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23 NOVEMBRE 2011 – SAN COLOMBANO (mf)

dal sito:

http://it.wikipedia.org/wiki/Colombano_di_Bobbio

23 NOVEMBRE 2011 – SAN COLOMBANO (mf)

San Colombano (Navan, 542 circa – Bobbio, 23 novembre 615) è stato un monaco, abate e missionario irlandese, noto per aver fondato numerosi monasteri e chiese in Europa.
È conosciuto anche con altri nomi, impropri e più rari, quali san Colombano di Luxeuil (in Francia) o san Colombano di Bobbio o san Columba il Vecchio. In gaelico è chiamato Colum.
Tramite le sue numerose fondazioni contribuì alla diffusione in Europa del monachesimo irlandese. Stabilì una regola monastica che in seguito si assimilò a quella benedettina e fu definitivamente abrogata anche formalmente nel 1448 da papa Niccolò V. Introdusse con il Paenitentiale l’uso della confessione privata in sostituzione di quella pubblica per il sacramento della penitenza.
Papa Benedetto XVI lo ha definito « santo europeo »[1]. Infatti, San Colombano stesso scrive in una lettera[2] che gli europei devono essere un unico popolo, un « corpo solo » che viene unito da radici cristiane in cui le barriere etniche e culturali vanno superate; inoltre usa per la prima volta l’espressione latina « totius Europae »[3][4].

È santo patrono dei motociclisti[5].

Biografia
Colombano nacque tra il 540 e il 543 nella cittadina di Navan, nel Leinster (Irlanda centro-orientale).
Secondo la leggenda agiografica della sua vita, la madre, in attesa della sua nascita, avrebbe visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce.
Formazione e vita monastica in Irlanda [modifica]
Colombano andò a scuola presso un maestro laico (fer-lèighin), apprendendo a leggere e a scrivere. Come gli altri giovani si occupava inoltre dei lavori della famiglia (allevamento del bestiame, conciatura delle pelli, caccia e pesca) e apprese anche a cavalcare e ad usare l’arco e la spada.
A quindici anni decise di farsi monaco, nonostante l’opposizione della madre. Abbandonò la famiglia e si recò al monastero di Clinish Island (Cluane Inis, in gaelico), sull’isola di Cleen dei laghi Lough Erne, dove venne accolto dall’abate Sinneill, che aveva studiato nel monastero di Clonard con Columba di Iona (Columcille). Qui Colombano studiò le Sacre Scritture e apprese il latino.
La Targa di San Colombano in bronzo posta nel giardino dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio
Terminati gli studi si trasferì presso il monastero di Bangor (Irlanda del Nord), dove sotto la guida dell’abate Comgall si praticava una stretta disciplina ascetica e la mortificazione corporale. Secondo la tradizione monastica irlandese, Colombano decise di seguire la peregrinatio pro Domino, partendo per fondare altri monasteri e diffondere la fede cristiana.

Arrivo in Francia e monasteri in Borgogna
Partito da Bangor verso il 590, all’età di 50 anni, imbarcandosi con 12 monaci suoi compagni del monastero di Bangor: Gall (san Gallo), Autierne, Cominin, Eunoch, Eogain, Potentino, Colum (Colomba il giovane), Deslo, Luan, Aide, Léobard, e Caldwald.
Visitò l’isola di Man e la piccola isola di San Patrizio, che secondo la leggenda custodiva la tomba di Giuseppe di Arimatea sepolto assieme al Santo Graal[6].
Sbarcato quindi in Cornovaglia, visitò il monastero di Bodmin Moor fondato da san Gonion. Percorrendo l’antica strada romana che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel, visitò anche Tintagel e arrivò a Plymouth, da dove si imbarcò nuovamente per la Bretagna.
Approdò nella Francia merovingia nei pressi di Saint-Malo e di Mont-Saint-Michel, nel luogo dove in seguito venne posta una grande croce. Si recò quindi a Rouen, Noyon e Reims in Austrasia e passò in Burgundia dove regnava il re Gontrano. Grazie alle concessioni del re fondò tre monasteri (Annegray, Luxeuil e Fontaines).
Ad Annegray san Colombano e i suoi compagni riadattarono un antico castello diroccato, ed edificarono un monastero tra il 591 ed il 592, con una chiesa dedicata a san Martino di Tours. All’inizio i monaci vissero di elemosina e questue, ma in seguito si dedicarono anche alla coltivazione dei campi. San Colombano si ritirava nelle grotte dei dintorni per vivervi da eremita.
La comunità monastica si ingrandì e fu presto necessario creare un nuovo centro monastico a 8 miglia verso sud-est, presso le rovine della città termale di Luxeuil-les-Bains, dove venne costruito un monastero con una chiesa dedicata a San Pietro. Un altro monastero, con una chiesa dedicata a San Pancrazio, venne fondato anche a Fontaines.
San Colombano si trasferì nel 593 a Luxeuil, da dove diresse i tre monasteri con i suoi priori. Vi scrisse due regole, la Regula monachorum e la Regula cenobialis, e il Paenitentiale. La vita monastica era basata su pratiche ascetiche e sulla penitenza e comprendeva inoltre la pratica della lettura e scrittura quotidiane dei monaci, per alimentarne lo spirito: nei monasteri vennero anche fondati scriptoria.
I monasteri entrarono in conflitto agli inizi del VII secolo con l’episcopato francese: Colombano desiderava seguire le tradizioni della propria terra di origine ed ebbe particolare rilievo il differente calcolo della data della Pasqua. Colombano entrò in conflitto per questo motivo con il re merovingio della Burgundia Teodorico II, mentre Brunechilde, nonna del re, fu fortemente irritata dalle sue critiche sul proprio comportamento. Nel 609 Colombano fu espulso da Luxeuil e fu messo in carcere a Besançon, da dove però, allentatasi la sorveglianza riuscì a fuggire per tornare a Luxeuil. Nuovamente arrestato, nel 610 fu condotto in barca lungo la Loira verso Nantes, da dove avrebbe dovuto ritornare per mare verso l’Irlanda con i suoi dodici compagni.
Secondo la leggenda agiografica durante il viaggio, giunti presso Tours, essendogli stato negato dai soldati il permesso di visitare la tomba di san Martino, il battello si diresse miracolosamente verso l’approdo, dove si incagliò e i soldati riuscirono a muoverlo di nuovo solo dopo che gli fu concesso quanto desiderava. A Nantes l’assoluta mancanza di vento impedì la partenza verso l’Irlanda e quando la scorta si fu miracolosamente addormentata, Colombano, sfuggì di nuovo alla sorveglianza.
Neustria e Austrasia
Sfuggito al re burgundo, Colombano passò quindi in Neustria, verso Rouen, Soissons e Parigi. Qui regnava Clotario II, che gli concesse la sua protezione.
In Neustria santa Fara (Borgundofara), figlia di amici di Colombano, fondò l’abbazia femminile di Faremoutiers, mentre il santo e i suoi compagni e seguaci fondarono altri monasteri, tra i quali Remiremont, Rebais, Jumièges, Noirmoutier, Saint-Omer.
Colombano si spostò quindi nel 611 alla corte di Teodeberto II, re d’Austrasia, passando per le città di Coblenza, Magonza, Strasburgo, Basilea e Costanza. Il re lo invitò ad evangelizzare le terre ancora pagane dei Sassoni e degli Alemanni lungo il fiume Reno e Colombano fondò un nuovo monastero a Bregenz, sulla riva del lago di Costanza, l’eremo di Sant’Aurelia.

In Italia
Nel 612 Colombano decise di recarsi a Roma, per ottenere l’approvazione della propria regola da parte del papa Bonifacio IV. Lungo il cammino il suo discepolo san Gallo fu costretto a fermarsi perché ammalato e fondò in quel luogo l’abbazia di San Gallo.
Secondo la leggenda agiografica per essersi voluto fermare in seguito alla malattia, Colombano avrebbe imposto al discepolo di non celebrare più messa fino alla sua morte. Nel momento della morte di Colombano, Gallo avrebbe avuto in sogno la visione di Colombano che in forma di colomba bianca saliva al cielo e avrebbe celebrato dunque la sua prima messa in suo onore.
Colombano nel valicare le Alpi per giungere in Italia, attraversò il Passo del Settimo (o Septimer Pass).
Giunto a Pavia, Colombano si pose sotto protezione del re longobardo Agilulfo, che era tuttavia ariano, e della regina Teodolinda, che gli chiesero un suo intervento nella spinosa questione tricapitolina. In cambio il santo ottenne la possibilità di creare sul suolo demaniale un nuovo centro di vita monastica. Il luogo, segnalato da un certo Giocondo, venne esaminato dalla stessa regina Teodolinda, salita sulla vetta del monte Penice, la quale chiese al santo di dedicare alla Madonna la piccola chiesetta in cima alla vetta, futuro santuario di Santa Maria.
L’area si trovava nel cuore dell’Appennino in una zona fertile e molto produttiva, dove abbondavano acque correnti e c’era pesce in quantità. Nella zona si trovavano anche antiche terme e sorgenti, sia termali che saline da cui si traeva il sale. La scelta del luogo ne faceva un avamposto religioso e politico controllato dal regno longobardo verso le terre liguri, ancora bizantine. Con il documento del 24 luglio del 613 che donava a Colombano il territorio per fondarvi il nuovo monastero, vennero attribuiti a questo anche la metà dei proventi delle saline del luogo, che appartenevano in precedenza al duca Sundrarit.
Colombano giunse a Bobbio nell’autunno del 614 con il proprio discepolo Attala, riparò l’antica chiesa di San Pietro (situata dove ora vi è il castello malaspiniano) e vi costruì attorno delle strutture in legno, che costituirono il primo nucleo dell’abbazia di San Colombano.
Secondo la leggenda agiografica, nonostante la presenza di una fitta boscaglia, che ostacolava il trasporto dei materiali da costruzione, san Colombano avrebbe sollevato i tronchi come fuscelli, facendo il lavoro di trenta o quaranta uomini. La leggenda riferisce anche dell’episodio dell’orso e del bue, che fu in seguito numerose volte raffigurato nell’arte: un orso uscito dalla foresta avrebbe ucciso uno dei due buoi aggiogato all’aratro di un contadino, ma san Colombano avrebbe convinto l’orso a lasciarsi aggiogare all’aratro per terminare il lavoro al posto del bue ucciso.
Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice Attala, e tornando al monastero solo alla domenica. Qui gli giunse la visita di Eustasio, suo successore a Luxeuil, inviato dal re Clotario II, il quale aveva nel frattempo riunito sotto il suo dominio i tre regni merovingi precedentemente esistenti e desiderava il suo ritorno in Francia.
Colombano morì a Bobbio, nell’abbazia che aveva fondato, all’età di 75 anni, la domenica 23 novembre del 615. Come secondo abate del monastero gli succedette Attala (615-627). La sua tomba si trova tuttora nella cripta dell’abbazia insieme a quelle degli abati suoi successori (Attala, Bertulfo, Bobuleno e Cumiano e di altri diciotto monaci e di tre monache.
Giona, monaco nell’abbazia di San Colombano a Bobbio, fu incaricato dall’abate Attala di scrivere una biografia in latino del santo che è la fonte principale per le vicende della sua vita.

Publié dans:SANTI, Santi - biografia |on 22 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

22 novembre : Santa Cecilia

dal sito:

http://it.wikipedia.org/wiki/Santa_Cecilia

22 novembre : Santa Cecilia

Santa Cecilia (Roma, II secolo – Roma, III secolo) è stata una santa romana.
Il suo culto è molto popolare poiché Cecilia è la patrona della musica, dei musicisti e dei cantanti. Viene festeggiata il 22 novembre.

Secondo la tradizione, Cecilia sarebbe nata da una nobile famiglia a Roma. Sposata al nobile Valeriano, gli avrebbe comunicato il suo voto di perpetua verginità. La prima notte di nozze infatti ella gli disse: «Nessuna mano profana può toccarmi, perché un angelo mi protegge. Se tu mi rispetterai, egli ti amerà, come ama me». Valeriano accettò e si convertì al cristianesimo (in seguito anche il fratello di lui, Tiburzio, si convertì al cristianesimo), divenendo, come la moglie, un fedele di papa Urbano I. Ma la persecuzione verso i cristiani infuriava e i due vennero decapitati, probabilmente ad opera del Prefetto della città, Almachio. La testa di Cecilia, però, resiste ai colpi di spada: Dio le concesse di non morire prima di aver rivisto il Papa per l’ultima volta.
Cecilia venne sepolta nelle catacombe di San Callisto.
La Legenda Aurea narra che papa Urbano I, che aveva convertito il marito di lei Valeriano ed era stato testimone del martirio, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto».[1]

CULTO
Nell’821 le sue reliquie furono fatte trasportare da papa Pasquale I nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere.
Nel 1599, durante i restauri della basilica ordinati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati in occasione dell’imminente Giubileo del 1600, venne ritrovato un sarcofago con il corpo di Cecilia sorprendentemente in un ottimo stato di conservazione.
Il cardinale allora commissionò a Stefano Maderno (1566-1636) una statua che riproducesse quanto più fedelmente l’aspetto e la posizione del corpo di Cecilia così com’era stato ritrovato; questa è la statua che oggi si trova sotto l’altare centrale della chiesa.

PATRONA DELLA MUSICA
È quanto mai incerto il motivo per cui Cecilia sarebbe diventata patrona della musica. In realtà, un esplicito collegamento tra Cecilia e la musica è documentato soltanto a partire dal tardo Medioevo.
La spiegazione più plausibile sembra quella di un’errata interpretazione dell’antifona di introito della messa nella festa della santa (e non di un brano della Passio come talvolta si afferma). Il testo di tale canto in latino sarebbe: Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar (« Mentre suonavano gli strumenti musicali (?), la vergine Cecilia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non sia confusa »). Per dare un senso al testo, tradizionalmente lo si riferiva al banchetto di nozze di Cecilia: mentre gli strumenti musicali (profani) suonavano, Cecilia cantava a Dio interiormente. Da qui il passo ad un’interpretazione ancora più travisata era facile: Cecilia cantava a Dio… con l’accompagnamento dell’organo. Si cominciò così, a partire dal XV secolo (nell’ambito del Gotico cortese) a raffigurare la santa con un piccolo organo portativo a fianco.
In realtà i codici più antichi non riportano questa lezione dell’antifona (e neanche quella che inizierebbe con Canentibus, sinonimo di Cantantibus), bensì Candentibus organis, Caecilia virgo…. Gli « organi », quindi, non sarebbero affatto strumenti musicali, ma gli strumenti di tortura, e l’antifona descriverebbe Cecilia che « tra gli strumenti di tortura incandescenti, cantava a Dio nel suo cuore ». L’antifona non si riferirebbe dunque al banchetto di nozze, bensì al momento del martirio.
Dedicato alla santa, nel XIX secolo sorse il cosiddetto Movimento Ceciliano, diffuso in Italia, Francia e Germania. Vi aderirono musicisti, liturgisti e altri studiosi, che intendevano restituire dignità alla musica liturgica sottraendola all’influsso del melodramma e della musica popolare. Sotto il nome di Santa Cecilia sorsero così scuole, associazioni e periodici.
Cecilia, in quanto patrona della musica e musicista lei stessa ha ispirato più di un capovolavoro artistico, tra cui l’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, oggi a Bologna (una copia della quale, realizzata da Guido Reni, si trova nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Ricordiamo anche la Santa Cecilia di Rubens (a Berlino), del Domenichino (a Parigi), di Artemisia Gentileschi.
In letteratura, Cecilia è stata celebrata specialmente nei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, in un’ode di John Dryden poi messa in musica da Haendel nel 1736, e più tardi da Hubert Parry (1889). Altre opere musicali dedicate a Cecilia includono l’Inno a santa Cecilia di Benjamin Britten, un Inno per santa Cecilia di Herbert Howells, la nota Missa Sanctae Ceciliae di Joseph Haydn, una messa di Alessandro Scarlatti, la Messe Solennelle de Sainte Cécile di Charles Gounod, Hail, bright Cecilia! di Henry Purcell e l’Azione sacra in tre episodi e quattro quadri di Licinio Refice (su libretto di Emidio Mucci), Cecilia (1934), e « Cecilia, vergine romana » cantata di Arvo Part.

Publié dans:SANTI, Santi - biografia |on 21 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

16 novembre : Santa Geltrude (mf)

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/340.html

16 novembre  :  Santa Geltrude

Vergine

BIOGRAFIA
Nacque ad Eisleben in Turingia nel 1256. ancora fanciulla, fu accolta presso le monache Cistercensi di Helfta, dove attese con fervore agli studi, imparando anzitutto lettere e filosofia. consacratasi completamente a Dio, percorse in modo meraviglioso la via della perfezione, dedicandosi alla preghiera e alla contemplazione. Morì il 17 novembre del 1301.

DAGLI SCRITTI…
Dalle «Rivelazioni dell’amore divino» di santa Geltrude, vergine
Tu hai nutrito per me pensieri di pace

L’anima mia ti benedica, o Signore Dio, mio creatore: l’anima mia ti benedica e dall’intimo del mio cuore ti lodi la tua stessa misericordia, di cui il tuo amore infinito mi ha circondato senza mio merito. Ringrazio, come meglio sono capace, la tua immensa bontà e rendo gloria alla tua longanimità, alla ua pazienza e alla tua indulgenza. Ho trascorso tutti gli anni della mia infanzia, della mia fanciullezza, della mia adolescenza e della mia gioventù fino all’età di venticinque anni come una cieca e una pazza. Parlavo e agivo secondo i miei capricci e non sentivo alcun rimorso di questa mia condotta. Ne prendo coscienza solo ora.
Non ti prestavo alcuna attenzione quando mi mettevi in guardia sui pericoli del mio comportamento o mediante una certa naturale avversione che sentivo verso il mare, o attraverso le attrattive al bene che mi sollecitavano, o anch per mezzo dei rimproveri e delle riprensioni dei miei familiari. Vivevo come una pagana, che dimora fra i pagani, come una che mai avesse sentito dire che tu, mio Dio, ricompensi il bene e punisci il male. Ti ringrazio ancora che già dall’infanzia, esattamente fin dal quinto anno di età, mi hai scelta per farki vivere fra i tuoi santi amici nell’ambito della santa religione.
Perciò per la conversione ti offro, o Padre amantissimo, tutta la passione del tuo dilettissimo Figlio a cominciare dal momento che, posato sopra la paglia nel presepio, emise il primo vagito e poi sopportò le necessità dell’infanzia, le privazioni dell’adolescenza, le sofferenze della gioventù fino a quando, chinata la testa, spirò sulla croce con un forte grido. Così pure, per supplire alle mie negligenze, ti offro, o Padre amatissimo, tutto lo svolgersi della vita santissima che il tuo Unigenito condusse in modo perfettissimo nei suoi pensieri, nella parole e azioni dal momento in cui fu mandato dall’altezza del tuo trono sulla nostra terra, fino a quando presentò al tuo sguardo paterno la gloria della sua carne vittoriosa.
In rendimento di grazie, mi immergo nel profondissimo abisso dell’umiltà e, assieme alla tua impagabile misericordia, lodo e adoro la tua dolcissima bontà. Tu, Padre della misericordia, mentre io sciupavo così la mia vita, hai nutrito a mio riguardo pensieri di pace e non di sventura, e hai deciso di sollevarmi così con la moltitudine e la grandezza dei tuoi benefici. Hai voluto anche, tra l’altro, concedermi l’inestimabile familiarità della tua amicizia con l’aprirmi i diversi modi quel nobilissimo scrigno della divinità, che é il tuo cuore divino e offrirmi in esso, in grande abbondanza, ogni tesoro di gioia. Hai attratto l’anima mia con la promessa sicura dei benefici che mi darai in morte e dopo la morte. Per cui anche se non avessi altro dono, per questo solo il mio cuore avrebbe ogni diritto di anelare a te con viva speranza.(Lib. 2, 23, 1. 3. 5. 8. 10; SC 139, 330-340)

Colletta
O Dio, che ti sei preparato una degna dimora nel cuore di santa Geltrude vergine, rischiara le nostre tenebre, perché possiamo gustare la gioia della tua viva presenza nel nostro spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te…

11 Novembre. San Martino di Tours, Vescovo e Confessore

dal sito:

http://www.agerecontra.it/public/press/?p=6675

11 Novembre. San Martino di Tours, Vescovo e Confessore

Popolarità di San Martino.

Tremila seicento sessanta chiese dedicate a san Martino in Francia e altrettante nel mondo intero ci attestano la popolarità del grande taumaturgo. Nelle campagne, sui monti, nelle foreste, alberi, rocce, fontane, oggetto di culto superstizioso, quando l’idolatria traeva ancora in inganno i nostri padri, in mille luoghi ricevettero e conservano ancora il nome di colui che le strappò al demonio, per renderle al vero Dio. Cristo, ormai adorato da tutti, sostituì nella memoria riconoscente dei popoli l’umile soldato alle false divinità romane, celtiche o germaniche, spodestate per opera sua.
La missione di Martino fu veramente quella di completare la disfatta del paganesimo, già cacciato dalle città dai martiri, ma ancora padrone di vasti territori ove l’influenza delle città non era sentita.
Se tutto questo assicurò a san Martino le compiacenze di Dio gli attirò pure l’odio dell’inferno. Satana e Martino si erano incontrati e Satana aveva detto: “Mi troverai sulla tua strada dappertutto” (Sulpizio Severo, Vita, vi). Tenne fede alla parola e la tiene ancora, accumulando rovine sulla tomba gloriosa, che attirava a Tours il mondo intero. Nel secolo XVI mandò in fiamme per mano degli Ugonotti i resti venerati del protettore della Francia, nel XIX portò alcuni uomini a tanto di follia da distruggere essi stessi, in tempo di pace, la splendida basilica, che era ricchezza e gloria della città.
Riconoscenza di Cristo e rabbia di Satana, che così si manifestano, ci dicono abbastanza quale sia stata l’inimitabile fatica del Pontefice, apostolo e monaco Martino.
Il monaco.
Fu monaco, di desiderio e di fatto, fino all’ultimo giorno della sua vita. “Dalla prima infanzia non desidera che dedicarsi al servizio di Dio. Catecumeno a dieci anni, a dodici se ne va nel deserto e pensa solo a monasteri e a chiese. Soldato a quindici anni, vive in modo da essere scambiato per un monaco (ivi c. ii). Dopo un periodo di vita religiosa in Italia, Ilario lo conduce nella solitudine di Ligugé, che diventa con lui culla della vita monastica nelle Gallie. Martino, per dire il vero, in tutta la sua vita si sentì dappertutto straniero fuorché a Ligugé. Monaco per desiderio, fu soldato per forza e diventò vescovo per costrizione, ma non abbandonò mai le sue abitudini monastiche. Conservò la dignità del vescovo, dice il suo biografo, senza abbandonare la regola e la vita del monaco. Ita implebat episcopi dignitatem, ut non tamen propositum monachi virtutemque desereret (Sulpizio Severo, Vita, x). Si era fatta a principio una piccola cella presso la sua Chiesa a Tours e poi, a qualche distanza dalla città, una seconda Ligugé col nome di Marmoutier o Gran Monastero (Card. Pie, Omelia in occasione del ristabilimento dell’Ordine di San Benedetto a Ligugé, 25 novembre 1853).
La liturgia fa risalire alla direzione del vescovo di Poitiers le meravigliose virtù di cui Martino diede prova in seguito (Hilarium secutus est Martinus, qui tantum illo doctore profecit, quantum eius postea sanctitas declaravit. Festa di sant’Ilario, 2° Notturno). Per quali ragioni guidò per vie ancora sconosciute in Occidente l’ammirabile discepolo, che il cielo gli aveva mandato, Ilario non lo manifesta. Bisogna allora chiederlo all’erede più sicuro della sua dottrina e della sua eloquenza.

Compito dell’Ordine monastico nella Chiesa.
“È pensiero dominante di tutti i santi, in tutti i tempi, dice il Cardinal Pie, che a fianco del ministero ordinario dei pastori, costretti dal loro ufficio a vivere in mezzo al mondo, sia necessaria nella Chiesa una milizia separata dal mondo e arruolata sotto l’insegna della perfezione evangelica, che viva nella rinuncia e nell’obbedienza e notte e giorno adempia alla nobile, inimitabile missione della preghiera pubblica. È pensiero dei più grandi Pontefici e dei più illustri Dottori, che anche il clero secolare tanto sarà più adatto a diffondere e rendere popolari nel mondo le pure dottrine del Vangelo quanto più sarà preparato alle pastorali funzioni, vivendo la vita monastica o accostandosi ad essa il più possibile. Leggete la vita dei migliori uomini dell’episcopato nell’Oriente e nell’Occidente, nei tempi che precedettero o seguirono da vicino la pace della Chiesa come nel Medioevo, tutti hanno professato per qualche tempo la vita religiosa o vissuto in contatto con quelli che la praticavano. Ilario, il grande Ilario, con occhio sicuro ed esercitato, aveva capito questa necessità, aveva veduto quale posto doveva avere l’Ordine monastico nel cristianesimo e il clero regolare nella Chiesa. In mezzo alle battaglie, alle lotte, agli esilii, teste oculare dell’importanza dei monasteri in Oriente, desiderava ardentemente il suo ritorno nelle Gallie per gettarvi le fondamenta della vita religiosa. La Provvidenza non tardò a mandargli colui che era adatto a tanta impresa: un discepolo degno del maestro, un monaco degno del vescovo” (Card. Pie, u.s.).
Il taumaturgo.
“Lungi da me il pensiero che io conosca, continua il Cardinale, quale vitalità e potenza già possedesse nelle nostre regioni la religione di Gesù Cristo, per la predicazione dei primi apostoli, dei primi martiri, dei primi vescovi, la serie dei quali risale ai tempi più vicini al Calvario. Tuttavia non temo di dire che l’apostolo popolare delle Gallie, colui che convertì le campagne, rimaste in gran parte pagane, il fondatore del cristianesimo nazionale fu san Martino. Donde viene a san Martino, a preferenza di tanti altri vescovi e servi di Dio, questa preminenza nell’apostolato? Potremmo mettere Martino sopra il suo maestro sant’Ilario? Se si tratta della dottrina, certamente no; se si tratta dello zelo, del coraggio, della santità, non sono io competente a giudicare chi fu più grande tra il maestro e  il discepolo; ma posso dire che Ilario fu soprattutto un dottore e Martino un taumaturgo. Per la conversione dei popoli, il taumaturgo supera il dottore e, per conseguenza, nel ricordo e nel culto dei popoli il dottore è eclissato, superato dal taumaturgo.
Oggi si parla molto del ragionamento per persuadere delle cose divine, ma è dimenticare la Scrittura e la storia e, peggio, è venir meno alla propria dignità. Dio non ha giudicato conveniente ragionare con noi. Dio ha affermato, ha detto ciò che è; e ciò che non è; e, come esigeva la fede nella sua parola, così ha dato autorità alla sua parola. Come ha dato autorità? Non nell’uomo, ma in Dio, non nelle ragioni, ma nelle opere: non in sermone, sed in virtute; non per gli argomenti di una filosofia umanamente persuasiva:  non in persuasilibus humanae sapientiae verbis, ma per lo spiegamento di una potenza tutta divina: sed in ostensione spiritus et virtutis. Perché? Ecco la ragione profonda: Ut fides non sit in sapientia hominum, sed in virtute Dei: perché la fede sia fondata sulla forza di Dio (1Cor 2,4) e non sulla saggezza umana. Oggi non si vuole più questo, si dice che in Cristo il teurgo fa torto al moralista, che il miracolo è una macchia in questo sublime ideale. Ma nessuno cancellerà il fatto, nessuno abolirà il Vangelo e la storia. Non dispiaccia ai letterati del secolo, non dispiaccia ai pusillanimi che sono loro compiacenti, ma Cristo non solo ha fatto miracoli, ma ha fondato la fede sui miracoli. E, ancora, lo stesso Cristo, non per confermare i suoi miracoli, che sono appoggio agli altri, ma per pietà verso di noi, che facilmente dimentichiamo e ci lasciamo impressionare di più da quello che vediamo che da quello che ascoltiamo da altri, ha posto nella Chiesa la virtù dei miracoli. Il nostro secolo ne ha veduti e ne vedrà, come il secolo quarto vide quelli di Martino”.
L’apostolo delle Gallie.
“Operare prodigi per lui sembrava un gioco e tutta la natura si piegava ai suoi comandi. Gli animali gli erano sottomessi e il santo un giorno esclamava: – Mi ascoltano i serpenti e gli uomini non mi ascoltano! – Tuttavia lo ascoltavano anche gli uomini e, per parte sua, lo ascoltò la Gallia intera e, non solo l’Aquitania, ma la Gallia Celtica, la Belgica. Come resistere ad una parola resa autorevole con tanti prodigi. In tutte le province egli rovesciò ad uno ad uno gli idoli, ridusse in polvere le statue, distrusse i boschi sacri, bruciò e demolì i templi e tutti i rifugi dell’idolatria. Mi chiederete se tutto ciò era legale? Se studio la legislazione di Costantino e di Costanzo forse sì. Quello che posso dire però è che Martino, divorato dallo zelo per la casa di Dio, obbediva soltanto allo spirito di Dio. Quello che devo dire è che Martino, contro il furore della popolazione pagana aveva la sola arma dei suoi miracoli, il concorso visibile degli Angeli, qualche volta a lui concesso e, infine e soprattutto, le preghiere e le lacrime che versava davanti a Dio, quando l’ostinazione delle moltitudini resisteva alla potenza della sua parola e dei suoi prodigi. Con questi mezzi Martino cambiò la faccia del nostro paese e là dove appena era un cristiano prima del suo passaggio, restava appena un pagano quando egli era passato. I templi del Dio vivente sostituivano i templi degli idoli, perché, dice Sulpizio Severo, appena aveva rovesciati i rifugi della superstizione, costruiva chiese e monasteri. L’Europa si coprì così di Chiese che hanno preso il nome da San Martino” (Card. Pie, Discorso tenuto nella cattedrale di Tours, nella festa patronale della domenica 14 novembre 1858).

Le feste di San Martino.
La morte non interruppe la serie dei suoi benefici e ciò soltanto spiega il concorso dei popoli alla sua tomba benedetta. Le numerose feste in suo onore nel corso dell’anno, non bastavano alla pietà dei fedeli. Di precetto dappertutto (Concilio di Magonza, 813, c. xxxvi), favorita dal ritorno momentaneo di giorni belli, che i nostri vecchi chiamavano estate di san Martino, la solennità dell’undici novembre gareggiava con san Giovanni, per la gioia che diffondeva nella cristianità latina. Martino era la gioia di tutti, il rifugio di tutti.
Il patrono della Francia e del mondo.
Anche Gregorio di Tours vede nel suo beato predecessore, il patrono speciale del mondo intero (De miraculis sancti Martini, iv, in prol.). Tuttavia monaci e chierici, soldati, cavalieri, viaggiatori e osti, in memoria dei suoi lunghi pellegrinaggi, associazioni di carità in tutte le forme, in ricordo del mantello di Amiens, hanno sempre rivendicato un titolo particolare alla benevolenza del grande vescovo. L’Ungheria sua patria a buon diritto gli dà un posto tra i suoi potenti protettori: ma la Francia lo ebbe padre e come l’unità della fede fu in Francia opera sua, egli ancora formò l’unità nazionale e veglia sulla sua durata. Come il pellegrinaggio di Tours precedette quello di Campostella, la cappa di san Martino precedette l’orifiamma di san Dionigi nel condurre le armate al combattimento [1]. Dove può essere speranza di vittoria, diceva Clodoveo, se qualcuno offende il beato Martino? (Gregorio di Tours, Storia dei Franchi). Ai nostri tempi Dio manifestò la protezione del beato Martino sul nostro paese, disponendo che l’armistizio, dopo la grande guerra, fosse firmato nel giorno della sua festa, 11 novembre 1918 e il Maresciallo Foch volle esprimere la sua riconoscenza con un ex voto, che collocò presso la sua tomba nella basilica di Tours.
VITA. – Martino nacque in Pannonia (Ungheria) nel 316. Arruolato assai giovane nelle armate romane, ancora catecumeno divise il suo mantello alle porte di Amiens con un povero. Battezzato, lasciò le armi e andò alla scuola del grande dottore delle Gallie, Ilario, vescovo di Poitiers. Il desiderio di convertire i suoi genitori, rimasti pagani, lo riportò al loro fianco. Tornato nelle Gallie, fondò il monastero di Ligugé, vicino a Poitiers. I miracoli operati lo resero celebre e i discepoli popolarono la sua solitudine. Alla morte di Ilario, si allontanò da Poitiers, dove lo volevano vescovo, ma non poté sfuggire ai fedeli di Tours, che, più astuti, si impadronirono di lui nel 371 e lo fecero consacrare. Il dovere pastorale non gli fece dimenticare le lunghe ore di contemplazione gustate a Ligugé e perciò a tre chilometri da Tours, fondò Marmoutiers, monastero che diventò centro di studi, seminario e vivaio di vescovi. In quella solitudine, ove sovente si rifugiava, gli apparve la Madonna, ma dovette anche sostenere l’assalto del demonio, che cercò di scoraggiarlo perseguitandolo in ogni modo. Il suo zelo lo portò fuori dei confini della diocesi e la sua parola, sostenuta dalla carità, operò meraviglie nelle diocesi vicine fino ad Artois, nella Piccardia e a Treviri, in Belgio, nella Spagna. Nel novembre del 397, la carità lo spinse a Candes, per ristabilirvi la concordia tra i monaci e ivi morì nella pace di Dio, ultraottantenne.
 
La protezione di San Martino.
Nel momento del tuo felice trapasso, i tuoi monaci in lacrime, tentano di trattenerti sulla terra: “Perché, Padre, ci abbandoni? lupi rabbiosi vogliono gettarsi sul tuo gregge”. E tu, pieno di tenerezza, dicevi al Signore: “Se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica: si faccia secondo la tua volontà“. Ma l’ora della ricompensa era arrivata e Dio, assicurandotela, non ci privò della tua protezione. La Francia e il mondo lo hanno sperimentato nel corso dei secoli e la parola del tuo successore, Gregorio di Tours resta vera: tu sei patrono del mondo intero.
Ci uniamo oggi ai pellegrini che visitano la tua tomba gloriosa; ci uniamo alle preghiere che, dopo tanti secoli, ancora in quel luogo, ti sono rivolte; a tutti i fedeli, che vengono ad implorare il tuo soccorso, a chiedere a Dio le grazie più preziose, confidando nei tuoi meriti.
“O beato Pontefice, che amasti Cristo Re con tutte le fibre del tuo cuore e non avesti paura delle potenze del mondo; anima santissima, che la spada del persecutore non poté separare dal corpo, ma che meritò egualmente la palma del martirio”, conserva nel nostro cuore l’amore a Cristo e alla Chiesa. Benedici i soldati dei quali sei modello, i religiosi dei quali vivesti la vita santa, i sacerdoti e i vescovi dei quali sei esempio e gloria, i poveri e gli umili dei quali fosti il padre, la Francia della quale fosti l’apostolo. Suscita fra noi dei santi, che ci restituiscano la fede da te predicata con tanto ardore e successo.
Aiuta la nostra preghiera tu, che “mani e occhi levasti continuamente al cielo, e non avesti tregua nelle tue orazioni”. Fa’ che, sul tuo esempio, “nulla rifiutando, né la vita, né la morte”, viviamo e moriamo da buoni cristiani per poter venire con te a “glorificare la Santa Trinità della quale quaggiù, con la parola e la vita, fosti il perfetto confessore”.
[1] L’oratorio dei re di Francia prese il nome di cappella della cappa di San Martino e in seguito gli oratori furono chiamati appunto cappelle.

Fonte: dom Prosper Gueranger

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10 Nov.: S. LEONE MAGNO, Papa e Dottore della Chiesa

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/10-Novembre/San_Leone_Magno.html

10 Nov.: S. LEONE MAGNO, Papa e Dottore della Chiesa

SEGUIRE CRISTO,

SACRAMENTO ED ESEMPIO

Sono due i Papi della Chiesa Cattolica insigniti dalla Storia del titolo di Magno, cioè grande: Leone morto a Roma nel 461 e Gregorio, vissuto e morto a Roma qualche secolo dopo (fu chiamato anche “l’ultimo grande Romano”). C’è stato, per la verità, il tentativo di attribuire lo stesso titolo a Giovanni Paolo II, appena defunto. Qualche biografia parlava già di Karol il Grande… Nessuno nega il grande impatto che ebbe sulla Chiesa e sul corso della Storia (specialmente per il Paesi dell’Est oppressi dal comunismo, e segnatamente sulla sua Polonia). Forse, però, è opportuno lasciare decantare le emozioni e la troppa vicinanza agli avvenimenti. Aspettare quindi il filtro dei critici e biografi nonché il giudizio finale della Storia per attribuirgli tale titolo, così impegnativo e solenne.
Il nostro Leone (e anche Gregorio, di cui la “Maria Ausiliatrice” ha parlato nel settembre del 2000) questo titolo lo ha meritato ampiamente. Così ha decretato infatti la Storia.
È stato grande perché ha saputo reggere con forza ed equilibrio, con saggezza e lungimiranza la Chiesa cattolica, squassata dalle eresie (monofisismo, pelagianesimo, manicheismo) e dalla situazione politica difficile, creata dal progressivo sfaldamento del tessuto politico e sociale dell’Impero Romano in Occidente. Riuscì a lavorare per l’unità della Chiesa e arginare le forze di disgregazione già presenti e attive all’interno (eresie).
Seppe anche riaffermare con discrezione ma anche con argomenti solidi il Primato di Pietro e quindi del Vescovo di Roma. Non in quanto vescovo della grande capitale dell’Impero Romano, argomento politico anche parzialmente contestabile (Antiochia, Alessandria, Gerusalemme, Costantinopoli), ma in quanto successore di ben due apostoli, anzi super apostoli, quali Pietro e Paolo, morti martiri per Cristo proprio a Roma, e quindi simbolo di unità per tutta la Chiesa universale.
Leone fu anche un punto fermo nello sconquassamento generale, non solo per Roma ma anche per l’Italia, dovuto alle invasioni barbariche. In assenza dell’autorità politica costituita, fu lui ad adoperarsi per fermare Attila (“il flagello di Dio”) o per limitare i danni alla città di Roma (con Genserico). Questa sua attività politico-sociale per la popolazione del territorio attorno a Roma (come farà pure Gregorio Magno) fu in certo senso la base del cosiddetto Stato Pontificio e del dominio temporale dei Papi su alcune regioni dell’Italia Centrale che durerà poi per secoli.
Da diacono a vescovo di Roma
Leone è nato a Roma da genitori originari della Toscana. La sua istruzione, di ottimo livello e di tipo aristocratico, ebbe luogo nella stessa città, dove pure intraprese la carriera ecclesiastica, raggiungendo ben presto cariche di sicuro prestigio e responsabilità. Già verso gli anni 430 Leone, ormai diacono, era diventato uno dei personaggi più influenti, consultati e ascoltati del clero romano. È infatti del 431 la lettera del vescovo Cirillo di Alessandria al giovane diacono Leone, dove lo supplicava di intervenire presso il Papa contro le mire espansionistiche del patriarca di Gerusalemme, Giovenale, che voleva la supremazia su tutta la Palestina. In questi stessi anni Leone è già attivo nel sollecitare iniziative e prese di posizione contro eresie quali il nestorianesimo e contro il pelagianesimo.
Di questo prestigio e abilità nel campo dottrinale e della disciplina ecclesiastica riconosciutegli da tutti ne tenne conto anche la corte imperiale di Valentiniano III quando, per comporre l’increscioso e pericoloso dissidio scoppiato nella Gallia tra i due generali romani Ezio ed Albino, fu mandato proprio lui. E Leone riuscì nell’intento, evitando così una pericolosa guerra civile.
Ma proprio durante questa missione così delicata lo raggiunse la notizia che, morto Papa Sisto III, era stato eletto lui suo successore (440). E così Leone saliva sulla barca di Pietro, agitata dai venti delle eresie e dalle tempeste delle politiche imperiali. Era diventato timoniere e guida suprema della Chiesa Cattolica. Non potevano fare scelta migliore, visti i tempi difficili (le invasioni barbariche) nei quali ebbe ad esercitare il suo ministero di pastore supremo. Leone incarnò in sé le caratteristiche di moderazione e di equilibrio, derivanti dalla cultura romana aperta a tutti i popoli, e la spinta innovativa e per certi versi rivoluzionaria derivante dal cristianesimo.
La prima grana che ebbe ad affrontare in campo dottrinale fu l’eresia di un certo monaco, Eutiche, e cioè il monofisismo (un Cristo mutilato cioè portatore di una sola natura, quella divina). Una eresia sottile, perniciosa quanto dirompente per la fede cristiana. Eutiche addirittura si era appellato allo stesso Leone, perché era stato condannato dal vescovo Flaviano di Costantinopoli. Leone scrisse e mandò a quest’ultimo una importante Lettera in cui prendeva posizione netta a favore delle due nature, divina e umana, in una sola persona, il Cristo.
È la famosa opera Tomus ad Flavianum. Sembrava tutto risolto. Ma le cose si complicarono perché l’imperatore Teodosio aveva convocato un sinodo a Efeso (449) nel quale si riabilitava Eutiche e la sua dottrina. Leone da Roma rifiutò energicamente quell’assemblea, che egli riteneva scandalosa (un vero “latrocinium”) e scrisse all’imperatore ribadendo la sua posizione contro il monofisismo. Anzi passava lui stesso al contrattacco ed in maniera decisa convocando subito un Concilio Ecumenico a Calcedonia (451).
La morte di Teodosio (pro Eutiche) e il suo successore Marciano, insieme alla moglie Pulcheria (ambedue pro ortodossia cattolica) gli furono di notevole aiuto. Nel Concilio venne letto ed accolto in pieno il già citato e ormai famoso Tomo a Flaviano. Davanti a quel documento i padri conciliari riconobbero che “per bocca di Leone aveva parlato Pietro e gli apostoli avevano espresso la loro dottrina”.
Il faccia a faccia con Attila
Se sul piano strettamente dottrinale Leone aveva vinto pienamente, non così però nel campo politico-ecclesiale. C’era una questione di potere ecclesiastico, di supremazia, insomma. Il canone 28 elevava Costantinopoli al rango gerarchico numero due, dopo Roma (voleva diventare la “Seconda Roma”), solo perché era una capitale imperiale, e questo a spese di altre sedi patriarcali quali Antiochia ed Alessandria (che potevano risalire alla predicazione degli apostoli stessi). Leone, attraverso i suoi legati, rifiutò il canone ribadendo che doveva essere il legame con gli apostoli stessi (come Roma con Pietro e Paolo) e non il peso strettamente politico a dare preminenza e supremazia ad una Chiesa sulle altre.
Ma Leone non dovette solo combattere contro i nemici dell’ortodossia cattolica, armati di sillogismi, di filosofia e teologia (e di fantasia), ma anche contro nemici armati… di armi vere e proprie. Le invasioni barbariche.
Girava già un nome che incuteva terrore: Attila e i suoi Unni. Dove passava lui e le sue orde di guerrieri “non nasceva più erba” tanta era la distruzione che portavano. Questo era possibile ormai perché sembrava inarrestabile il lento declino di quella che era stata la Roma imperiale, sicura della forza delle proprie legioni, un tempo invincibili. Fu lo stesso imperatore Valentiniano III a pregare Leone di guidare lui l’ambasceria incontro ad Attila e ai suoi Unni.
Questi avevano ormai già iniziato la devastazione del Nord Italia e puntavano, naturalmente, su Roma. L’incontro ed il faccia a faccia Leone-Attila avvenne vicino a Mantova. E fu positivo. Leone aveva risparmiato Roma da un altro saccheggio (dopo quello del 410 dei Visigoti di Alarico). Gli storici ci dicono che non furono solamente le forti parole e il prestigio politico di Leone a fermare Attila e a fargli invertire la rotta. C’erano anche considerazioni politico-militari. Un’altra versione (immortalata da un quadro di Raffaello) afferma che Attila vide in visione, dietro Leone a difenderlo gli apostoli Pietro e Paolo, armati… di armi vere e proprie!
Minore successo ebbe tre anni dopo con Genserico alla guida dei suoi Vandali. Insediatisi questi a Roma, il Papa Leone ottenne almeno che non ci fossero torture, uccisioni sommarie e incendio della città, ma non riuscì ad impedire il saccheggio (455) e la deportazione di tanti prigionieri. Da notare che ormai il potere politico e militare a Roma era completamente assente, essendo stati uccisi l’imperatore Valentiniano e il generale Ezio.
Ogni giorno è un “dies salutis” per tutti
Non dimentichiamo che Leone non solo è stato un grande vescovo di Roma, ma che è anche Dottore della Chiesa, cioè maestro di vita spirituale per tutta la Chiesa. Fu infatti autore di 97 Sermoni (o Trattati) e di 143 Lettere, oltre al già citato Tomo a Flaviano, e altri scritti minori. Dai suoi scritti si evince la preoccupazione del pastore di anime di istruire, ammonire, esortare i suoi fedeli (e noi) a vivere la propria fede cristiana.
La sua predicazione aveva una doppia funzione: la prima di catechesi vera e propria, istruire e preparare alla ricezione delle verità di fede. La seconda funzione era mistagogica, cioè con i suoi interventi (omelie varie, esortazioni ai fedeli) egli intendeva aiutare nella graduale scoperta del mistero salvifico che professavano, scoprire le meraviglie della grazia e l’incessante opera di Dio, anche per vie misteriose, a beneficio dei fedeli.
Punto di partenza per Leone è la fede nel mistero dell’Incarnazione e cioè il Cristo che opera la nostra salvezza: egli è lo strumento, il segno efficace (sacramento) della volontà salvifica del Padre per ciascuno di noi, specialmente con la sua Passione e Morte. Cristo quindi è il vero “sacramentum et exemplum” di salvezza per il cristiano. Ogni festa (ma possiamo dire ogni giorno) che celebriamo è un vero “dies salutis” o giorno di salvezza, una vera occasione per ripensare e interiorizzare le grandi certezze salvifiche. Celebre è rimasta la sua omelia per il Natale in cui esorta il singolo fedele a svegliarsi dal sonno e dalla pigrizia spirituale, e ripensare con intensità al mistero di un Dio che si fa uomo per noi (Sermone 21,3).
Leone ci invita anche alla vita ascetica. Se non si vuole fallire nella “sequela Christi” bisogna darsi anche una disciplina, fatta di preghiera, di digiuno e di elemosina, un modo questo per educare la nostra natura umana (assunta da Cristo) ad essere più ricettiva delle esigenze della sua salvezza. Questa ascesi quotidiana è mirata al rafforzamento della nostra fede, che illumina la nostra speranza e irrobustisce la nostra carità.
Leone parla proprio di lotta per la santità, parla di superamento del nemico invisibile e di superamento di tutti gli ostacoli che lui ci pone nel nostro cammino verso Dio. Egli usa spesso nei suoi sermoni queste immagini di lotta continua e dura contro il male e contro il Maligno. E questo addentrarsi sempre più nel mistero della salvezza, con l’aiuto della grazia, produrrà nell’anima il “gaudium” cioè la gioia. Essa sarà come il segno di questa lotta per la sequela di Cristo, che rimane sempre “sacramento ed esempio” per ogni cristiano.

MARIO SCUDU sdb

Riconosci, o cristiano, la tua dignità
Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne.
Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti, Esulti il santo, perché si avvicina il premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita…ù
Deponiamo dunque “l’uomo vecchio con la concupiscenza di prima” (Ef 4,22) e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna…
Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo (Discorso 1 per il Natale).

IMMAGINI:
1 San Leone Magno in un affresco dell’VIII secolo nella chiesa di Santa Maria Antiqua a Roma.
2 Carta delle invasioni barbariche
3  Affresco di Raffaello (1483-1520) nella Stanza di Eliodoro in Vaticano. / San Leone Magno, con l’aiuto dei Santi Pietro e Paolo, ferma Attila sulla riva del Mincio.
4  Domenico Theotokòpulos, detto El Greco (1590-1600), olio su tela, Museo della Catalogna, Barcellona. / I Santi Pietro e Paolo: la docilità dei volti e il dialogo delle mani esprimono il realismo e l’umiltà di questi due grandi campioni della fede cristiana.
5 Grotte Vaticane: Cristo fra gli Apostoli Pietro e Paolo.

Giovanni Paolo II: Nel nome di San Carlo (Borromeo) per una totale dedizione a Cristo e alla sua Chiesa (1981)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1981/documents/hf_jp-ii_aud_19811104_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 4 novembre 1981

Nel nome di San Carlo per una totale dedizione a Cristo e alla sua Chiesa

1. Oggi, 4 novembre, la Chiesa ricorda, come ogni anno, la figura di san Carlo Borromeo, vescovo e confessore. Dato che ho ricevuto nel Battesimo proprio il nome di questo santo, desidero dedicargli la riflessione dell’odierna udienza generale, facendo riferimento a tutte le precedenti riflessioni del mese di ottobre. Ho cercato in esse – dopo alcuni mesi di intervallo, causato dalla degenza all’ospedale – di condividere con voi, cari fratelli e sorelle quei pensieri, che sono nati in me sotto l’influsso dell’evento del 13 maggio. La riflessione odierna si inserisce anche in questa trama principale. A tutti coloro, che nel giorno del mio santo patrono si uniscono a me nella preghiera, desidero ancora una volta ripetere le parole della lettera agli Efesini, che ho riportato mercoledì scorso: pregate « per tutti i santi, e anche per me, perché mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore… » (Ef 6,18-20).
2. San Carlo è proprio uno di quei santi, a cui è stata data la parola « per far conoscere il Vangelo » del quale era « ambasciatore », avendone la missione ereditata dagli apostoli. Egli compì questa missione in modo eroico con la totale dedizione delle sue forze. La Chiesa guardava a lui e se ne edificava: in un primo tempo, nel periodo del Concilio Tridentino, ai cui lavori partecipò attivamente da Roma, sostenendo il peso di una corrispondenza serrata, collaborando a condurre ad un favorevole esito la fatica collegiale dei Padri Conciliari secondo i bisogni del Popolo di Dio di allora. Ed erano necessità pressanti. In seguito, lo stesso Cardinale come Arcivescovo di Milano, successore di san Ambrogio, diventa l’instancabile realizzatore delle risoluzioni del Concilio, traducendole in pratica mediante diversi Sinodi diocesani.
A lui la Chiesa – e non solo quella di Milano – deve un radicale rinnovamento del clero, al quale contribuì l’istituzione dei Seminari, il cui inizio risale proprio al Concilio di Trento. E molte altre opere, tra cui l’istituzione delle confraternite, dei pii sodalizi, degli oblati-laici, che già prefiguravano l’Azione Cattolica, i collegi, gli ospedali per i poveri, e infine la fondazione del 1572 dell’Università di Brera. I volumi degli « Acta Ecclesiae Mediolanensis » e i documenti riguardanti le visite pastorali attestano questa intensa e lungimirante attività di san Carlo, la cui vita si potrebbe sintetizzare in tre magnifiche espressioni: egli fu un Pastore santo, un Maestro illuminato, un accorto e sagace Legislatore.
Quando, alcune volte nella mia vita, ho avuto occasione di celebrare il Santissimo Sacrificio nella cripta del Duomo di Milano, nella quale riposa il corpo di san Carlo, mi si presentava davanti agli occhi tutta la sua attività pastorale dedicata sino alla fine al popolo, al quale era stato mandato. Egli chiuse questa vita nell’anno 1584, all’età di 46 anni, dopo aver reso un eroico servizio pastorale alle vittime della peste che aveva colpito Milano.
3. Ecco alcune parole pronunciate da san Carlo, indicative di quella totale dedizione a Cristo ed alla Chiesa, che infiammò il cuore e l’intera opera pastorale del santo. Rivolgendosi ai Vescovi della regione lombarda, durante il IV Concilio Provinciale del 1576, così li esortava: « Sono queste le anime, per la cui salvezza Dio mandò il suo Unico Figlio Gesù Cristo… Egli indicò anche a ciascuno di noi Vescovi, che siamo chiamati a partecipare all’opera di salvezza, il motivo più sublime del nostro ministero ed insegnò che soprattutto l’amore deve essere il maestro del nostro apostolato, l’amore che Lui (Gesù) vuole esprimere, per mezzo nostro ai fedeli a noi affidati, con la frequente predicazione, con la salutare amministrazione dei sacramenti, con gli esempi di una vita santa… con un zelo incessante » (cf. Sancti Caroli Borromei, Orationes XII, Roma 1963 « Oratio IV »).
Ciò che inculcava ai Vescovi ed ai sacerdoti, ciò che raccomandava ai fedeli, Egli per primo lo praticava in modo esemplare.
4. Al Battesimo ho ricevuto il nome di san Carlo. Mi è stato dato di vivere nei tempi del Concilio Vaticano II, il quale, come una volta il Concilio Tridentino, ha cercato di mostrare la direzione del rinnovamento della Chiesa secondo i bisogni dei nostri tempi. A questo Concilio mi è stato dato di partecipare dal primo giorno fino all’ultimo. Mi è stato dato anche – come al mio patrono – di appartenere al Collegio Cardinalizio. Ho cercato di imitarlo, introducendo nella vita dell’Arcidiocesi di Cracovia l’insegnamento del Concilio Vaticano II.
Oggi, nel giorno di san Carlo, medito quale importanza abbia il Battesimo, nel quale ho ricevuto proprio il suo nome. Con il Battesimo, secondo le parole di san Paolo, siamo immersi nella morte di Cristo per ricevere in questo modo la partecipazione alla sua risurrezione. Ecco le parole che l’apostolo scrive nella lettera ai Romani: « Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione » (Rm 6,4-5).
Mediante il Battesimo ognuno di noi riceve la partecipazione sacramentale a quella Vita che – meritata attraverso la Croce – si è rivelata nella risurrezione del Signore nostro e Redentore. Al tempo stesso, radicandoci con tutto il nostro essere umano nel mistero di Cristo, siamo in Lui per la prima volta consacrati al Padre. Si compie in noi il primo e fondamentale atto di consacrazione, mediante il quale il Padre accetta l’uomo come suo figlio adottivo: l’uomo viene donato a Dio, perché in questa figliolanza adottiva compia la sua volontà e diventi in modo sempre più maturo parte del suo Regno. Il Sacramento del Battesimo inizia in noi quel « sacerdozio regale », mediante il quale partecipiamo alla missione di Cristo stesso, Sacerdote, Profeta e Re.
Il Santo, di cui riceviamo il nome nel Battesimo, deve renderci costantemente coscienti di questa figliolanza divina che è diventata la nostra parte. Deve pure sostenere ognuno nel formare tutta la vita su misura di ciò che è diventato per opera di Cristo: per mezzo della sua morte e risurrezione. Ecco il ruolo che san Carlo compie nella mia vita e nella vita di tutti coloro che portano il suo nome.
5. L’evento del 13 maggio mi ha permesso di guardare la vita in modo nuovo: questa vita, il cui inizio è unito alla memoria dei miei genitori e contemporaneamente al mistero del Battesimo con il nome di san Carlo Borromeo.
Cristo non ha forse parlato di grano, che caduto in terra muore, per produrre frutto? (cf. Gv 12,24).
Non ha forse detto il Cristo: « Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà? » (Mt 16,25).
E inoltre: « Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna » (Mt 10,28).
E ancora: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13).
Tutte queste parole alludono a quella maturità interiore, che la fede, la speranza e la grazia del nostro Signore Gesù Cristo fanno raggiungere nell’animo umano.
Guardando la mia vita nella prospettiva del Battesimo, guardandola attraverso l’esempio di san Carlo Borromeo, ringrazio quanti oggi, in tutto il periodo passato e continuamente anche ora mi sostengono con la preghiera e a volte anche con grande sacrificio personale. Spero che, grazie a questo sostegno spirituale, potrò raggiungere quella maturità che deve diventare la mia parte (così come pure la parte di ciascuno di noi) in Gesù Cristo crocifisso e risorto per il bene della Chiesa e la salvezza della mia anima – così come essa è diventata parte dei santi apostoli Pietro e Paolo, e di tanti successori di san Pietro nella sede romana, alla quale, secondo le parole di san Ignazio di Antiochia, spetta di « presiedere nella carità » (S. Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos Inscr.: Funk, Patres Apostolici, I, 252
).

IERI 23 OTTOBRE 2011 IL PAPA HA CANONIZZATO DON GUANELLA – SANTO

dal sito:

http://www.guanelliani.org/dettaglio.jsp?sezione=2163&idOggetto=7320&lingua=ITA

IERI 23 OTTOBRE 2011 IL PAPA HA CANONIZZATO DON GUANELLA – SANTO

Luigi Guanella nacque a Fraciscio di Campodolcino in Val San Giacomo (Sondrio) il 19 dicembre 1842. Morì a Como il 24 ottobre 1915.
La sua valle e il paese (m. 1350 sul mare) sono nelle Alpi Retiche. Fin dall’antichità vi si stabilirono delle comunità vissute, con fatica e stento, di agricoltura alpina e di allevamento e la cui storia, economia e struttura sociale fino al 1800 sono segnate dalla posizione geografica della valle chiusa sui due lati da due catene di monti altissimi, ma soggetta a invasioni di transito. La valle segna la via più breve di comunicazione tra il sud e il nord delle Alpi centrali, conferendo qualche vantaggio, soprattutto i privilegi di una certa libertà comunale concessa perché gli abitanti non ostacolassero le comunicazioni commerciali o militari. Fieri di questa libertà, fervidamente attaccati alla religione cattolica in contrasto col confinante canton Grigioni riformato, vivevano in povertà, dediti ai più duri lavori per garantirsi il minimo di sopravvivenza. Le qualità che ne riportò il G. furono l’abitudine al sacrificio e al lavoro, l’autonomia, la pazienza e la fermezza nelle decisioni, insieme a grande fede.
Queste qualità si rafforzarono nella famiglia: il padre Lorenzo, per 24 anni sindaco di Campodolcino sotto il governo austriaco e dopo l’unificazione (1859), severo e autoritario, la madre Maria Bianchi, dolce e paziente, e 13 figli quasi tutti arrivati all’età adulta.
A dodici anni ottenne un posto gratuito nel collegio Gallio di Como e proseguì poi gli studi nei seminari diocesani (1854-1866). La sua formazione culturale e spirituale è quella comune ai seminari nel LombardoVeneto, per lungo periodo sotto il controllo dei governanti austriaci; il corso teologico era povero di contenuto culturale, ma attento agli aspetti pastorali e pratici: teologia morale, riti, predicazione e, di più, alla formazione personale: pietà, santità, fedeltà. La vita cristiana e sacerdotale si alimentava alla devozione comune fra la popolazione cristiana. Questa impostazione concreta pose il giovane seminarista e sacerdote assai vicino al popolo e a contatto con la vita che esso conduceva. Quando tornava al paese per le vacanze autunnali si immergeva nella povertà delle valli alpine; si interessava dei bambini e degli anziani e ammalati del paese, passando i mesi nella cura di questi, e nei ritagli si appassionava alla questione sociale (Taparelli), raccoglieva e studiava erbe medicinali (Mattioli), si infervorava leggendo la storia della Chiesa (Rohrbacher).. In seminario teologico entrò in familiarità col vescovo di Foggia, Bernardino Frascolla, rinchiuso nel carcere di Como, poi a domicilio coatto in seminario (1864-66), e si rese conto della ostilità che dominava le relazioni dello stato unitario verso la Chiesa. Questo vescovo ordinò G. sacerdote il 26 maggio 1866.
Entrò con entusiasmo nella vita pastorale in Valchiavenna (Prosto, 1866 e Savogno, 1867-1875) e, dopo un triennio salesiano, fu di nuovo in parrocchia in Valtellina (Traona, 1878-1881), per pochi mesi a Olmo e infine a Pianello Lario (Como, 1881-1890).
 
Fin dagli inizi a Savogno rivelò i suoi interessi pastorali: l’istruzione dei ragazzi e degli adulti, l’elevazione religiosa, morale e sociale dei suoi parrocchiani, con la difesa del popolo dagli assalti del liberalismo e con l’attenzione privilegiata ai più poveri. Non disdegnava interventi battaglieri, quando si vedeva ingiustamente frenato o contraddetto dalle autorità civili nel suo ministero, così che venne presto segnato fra i soggetti pericolosi (« legge dei sospetti »), specialmente dal momento che pubblicò un libretto polemico (Saggio di ammonimenti familiari per tutti, 1872). Nel frattempo a Savogno approfondiva la conoscenza di don Bosco e dell’opera del Cottolengo; invitò don Bosco ad aprire un collegio in valle; ma, non potendo realizzare il progetto, il G. ottenne di andare per un certo periodo da don Bosco.
Richiamato in diocesi dal Vescovo, aprì in Traona un collegio di tipo salesiano; ma anche qui venne ostacolato; si andò a rimestare le controversie di Savogno e gli fu imposto di chiudere il collegio. Si mise a disposizione del vescovo con obbedienza eroica. Mandato a Pianello poté dedicarsi all’attività di assistenza ai poveri, rilevando l’Ospizio fondato dal predecessore don Carlo Coppini, con alcune orsoline che organizzò in congregazione religiosa (Figlie di S. Maria della Provvidenza) e con queste avviò la Casa della Divina Provvidenza in Como (1886), con la collaborazione di suor Marcellina Bosatta e della sorella Beata Chiara. La Casa ebbe subito un rapido sviluppo, allargando l’assistenza dal ramo femminile a quello maschile (congregazione dei Servi della Carità), benedetta e sostenuta dal Vescovo B. Andrea Ferrari. L’opera si estese ben presto anche fuori città: nelle province di Milano (1891), Pavia, Sondrio, Rovigo, Roma (1903), a Cosenza e altrove, in Svizzera e negli Stati Uniti d’America (1912), sotto la protezione e l’amicizia di S. Pio X. Nell’opera maschile ebbe come collaboratori esimi don Aurelio Bacciarini, poi vescovo di Lugano, e don Leonardo Mazzucchi.
 
Le opere e gli scopi che cadono sotto l’attenzione del Guanella (e gli impedirono di fermarsi con don Bosco) sono quelli tipici della sua terra di origine. Molti i bisognosi (G.Scelsi, Statistica generale della provincia di Sondrio, Milano 1866): bambini e giovani, anziani lasciati soli, emarginati, handicappati psichici (ma anche ciechi, sordomuti, storpi): tutta la fascia intermedia tra i giovani di don Bosco e gli inabili del Cottolengo, persone ancora capaci di una ripresa: terreno duro e arido come la sua terra natale, ma che, lavorato con amore (nelle scuole, laboratori, colonie agricole) può dare frutti insperati.

Publié dans:Santi - biografia |on 24 octobre, 2011 |Pas de commentaires »
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