quello che Voi volete. – O fate, Gloria mia, che il suo spasimo aumenti, o apportatele un rimedio radicale. 
O morte, morte, come ti si può temere se in te è la vita! 
Eppure, chi non temerà dopo aver trascorso parte dei suoi giorni senza amare il suo Dio? E poiché questo è il caso mio, che cosa chiedo e desidero? Forse il castigo meritatomi con i miei peccati? – Non permettetelo, mio Bene, per il molto che vi è costato redímermi!
3 – Anima mia, lascia che si compia la volontà del tuo Dio, perché cosí ti conviene. Sérvilo e spera nella sua bontà, e quando avrai fatto penitenza dei tuoi peccati e ne avrai meritato un po’ perdono, Egli darà rimedio al tuo dolore. – Non voler godere senza prima patire. 
Ma neppur questo sono capace di fare se non mi sostenete Voi con la vostra mano potente e con la vostra grandezza, o mio vero re e Signore. Col vostro aiuto mi sarà facile ogni cosa. 

7.
1 – Speranza mia, Padre mio, mio Creatore, mio vero Signore e Fratello, quando penso a quello che Voi dite, cioè, che le vostre delizie sono nell’abitare con i figliuoli degli uomini, la mia ánima s’inonda di gioia. Signore del cielo e della terra, ov’è il peccatore che dopo tali parole possa ancora disperare? Forse, Signore, che non avete altri con cui deliziarvi per venir da un verme cosí ributtante come son io? Quando vostro Figlio fu battezzato, si udí che Voi vi compiacevate in Lui. Gli siamo forse uguali Signore? 
Oh, immensa misericordia! Oh, favore infinitamente superiore ai nostri meriti! E noi, mortali, ce ne scorderemo? – Signore, voi che conoscete ogni cosa, pensate alla nostra debolezza e non dimenticatevi della nostra immensa miseria!
2 – Considera, ánima mia, con che gioia ed amore il Padre riconosce suo Figlio e il Figlio suo Padre; contempla l’ardore con cui lo Spirito Santo si unisce ad Essi, e come nessuno dei Tre possa separarsi da tanto amore e conoscenza, formando essi una cosa sola: si conoscono, si amano e si compiacciono a vicenda. Ora, che bisogno v’è del mio amore? Perché lo volete, o mio Dio? Che ci guadagnate con esso? – Oh, siate per sempre benedetto, mio Dio! Tutte le creature vi lodino, e con lodi senza fine, come senza fine siete Voi!
3 – Rallégrati, ánima mia, per esserci chi ama il tuo Dio come merita; rallégrati per esserci chi conosce la sua bontà e potenza, e ringrazialo per aver Egli inviato sulla terra il suo unico Figliuolo che cosí bene lo conosce, con la protezione del Quale puoi avvicinarti al tuo Dio e pregarlo. Se Egli trova in te le sue delizie, non permettere che le cose della terra t’impediscano di trovare il Lui le tue e di rallegrarti delle sue grandezze. Giacché tanto merita di essere amato e lodato, pregalo che ti dia di contribuire almeno un poco nel far celebrare il suo nome, onde tu possa dire con verità: La mia ánima loda ed esalta il Signore.

[SANTA TERESA D'AVILA, Opere, Esclamazioni dell'anima a Dio, Postulazione Generale O. C. D., Roma, 1981.]

Publié dans:MEDITAZIONI, SANTI, Santi - scritti |on 15 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

29 agosto: Martirio di San Giovanni Battista – Dalla Lettera a Donato di san Cipriano di Cartagine.

http://www.certosini.info/lezion/Santi/29%20agosto%20martirio%20di%20S.%20Giovanni%20Battista.htm

29 AGOSTO: MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA

Dalla Lettera a Donato di san Cipriano di Cartagine.
Epist. I. ad Donatum, 3-6. 14 . PL 4,198-205. 220-221.

Un tempo io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tutte le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano innanzi, vagavo in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita.
Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse davvero difficile e duro, per i miei sentimenti di quel periodo, ciò che la misericordia di Dio mi pro­metteva per portarmi alla salvezza.
Reputavo fosse difficile poter nuovamente rinasce­re e deporre le abitudini precedenti, anche se il batte­simo nell’acqua della salvezza mi rinnovava a nuova vita. Stimavo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l’animo senza mutare nel suo fisico.
Continuavo a dirmi: “Come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto ad un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi di quelle abitudini che ho indebitamente contratte?”.
Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero legato dai moltissimi errori della mia vita passata e non crede­vo di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualcosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me.
Ma sopraggiunse l’aiuto dell’acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall’alto si diffuse una luce nel mio cuore purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai un uomo nuovo.
Dopo questo evento, ciò che era segnato dal dub­bio improvvisamente divenne, in modo che non saprei descrivere, una certezza; quello che era impenetrabile e pieno di tenebra mi apparve accessibile e luminoso.
Potevo raggiungere quello che prima mi sembrava assurdo e fare quello che finora ritenevo impossibile. Avevo così la possibilità di capire come fosse terreno l’uomo di prima, nato dalla carne e schiavo dei vizi.
Comprendevo che cominciava ad appartenere a Dio quello che lo Spirito Santo aveva già animato. Sai bene anche tu, e lo ammetti con me, ciò che questa morte del peccato, ciò che questa vita di virtù mi hanno rispettivamente tolto e donato. Lo sai e non insisto; è odioso lodare se stessi, anche se non può essere millanteria ma gratitudine ciò che attri­buiamo al dono di Dio e non alla nostra capacità umana. Infatti ammettiamo quale effetto della fede il non peccare, e quale effetto dell’errore umano il peccato.
È opera di Dio, lo ripeto, è opera di Dio tutto ciò che noi possiamo. Da lui abbiamo la vita e il vigo­re; grazie alla capacità che ci dona, possiamo pregusta­re qualcosa dei beni futuri, anche se siamo ancora su questa terra. Ci deve essere solo il timore come custode della nostra innocenza, perché il Signore, che si è riversato nei nostri cuori con il tocco della sua bontà e del suo perdono celeste, si fermi nel nostro animo, allietato dalla buona ospitalità delle nostre opere sante.
Se tu riesci a camminare con passo sicuro sulla via dell’innocenza e della salvezza, se tu, unito a Dio con tutte le forze e con tutto il cuore, rimani sempli­cemente quello che hai cominciato ad essere, ti sarà concessa possibilità di agire in proporzione di quanto crescerà in te la grazia dello Spirito.
Nell’usufruire dei doni di Dio non vi è nessuna misura o limite, come invece accade per i benefici terreni. Lo Spirito si effonde abbondante e non viene costretto da confini, non è obbligato entro limiti, non viene frenato in spazi circoscritti. Lo Spirito scaturisce senza posa, fluisce traboccando; occorre solo che il nostro cuore abbia sete e si apra.
Attingeremo l’abbondante grazia in proporzione della nostra capacità di fede. Dallo Spirito scende a noi la possibilità di vivere una vita sobria e casta, di avere sinceri pensieri e una parola altrettanto since­ra. Grazie allo Spirito possiamo superare vittoriosi i mortali veleni quando veniamo colpiti; da lui abbiamo la capacità di ritornare in salute e di eliminare le brutture del nostro animo quando sbagliamo.
È lo Spirito che ci permette di far diventare paci­fici coloro che sono sconvolti dall’ira e dall’odio e di ridurre i violenti a mitezza. È lo Spirito che ci dona la forza di minacciare e umiliare gli spiriti immondi che si aggirano intorno e penetrano negli uomini per corromperli. Con lo Spirito possiamo sferzare terribilmente questi spiriti e costrin­gerli ad andarsene o abbatterli mentre oppongono resistenza, lamenti e gemiti, aumentandone le sofferen­ze. Con lo stesso Spirito li flagelliamo e li tormentiamo con il fuoco. È una battaglia che si combatte e non si vede: i colpi sono invisibili ma la pena è manifesta.
Lo Spirito che abbiamo ricevuto agisce con la sua potenza, perché noi partecipiamo ad una vita nuova. Non abbiamo però ancora cambiato il corpo e le mem­bra; per questo la vista umana resta ancora nel buio, perché il sensibile si frappone come una nube.
Che potenza spirituale, che forza è questa! Non solo sottrarsi ai contatti perniciosi del mondo, ma non lasciarsi più contagiare dalla corruttela del nemico che rinnova i suoi assalti, purificati come siamo. L’ani­mo si rinvigorisce e si rinsalda nelle proprie forze tanto da dominare imperiosamente tutto l’esercito del nemico che viene all’assalto.
Perché gli effetti della presenza divina ti appaiano più luminosi, cercherò di illuminarti svelandoti la veri­tà. Dopo aver dissipato la caligine del male, ti mostrerò le tenebre che avvolgono il mondo.
Immagina di essere sollevato su una delle cime più alte di un monte scosceso e di osservare da lassù le cose che si estendono ai tuoi piedi. Gira lo sguardo in diverse direzioni e contempla il turbinare che scon­volge il mondo, mentre tu sei libero da ogni contatto terreno.
Avrai allora compassione per questo mondo e maggiormente consapevole della tua situazione, ne sarai tanto più riconoscente a Dio e con gioia più viva lo ringrazierai di esserne scampato. Osserva: le strade sono infestate da rapinatori, i pirati percorrono i mari, dappertutto l’orrore del sangue sparso e dei campi di guerra. Il mondo gronda di sangue fraterno: l’omici­dio, considerato un delitto quando è commesso dai singoli, diventa virtù se compiuto in nome dello stato! A questo livello, l’impunità non è garantita dall’innocen­za, ma dall’atrocità della ferocia.
Esiste una sola tranquillità certa e serena, una sola sicurezza stabile su cui si possa contare: quella di chi si ritrae dal turbinio di questo mondo inquieto e, gettata per sempre l’ancora nel porto della salvezza, eleva lo sguardo dalla terra verso il cielo. Ammesso a godere del tesoro divino, tale uomo è ormai interiormente ac­canto al suo Dio. Si vanta di non avere più occhi per le cose terrene che ad altri appaiono grandi e sublimi.
Chi è superiore al mondo non può ormai attendere o desiderare qualcosa dalla società mondana. Essere sciolto dai lacci del mondo circostante, purificato dalla feccia terrena sotto la luce dell’eterna immortali­tà, significa avere garantita una protezione continua e irreversibile e il sostegno celeste per giungere ai beni eterni.
Allora ci si rende conto fino a che punto il nemico con i suoi attacchi tramava insidiosamente a nostra rovina. Così siamo spinti ad amare quel che saremo, tanto più che ci è possibile conoscere e condannare quello che eravamo. Non abbiamo bisogno per questo di denaro, di raggiri e di forza, come se si trattasse di procurarci una grandissima dignità. E’ dono di Dio gratuito e facile. Come spontaneamente il sole diffonde i suoi raggi, il giorno porta la luce, la fonte zampilla d’acqua, la pioggia irrora la terra, così lo Spirito celeste si diffonde in noi.
Dopo che l’uomo si è rivolto verso il cielo e ha conosciuto il suo Creatore, si innalza sopra il sole e ogni potenza terrena, cominciando ad essere ciò che sa di essere.

9

SANT’AGOSTINO: LA PAROLA CREATRICE DI DIO, IL TEMPO, da: Le Confessioni (festa 28 agosto)

http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm

(sul mio blog: In cammino verso Gesù Cristo, Santa Monica, da « Le Confessioni »

SANT’AGOSTINO: LA PAROLA CREATRICE DI DIO, IL TEMPO

LE CONFESSIONI, LIBRO XI, 3-31

La Parola creatrice di Dio

Ricorso a Dio per comprendere le Scritture
3. 5. Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra 44. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole, presterei le orecchie del mio corpo ai suoni sgorganti dalla sua bocca. Se parlasse in ebraico, invano busserebbe ai miei sensi 45 e nulla di lì giungerebbe alla mia mente. Se invece in latino, saprei che dice; ma come saprei se dice il vero? E anche se lo sapessi, da lui lo saprei? Dentro di me piuttosto, nell’intima dimora del pensiero la verità, non ebraica né greca né latina né barbara, mi direbbe, senza strumenti di bocca e di lingua, senza suono di sillabe: « Dice il vero ». E io subito direi sicuro, fiduciosamente a quel tuo uomo: « Dici il vero ». Invece non lo posso interrogare; quindi mi rivolgo a te, Verità 46, Dio mio, da cui era pervaso quando disse cose vere; mi rivolgo a te: perdona i miei peccati 47. E tu, che concedesti al tuo servo di enunciare questi veri, concedi anche a me di capirli 48.

Esistenza e creazione del mondo
4. 6. Ecco che il cielo e la terra esistono, proclamano con i loro mutamenti e variazioni la propria creazione. Ma tutto ciò che non è stato creato e tuttavia esiste, nulla ha in sé che non esistesse anche prima, poiché questo sarebbe un mutamento e una variazione. Ancora proclamano di non essersi creati da sé: « Esistiamo, per essere stati creati. Dunque non esistevamo prima di esistere, per poterci creare da noi ». La voce con cui parlano è la loro stessa evidenza. Tu dunque, Signore, li creasti, tu che sei bello, poiché sono belli; che sei buono, poiché sono buoni; che sei, poiché sono. Non sono così belli, né sono così buoni, né sono così come tu, loro creatore, al cui confronto non sono belli, né son buoni, né sono. Lo sappiamo, e ne siano rese grazie a te, sebbene il nostro sapere paragonato al tuo sia un ignorare.

Attività umana e creazione divina
5. 7. Ma come creasti il cielo e la terra 49? quale strumento impiegasti per un’operazione così grande? Non ti accadde certamente come a un uomo, che, artista, riproduce in un corpo le forme di un altro corpo seguendo i cenni dello spirito, capace d’imporre entro certi limiti le immagini che vede dentro di sé con l’occhio interiore: e come sarebbe capace di tanto, se non per essere stato creato da te? Lo spirito impone le sue immagini su qualcosa che già esiste e possiede quanto basta per esistere, come la terra o la pietra o il legno o l’oro o qualsiasi altro materiale di tale genere. Ora, fuori dalla tua azione, da dove potrebbero derivare queste materie? Tu desti all’artista un corpo, tu uno spirito, che comanda le membra, tu la materia, con cui attua l’opera, tu l’ingegno, con cui acquistare l’arte e vedere dentro ciò che attuerà fuori di sé; tu i sensi del corpo, per il cui mezzo trasferire dallo spirito alla materia l’opera e ragguagliare poi lo spirito sulla sua attuazione, affinché quest’ultimo consulti in se stesso la verità che lo governa, sulla bontà dell’opera attuata. Tutte queste cose ti lodano come creatore di tutte le cose. Ma tu come le crei? come creasti, o Dio, il cielo e la terra? Non certo in cielo e in terra creasti il cielo e la terra; nemmeno nell’aria o nell’acqua, che pure appartengono al cielo e alla terra. Nemmeno creasti l’universo nell’universo, non esistendo lo spazio ove crearlo, prima di crearlo perché esistesse. Né avevi fra mano un elemento da cui trarre cielo e terra: perché da dove lo avresti preso, se non fosse stato creato da te, per crearne altri? ed esiste qualcosa, se non perché esisti tu? Dunque tu parlasti, e le cose furono create 50; con la tua parola le creasti 51.

Parola umana e Verbo divino
6. 8. Ma come parlasti? Forse così, come uscì la voce dalla nube e disse: « Questo è il Figlio mio diletto » 52? Fu, quella, una voce che si produsse e svanì, ebbe un principio e una fine; le sue sillabe risuonarono e trapassarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda e così via, ordinatamente, fino all’ultima dopo tutte le altre, e al silenzio dopo l’ultima. Ne risulta chiaramente che venne prodotta dal moto di una cosa creata, ministra temporale della tua verità eterna; e queste tue parole formate temporaneamente furono trasmesse dall’orecchio esteriore alla ragione intelligente, il cui orecchio interiore è accostato alla tua parola eterna. Ma la ragione, confrontando queste parole risuonate nel tempo, con la tua parola silenziosa nell’eternità, disse: « È cosa assai diversa, assai diversa. Queste parole sono assai più in basso di me, anzi neppure sono, poiché fuggono e passano. La parola del mio Dio invece permane sopra di me eternamente 53″. Se dunque con parole sonore e passeggere ti esprimesti per creare il cielo e la terra, e così creasti il cielo e la terra, esisteva già prima del cielo e della terra una creatura corporea, i cui movimenti, avvenendo nel tempo, trasmettevano temporaneamente quella voce. Ma prima del cielo e della terra non esisteva alcun corpo, o, se esisteva, l’avevi creato certamente senza una voce passeggera, per trarne una voce passeggera con cui dire che fossero creati il cielo e la terra. Qualunque fosse l’elemento necessario a formare una tale voce, non sarebbe affatto esistito fuori dalla tua creazione; ma per creare il corpo necessario a tali parole, con quali parole avresti parlato?

Eternità del Verbo
7. 9. Così ci chiami a comprendere il Verbo, Dio presso te Dio 54, proclamato per tutta l’eternità e con cui tutte le cose sono proclamate per tutta l’eternità. In esso non finiscono i suoni pronunciati, né altri se ne pronunciano perché tutti possano essere pronunciati, ma tutti insieme ed eternamente sono pronunciati. In caso diverso vi si troverebbe già il tempo, e mutamenti, e non vi sarebbe vera eternità né vera immortalità. Lo so, Dio mio, e ti ringrazio 55; lo so, te lo confesso, Signore, e lo sa con me, e ti benedice, chiunque non è ingrato verso la verità sicura. Noi sappiamo, Signore, sì, sappiamo che una cosa muore e nasce in quanto cessa di essere ciò che era, e comincia a essere ciò che non era. Nulla dunque nella tua parola scompare o appare, poiché davvero è immortale ed eterna. Con questa parola coeterna con te enunci tutto assieme e per tutta l’eternità ciò che dici, e si crea tutto ciò di cui enunci la creazione. Non in altro modo, se non con la parola, tu crei; ma non per questo si creano tutte assieme e per tutta l’eternità le cose che con la parola crei.

Il Verbo nel tempo
8. 10. Perché ciò, di grazia, Signore Dio mio? Lo vedo in qualche modo, ma come esprimerlo non so. Forse così: ogni essere che comincia e finisce, comincia e finisce quando la tua ragione eterna riconosce che doveva cominciare o finire, la tua ragione, ove nulla comincia né finisce. Questa ragione appunto è il tuo Verbo, che è anche il principio, perché anche ci parla 56. Parlò nel Vangelo mediante la carne e risuonò esteriormente alle orecchie degli uomini, affinché credessero in lui e lo cercassero in sé e lo trovassero nella verità eterna, ove il buono e unico Maestro 57 istruisce tutti i suoi discepoli. Ivi odo la tua voce, Signore, la quale mi dice che chi ci parla ci istruisce, chi non ci istruisce, per quanto parli, non ci parla. Ora, chi ci istruisce, se non la verità immutabile? Anche quando siamo ammoniti da una creatura mutabile, siamo condotti alla verità immutabile, ove davvero impariamo, ascoltando immoti. Ci prende la gioia alla voce dello sposo 58, che ci restituisce a Colui da cui veniamo. Perciò è il principio. Se non fosse stabile, mentre noi erriamo, non avremmo dove ritornare. Invece quando torniamo dai nostri errori, torniamo appunto perché conosciamo, e conosciamo perché lui ci insegna, in quanto è il Principio e ci parla 59.

Il lume della Sapienza
9. 11. In questo principio, o Dio, creasti il cielo e la terra 60: cioè nel tuo Verbo, nel tuo figlio, nella tua virtù, nella tua sapienza, nella tua verità, con una parola straordinaria compiendo un atto straordinario. Chi potrà comprenderlo? chi descriverlo? Cos’è, che traspare fino a me e mi colpisce il cuore senza ferirlo? Timore e ardore mi scuotono: timore, per quanto ne sono dissimile; ardore, per quanto ne sono simile. La Sapienza, la vera Sapienza traspare fino a me, squarciando le mie nubi, che mi ricoprono, quando nuovamente mi allontano da lei, entro l’alta foschia del mio castigo. Il mio vigore si è indebolito nell’indigenza 61 tanto da non poter tollerare il mio bene; finché tu, Signore, divenuto benigno verso tutte le mie malvagità, guarisca ancora tutte le mie debolezze. Riscatterai dalla corruzione la mia vita, m’incoronerai di commiserazione e misericordia, sazierai nei beni il mio desiderio, perché la mia giovinezza si rinnoverà come quella dell’aquila 62. Nella speranza fummo salvati e con pazienza attendiamo 63 le tue promesse. Chi può, ascolti la tua parola dentro di sé; io fiducioso griderò col tuo oracolo: « Quale magnificenza, Signore, le tue opere; tu creasti tutto nella tua sapienza » 64. Essa è il principio, e in quel principio creasti il cielo e la terra.

Il tempo

Un’obiezione
10. 12. Non sono forse pieni della loro vecchiezza 65 quanti ci dicono : « Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra 66? Se infatti, continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall’operare 67? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un’eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura, perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v’era, quella sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe eterna anche la creatura? ».

Tempo ed eternità
11. 13. Quanti parlano così non ti comprendono ancora, o sapienza di Dio 68, luce delle menti. Non comprendono ancora come nasce ciò che nasce da te e in te. Vorrebbero conoscere l’eterno, ma la loro mente volteggia ancora vanamente 69 nel flusso del passato e del futuro. Chi la tratterrà e la fisserà, affinché, stabile per un poco, colga per un poco lo splendore dell’eternità sempre stabile, la confronti con il tempo mai stabile, e veda come non si possa istituire un confronto, come il tempo dura per il passaggio di molte brevi durate, che non possono svolgersi simultaneamente, mentre nell’eternità nulla passa, ma tutto è presente, a differenza del tempo, mai tutto presente; come il passato sia sempre sospinto dal futuro, e il futuro segua sempre al passato, e passato e futuro nascano e fluiscano sempre da Colui che è l’eterno presente? Chi tratterrà la mente dell’uomo, affinché si stabilisca e veda come l’eternità stabile, non futura né presente, determini futuro e presente? Sarebbe la mia mano capace 70 di tanto, o la mano della mia bocca produrrebbe con parole un effetto così grande?

Risposte: – Dio non faceva alcunché;
12. 14. Ecco come rispondo a chi chiede: « Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra 71″. Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose, eludendo con una facezia l’insidiosità della domanda: « Preparava la geenna per chi scruta i misteri profondi ». Altro è capire, altro è schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: « Non so ciò che non so », anziché in modo d’attirare il ridicolo su chi ha posto una domanda profonda, e la lode a chi diede una risposta falsa. Invece dico che tu, Dio nostro, sei il creatore di ogni cosa creata; e se col nome di cielo e terra s’intende ogni cosa creata, arditamente dico: « Dio, prima di fare il cielo e la terra, non faceva alcunché ». Infatti, se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? Oh, se io sapessi quanto desidero con mio vantaggio di sapere, allo stesso modo come so che non esisteva nessuna creatura avanti la prima creatura!

- non v’è tempo senza creazione.
13. 15. Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare 72, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? e come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l’iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra 73, non si può dire che ti astenevi dall’operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo.

L’eternità divina superiore ai tempi
13. 16. Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi. Altrimenti non li precederesti tutti. E tu precedi tutti i tempi passati dalla vetta della tua eternità sempre presente; superi tutti i futuri, perché ora sono futuri, e dopo giunti saranno passati. Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai 74. I tuoi anni non vanno né vengono; invece questi, i nostri, vanno e vengono, affinché tutti possano venire. I tuoi anni sono tutti insieme, perché sono stabili; non se ne vanno, eliminati dai venienti, perché non passano. Invece questi, i nostri, saranno tutti quando tutti non saranno più. I tuoi anni sono un giorno solo 75, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all’ieri. Il tuo oggi è l’eternità. Perciò generasti coeterno con te Colui, cui dicesti: « Oggi ti generai » 76. Tu creasti tutti i tempi, e prima di tutti i tempi tu sei, e senza alcun tempo non vi era tempo.

Il concetto di tempo
14. 17. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.

La durata del passato e del futuro
15. 18. Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendosi soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia 77, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all’istante di essere lungo, poiché cessò di essere.

La durata del presente
15. 19. Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possano essere presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell’unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l’anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l’ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, sta fra giorni passati e futuri.
15. 20. Ecco cos’è il tempo presente, l’unico che trovavamo possibile chiamare lungo: ridotto stentatamente alla durata di un giorno solo. Ma scrutiamo per bene anche questo giorno, perché neppure un giorno solo è presente tutto. Le ore della notte e del giorno assommano complessivamente a ventiquattro. Per la prima di esse tutte le altre sono future, per l’ultima passate, per qualunque delle intermedie passate le precedenti, future le seguenti. Ma quest’unica ora si svolge essa stessa attraverso fugaci particelle: quanto ne volò via, è passato; quanto le resta, futuro. Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha nessuna estensione. Dove trovare allora un tempo che possiamo definire lungo? Il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, poiché non è ancora, per poter essere lungo; bensì diciamo che sarà lungo. Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, non essendovi ancora nulla, che possa essere lungo; se sarà lungo allora, quando da futuro ancora inesistente sarà già cominciato ad essere e sarà diventato presente, così da poter essere qualcosa di lungo, con le parole or ora riferite il tempo presente grida di non poter essere lungo.

La misurazione del tempo
16. 21. Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo; essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è.

L’esistenza del passato e del futuro
17. 22. Io cerco, Padre, non affermo. Dio mio, vigilami e guidami 78. Chi vorrà dirmi che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e insegnato ai bambini, ossia il passato, il presente e il futuro, ma che vi è solo il presente, poiché gli altri due non sono? O forse anche gli altri due sono, però il presente esce da un luogo occulto, allorché da futuro diviene presente, così come si ritrae in un luogo occulto, allorché da presente diviene passato? In verità, chi predisse il futuro, dove lo vide, se il futuro non è ancora? Non si può vedere ciò che non è. Così chi narra il passato, non narrerebbe certamente il vero, se non lo vedesse con l’immaginazione. Ma se il passato non fosse affatto, non potrebbe in nessun modo essere visto. Bisogna concludere che tanto il futuro quanto il passato sono.

Presenza del passato e del futuro
18. 23. Lasciami estendere, o Signore, la mia ricerca, tu, speranza mia 79. Fa’ che nulla disturbi il mio sforzo. Se il futuro e passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti. Nel narrare fatti veri del passato, non si estrae già dalla memoria la realtà dei fatti, che sono passati, ma le parole generate dalle loro immagini, quasi orme da essi impresse nel nostro animo mediante i sensi al loro passaggio. Così la mia infanzia, che non è più, è in un tempo passato, che non è più; ma quando la rievoco e ne parlo, vedo la sua immagine nel tempo presente, poiché sussiste ancora nella mia memoria. Se sia analogo anche il caso dei fatti futuri che vengono predetti, se cioè si presentano come già esistenti le immagini di cose ancora inesistenti, confesso, Dio mio, di non saperlo. So però questo, che sovente premeditiamo i nostri atti futuri, e che tale meditazione è presente, mentre non lo è ancora l’atto premeditato, poiché futuro. Solo quando l’avremo intrapreso, quando avremo incominciato ad attuare il premeditato, allora esisterà l’atto, poiché allora non sarà futuro, ma presente.

La predizione del futuro
18. 24. Qualunque sia la natura di questo arcano presentimento del futuro, certo non si può vedere se non ciò che è. Ora, ciò che è, non è futuro, ma presente, e così, allorché si dice di vedere il futuro, non si vedono le cose, ancora inesistenti, cioè future, ma forse le loro cause o i segni, già esistenti. Perciò si vedono non cose future, ma cose già presenti al veggente, che fanno predire le future immaginandole con la mente. Queste immaginazioni a loro volta già esistono, e chi predice le vede presenti innanzi a sé. Mi suggerisca qualche esempio l’innumerevole massa dei fatti. Se osservo l’aurora, preannuncio la levata del sole. L’oggetto della mia osservazione è presente; quello della mia predizione, futuro: non futuro il sole, che esiste già, ma la sua levata, che non esiste ancora. Però non potrei predire nemmeno la levata senza immaginarla dentro di me come ora che ne parlo. Eppure né l’aurora che vedo in cielo è la levata del sole, quantunque la preceda, né lo è l’immagine nel mio animo: queste due cose si vedono presenti, per poter definire in anticipo quell’evento futuro. Dunque il futuro non esiste ancora, e se non esiste ancora, non si può per nulla vedere; però si può predire sulla scorta del presente, che già esiste e si può vedere.

Il mistero della profezia
19. 25. Quindi tu, che sei il re del tuo creato, in che modo insegni alle anime il futuro? L’hai pure insegnato ai tuoi profeti. In che modo insegni il futuro, se per te nulla è futuro? O meglio, in che modo insegni le cose presenti che riguardano le future? Ciò che non è, non si può evidentemente insegnare. Il tuo procedimento qui è troppo lontano dalla mia vista, ha superato le mie forze, non vi potrò giungere 80; ma potrò con le tue, quando lo concederai tu, dolce lume dei miei occhi 81 occulti.

Un’inesattezza del linguaggio corrente
20. 26. Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l’espressione abusiva entrata nell’uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire.

Misurazione di spazi di tempo
21. 27. Dissi poc’anzi 82 che misuriamo il tempo al suo passaggio. Così possiamo dire che questa porzione di tempo è doppia di quella, che è semplice, o lunga quanto quella; oppure, misurandola, indicare qualsiasi altro rapporto fra porzioni di tempo. In tal modo, come dicevo, misuriamo il tempo al suo passaggio. Se mi si chiedesse: « Come lo sai? », risponderei: « Lo so perché misuriamo, e non possiamo misurare ciò che non è, e non è né il passato né il futuro ». Il tempo presente, poi, come lo misuriamo, se non ha estensione? Lo si misura mentre passa; passato, non lo si misura, perché non vi sarà nulla da misurare. Ma da dove, per dove, verso dove passa il tempo, quando lo si misura? Non può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il passato, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Ma noi non misuriamo il tempo in una certa estensione? Infatti non parliamo di tempi semplici, doppi, tripli, uguali, e di altri rapporti del genere, se non riferendoci a estensioni di tempo. In quale estensione dunque misuriamo il tempo al suo passaggio? Nel futuro, da dove passa? Ma ciò che non è ancora, non si misura. Nel presente, per dove passa? Ma una estensione inesistente non si misura. Nel passato, verso dove passa? Ma ciò che non è più, non si misura.

Supplica a Dio
22. 28. Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e s’illuminino al lume della tua misericordia, Signore. Chi interpellare su questi argomenti, a chi confessare la mia ignoranza più vantaggiosamente che a te, cui non è sgradito il mio studio ardente, impetuoso delle tue Scritture? Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Dammi, o Padre, che davvero sai dare ai tuoi figli doni buoni 83; dammi, poiché mi sono proposto di conoscere e mi attende un lavoro faticoso 84, finché tu mi schiuda la porta 85. Per Cristo ti supplico, in nome di quel santo dei santi nessuno mi disturbi. Anch’io ho creduto, perciò anche parlo 86. Questa è la mia speranza, per questa vivo: di contemplare le delizie del Signore 87. Ecco, tu hai stabilito i miei giorni decrepiti 88, ed essi passano, e non so come. Noi parliamo di tempo e tempo, di tempi e tempi. « Quanto tempo fa lo disse! », « Quanto tempo fa lo fece! », e: « Da quanto tempo non lo vedo! », e: « Questa sillaba ha una durata di tempo doppia di quell’altra, breve »: così diciamo e udiamo, così ci facciamo comprendere e comprendiamo. Sono espressioni chiarissime, usatissime; eppure sono estremamente oscure, e astrusa è la loro spiegazione.

Il tempo e il movimento
23. 29. Ho udito dire da una persona istruita che il tempo è, di per sé, il moto del sole, della luna e degli astri ; e non assentii. Perché il tempo non sarebbe piuttosto il moto di tutti i corpi? Qualora si arrestassero gli astri del cielo, e si muovesse la ruota del vasaio, non esisterebbe più il tempo per misurarne i giri e poter dire che hanno durate uguali, oppure, se si svolgono ora più lenti, ora più veloci, che gli uni sono più lunghi, gli altri meno? E ciò dicendo, non parleremmo noi stessi nel tempo? e non vi sarebbero nelle nostre parole sillabe lunghe e brevi per la sola ragione che le prime risuonarono per un tempo più lungo, le seconde più breve? O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà. Esistono astri e lumi del cielo quali segni delle stagioni, dei giorni e degli anni 89, esistono, è vero; ma come io non oserei affermare che la rivoluzione di quella rotella di legno sia il giorno, neppure quel saggio oserà dire che perciò non sia un tempo.
23. 30. Io desidero conoscere il valore e la natura del tempo, lo strumento con cui misuriamo i movimenti del corpo e diciamo che uno di essi è per esempio lungo il doppio di un altro. Questo cerco di sapere: si dà nome di giorno non solo al periodo in cui il sole permane sopra la terra, secondo il quale si distingue il giorno dalla notte, ma anche all’intera rotazione che il sole compie da oriente a oriente, secondo la quale si dice: « Passarono tanti giorni », designando con i giorni anche le notti rispettive, che non si considerano a parte; ebbene, poiché il giorno si completa col movimento rotatorio del sole da oriente a oriente, io cerco di sapere se il giorno è il movimento stesso, oppure il periodo in cui si compie, oppure l’una cosa e l’altra. Se il giorno fosse il movimento del sole, avremmo un giorno anche quando il sole compisse quel suo corso nello spazio di tempo di un’ora; se fosse il periodo in cui si compie, non vi sarebbe giorno quando l’intervallo fra una levata e l’altra del sole fosse breve come quello di un’ora sola, ma il sole dovrebbe effettuare la sua rotazione ventiquattro volte per colmare un giorno intero; se fosse l’uno e l’altro, non si potrebbe parlare di giorno né quando il sole percorresse tutto il suo giro nello spazio di un’ora, né quando passasse tanto tempo col sole fermo, quanto ne impiega abitualmente il sole a compiere l’intero circuito da mattino a mattino. Quindi ora non cercherò più di sapere cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma cosa sia il tempo, con cui misuriamo la rotazione del sole, per il quale diremmo che la compì nella metà dello spazio di tempo abituale, qualora l’avesse compiuta nello spazio di tempo in cui si compiono dodici ore; e diremmo, confrontando queste due durate, che la seconda è semplice, la prima doppia, anche qualora la rotazione del sole da oriente a oriente avesse talvolta quella durata semplice, talvolta questa doppia. Dunque non mi si dica che il tempo è il movimento dei corpi celesti. Quando il sole si fermò all’appello di un uomo per dargli modo di concludere una battaglia vittoriosa, il sole era fermo 90, ma il tempo procedeva, tant’è vero che la battaglia fu condotta e finita nello spazio di tempo ad essa sufficiente. Vedo dunque che il tempo è in qualche modo un’estensione. Ma vedo veramente, o mi vedo vedere? Tu me lo chiarirai, o Luce, o Verità 91.

Il tempo misura del movimento
24. 31. Mi comandi di approvare chi dicesse che il tempo è il movimento di un corpo? No certo. Nessun corpo si muove fuori dal tempo; questo lo intendo: tu lo dici. Ma che il movimento stesso del corpo sia il tempo, questo non lo intendo: tu non lo dici. Di un corpo che si muove, misuro col tempo la durata del movimento, da quando inizia a quando finisce. Se non ho visto quando iniziò, e continua a muoversi di modo che non vedo quando finisce, mi è impossibile misurarlo, a meno di misurarlo da quando inizio a quando finisco di vederlo. Vedendolo a lungo, riferisco soltanto che è un tempo lungo, senza riferire quanto, poiché, per dire anche quanto, facciamo un confronto, ad esempio: « Questo è quanto quello », oppure: « Questo è doppio di quello », e così via. Se invece avremo potuto rilevare nello spazio il punto da cui è partito e il punto in cui arriva un corpo in movimento, oppure le sue parti, qualora si muova come un tornio, possiamo dire in quanto tempo si è effettuato il movimento del corpo o di una sua parte da un punto a un altro. Il movimento del corpo è dunque cosa distinta dalla misura della sua durata. E chi non capisce ormai a quale delle due nozioni conviene dare il nome di tempo? Infatti, se anche un corpo alternamente si muove e sta fermo, noi misuriamo col tempo non soltanto il suo movimento, ma anche la stasi. Diciamo: « Stette fermo tanto, quanto si mosse », oppure: « Stette fermo due, tre volte più di quanto si mosse »; oppure indichiamo altri rapporti, misurati con precisione o a stima, più o meno, come si suol dire. Dunque il tempo non è il movimento dei corpi.

Confessione e invocazione
25. 32. Ti confesso, Signore 92, d’ignorare tuttora cosa sia il tempo; d’altra parte ti confesso, Signore, di sapere che pronuncio queste parole nel tempo; che da molto ormai sto parlando del tempo, e che proprio questo molto non lo è per altro, che per la durata del tempo. Ma come faccio a saperlo, se ignoro cosa sia il tempo? O chissà, non so esprimere ciò che so? Ahimè, ignoro persino cosa ignoro. Ecco, Dio mio, davanti a te che non mento 93: quale la mia parola, tale il mio cuore. Tu, Signore Dio mio, illuminando la mia lucerna illuminerai le mie tenebre 94.

Il tempo misurato col tempo
26. 33. Non è veritiera la confessione della mia anima, quando ti confessa che misuro il tempo? Dunque, Dio mio, io misuro e non so cosa misuro. Misuro il movimento di un corpo per mezzo del tempo, ma non misuro ugualmente anche il tempo? Potrei misurare il movimento di un corpo, la sua durata, la durata del suo spostamento da un luogo all’altro, se non misurassi il tempo in cui si muove? Ma questo tempo con che lo misuro? Si misura un tempo più lungo con un tempo più breve come con la dimensione di un cubito quella di un trave? Così ci vedono misurare la dimensione di una sillaba lunga con quella di una breve, e dirla doppia; così misuriamo la dimensione dei poemi con la dimensione dei versi, e la dimensione dei versi con la dimensione dei piedi, e la dimensione dei piedi con la dimensione delle sillabe, e la dimensione delle sillabe lunghe con quella delle brevi: non sulle pagine, perché così misuriamo spazi e non tempi, ma al passaggio delle parole, mentre vengono pronunciate. Diciamo: « È un poema lungo, infatti si compone di tanti versi; versi lunghi, infatti constano di tanti piedi; piedi lunghi, infatti si estendono per tante sillabe. E una sillaba lunga, infatti è doppia della breve ». Ma neppure così si definisce una misura costante di tempo, poiché un verso più breve può essere fatto risuonare, strascicandolo, per uno spazio di tempo maggiore di uno più lungo, che venga affrettato. La stessa cosa può avvenire di un poema, e di un piede, e di una sillaba. Ne ho tratto l’opinione che il tempo non sia se non un’estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe sorprendente, se non fosse un’estensione dello spirito stesso. Perché, cosa misuro, di grazia, Dio mio, quando affermo o imprecisamente: « Questo tempo è più lungo di quello », o anche precisamente: « È doppio di quello »? Misuro il tempo, lo so; ma non misuro il futuro, perché non è ancora; né misuro il presente, perché non ha estensione alcuna; né misuro il passato, perché non è più. Cosa misuro dunque? Forse i tempi al loro passaggio, non passati? È quanto dissi 94a.

Difficoltà nella misurazione del tempo
27. 34. Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto 95, egli ci fece, e non noi 96. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità. Ecco, immagina che una voce, corporea, cominci a risuonare, risuona, risuona ancora, ed ecco cessa, è già tornato il silenzio, la voce è passata, non c’è più voce ormai. Era futura, prima di risuonare, e non si poteva misurarla, perché non era ancora, come non si può ora, perché non è più. Si poteva misurarla quando risuonava, perché allora era, in modo che si poteva misurare. Ma anche allora non era ferma, perché andava, passava. O proprio per questo invece si poteva? Passando, infatti, si estendeva per un certo spazio di tempo, durante il quale si poteva misurarla, poiché il presente non ha nessuna estensione. Ammesso dunque che in quel frangente poteva essere misurata, eccoti ora una seconda voce, che cominciò a risuonare e risuona tuttavia con tono uniforme, senza alcuna variazione. Misuriamola finché risuona, poiché, appena avrà cessato di risuonare, sarà ormai passata e non sarà più, in modo che si possa misurare! Misuriamola, presto, e indichiamone la durata. Ma sta risuonando ancora: non si può misurarla, se non partendo dall’inizio della sua esistenza, ossia dal momento in cui cominciò a risuonare, e giungendo alla fine, ossia al momento in cui cessa. Gli intervalli si misurano appunto da un certo inizio e a un certo fine; quindi una voce non ancora finita non può essere misurata, non si può dire quanto sia lunga o breve, né dire se sia uguale a un’altra, o semplice o doppia o comunque diversa rispetto a un’altra. Ma una volta finita non sarà più. Come si potrà misurarla allora? Eppure misuriamo il tempo: non quello che non è ancora, né quello che non è più, né quello che non si estende in durata, né quello che non ha limiti; cioè non lo misuriamo né futuro, né passato, né presente, né passante; eppure lo misuriamo, il tempo.
27. 35. Deus creator omnium 97: in questo verso si alternano otto sillabe brevi e lunghe: le quattro brevi, cioè la prima, terza, quinta e settima, semplici rispetto alle quattro lunghe, cioè la seconda, quarta, sesta e ottava. Di queste ultime ognuna dura un tempo doppio rispetto a ognuna delle prime, come annuncio mentre le pronuncio, e come è, secondo che ci fanno intendere manifestamente i sensi. Come manifestano i sensi, io misuro la sillaba lunga mediante la breve, sentendo che la lunga ha una durata doppia della breve. Ma una sillaba risuona dopo un’altra; se prima è la breve, la lunga dopo, come trattenere la breve? e come applicarla sulla lunga per misurarla e trovare così che ha una durata doppia, se la lunga comincia a risuonare soltanto quando la breve cessò di risuonare? e la stessa sillaba lunga la misuro quando è presente, mentre non la misuro che finita? Ma quando è finita è passata. Cosa misuro dunque? Dov’è la breve, che uso per misurare? dov’è la lunga, che devo misurare? Entrambe risuonarono, svanirono, passarono, non sono più. Eppure io misuro e rispondo, con tutta la fiducia che si ha in un senso esercitato, che una è semplice, l’altra doppia, in estensione temporale, s’intende: cosa che posso fare solo in quanto sono passate e finite. Dunque non misuro già le sillabe in sé, che non sono più, ma qualcosa nella mia memoria, che resta infisso.

Nello spirito la misura del tempo
27. 36. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l’estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato.

Attesa, attenzione, memoria
28. 37. Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l’esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell’attesa, dell’attenzione e della memoria? Così l’oggetto dell’attesa fatto oggetto dell’attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l’attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l’attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l’attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato.
28. 38. Accingendomi a cantare una canzone che mi è nota, prima dell’inizio la mia attesa si protende verso l’intera canzone; dopo l’inizio, con i brani che vado consegnando al passato si tende anche la mia memoria. L’energia vitale dell’azione è distesa verso la memoria, per ciò che dissi, e verso l’attesa, per ciò che dirò: presente è però la mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in passato. Via via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l’attesa e si prolunga la memoria, finché tutta l’attesa si esaurisce, quando l’azione è finita e passata interamente nella memoria. Ciò che avviene per la canzone intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle sue sillabe, come pure per un’azione più lunga, di cui la canzone non fosse che una particella; per l’intera vita dell’uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell’uomo; e infine per l’intera storia dei figli degli uomini 98, di cui sono parti tutte le vite degli uomini.

Conclusione

Dispersione nel tempo e confluenza nell’eterno
29. 39. Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite 99, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse 100 nel mio Signore, il figlio dell’uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti 101, in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l’Uno. Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste 102. Allora udrò la voce della tua lode 103 e contemplerò le tue delizie 104, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti 105, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l’ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te.

Esistenza di Dio prima di tutti i tempi
30. 40. Allora mi stabilizzerò 106 e consoliderò in te nella mia forma, la tua verità. Non subirò più le domande di chi, per una malattia condannabile desideroso di bere più di quanto non comprenda, chiede: « Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra 107? », oppure: « Come gli venne l’idea di fare qualcosa, mentre prima non aveva fatto mai nulla? ». Concedi loro, Signore, di riflettere bene 108 a come parlano, e di scoprire che non si parla di un mai là dove non esiste tempo. Dire: « Non aveva fatto mai nulla », non equivale forse a dire che non aveva fatto nulla in nessun tempo? Comprendano quindi che non esiste alcun tempo senza creato, e cessino di dire vanità come queste 109. Volgano la loro attenzione anche verso le cose che stanno innanzi 110, e capiscano che tu sei prima di tutti i tempi, eterno creatore di tutti i tempi; che nessun tempo è coeterno con te, come anche nessuna creatura, sebbene ve ne siano di superiori al tempo.

Scienza umana e divina
31. 41. Signore Dio mio, quale abisso il tuo profondo segreto, e come me ne hanno gettato lontano le conseguenze dei miei peccati! Guarisci i miei occhi, e parteciperò alla gioia della tua luce. Certo, se esistesse uno spirito di scienza e prescienza così potente da conoscere tutto il passato e il futuro come io una canzone delle più conosciute, susciterebbe, questo spirito, meraviglia e quasi sacro terrore, poiché nulla gli sfuggirebbe sia delle età già concluse, sia di quelle che rimangono: come a me che canto non sfugge sia la parte della canzone già passata dopo l’esordio, sia quella che resta fino alla fine. Lontana, lontana invece l’idea che, creatore dell’universo, creatore delle anime e dei corpi, tu così conosci tutto il futuro e il passato! Tu assai, assai più mirabilmente e assai più misteriosamente. A chi canta o ascolta una canzone conosciuta, l’attesa delle note future e il ricordo delle passate modifica il sentimento e tende il senso. Nulla di simile accade a te, immutabilmente eterno, ossia davvero eterno creatore delle menti. Come conoscesti in principio il cielo e la terra 111 senza modificazione della tua conoscenza, così creasti in principio il cielo e la terra senza tensione della tua attività. Chi lo capisce ti confessi, e anche chi non lo capisce ti confessi. Oh, quanto sei elevato 112! Eppure quanti si abbassano in cuore 113 sono la tua casa. Tu infatti sollevi gli abbattuti 114, e non cadono quanti hanno in te la loro elevatezza.

Publié dans:SANT'AGOSTINO, SANTI, Santi - scritti |on 27 août, 2012 |Pas de commentaires »

11 agosto: Santa Chiara d’Assisi – La Benedizione

http://www.fraticappuccini.it/santachiara/scritti_di_chiaracompl.htm

11 agosto: Santa Chiara d’Assisi

La Benedizione

Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. Il Signore vi benedica e vi custodisca. Vi mostri la sua faccia e abbia misericordia di voi.. Volga verso di voi il suo volto e vi dia pace, sorelle e figlie mie, e a tutte le altre che verranno e rimarranno nella vostra comunità, e alle altre ancora, tanto presenti che venture, che persevereranno fino alla fine negli altri monasteri delle povere dame.
Io Chiara, ancella di Cristo, pianticella del beatissimo padre nostro san Francesco, sorella e madre vostra e delle altre sorelle povere, benché indegna, prego il Signore nostro Gesù Cristo, per la sua misericordia e per l’intercessione della santissima sua genitrice, santa Maria, e del beato Michele arcangelo e di tutti i santi angeli di Dio, del beato Francesco padre nostro e di tutti i santi e le sante, che lo stesso Padre celeste vi dia e vi confermi questa santissima benedizione sua in cielo e in terra: in terra, moltiplicandovi nella grazia e nelle sue virtù fra i servi e le ancelle sue nella Chiesa sua militante; e in cielo, esaltandovi e glorificandovi nella Chiesa trionfante fra i santi e le sante sue.
Vi benedico nella mia vita e dopo la mia morte, come posso, con tutte le benedizioni, con le quali il Padre delle misericordie ha benedetto e benedirà i suoi figli e le sue figlie in cielo e sulla terra, e con le quali il padre e la madre spirituale ha benedetto e benedirà i figli suoi e le figlie spirituali. Amen.
Siate sempre amanti delle anime vostre e di tutte le vostre sorelle, e siate sempre sollecite nell’osservare quelle cose che avete promesso al Signore.
Il Signore sia sempre con voi e voglia il Cielo che voi siate sempre con lui. Amen.

Introduzione storica
La « Legenda sanctae Clarae » ci dice che Chiara, sul punto di morire, benedisse le sorelle, presenti e future. Ci si è chiesti se questa benedizione fu messa per iscritto e se Chiara usò un testo, che aveva composto personalmente. La risposta non è semplice. Attraverso i documenti, che ci sono pervenuti, possediamo tre formule di benedizione di Chiara, sostanzialmente uguali (cambiano il nome della destinataria e la conclusione): una indirizzata ad Agnese di Praga, un’altra a Ermentrude di Bruges e una terza a tutte le sorelle. Sono in tedesco medievale, in olandese medievale, in francese medievale, in italiano medievale e in latino.
Tutti i manoscritti, che riportano il Testamento, contengono anche la Benedizione e questo conferma l’uso antichissimo, nei monasteri di sorelle povere, di leggere ogni venerdì sera il Testamento, concludendolo con la Benedizione. Vi è molta somiglianza nello stile tra il Testamento e la Benedizione: il periodare semplice, l’uso degli stessi vocaboli, vicinanza nel contenuto. Questo conferma l’identità di autore tra i due testi, la loro autenticità e spiega il motivo per il quale sono stati sempre trasmessi insieme e letti l’uno dopo l’altro. L’epoca di composizione deve essere quella del Testamento o un tempo immediatamente successivo: siamo, quindi, alla fine della vita di Chiara.
Il fatto che ci siano diverse edizioni della Benedizione, rivolte a singole Sorelle povere, non si oppone a questa ipotesi: la Benedizione ad Agnese di Praga deve essere stata inviata insieme alla Lettera quarta, che appartiene agli ultimi mesi della vita di Chiara. Per la Benedizione a Ermentrude il problema è più complesso, ma forse si può ipotizzare lo stesso comportamento. La benedizione era quasi un dovere per un francescano, un modo di rivolgersi e di rispondere al fratello, che si stima. Questo movimento benedizionale si accelera nei momenti definitivi della morte, ora di verità e momento per dimostrare la profondità dei vincoli fraterni. Non è solo rito d’uso: è il linguaggio del cuore e della fede, che prende corpo in un ultimo desiderio.
La Benedizione è uno scritto minore di Chiara, perché non ha l’intento teologico e spirituale degli altri scritti, e si apre con la benedizione di Aronne (Nm 6,24-26), che Francesco aveva copiato, di suo pugno, letteralmente per frate Leone e con la quale benedì frate Bernardo (Legper 107: FF 1664).
Questo testo rappresenta, ancora una volta, un primato storico: è la prima benedizione liturgica scritta da una donna, di cui sia stata conservata memoria scritta nella storia della Chiesa.
E questa sensibilità emerge là dove Chiara traduce al femminile tutte le espressioni della benedizione liturgica, dicendo per esempio: Vi benedico….con tutte le benedizioni….con le quali un padre e una madre spirituale ha benedetto o benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali.
Contenuto

Per una vita feconda
Rompendo e passando oltre la crosta del genere letterario medievale della benedizione, scopriamo un’interessante intelaia-tura spirituale:
* Da un lato, la benedizione la dà il Padre, perché solo Lui può rendere feconda l’efficacia di ogni gesto di fraternità e di fede. Ma la dà anche Chiara e forse lo stesso Francesco, ai quali pare alludere con l’espressione padre e madre spirituali, che benediranno i loro figli e le loro figlie spirituali. Tutti in indissolubile unità. La benedizione svela così che nel cammino evangelico della clarissa si frammischiano il Padre, Chiara, Francesco e tutti quelli che sono entrati a far parte della famiglia francescana. Intelaiatura di vita e di fede.
* Inoltre, il frutto della benedizione è descritto come una fecondità nella storia (la benedizione è sempre legata alla fecondità) e una esaltazione nel cielo. Sarebbe riduttivo intendere questa fecondità come un semplice aumento numerico. Perciò dice che è una fecondità in grazia e virtù, cioè, in offerta evangelica.
Questa è, innanzi tutto, la fecondità francescana. Da parte sua, la glorificazione del cielo, come l’altra di Fil 2,6-11 nel caso di Gesù, è il sigillo della verità che il Padre pone a tutta la traiettoria evangelica del credente francescano. Al termine della sua vita, Chiara afferma con l’avallo della sua, persona la verità fondamentale della fede: il cammino cristiano, vissuto con intensità, porta all’esito credente, s’incontra con il segreto del Padre. Sì, benedizione e testamento, donazione della realtà più essenziale della propria esperienza.

Per una vita nella fedeltà
La BsC non è solo una promessa di sostegno che si basa sulla constatazione della verità del funzionamento dei meccanismi della fede. È anche una vocazione alla fedeltà che si inserisce nella continua catechesi clariana sul mantenersi nel cammino evangelico promesso. Lo avevano ereditato da Francesco (ricordare Uv) e, soprattutto, Chiara stessa era giunta alla conclusione, come dice nel TestsC, che la fedeltà era la prova della verità dell’opzione intrapresa. Perciò Chiara conclude che le sorelle siano sempre amanti di Dio e delle vostre anime e di tutte le vostre sorelle. In questo sempre si racchiude tutto l’animo fraterno e tutta l’urgente vocazione a una fedeltà dalla quale dipende, in parte notevole, l’esito del processo cristiano.

Per realizzare la promessa fatta al Signore
Con questo riferimento alla opzione evangelica primitiva termina la BsC: perché osserviate sollecitamente quello che avete promesso al Signore. Quando la clarissa, tanto personalmente come istituzionalmente, vede che le si annebbia il primo impulso di fronte a un Vangelo vissuto con limpidezza, ricorrerà al coraggio e all’impulso di questo reinserirsi nei giorni primaverili nei quali il Vangelo era decisivo. Farlo con la maturità dell’oggi, nella lotta dura di ogni giorno, può essere un sostegno decisivo per conservare la fedeltà e l’entusiasmo per la fede. Parola fraterna che stimola e soccorre, parola di fede.

Publié dans:SANTI, Santi - scritti |on 10 août, 2012 |Pas de commentaires »

Dal « Catechismo » di san Giovanni Maria Vianney, sacerdote: L’opera più bella dell’uomo è quella di pregare e amare (memoria il 4 agosto)

http://www.gliscritti.it/liturgia/2012/agosto/04.htm

Dal « Catechismo » di san Giovanni Maria Vianney, sacerdote (Catéchisme sur la priére: A. Monnin, Esprit du Curé d’Ars, Parigi, 1899, pp. 87-89)

L’opera più bella dell’uomo è quella di pregare e amare

Fate bene attenzione, miei figliuoli: il tesoro del cristiano non è sulla terra, ma in cielo. Il nostro pensiero perciò deve volgersi dov’è il nostro tesoro. Questo è il bel compito dell’uomo: pregare ed amare. Se voi pregate ed amate, ecco, questa è la felicità dell’uomo sulla terra. La preghiera nient’altro è che l’unione con Dio. Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, è preso da una certa saovità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, che nessuno può più separare. Come è bella questa unione di Dio con la sua piccola creatura! E’ una felicità questa che non si può comprendere. Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però, nella sua bontà, ci ha permesso di parlare con lui. La nostra preghiera è incenso a lui quanto mai gradito. Figliuoli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio. La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che discende a noi dal paradiso. Non ci lascia mai senza dolcezza. Infatti è miele che stilla nell’anima e fa che tutto sia dolce. Nella preghiera ben fatta i dolori si sciolgono come neve al sole. Anche questo ci dà la preghiera: che il tempo scorra con tanta velocità e tanta felicità dell’uomo che non si avverte più la sua lunghezza. Ascoltate: quando ero parroco di Bresse, dovendo per un certo tempo sostituire i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso a percorrere lunghi tratti di strada; allora pregavo il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva mai lungo. Ci sono alcune persone che si sprofondano completamente nella preghiera come un pesce nell’onda, perché sono tutte dedite al buon Dio. Non c’è divisione alcuna nel loro cuore. O quanto amo queste anime generose! San Francesco d’Assisi e santa Coletta vedevano nostro Signore e parlavano con lui a quel modo che noi ci parliamo gli uni agli altri. Noi invece quante volte veniamo in chiesa senza sapere cosa dobbiamo fare o domandare! Tuttavia, ogni qual volta ci rechiamo da qualcuno, sappiamo bene perché ci andiamo. Anzi vi sono alcuni che sembrano dire così al buon Dio: « Ho soltanto due parole da dirti, così mi sbrigherò presto e me ne andrò via da te ». Io penso sempre che, quando veniamo ad adorare il Signore, otterremmo tutto quello che domandiamo, se pregassimo con fede proprio viva e con cuore totalmente puro.

Publié dans:SANTI, Santi - scritti |on 3 août, 2012 |Pas de commentaires »
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